2005

Questa guerra è buona? Un commento etico (*)

Georg Meggle

Per Georg Henrik von Wright e Sarah Rebecca Meggle

0. L'approvazione quasi unanime, in Germania, per l'attuale guerra della NATO contro la Jugoslavia è da attribuire al suo cosiddetto "scopo umanitario". (1) Lo scopo del nostro intervento umanitario è di fermare il genocidio, o, come a volte si dice, di prevenire "una seconda Auschwitz". Chi è contro Auschwitz deve approvare questa guerra. Questo è il pezzo più pesante dell'artiglieria morale che ci è stato mosso contro durante la nostra guerra morale. Certamente è il tipo di artiglieria più efficace che si rivolge universalmente contro tutto lo spettro politico, compresi gli antichi pacifisti. Ma questo argomento è valido? Questa guerra è buona? Questa guerra è davvero moralmente buona?

Credo che a questo interrogativo, almeno al suo problema di fondo, si possa rispondere in modo relativamente facile. Certamente è più facile di molti altri interrogativi morali. Nondimeno, posto innanzitutto che cerchiamo davvero di formularne uno, molti di noi trovano veramente difficile formarsi un giudizio autenticamente ben fondato sulla legittimità etica della guerra della NATO contro la Jugoslavia. Non voglio negare a nessuno il diritto di arrivare ad una propria conclusione, ma le mie considerazioni possono, forse, aiutare qualcuno a decidere. Vi invito, quindi, a considerare con me, passo dopo passo, le decisioni morali fondamentali e le assunzioni fattuali dalle quali dipende il nostro giudizio sull'intervento della NATO. Anche se il vostro giudizio finale sarà ancora vacillante, se ora lo sarà conoscendone almeno la ragione, avrò raggiunto il mio scopo.

1. Autodifesa e soccorso in caso di necessità

1.1. Cominciamo seguendo la consueta direzione dell'autodifesa e del soccorso in caso di necessità. Se qualcuno attenta alla mia vita e se io non posso far fronte al suo attacco in nessun altro modo, posso difendermi uccidendolo, prima che lui mi uccida. Si noti bene: "posso", ma non ho alcun obbligo di comportarmi così. Potrei non valutare la mia vita tanto da essere pronto anche ad uccidere per salvarla. L'autodifesa è un diritto, non un dovere.

Ogniqualvolta si tratta, invece, di soccorso in caso di necessità non è in questione la mia vita, ma quella di almeno un'altra persona. Ad esempio, un assassino vuole uccidere un bambino indifeso. Se non c'è nessun altro modo di salvare la vita del bambino, posso provarci e uccidere l'assassino? Sì, ovviamente. Probabilmente è proprio mio dovere comportarmi così. Per quanto io possa decidere di rinunciare alla mia vita, posso non essere capace di astenermi dal salvare quella del bambino. In altre parole, abbiamo un diritto sia all'autodifesa, sia a garantire il soccorso in caso di necessità, ma quest'ultimo può essere anche un dovere. (Se, ed in che misura abbiamo il dovere di prestare soccorso dipende non solo dal grado della minaccia, ma anche dal tipo di rischio che ci si può ragionevolmente aspettare da parte di ciascuno di noi in considerazione del nostro diritto alla vita. E ancora, il rischio che siamo disposti ad assumerci dipende, ovviamente, anche da quanto sia importante per noi la vita della vittima.)

1.2. Questo approccio che rinvia ai casi di autodifesa e di soccorso in caso di necessità è scelto quasi sempre quando si soppesa la giustificazione morale del permesso o addirittura del dovere di uccidere. E' adottato anche in altre circostanze, guerra compresa. E' adottato per giustificare non solo il reclutamento, ma anche la stessa entrata in guerra. Dopo tutto, secondo la concezione comune, anche gli stati sono individui. E ogni individuo, sia esso una persona singola o un gruppo di persone organizzate in forma di stato, può difendere la propria esistenza anche se questo può portare alla distruzione dell'individuo che lo attacca. Le guerre di difesa non sono altro che casi di autodifesa di uno stato, e le guerre per portare soccorso (indipendentemente dal fatto che siano combattute nell'ambito di un patto di difesa) non sono altro che casi di aiuto internazionale in una situazione di necessità. Stando all'argomento principale, quindi, esse sono moralmente giustificate. Di conseguenza, per quanto attiene al diritto di prender parte a una guerra (lo ius ad bellum), queste guerre sono dette "guerre giuste". Fin qui tutto bene. Forse.

