2005

Difendere il mondo dalla democrazia?
Un dialogo con Danilo Zolo sulle prospettive dell'ordine mondiale (*)

Alberto Mingardi, Alessandro Vitale

1. Il giornalista Fareed Zakaria, in un libro letto da molti come una risposta a distanza alle tesi di Robert Kagan, scrive che, se l'obiettivo di Wilson era quello di 'rendere il mondo sicuro per la democrazia', è venuto oggi il momento di 'rendere la democrazia sicura per il mondo'. C'è, secondo Lei, nelle forme e nei modi del governo democratico di per sé una tensione espansionista, o ci si limita a fare della democrazia (dei 'diritti umani') un'interessata sovrastruttura?

D.Z. Prima di iniziare questo nostro dialogo forse dovremmo impegnarci a fare riferimento a una nozione di democrazia un po' rigorosa, che non si riduca ad una formula retorica o addirittura, come accade spesso nella comunicazione politica occidentale, platealmente propagandistica. Proporrei di lasciare da parte i modelli 'classici' di democrazia - quello partecipativo e quella rappresentativo -, perché troppo esigenti e ormai non realizzabili entro società differenziate e complesse. Potremmo attestarci, in via stipulativa, su una nozione post-classica di democrazia (schumpeteriana, pluralista, minimale), secondo cui un governo democratico è contraddistinto da un grado accettabile di responsiveness e di accountability. Un regime è democratico se le autorità politiche 'rispondono' alle aspettative dei cittadini rispettandone e promuovendone i diritti fondamentali, e se sono 'responsabili': se cioè devono rendere conto delle loro decisioni di fronte ad un elettorato capace di valutazioni sufficientemente autonome e competenti.

Detto questo, non sosterrei che "nelle forme e nei modi" dei governi democratici europei ci sia stata nel secolo scorso e ci sia oggi una tensione espansionistica che si esprima in politiche estere aggressive e belliciste. Penso ad esempio ai paesi scandinavi, alla Germania federale, alla Francia post-gollista ed anche all'Italia repubblicana. Mi sembra che si possa sostenere una tesi opposta, almeno nel senso che l'espansionismo ha normalmente caratterizzato non gli Stati democratici ma gli Imperi, inclusi ovviamente gli imperi coloniali e i grandi regimi totalitari del secolo scorso, in primis l'Unione sovietica. Sono i regimi imperiali che, grazie alla loro sovranità forte, accentrata e in espansione, esercitano un'influenza politica in ambiti più ampi rispetto ai loro confini geopolitici. Il potere imperiale - dall'Impero romano all'Impero germanico-feudale, all'Impero bizantino-russo, all'Impero ottomano - si è sempre presentato nell'area euro-mediterranea come un potere espansionista verso l'esterno e dispotico al suo interno, anche se spesso incline a forme di tolleranza verso le minoranze etniche e religiose.

La mia conclusione, espressa qui in termini inevitabilmente sommari, è che se oggi si sta diffondendo nel mondo una diffidenza crescente nei confronti delle democrazie occidentali - e della democrazia tout court -, ciò accade molto probabilmente perché la potenza democratica per antonomasia, gli Stati Uniti d'America, tende ad assumere funzioni che non rientrano nella logica vestfaliana del pluralismo degli Stati e dell'equilibrio di potenza. L'uso sistematico della forza militare cui ricorrono oggi gli Stati Uniti sembra corrispondere ad un disegno di egemonia globale che a mio parere è corretto interpretare alla luce di un modello neo-imperiale.

Gli intellettuali statunitensi più conservatori - fra questi Robert Kagan - sostengono che gli Stati Uniti sono costretti ad una politica estera imperiale per difendere la loro democrazia interna e, in generale, la democrazia. In realtà la loro democrazia interna è ormai poco più che una finzione procedurale, assai lontana dagli standard anche di una nozione minima di democrazia. Basti pensare a fenomeni come la progressiva restrizione dei diritti e delle provvidenze sociali; l'emergere di discriminazioni etnico-religiose sotto la copertura della lotta contro il terrorismo; la negazione dei diritti fondamentali dei prigionieri di guerra (Guantanamo), degli stranieri e dei cittadini sospettati di complicità con il terrorismo (Patriot Act); l'astensionismo politico sempre più diffuso che sta riducendo gli elettori ad una esigua minoranza; l'assenza di una opinione pubblica autonoma - lo ha sostenuto Giovanni Sartori - rispetto allo strapotere dei mezzi di comunicazione di massa; la diffusione senza precedenti e senza paragoni della repressione penale. Il tasso di detenzione degli Stati Uniti è di gran lunga il più alto del mondo (oltre due milioni di detenuti, ai quali vanno aggiunti circa quattro milioni di cittadini sottoposti a misure penali alternative al carcere, per non parlare dei seimila in attesa nel braccio della morte). Contro questo tipo di democrazia e contro il suo tentativo di imporsi come modello universale è bene che il mondo si difenda.