1.3. A questo punto, però, sorge un problema. Anche gli stati sono formati da individui e, quindi, da gruppi di individui. Per quanto si supponga che lo scopo principale di uno stato sia di proteggere i proprî cittadini, di fatto non tutti gli stati assolvono questo compito. Che dire dei casi in cui l'apparato statale si ritorce contro i propri cittadini, o, come accade usualmente, contro gruppi di individui? Hanno anche loro un corrispondente diritto di autodifesa se sono minacciate cose per loro vitali (l'esistenza e le condizioni di vita umana)? Certo che sì. Si tratta del famoso diritto di resistenza -un diritto morale che il gruppo minacciato ha contro il proprio stato, anche nel caso in cui questo diritto non sia consacrato, o sia di fatto escluso, dalle leggi dello stato. Di conseguenza, se il gruppo minacciato non è in grado di cavarsela, anche in questi casi, altri, dall'esterno, hanno il diritto di prestare soccorso in una situazione di necessità.

1.4. E ancora, certi gruppi -ad esempio, partiti politici, gruppi etnici o religiosi- possono essere minacciati non solo dagli stati ma anche da altri gruppi. Stando al suo compito principale, al suo ruolo di protettore, spetta allo stato fronteggiare tali minacce. In alcuni casi, però, questo ruolo lascia ancora molto a desiderare; in alcuni casi, inoltre, la repressione, l'espulsione o la distruzione di un gruppo da parte di almeno un altro gruppo fa comodo a coloro che detengono il potere, i quali, quindi, potrebbero nascondere, se non addirittura promuovere o incoraggiare, il tutto. Anche in questo caso, se lo stato ignora le proprie responsabilità, altri, dall'esterno, possono venire in soccorso di coloro che non sono adeguatamente in grado di difendersi.

1.5. Lasciate che vi chieda: trovate la giustificazione di autodifesa e di soccorso in caso di necessità tanto facile da mandar giù negli ultimi due casi come nei casi precedenti? Se sì, avete già oltrepassato una linea critica di confine -la frontiera dello stato in questione. Coloro che condividono il principio secondo cui, anche negli ultimi due casi, si possa andare in aiuto di un gruppo o di una popolazione minacciata, evidentemente ritengono che la massima di prestare soccorso sia di per sé più importante -più importante della fonte di quest'aiuto, nazionale o straniera che sia.

Ed è corretto così. Se Hitler non si fosse imbarcato in conquiste straniere e avesse mantenuto campi di concentramento solo in Germania, il resto del mondo sarebbe rimasto inerte perché la sua politica di sterminio era circoscritta a livello nazionale? Certo, il mondo avrebbe potuto comportarsi in questo modo. Ma questo non sarebbe stato in alcun modo un comportamento accettabile. Qui è dove il pacifismo diventa un crimine, ed è corretta la posizione secondo cui "Mai più Auschwitz!" prevale su "Mai più guerre!"

Anche una delle premesse morali attualmente usata più frequentemente è corretta: se si può impedire una seconda Auschwitz, si deve impedire indipendentemente dalla sua collocazione. Questo si può facilmente generalizzare: le violazioni di diritti umani non sono questioni nazionali (domestic affairs). Rapportato alla violazione dei diritti umani, la violazione dei confini nazionali è il male minore, e, in realtà, non è affatto un male nel caso di violazioni della proporzione di Auschwitz. La sovranità statale non è il bene supremo.

Se si replica che gli uomini in quanto tali hanno il diritto di organizzarsi in forme statuali -se, in altri termini, si afferma che anche la questione dello stato è un problema di diritti umani- bisogna ricordare che ci sono diritti umani importanti e meno importanti. Il diritto di vivere al di qua o al di là del confine bavarese è certamente meno importante dello stesso diritto alla vita.

2. Intervento umanitario: il concetto

2.1. Entriamo nel vivo del problema. L'intervento da parte di stati esterni può essere giustificato proprio in questo in modo. Non si sta parlando semplicemente dell'invio di pacchi di aiuti e della fornitura di armi, ma anche di operazioni militari in senso stretto, quelle, cioè, in cui le diverse forze armate dispiegano la varietà di mezzi a loro disposizione. I cosiddetti 'Interventi Umanitari' possono essere giustificati almeno in questo modo, fino a quando l'espressione è usata per indicare interventi che rispondono da vicino alla summenzionata strategia giustificativa. La seguente definizione è la migliore:

(IU)
Un intervento da parte di uno stato o di un gruppo di stati X in un altro stato Y a beneficio di Z (certi individui o gruppi) è un Intervento Umanitario se e solo se X intraprende questo intervento con l'intenzione di prevenire, porre termine o almeno ridurre le gravi violazioni in corso nei confronti di Z (certi individui o gruppi) che sono causati, sostenuti o quanto meno non impediti da Y nel territorio di Y.

Se le condizioni debbano includere la stipulazione che i membri del gruppo minacciato Z siano cittadini di Y (o, almeno, siano precedentemente stati cittadini di Y) è un punto controverso. Può un'operazione di salvataggio in cui lo stato X cerca con un'azione militare di salvare i proprî cittadini da un'area di crisi in Y essere denominata Intervento Umanitario? Per il momento non mi occuperò di questo punto. In quanto segue, mi occuperò soltanto del caso attuale in cui coloro a beneficio dei quali si è dato inizio all'intervento sono cittadini di un altro stato. L'uso del simbolo Y è quindi abbastanza appropriato.