2. Alcuni sostenitori di un approccio alle questioni di politica internazionale radicalmente diverso rispetto al suo - persone che credono nella legittimità, almeno entro certi limiti, dell''interventismo umanitario' - sostengono che in qualche modo la guerra democratica sarebbe 'auto-limitantesi'. Per Rawls, lo scopo di una guerra di autodifesa condotta da una democrazia è una 'pace giusta e duratura fra i popoli'. In Italia, Salvatore Veca ha sottolineato che, per passare un ipotetico 'test di legittimità', l'interventismo democratico deve 'essere vincolato nei modi della sua condotta di guerra'. Lei crede che ciò sia, almeno in linea teorica, effettivamente possibile, o che piuttosto il dichiarato obiettivo ideologico (l'esportazione della democrazia) di un conflitto siffatto finisca per 'giustificare' qualsiasi mezzo impiegato in azioni militari?

D.Z. Francamente, non riesco a cogliere il senso dell'espressione "guerra democratica". A mio parere è un radicale non-sense o, al più, un fastidioso ossimoro. Alla luce della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale la guerra è la più grave violazione dell'ordinamento giuridico internazionale, oltre che la negazione dei diritti fondamentali delle persone. E', a parte ogni altro aspetto distruttivo e nichilista, una sentenza di morte collettiva contro persone non responsabili di alcun illecito penale, né di alcuna colpa morale. In realtà, la forza può essere usata legittimamente solo per decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sotto il suo controllo. E l'obiettivo immediato deve essere il ristabilimento della pace e della sicurezza collettiva minacciate o violate da parte di uno Stato aggressore. C'è una sola eccezione a questa regola generale ed è prevista dall'art. 51 della Carta: uno Stato aggredito da un altro Stato ha il potere di resistere con la forza all'aggressione in atto (self-defense), in attesa dell'intervento delle Nazioni Unite.

Gli interventi militari che sono stati chiamati 'umanitari' da chi li ha promossi - nei Balcani, in Asia centrale, nel Medio Oriente - non sono stati né autorizzati dal Consiglio di Sicurezza, né legittimati sulla base dell'art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Quegli 'interventi umanitari' sono stati in realtà vere e proprie guerre di aggressione, decise dalle potenze occidentali guidate dagli Stati Uniti. Nel caso della guerra anglo-americana contro l'Iraq, tuttora in corso, si è trattato per di più di un'esplicita 'guerra preventiva', e cioè di un uso della forza militare non solo lesiva della Carta delle Nazioni Unite, ma eversiva dell'intero ordinamento giuridico internazionale oggi vigente. Che le potenze che hanno usato illegalmente la forza delle armi si autodefiniscano democratiche non ha il minimo rilievo giuridico e politico. E tanto meno lo ha la campagna ideologica lanciata dall'amministrazione Bush che presenta l'occupazione militare dell'Iraq come l'inizio di una global democratic revolution, destinata a investire anzitutto il Medio oriente e il mondo islamico.