2.2. Secondo (IU), gli Interventi Umanitari sono azioni dirette ad uno scopo particolare. Esse hanno un fine: il soggetto dell'azione X intende con il suo intervento in Y proteggere il gruppo Z dalla grave violazione di diritti umani da cui è minacciato. E' questa intenzione umanitaria che rende Umanitario l'intervento, o, quantomeno, che si assume lo renda Umanitario. Sebbene secondo (IU), X, colui che interviene (il 'soggetto dell'intervento'), crede e spera che l'intervento consegua anche effettivamente il fine proclamato, la realizzazione di questo auspicio dipende, ovviamente, da più cose che non da sola forza di ciò in cui egli crede, e, forse, da fattori completamente differenti. Anche se, ovviamente, il soggetto che interviene confida nel successo del proprio intervento, tutti sanno che non ogni azione che mira ad uno scopo ha buon esito, e gli interventi non costituiscono certo un'eccezione.

Sarebbe bene, quindi, tracciare una distinzione fra interventi nel senso di tentativi (attempts) e interventi riusciti (successfull interventions). Un intervento è riuscito se e solo se effettivamente consegue il proprio scopo nel modo voluto, per mezzo, cioè, dell'intervento. Salvo che non venga precisato diversamente, di seguito 'interventi' sarà usato solo per indicare interventi tentati (attempted interventions). Ad essere tentato, ovviamente, non è l'intervento in quanto tale; il tentativo riguarda il conseguimento del fine dichiarato. Gli Interventi Umanitari sono tentativi di salvataggio; tentativi che, se riescono, significano la salvezza del gruppo minacciato.

2.3. E ancora, bisogna distinguere fra un'interpretazione soggettiva ed un'interpretazione oggettiva della precedente definizione di Interventi Umanitari. Secondo l'interpretazione soggettiva un Intervento Umanitario si dà solo se (a) il soggetto che interviene X crede che Z sia minacciato e che questa minaccia possa essere contrastata per mezzo dell'intervento.

Gli Interventi Umanitari, in questo senso, non hanno bisogno di essere reazioni a minacce effettive; sarebbe sufficiente che fossero reazioni ad attacchi semplicemente presunti. Così, in certe circostanze, tali interventi potrebbero essere considerati Umanitari senza che a nessuno fosse torto un capello prima dell'intervento. Secondo questa interpretazione, un intervento è umanitario se e solo se lo considera tale il soggetto stesso che interviene.

2.4. D'altra parte, come sarà già chiaro a molti, la definizione precedente -che corrisponde all'interpretazione oggettiva- significa che un Intervento Umanitario si dà solo se (b) Z è effettivamente minacciato e X crede di essere in grado di contrastare questa minaccia per mezzo di un intervento. X, quindi, non crede semplicemente che Z sia minacciato, ma effettivamente sa che è così. Secondo questa interpretazione, quindi, un Intervento Umanitario è accompagnato dai fattori oggettivi di una minaccia reale. X, quindi, compie l'intervento non semplicemente con l'intenzione di contrastare una situazione di necessità (forse soltanto presunta da X), inflitta alla vittima; la situazione di necessità esiste realmente -e X con il suo intervento persegue lo scopo di portare aiuto alla vittima che versa in una situazione di necessità.

Coloro che compiono un Intervento Umanitario credono, ovviamente, che la minaccia da loro presunta esista effettivamente. Dal punto di vista del soggetto che interviene, l'intervento umanitario è sempre oggettivo. Se questo punto di vista sia corretto è, naturalmente, una questione abbastanza diversa.

2.5. Un Intervento Umanitario (per essere tale) deve essere associato ad adeguate intenzioni Umanitarie (di aiuto in caso di necessità); secondo l'interpretazione soggettiva, gli Interventi Umanitari sono tali semplicemente in virtù delle loro intenzioni. La situazione è diversa riguardo ai casi di autodifesa e di aiuto in caso di necessità, quantomeno quando si tratta di diritto penale. Secondo il diritto penale, queste azioni sono interamente definite facendo riferimento alle caratteristiche oggettive di una situazione di autodifesa concretizzata da un reale attacco illecito. Secondo l'articolo 32, secondo comma del Codice Penale Tedesco, 'l'autodifesa' consiste nella difesa necessaria per proteggere se stessi o un'altra persona da un simile attacco. E ancora, stando al primo comma dell'articolo 32, chi si comporti in questo modo, non agisce illegalmente. Non si fa alcuna menzione delle intenzioni. Esse sono prese in considerazione, tutt'al più, riguardo ai presunti atti di autodifesa, quando, cioè, qualcuno erroneamente assume che esista il bisogno di autodifesa.

2.6. Non si può, quindi, enfatizzare troppo questa differenza fra atti di autodifesa e di aiuto in caso di necessità, da un lato, e, dall'altro, gli Interventi Umanitari come caso (forse solo ritenuto) particolare. Ciò che rende un'azione un atto di autodifesa è definito interamente dalle caratteristiche oggettive della situazione; il punto di vista del soggetto dell'azione e la sua intenzione sono irrilevanti per stabilire se ciò che sta facendo configuri o no un'autodifesa. L'autodifesa è, in breve, qualcosa di oggettivo. Di contro, gli Interventi Umanitari sono (quantomeno anche) soggettivi. Un'intenzione è Umanitaria (assumendo che il gruppo Z si trovi in uno stato di necessità) se è associata all'intenzione Umanitaria corretta.

Messo a posto il concetto di Intervento Umanitario, passiamo ora alla questione della giustificazione morale.

3. Giustificazione degli Interventi Umanitari

3.1. Per essere moralmente giustificati, in analogia con il soccorso in una situazione di necessità, gli Interventi Umanitari devono corrispondere anche alla propria autopercezione come casi di soccorso in una situazione di necessità. Nel gruppo da proteggere con l'intervento, deve quindi prevalere una situazione di necessità, una situazione, cioè, che corrisponde ai parametri del soccorso. Il gruppo minacciato deve soffrire, o essere direttamente minacciato da, una grave violazione dei diritti umani. Nel caso degli Interventi Umanitari, la condizione non è banalmente soddisfatta; lo è solo in quelli in senso oggettivo.

E ancora, l'intervento deve essere anche l'ultimo mezzo a disposizione per evitare il pericolo o, almeno, per ridurre la minaccia contro Z. Un intervento, quindi, può essere moralmente permesso solo se questo pericolo non può essere impedito senza l'intervento. Riassumano questi due punti come segue:

Un IU può essere moralmente permesso solo se
(i*) gravi violazioni di diritti umani non possono essere impedite altrimenti.

Non ogni violazione dei diritti umani offre necessariamente un fondamento che permette un intervento; diversamente, si potrebbe fare una guerra di Intervento Umanitario contro paesi come gli USA. Secondo Amnesty International, l'uso della pena di morte negli Usa costituisce, dopotutto, una palese violazione dei diritti umani. Da qui la questione estremamente difficile di quanto gravi debbano essere le violazioni dei diritti umani per giustificare un intervento. Al riguardo, suggerisco, pro argumento, di fare qualcosa che altrimenti non avremmo dovuto: risolvere il problema relativo al punto in cui la violazione dei diritti umani oltrepassa il limite oltre il quale si ritiene che l'intervento sia necessario semplicemente per definizione. Diciamo, ad esempio, che i crimini massicci devono essere stati perpetrati contro l'umanità nella misura che ci hanno fatto credere abbia causato l'intervento Nato nella crisi del Kosovo, includendo, ad esempio, tutti i massacri, lo stupro sistematico, l'espulsione di massa, che sono stati citati dagli USA e dagli altri stati come ragioni per l'intervento. Di seguito, faremo riferimento alla scala dei crimini contenuti in questi rapporti come la Dimensione Kosovo (DK). Così, secondo la nostra prima stipulazione:

Un IU può essere moralmente permesso solo se
(i) crimini massicci contro l'umanità (DK) non possono essere impediti altrimenti.

Questa definizione approssimativa non solo mi risparmia la difficoltà di un'esatta quantificazione, ma mi esime soprattutto dal compito certamente molto più minuzioso della verificazione. (Non appena si comincino a mettere a confronto giudizî sul caso specifico, sarà ovviamente impossibile evitare questi compiti minuziosi). Per quanto, fortunatamente, sia più in basso nella scala di tutto ciò che ha significato Auschwitz, la Dimensione Kosovo -ed è esattamente questo ciò cui vuole puntare la mia definizione- dovrebbe essere sufficientemente terribile da consentire di essere considerata una ragione di intervento umanitario. In altre parole: la Dimensione Kosovo dovrebbe essere un'autentica ragione di Intervento Umanitario.

3.2. Che un mezzo sia richiesto per il conseguimento di un fine non significa ancora che l'uso di tale mezzo sia anche sensato. Non ogni mezzo necessario è anche un mezzo utile. Per fare un esempio davvero banale, se volete pescare in uno stagno, dovete lanciare una lenza o predisporre delle nasse, etc. Nessuno di questi mezzi necessari alternativi è, però, di alcuna utilità se innanzitutto nello stagno non ci sono pesci. O, per fare un esempio più vicino a casa, per stare bene nel vostro appartamento gelato, dovete accendere il camino. Questa scelta, però, non contribuirà molto al vostro benessere se il vostro appartamento è pieno di nitroglicerina che esploderà non appena le prime faville si spanderanno attorno. Il fatto che un mezzo sia necessario non è sufficiente; deve essere un mezzo adeguato che contribuirà al conseguimento del fine. Questa esigenza dovrebbe valere anche per gli Interventi Umanitari e il loro poter essere moralmente permessi.