Con buona pace di John Rawls e del suo seguace italiano, Salvatore Veca, questi interventi hanno violato non solo le regole dello jus ad bellum, ma anche quelle dello jus in bello: nessuna limitazione 'umanitaria' degli strumenti bellici è stata praticata (e, rebus sic stantibus, è praticabile, considerato lo strapotere degli aggressori). Anzi, è vero il contrario: le 'guerre umanitarie' sono servite, soprattutto agli Stati Uniti, per sperimentare nuove armi, sempre più sofisticate e devastanti. Basti pensare all'uso delle cluster bombs, dei proiettili all'uranio impoverito (DU), degli ordigni quasi-nucleari come i fuel-air explosives e come le micidiali bombe 'taglia-margherite' (daisy-cutter), per non dire dei bombardamenti, in larga parte intenzionali, degli ospedali, delle carceri, delle stazioni televisive, delle fabbriche e delle ambasciate. Il fatto che in Occidente ci sia qualcuno che definisce queste guerre 'democratiche' e che per di più le giustifica come strumenti idonei per 'esportare' i diritti umani e la democrazia - fra costoro c'è stato purtroppo in questi anni anche Jürgen Habermas - getta luce su un particolare non trascurabile: chiarisce perché il global terrorism, anziché essere sconfitto, si diffonde sempre più in tutto il mondo sino a diventare la sola risposta, tragica e impotente, dei popoli oppressi dallo strapotere degli Stati Uniti e dei loro più stretti alleati, l'Italia compresa. Gli italiani non dovranno stupirsi se saranno sempre più oggetto, in Iraq e non solo in Iraq, non di gratitudine servile, come il governo italiano pretenderebbe, ma di odio terroristico.

3. Lei è stato un acceso critico dell'intervento della NATO nelle guerre balcaniche. Come spiega il fatto che ampi settori dell'opinione pubblica si siano mobilitati contro l'interventismo umanitario nel caso del conflitto contemporaneo in Iraq e che abbiano invece taciuto o abbiano approvato l'azione della NATO a quei tempi?

D.Z. Non dispongo di argomenti particolarmente significativi per 'spiegare' la diversità delle reazioni del grande pubblico - in Italia e in Europa - di fronte a due eventi in larga parte simili. In Italia ha sicuramente influito, nel caso della guerra per il Kosovo, il fatto che in prima linea, nel volere e nel giustificare la guerra, c'era un governo di centro-sinistra, guidato da un ex-comunista bellicista come Massimo D'Alema. E forse ha influito anche il sostanziale silenzio del pontefice romano, che non ha mai nascosto le sue simpatie per la cattolicissima e un tempo clerico-fascista Croazia e le sue antipatie per la Serbia ortodossa ed ex comunista. Come è noto, a 'guerra umanitaria' appena conclusa, il pontefice non ha esitato a benedirla pubblicamente, in occasione del 'Giubileo dei militari' celebrato a Roma, in San Pietro, nel corso del 2000. Nel caso della guerra contro l'Iraq la sinistra riformista, trovandosi all'opposizione, ha ritenuto di doversi opporre alla guerra, pur con molte esitazioni e tentazioni bipartisan e con argomenti spesso goffi e confusi. E in questo caso il Pontefice romano si è schierato più chiaramente per una soluzione pacifica e i cattolici lo hanno seguito in massa, impugnando le bandiere multicolori della pace. Ma probabilmente la ragione principale del diverso atteggiamento sta nell'effetto simbolico dell'11 settembre. Soprattutto i giovani - i giovani del nuovo pacifismo, di un pacifismo realista e politico e non spiritualisticamente evanescente - hanno avvertito il profondo disagio di un mondo sempre più 'globalizzato' e nello stesso tempo dominato dalla competizione, dalla guerra e dal terrorismo: un mondo carico di rischi e quindi fonte di insicurezza, di angoscia e di paura. Un pacifismo che nasce dalla paura di fronte al diffondersi della violenza nel mondo è più serio e concreto di un pacifismo motivato da elevate aspirazioni moralistiche e irenistiche.

4. Nel Suo commento alle Lectures di Michael Ignatieff, raccolte in Una ragionevole apologia dei diritti umani, lei sottolinea l'intima contraddizione tra il pensare una 'esportazione dei diritti' e, al tempo stesso individuarne il veicolo privilegiato nella guerra che, scrive, 'è la più radicale negazione dei diritti degli individui'. Ignatieff, tra l'altro, adotta una definizione 'minimalista' dei diritti umani come libertà negativa: ma non è una patente contraddizione anche pensare che la cosiddetta 'libertà da' (il potere politico) possa essere esportata dal potere politico stesso?