Un IU può essere moralmente permesso solo se
(ii) il tipo di intervento (a) è un mezzo adeguato per il fine dell'intervento.

Questa stipulazione porta all'esame delle condizioni trattate dalle teorie della Guerra Giusta sotto la categoria della giustizia in guerra (dello ius in bello). La prima condizione presa in esame riguardava ciò che rende moralmente corretto dare inizio ad un intervento; adesso, invece, ci stiamo occupando dei limiti morali che riguardano l'intervento come mezzo per un fine.

3.3. Neppure questi limiti spuntano dal nulla. In buona misura derivano dai corrispondenti limiti morali per le comuni azioni di autodifesa e di soccorso in caso di necessità. Anche in una situazione di autodifesa, la vittima e coloro che accorrono in suo aiuto non possono far ricorso ad un'azione qualsivoglia per il solo fatto che questa situazione si è determinata. Affermiamo che l'azione deve essere "richiesta" ("required"), per dire che a parte l'adeguatezza di cui si è fatto menzione prima, la reazione adottata deve essere la più moderata possibile tenuto conto delle circostanze. Riprendendo il nostro esempio del bambino indifeso minacciato da un assassino, ovviamente posso (se lo devo) neutralizzare l'assassino, ma, ad esempio, non tagliandogli la gola se in karatè sono abbastanza bravo da metterlo a terra con paio di colpi fino all'arrivo della polizia -e se, non ricorrendo al mio coltello, non espongo la mia vita a un rischio molto maggiore che usandolo.

Dato che, nel caso di interventi militari, potrebbe suonare cinico far riferimento alla "reazione più moderata possibile", formulerò la nuova condizione (b) come segue:

Un IU può essere moralmente permesso solo se
(ii) il tipo di intervento (b) consente di conseguire il fine dell'intervento con il minor male possibile per chi ha provocato l'intervento.

Questa traduzione si aggancia strettamente alla considerazione precedente che menziona soltanto il fatto che alla parte contro cui è diretto il soccorso in caso di necessità non deve essere fatto più male del necessario. Di conseguenza, anche la nuova condizione (b) è rivolta esclusivamente al danno compiuto nei confronti della parte che ha fornito la ragione per l'intervento -in breve, al nemico contro il quale (o per essere più precisi, contro i cui massicci crimini contro l'umanità) è diretto l'intervento, 'chi ha provocato l'intervento'.

3.4. Il male che ricade su chi ha provocato l'intervento non è l'unico danno da prendere in considerazione nella valutazione morale degli interventi. E probabilmente non è neppure il danno più importante. Si è già fatto menzione di coloro che minacciano chi presta soccorso in caso di necessità. Per il momento li si lasci da parte. Le norme penali che disciplinano questi casi indicano con chiarezza coloro cui non può esser fatto del male nel corso di una normale autodifesa o del soccorso prestato in caso di necessità: l'autodifesa o il soccorso prestato in caso di necessità possono essere rivolti soltanto contro l'aggressore, non contro gli interessi giuridici di terzi estranei. La pallottola del tiratore scelto ben indirizzata contro il terrorista che ha degli ostaggi, per il diritto penale può andar bene se questa è realmente l'ultima possibilità per salvare gli ostaggi, ma cessa di andar bene non appena un'altra persona innocente sia messa a rischio dalla pallottola.

Questo divieto è del tutto accettabile nell'àmbito del diritto penale, ma sotto il profilo morale (che è ciò di cui ci stiamo occupando) non sarà possibile tenerlo fermo in ogni circostanza. A questo punto bisogna sobbarcarsi un processo di valutazione simile a quello che si compie a favore o contro l'utilitarismo in un qualsiasi corso seminariale introduttivo. Prendendo a prestito uno degli esercizi più comuni, assumiamo che un terrorista abbia preso 20 ostaggi, e assumiamo che siamo assolutamente certi che se le sue richieste non verranno soddisfatte, si farà saltare in aria assieme con tutti gli ostaggi nei pochi secondi successivi. Anche se non si può escludere la possibilità di colpire un passante innocente che appaia all'improvviso e si frapponga nella sua linea di fuoco, alla testa di cuoio che ha già sotto mira il terrorista non dovrebbe essere consentito di sparare? Nel caso di incertezza, che direste se il terrorista avesse preso 50 ostaggi? E che dire di 200? O di 1000? Questi giochi di riflessione sono terribili. E l'etica, poi, non è certo argomento di cui scherzare.

La Dimensione Kosovo è molto più importante di qualsiasi scenario da rapina in banca. Coloro che, in ragione di questa differenza di grado accettano un Intervento Umanitario hanno già preso una decisione. Per ragioni morali sono pronti a superare i confini di ciò che (in contesti analoghi) è permesso secondo il diritto penale. Si entra così in un campo dove ciò che è proibito dal diritto penale è moralmente permesso. Interventi militari che non mettano a rischio terzi semplicemente non esistono. Non fanno eccezione neppure gli interventi militari con le migliori Intenzioni Umanitarie. Non è possibile approvare gli Interventi Umanitari e, al tempo stesso, escludere che altri possano essere esposti al pericolo.

Ovviamente ciò non significa che in futuro questo pericolo possa essere ignorato. Al contrario: ogni volta che, durante un'operazione, non possa essere esclusa una minaccia a terzi, si deve fare di tutto per assicurare che questa minaccia sia ridotta al minimo. In particolare, ciò significa che

Un IU può essere moralmente permesso solo se
(ii) il tipo di intervento (c) minimizza la minaccia nei confronti di terzi.

3.5. I terzi appena menzionati, chiunque essi possano essere, non includono certamente né coloro che hanno provocato l'intervento e contro cui (al fine di porre termine ai crimini) l'intervento è diretto, né il soggetto stesso dell'intervento. La stipulazione (b) concerne coloro che hanno provocato l'intervento; fino ad ora il soggetto dell'intervento è stato ignorato dalle stipulazioni precedenti. Questa omissione è colmata dalla condizione (d):

Un IU può essere moralmente permesso solo se
(ii) il tipo di intervento (d) minimizza il male o la minaccia nei confronti della stessa parte che interviene.

Solo per citare un caso estremo, questa stipulazione esclude, ad esempio, che uno stato che interviene possa usare i propri cittadini semplicemente come carne da cannone affinché l'intervento abbia buon esito. Questo pericolo, naturalmente, non esiste nel caso in esame -almeno, non per il momento. Eppure, il concetto di male o di pericolo comprende, ovviamente, qualcosa di più che la perdita della vita umana.

3.6. Le stipulazioni (a) - (d) elencate sotto (ii), coprono il nucleo di ciò che spesso è descritto come la richiesta di mantenere una proporzionalità. Qui non mi posso addentrare nell'insidiosa questione se le nostre stipulazioni precedenti tengano conto di ogni aspetto della proporzionalità - e, in caso negativo, di come rendere giustizia di questi punti di vista rilevanti. Questa non è però una grande perdita, in quanto le condizioni delineate fino a questo punto sono perfettamente adeguate a giudicare dell'intervento NATO.

3.7. Per sicurezza, comunque, e per essere certi che nessuno consideri la somma di queste condizioni come appena sufficiente al solo scopo dell'esperimento, vorrei includere una clausola di salvaguardia (anche se molti potrebbero considerarla ovvia):

Un IU può essere moralmente permesso solo fino a quando
(iii) esso stesso non comporta crimini massicci contro l'umanità.

Ciò significa che un Intervento Umanitario è moralmente giustificato solo se non comporta le stesse cose che si assume debba combattere, e da cui deriva la stessa ragion d'essere degli Interventi Umanitari. Gli Interventi Umanitari che a paragone dei crimini che si assume essi debbano prevenire, costituiscano essi stessi crimini massicci contro l'umanità, non possono essere moralmente permessi. Gli Interventi Umanitari non possono fornire essi stessi le basi per contro-Interventi Umanitari moralmente giustificati.

4. Interventi Umanitari e diritto internazionale

4.1. Dalle nostre condizioni necessarie per la permissibilità morale degli Interventi Umanitari, manca ancora una stipulazione -e precisamente quella la cui necessità è stata finora oggetto della controversia più radicale di tutto il dibattito sulla guerra in corso:

Un IU può essere moralmente permesso solo se
(?-iv-?) l'intervento è previsto (a) dal diritto internazionale e in particolare (b) da una risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU.

4.2. Perché manca questa condizione? Banalmente perché il mondo non è ancora pronto perché questa stipulazione adesso abbia effettivamente senso. Il diritto internazionale non è sufficientemente sviluppato, e anche la procedura di risoluzione del Consiglio di Sicurezza ha ancora molta strada da fare.

4.3. Questa situazione (come avremmo dovuto sapere prima di iniziare la guerra) è estremamente precaria. Essa riguarda il rapporto fra diritto e morale. Le questioni morali sono strettamente legate alle questioni giuridiche - e questa è proprio la ragione per la quale dobbiamo tracciare una netta distinzione tra le due in modo che questa stretta connessione non possa ingenerare nessuna confusione. Se qualcosa è giuridicamente necessario, generalmente è anche moralmente necessario. Si noti 'generalmente' - non sempre (altrimenti non ci sarebbe stato alcun bisogno di discutere la giustificazione morale di norme giuridiche). Sono concepibili casi isolati in cui può non essere semplicemente moralmente permesso, ma anche moralmente necessario, violare leggi esistenti, casi in cui ciò che è giuridicamente necessario potrebbe essere addirittura moralmente vietato. Naturalmente si ha sempre bisogno di solide ragioni per tali eccezioni in ragione del valore morale (che non può essere affermato troppo solennemente) dell'obbligatorietà delle norme giuridiche -e queste ragioni probabilmente esistono effettivamente solo in rari casi.