D.Z. Sono ovviamente d'accordo con voi. Ignatieff non sembra neppure sfiorato dalla questione se, in nome della democrazia e della tutela dei diritti, sia lecito sacrificare la vita, l'integrità fisica, i beni, gli affetti, i valori di (migliaia di) persone innocenti, come è avvenuto in tutte le recenti 'guerre umanitarie' e in particolare nella guerra per il Kosovo. Nè Ignatieff si domanda quale possa essere l'autorità neutrale e imparziale - l'autorità universalistica, come universalistici egli pretende che siano i diritti dell'uomo -, depositaria dell'autorità morale, prima ancora che politica, di decidere il sacrifico di persone innocenti. C'è una palese contraddizione nel pensare che qualsiasi soggetto internazionale, usando armi di sterminio, possa operare a favore della "libertà dal potere politico", come voi giustamente osservate. E' appunto l'idea neo-conservative dell'esportazione violenta della democrazia e dei diritti umani, un'idea che ricorda da vicino il paradosso rousseauiano: "chi si rifiuterà di essere libero, verrà costretto ad essere libero". Ma in Rousseau il paradosso esprimeva un'autentica, anche se molto pericolosa, tensione democratica e universalistica. In Ignatieff e nei neo-conservatives che circondano l'amministrazione Bush, la tensione universalistica sembra piuttosto andare nel senso di una volontà di dominio planetario. Chi non vorrà essere occidentale sarà costretto ad esserlo con la forza delle armi. L'universalismo globale tende, come ogni universalismo, verso l'intolleranza, l'aggressività, la negazione della diversità culturale e della complessità del mondo. Per di più questo universalismo neo-imperiale si sposa con convenienze molto private nelle quali il fondamentalismo umanitario mostra la sua maschera imbrattata di sangue e di petrolio.

5. In un denso dialogo con Norberto Bobbio, pubblicato in I signori della pace, lei ha espresso apprezzamento per la teoria evolutiva del diritto di Leoni e Hayek. Quali riflessioni la radicale critica del normativismo kelseniano (ottimista e globalista) sviluppata da questi due studiosi può suscitare secondo lei in tema di relazioni internazionali e in che misura coincide con l'affermazione da lei espressa in Cosmopolis che la teoria della giustizia à la Rawls o metafisiche del diritto à la Kelsen non possono aiutarci a impostare i problemi della pace e della guerra?

D.Z. Il mio apprezzamento dell'opera di Leoni e di Hayek è molto selettivo. In linea generale non amo questi due autori, così come non li ha mai amati Norberto Bobbio. Ma a differenza di Bobbio, che è sempre stato un normativista (kelseniano), io tendo a dedicare attenzione all'antinormativismo anche quando è presente in autori radicalmente individualisti e conservatori come Leoni e Hayek. Richiamandosi ad Albert Venn Dicey, e in costante polemica con Kelsen, Leoni ha sostenuto che nella tradizione anglosassone il diritto - il common law - è cosa ben diversa dalla legislazione, e cioè dalla produzione da parte dei parlamenti di un numero sempre più elevato di leggi. In Inghilterra il diritto, assai più che essere il prodotto di gruppi politici che 'legiferano' in rappresentanza del popolo, viene 'scoperto' dalla ricerca teorica dei giuristi e in modo particolare dall'attività giurisdizionale dei giureconsulti e dei giudici, inclusi i giudici arbitrali. Rechtsfindung e Juristenrecht sono i termini evocati da Leoni a questo proposito. Rispetto ai legislatori, i giudici e i giuristi dispongono di poteri di intervento e di innovazione normativa più limitati e non fanno ricorso esclusivamente a norme scritte, ma si riferiscono largamente a norme tacite, usi, convenzioni e criteri generali, il che rende la loro attività normativa meno discrezionale e meno rischiosa per le libertà individuali. Nei regimi continentali, ritiene Leoni, la certezza del diritto è vanificata dall'incalzare delle novelle legislative, e in particolare dalla legislazione d'eccezione o d'emergenza. La certezza del diritto è una pura chimera se il legislativo ha il potere di cambiare in ogni momento la disciplina di qualsiasi fattispecie giuridica.

Per conto suo, Hayek ha proposto, contro la "fallacia volontaristica" del normativismo kelseniano, un ritorno allo spirito dello jus gentium: è il diritto dei mercanti, sono le consuetudini dei porti e delle fiere che sono state la vera premessa normativa dell'affermarsi in Occidente di società libere ed aperte. Non sono state le rivoluzioni borghesi e i loro giacobini Bills of rights a rendere effettivi in Occidente i diritti di liberty and property. E' il diritto privato e non il diritto pubblico l'alveo delle 'libertà borghesi'. L'ideale della libertà individuale - la 'libertà degli inglesi' - è fiorito presso i popoli che si sono maggiormente impegnati in attività esplorative e commerciali di largo respiro, dove l'istituto della proprietà privata ha operato come riparo concreto della vita e della libertà individuali e dove per lunghi periodi è prevalso il diritto prodotto dai giudici. Per Hayek, l'ipertrofica e caotica emissione di comandi specifici che oggi caratterizza l'attività legislativa dei parlamenti è soprattutto un sintomo di crescente ineffettività del 'diritto legislativo' entro società complesse. E segnala probabilmente anche l'obsolescenza istituzionale di uno schema di divisione dei poteri che continua ad attribuire ai parlamenti funzioni amministrative che potrebbero essere affidate più utilmente al potere esecutivo.

Al di là di talune forzature, la critica che Leoni e Hayek muovono al sovraccarico normativo oggi dovuto, nella maggioranza dei paesi occidentali, ad un processo di legislazione tecnicamente carente e inflazionato, coglie a mio parere un bersaglio importante. Non è un caso che la loro critica anticipi di qualche decennio le allarmate analisi della sociologia del diritto continentale sulla ignorantia legis come pratica giurisdizionale ormai inevitabile e sulla decrescente capacità regolativa del diritto statale in presenza dell'incontenibile ipertrofia legislativa (oltre che dell'insidiosa concorrenza di una pluralità di fonti normative sovra-statali e sub-statali). Il ricorso al 'diritto dei giudici' è sicuramente una proposta teorica e politica molto debole entro società altamente differenziate e in rapida trasformazione, ma allude comunque ad un tema di ricerca troppo a lungo trascurato dal garantismo neokelseniano: il ruolo normativo dei giudici nella disciplina di una società complessa.

A mio parere anche sul piano del diritto internazionale un approccio realistico e storicistico - antinormativistico - offre notevoli vantaggi conoscitivi. Il normativismo kelseniano non solo nega dogmaticamente, in nome dell'assunzione 'logico-trascendentale' del primato del diritto internazionale, il pluralismo degli ordinamenti giuridici e delle sovranità statali. Giunge ad auspicare la scomparsa delle differenze culturali e del pluralismo delle civiltà in ossequio ad una visione ultra-illuministica dell'unità morale della specie umana. E conclude con la prospettiva della convergenza di ogni pluralismo - etico, politico, giuridico - nel monismo normativo della civitas maxima, intendendola come la 'comunità giuridica universale degli uomini' che travalica le singole comunità statali e la cui validità è ancorata nella sfera dell'etica. Ed è, paradossalmente, in omaggio a questa serie di postulazioni metafisiche che Kelsen sposa la dottrina etico-teologica del bellum justum, facendone addirittura la condizione della giuridicità del diritto internazionale. Per Kelsen la guerra, quando è 'giusta', può essere intesa come una 'sanzione giuridica' che uno Stato applica esercitando funzioni di organo della comunità internazionale. Si tratta a mio parere di strumenti teorici oggi del tutto inservibili di fronte alle dimensioni globali delle guerre contemporanee e all'affermarsi di un processo di concentrazione 'neo-imperiale' del potere internazionale.

6. Contro il normativismo nel diritto internazionale, il volontarismo legislativo figlio della cultura giuridica illuminista, Lei ha parlato della necessità di un approccio giusrealistico in grado di sottolineare la funzione che i processi consuetudinari, consensuali e pattizi svolgono nella formazione del diritto internazionale, in analogia con quanto è accaduto nello ius gentium classico. Non pensa però che, data l'enorme differenza storica e concettuale fra quei due ordinamenti, un'accentuazione di quei caratteri, capaci di rendere sempre più relativa la sovranità statuale e sempre meno distinguibile la dimensione 'interna' da quella 'esterna', possa portare a lungo andare definitivamente in un altro universo giuridico, radicalmente differente rispetto al diritto interstatuale moderno?