La potenziale differenza fra diritto e morale si dà in tutti i campi del diritto -incluso il diritto internazionale. Sono concepibili casi in cui la violazione delle leggi internazionali attualmente in vigore non solo è moralmente permessa, ma, di fatto, può essere moralmente imperativa. Un esempio potrebbe essere la mia variante fittizia di Auschwitz: Auschwitz e tutti gli altri campi di concentramento solo in Germania, senza nessuna guerra tedesca di aggressione. E ancora, se si assumesse inoltre che questa Germania Nazista fosse membro del Consiglio di Sicurezza con il diritto di veto, ditemi chi, in risposta ad una situazione del genere, sarebbe pronto a chiedere ciò per cui molti oggi sembrano desiderosi di firmare ciecamente petizioni: il rispetto per il diritto internazionale -quali che siano le conseguenze. Se il mondo si conformasse al diritto internazionale vigente, la conseguenza sarebbe che il mondo sarebbe costretto a stare a guardare. Eppure la morale richiede proprio il contrario. La Dimensione Auschwitz reclamerebbe un Intervento Umanitario - anche in violazione del diritto internazionale valido, e ovviamente anche senza l'approvazione del Consiglio di Sicurezza (che, comunque, nella situazione summenzionata non si avrebbe a causa del veto della Germania Nazista). Fine della finzione.

Per potere rendere questa discutibile stipulazione relativa al diritto internazionale una condizione necessaria, si deve modificare il diritto internazionale in modo tale che, nel caso dello scenario della Auschwitz fittizia, l'Intervento Umanitario moralmente necessario contro la Germania Nazista non sarebbe più bloccato nonostante il veto di un membro del Consiglio di Sicurezza.

4.4. Per essere chiaro vorrei aggiungere alcuni punti. Punto 1: La Dimensione Kosovo non è, come ho già accennato, identica alla Dimensione Auschwitz. Punto 2: La Jugoslavia non è la Germania Nazista. Sottopunto 2.1.: Non lo è neppure la Serbia. Punto 3: La Jugoslavia non è membro del Consiglio di Sicurezza. Nella prospettiva della Dimensione Kosovo, il semplice richiamo ad Auschwitz non è sufficiente per ottenere la stessa conclusione sia per l'attuale crisi del Kosovo sia per la summenzionata crisi fittizia di Auschwitz.

4.5. Finora, nel dibattito concernente la legittimazione, sotto il profilo del diritto internazionale, della nostra guerra in atto, si è totalmente ignorato anche un altro aspetto. Questo dibattito assume semplicemente che tutto sarebbe a posto se oltre la NATO, anche l'ONU fosse in favore di questa guerra. Questo è al momento giuridicamente corretto, ma in termini morali potenzialmente sbagliato. Ci vuole più che l'appoggio dell'ONU perché un intervento (anche un Intervento Umanitario) possa essere moralmente accettabile. Come si è visto prima, devono essere soddisfatte anche alcune altre condizioni. E queste, poi, potrebbero essere violate anche con l'approvazione del Consiglio di Sicurezza.

4.6. Basti così, almeno per il tema principale del dibattito sulla guerra nella nostra Germania Federale. Questo dibattito costituisce, finora, una brillante vittoria per la nostra rinnovata tradizione nell'ermeneutica. Il suo raggio d'azione è circoscritto alle diverse relazioni fra formulazione linguistica e senso profondo. Se la lettera del diritto internazionale è realmente contraria alla nostra guerra, come può il suo spirito essere determinato in modo tale che l'essenza di questo diritto possa essere riconciliato con la nostra coscienza e le nostre tradizioni umanitarie? Questo è l'interrogativo del quale ogni giorno, dall'inizio della guerra, hanno discusso i nostri scrittori umanitari, ministri a favore dell'intervento ed esperti di diritto internazionale. Nel frattempo la NATO ha operato più di 20.000 missioni. Rimandiamo l'esegesi apologetica del diritto internazionale fino a domani. Oggi l'interrogativo è: questa guerra è moralmente buona?

5. Questa guerra è buona? Gli interrogativi principali

5.1. Questa guerra è buona? L'attuale intervento della NATO in Jugoslavia è moralmente giustificato? Ora che i concetti principali sono stati spiegati e le condizioni morali più rilevanti sono note, "tutto" ciò di cui abbiamo bisogno per rispondere a questo interrogativo sono i fatti. Come sempre, questi possono essere distinti in tre categorie: i fatti chiari, quelli meno chiari, e quelli che ancora non conosciamo per nulla. Sarebbe preferibile argomentare la nostra posizione sulla base della prima categoria. Sfortunatamente questo è il gruppo più esiguo -probabilmente è sempre così riguardo ai fatti rilevanti in tempo di guerra. Per il momento, quindi, ci si deve accontentare dei fatti meno chiari -rendendo meno solido il giudizio morale che ne deriva.