D.Z. E' vero, ho sottolineato l'importanza dei processi consuetudinari, consensuali e pattizi - soprattutto questi ultimi - nella formazione del diritto internazionale, senza tuttavia negare la necessità di istituzioni internazionali - parzialmente anche sovra-nazionali, soprattutto se regionali - e senza respingere la funzione di un diritto internazionale che nasca da 'atti di volontà' della comunità internazionale. In questo senso ho cercato di dare un valore in qualche modo prescrittivo e programmatico alla teoria dei 'regimi internazionali', elaborata in particolare da autori come Stephen Krasner e Robert Keohane. Questi autori hanno mostrato che vaste aree normative possono emergere da trattati multilaterali e stabilizzarsi nel tempo: si pensi alla protezione dei cittadini all'estero, ai rapporti diplomatici e consolari, al sistema dei cambi, alla disciplina delle attività umane nell'Antartico, all'accordo postale mondiale e a quello sulle previsioni meteorologiche. In queste non marginali issue-areas il diritto internazionale è efficace nonostante - anzi, proprio grazie a - l'assenza di un 'governo mondiale' e di una 'polizia internazionale'.

Ciò a cui sicuramente mi oppongo è quello che ho chiamato il 'modello cosmopolitico della Santa Alleanza', e cioè l'idea che una pace stabile e universale possa venire da una concentrazione politico-militare planetaria impegnata a soffocare e gestire i conflitti sovrapponendo ad essi una forza militare soverchiante. E mi oppongo all'idea, propria dei Western globalists, che la costituzione di un forte Leviatano sovranazionale sia la soluzione di quasi tutti i problemi dell'umanità. Seguendo Martin Wigth e Hedley Bull e in larga sintonia con le posizioni di Alessandro Colombo - penso al suo recente, eccellente intervento, La società anarchica fra continuità e crisi, in 'Rassegna italiana di sociologia', 2/2003 - ho accennato alla necessità di recuperare idee come l'equilibrio di potenza (fra grandi aree continentali o sub-continentali), come la diplomazia (soprattutto quella preventiva), come lo jus gentium, inteso quale tradizione normativa capace, se non certo di sopprimere la guerra, almeno di renderla meno distruttiva sottoponendola a limiti e controlli (posto che questo sia ancora possibile in presenza degli attuali sviluppi 'globalistici' e 'neo-imperiali' del fenomeno bellico). Nel sostenere questo non intendo minimamente - come non lo intendeva certo Bull - sottoscrivere l'idea della ormai prossima e provvidenziale estinzione delle sovranità nazionali. Prendo atto dell'indebolimento di alcune funzioni degli Stati nel contesto dei processi di integrazione globale, ma, assieme a Paul Hirst e contro Antonio Negri, attribuisco grande rilievo alle 'nuove funzioni degli Stati', anzitutto a quelle della produzione di legittimità internazionale e di garanzia della sicurezza interna (sia pure con strumenti prevalentemente repressivi).

7. Nei suoi maggiori lavori, criticando e smontando con ferrea logica realistica le pretese del globalismo giuridico ammantato di argomenti morali (come nel legalist paradigm stile Walzer) di imporre un ordine mondiale gerarchico, centralizzato e perfetto (basato sulla domestic analogy di marca hobbesiana e criticato anche da Hedley Bull), lei ha proposto il potenziamento della struttura policentrica dell'ordinamento internazionale, articolata in Stati nazionali e della negoziazione multilaterale fra Stati, che sono alla base tanto della Teoria dei Regimi di Krasner (e di Keohane) e dell'immagine dell''anarchia internazionale cooperativa' o dell''ordine anarchico' teorizzato da Kenneth Waltz. Non pensa però che la complessità, la turbolenza, l'alto grado di frammentazione internazionale, l'evidente crisi della rigida distinzione inside/outside soprattutto nelle aree dominate dai failed States, la crisi della relazione Ortung/Ordnung, l'inefficacia della pretesa riduzione di ogni fenomeno debordante alla dimensione interstatale e alle sue categorie (con risultati pratici quotidiani devastanti), siano andate ben al di là della capacità degli Stati di mantenere in vita sia la loro legittimazione (basata sulla protezione dei diritti naturali delle persone) che di offrire, soprattutto da parte delle grandi concentrazioni di potere, risposte efficaci e credibili ai problemi della politica contemporanea?

D.Z. Condivido tutte le vostre perplessità, e tuttavia continuo a pensare che alla negoziazione multilaterale fra gli Stati - soprattutto fra le sub-potenze regionali e fra gli Stati di media e piccola potenza - oggi non ci siano alternative, se non quelle dell'attuale scontro fra egemonia neo-imperiale e replica terroristica. Ovviamente, perché la negoziazione e la cooperazione politica siano efficaci ci sono complesse precondizioni economiche, tecnologico-informatiche, culturali, religiose, condizioni che rendano possibile un confronto interculturale fra le grandi civiltà del pianeta. Certo, la sfera pubblica internazionale oggi è occupata - e vanificata nelle sue potenzialità equilibratrici e moderatrici - dagli eserciti imperiali anglo-americani. Per questo, ogni tentativo di contrastare il monismo e il monoteismo dell'occidente angloamericano deve essere guardato a mio parere con simpatia. Penso ovviamente all'Europa unita, un'Europa che sappia ritrovare la sua autonomia politica e la sua identità culturale - le sue radici mediterranee, anzitutto - e sappia intavolare un dialogo con l'altra sponda del Mediterraneo e in generale con le economie e le culture arabo-islamiche. Penso alla Cina, la cui ambizione a porsi come la grande variabile degli equilibri mondiali dei prossimi decenni è sempre più evidente e credibile. Penso alle strategie che in paesi come l'Argentina e il Brasile si stanno faticosamente mettendo a punto per resistere all'offensiva panamericana (l'ALCA) contro l'autonomia economica e politica dell'area del Mercosur e dell'intero subcontinente latino-americano. E penso ai processi di polarizzazione dell'economia e della politica africana attorno a centri attrattori come la Nigeria e il Sud-Africa. Per questo trovo di grandissimo interesse l'idea, lanciata dall'attuale governo brasiliano, di una alleanza strategica fra paesi come la Cina, l'India, il Sud-Africa e il Brasile contro l'unilateralismo egemonico che oggi domina i processi di globalizzazione. Ma resta anche, non lo nego, il tema delicatissimo delle controindicazioni ai processi di integrazione regionale, non solo in Europa: quale funzione devono conservare le autonomie e le differenze nazionali e soprattutto sub-nazionali entro l'inevitabile spinta verso l'omologazione dei valori, degli stili di vita, delle tradizioni normative che ogni processo di integrazione comporta?

8. Come è stato possibile far rientrare, da parte di ideologi e giuristi, l'attentato dell'11 settembre entro la fattispecie dell'aggressione militare tipica di un conflitto interstatale moderno e dedurne (in quanto aggressione militare 'moralmente e giuridicamente illegittima') uno jus ad bellum (di derivazione totalmente differente rispetto a quella del diritto internazionale moderno) per il moral agent statunitense, contro popolazioni, classi politiche e Stati identificati quali responsabili, prescindendo dalla responsabilità individuale, dalle ragioni personali e dai mezzi usati in quell'attentato da entità totalmente prive di soggettività giuridica internazionale (e quindi sentendosi poi legittimati a fare a meno di uno jus in bello)? Non rivela questa operazione, supportata da un autentico salto mortale dottrinale, il definitivo distacco fra ideologia giuridica (ma anche fra realismo politico delle Relazioni Internazionali, ancora viziato, come Lei ha scritto, da una rigida 'opzione statista') e realtà della politica contemporanea?

D.Z. Il diritto internazionale è concepito e praticato dalla maggioranza dei giuristi internazionalisti occidentali come una disciplina che registra gli orientamenti normativi di volta in volta emergenti dalle strategie delle grandi potenze. Sono le grandi potenze che fanno il diritto internazionale e la scienza del diritto internazionale ha il compito di razionalizzare e formalizzare come nuove regole le decisioni via via assunte dalle grandi potenze. Il diritto internazionale perde quasi totalmente la sua funzione normativa per assumere un ruolo meramente adattivo di generalizzazione e legittimazione ex post del fatto compiuto.

E' il caso di ricordare la massima espressa, in occasione della guerra per il Kosovo, dal giurista statunitense Michael Glennon: "se il potere viene usato per fare giustizia, il diritto seguirà". Per "potere" Glennon intendeva la decisione unilaterale e illegale degli Stati Uniti di usare la forza contro la Repubblica Federale Jugoslava in nome della protezione dei diritti dell'uomo. In quella occasione altri autori hanno di fatto teorizzato la massima ex iniura jus oritur. Altri ancora si sono spinti sino a escogitare l'idea di instant custom ("consuetudine giuridica istantanea") per legittimare la violazione della Carta delle Nazioni Unite da parte della Nato: come se un atto di aggressione avesse la capacità di autolegittimarsi in quanto evento iniziale di una nuova consuetudine internazionale destinata a legalizzare gli interventi militari a difesa dei diritti dell'uomo, attuati senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.

Nel caso dell'11 settembre la scienza del diritto internazionale ha operato, salvo alcune eccezioni - quella di Antonio Cassese, ad esempio - secondo la stessa vocazione 'adattiva'. Ha equiparato l'attentato compiuto da una organizzazione terroristica ad un attacco armato di uno Stato contro un altro Stato, invocando quindi il diritto di difesa (in realtà di aggressione) dello Stato vittima dell'attentato nei termini dell'art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. In questi termini è stata legalizzata la guerra degli Stati Uniti contro l'Afghanistan. Questa disinvolta operazione esegetica è stata avallata in Italia dalle massime autorità dello Stato - dai Presidenti delle Camere al Presidente della Repubblica - che hanno di fatto svuotato l'art. 11 della Costituzione italiana - "l'Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali" - come ormai superato dal fenomeno del terrorismo internazionale.

9. L'evento dell'11 settembre è stato davvero lo spartiacque decisivo fra epoche storiche, caratterizzato dal mutamento della natura e dei meccanismi dei conflitti (nel senso di van Creveld e Keegan: passaggio all'intra-state level, fine della distinzione civili-combattenti, fine della distinzione netta fra stato di guerra e stato di pace, ecc.) o piuttosto il semplice portato di una catena di eventi provocati dall'interventismo statunitense all'estero, eventi che non rappresentano di per sé un fatto spiccatamente nuovo nella storia delle relazioni fra Stati e della guerra fra loro?

D.Z. Personalmente ho sostenuto in varie occasioni che l'attentato dell'11 settembre non è interpretabile in alcun senso come un discrimine fra epoche storiche diverse e neppure fra strategie militari alternative o fra morfologie della guerra differenziate. L'11 settembre ha semplicemente accelerato un processo che era in atto già a partire dai primi anni novanta del secolo scorso. Il vero discrimine è rappresentato dalla fine della guerra fredda, dal tramonto dell'ordine bipolare del mondo e dall'emergere degli Stati Uniti come la sola potenza in grado assumere una assoluta global leadership. E' la dissoluzione dell'Impero sovietico che genera un sovvertimento radicale degli equilibri di potenza su scala globale. E' da quel momento che il fenomeno della guerra e gli apparati retorici della sua giustificazione cambiano rapidamente. Lo provano innumerevoli documenti delle più alte cariche dell'amministrazione statunitense - anzitutto il celebre Defense Planning Guidance, del 1992 - e lo conferma una abbondantissima letteratura specialistica. Questo cambiamento - è la seconda tesi, implicita, che vado sostendendo - può essere adeguatamente interpretato solo nel quadro dei processi di trasformazione economico-finanziaria, informatica, politica e giuridica che vanno sotto il nome di 'globalizzazione'. E in questo quadro lo stesso fenomeno del global terrorism trova un contesto, se non certo di 'spiegazione causale', come qualcuno pretende, sicuramente di interpretazione plausibile: plausibile anche perché lontana dagli anatemi e dalle grottesche invettive del monoteismo imperiale. Gli Stati Uniti sono impegnati a sostenere con protesi militari sempre più potenti e invasive la stabilità dell'ordine mondiale in un quadro di accresciuta interdipendenza dei fattori internazionali, di elevata vulnerabilità dei paesi industriali e di crescente polarizzazione della distribuzione globale del potere e della ricchezza. E' un obiettivo arduo, che avrà molto probabilmente costi elevatissimi.

In questi ultimi quindici anni, in altre parole, si è sviluppato un processo di transizione dalla 'guerra moderna' alla 'guerra globale'. Questa transizione non riguarda soltanto la morfologia della 'nuova guerra', e cioè la sua dimensione strategica e la sua potenzialità distruttiva, che hanno assunto entrambe una misura globale. Strettamente connessa, come ho accennato, è una vera e propria eversione del diritto internazionale moderno e una regressione alle retoriche antiche di giustificazione della guerra, inclusi importanti elementi della dottrina 'monoteistica' del bellum justum e del suo nocciolo teologico-sacrificale di ascendenza biblica: la 'guerra santa' contro i barbari e gli infedeli. Queste retoriche sono diventate oggi, nel contesto della globalizzazione dei mezzi di comunicazione di massa, uno strumento bellico di eccezionale rilievo.


*. Da Elites, dicembre 2003.