5.2. Il nostro intervento in Jugoslavia può essere moralmente permesso? Questo interrogativo può ora essere formulato con maggiore precisione: Sono stati effettivamente soddisfatti tutti i requisiti che devono essere soddisfatti perché tale intervento sia moralmente legittimo? Sappiamo quali sono questi requisiti. Sottoponiamo quindi l'attuale intervento NATO - d'ora innanzi abbreviando spesso dirò soltanto l'intervento - al test di queste condizioni.

5.3. L'intervento comprende molte cose. Può indicare la decisione di intervenire militarmente, il varo dell'intervento, le modalità dell'intervento (ad esempio, i raid aerei invece delle truppe di terra), la stessa cosa ma in modo più dettagliato (ad esempio, solo bombe lanciate da una grande altitudine, ingigantendo così il rischio di danni collaterali), le modalità dell'intervento oggi, etc. Si tratta di cose molto diverse. Analogamente, anche il giudizio morale di queste cose diverse può essere differente. Dovrebbe, comunque, essere sempre chiaro cosa significano queste cose quando parliamo dell'intervento.

5.4. Dobbiamo porci i seguenti interrogativi:

  • L'intervento era realmente necessario per eliminare la causa dell'intervento?
  • Le modalità dell'intervento sono realmente adeguate per questo scopo?
  • L'intervento si sta svolgendo in modo tale che il danno e la minaccia causati dagli stessi agenti dell'intervento siano ridotti al minimo?
  • L'intervento si sta svolgendo in modo tale da essere accompagnato dal minor danno necessario (per conseguire il fine dell'intervento) da infliggere a chi ha provocato l'intervento?
  • L'intervento si sta conducendo in modo tale che il rischio per terzi estranei sia ridotto al minimo?
  • L'intervento, da parte nostra, è collegato a crimini massicci contro l'umanità?

5.5. Una valutazione dell'intervento richiede una risposta a questo elenco di domande nella sua totalità. Che cosa si assuma significhi "il minor danno possibile" nei tre settori diversi da prendere in considerazione (soggetto dell'intervento, coloro che hanno provocato l'intervento, terzi estranei) può essere precisato più attentamente solo considerando la minimizzazione del danno totale. Così facendo, non saremo in grado di scantonare, soppesando moralmente le diverse richieste di minimizzazione del danno. Le ragioni morali non ci fanno forse attribuire priorità alla minimizzazione del danno nei confronti di terzi sia rispetto alla minimizzazione del danno nei confronti di chi ha provocato l'intervento sia rispetto alla minimizzazione del danno sofferto dal soggetto che interviene? Non si può certo affermare che minore è il male subito dalla parte che interviene (a scapito delle parti terze), più morale è l'intervento.

5.6. Ci stiamo occupando del giudizio morale di un intervento concreto -con la valutazione di un'azione, non di un attore. Ciò che conta, quindi, per la valutazione di questo intervento sono principalmente le sue conseguenze, non le intenzioni (presunte o effettive) ad esso collegate. E' proprio necessario ricordare che si tratta di due cose differenti? E che la storia offre abbastanza esempi di come le migliori intenzioni possano condurre alle conseguenze più spaventose? E vice versa, anche le peggiori intenzioni possono a volte avere un esito positivo. Si prendono soprattutto in considerazione le intenzioni quando si vuole valutare l'attore (la persona, l'istituzione che agisce); si studiano le conseguenze quando si vuole giudicare l'atto in se stesso.

Questa distinzione ha una chiara applicazione: il mero fatto che un intervento sia umanitario (sia associato, cioè, ad un intervento umanitario) non rende di per sé buono l'intervento -niente affatto. La ragione di ciò è già stata enunciata prima: le condizioni per la giustificazione morale di un Intervento Umanitario non sono soddisfatte semplicemente in virtù dell'esistenza di Intervento Umanitario.

Questa distinzione fra valutazione di un intervento e valutazione delle conseguenze allontana molto il presunto punto morale dalla speculazione sulle reali intenzioni della parte che interviene. Ciò che conta davvero quando qualcuno è in una situazione di necessità è di ricevere davvero soccorso -non i motivi che stanno dietro l'atto che determina (o no) quest'aiuto. Queste intenzioni e questi motivi possono diventare rilevanti, tutt'al più, se analizziamo le ragioni per comportamenti analoghi in futuro.

5.7. Nel corso dei giudizi morali, spesso si cade nella trappola fittizia del "da capo". Hai sposato la donna sbagliata, sei proprio in una gran confusione, ti chiedi cosa sia meglio per tutti, figli compresi. L'ultima cosa che ti può essere d'aiuto è "Te l'avevo detto" -come se tu potessi semplicemente scivolar via dalla situazione presente e tornare indietro, a prima di stare assieme, e prendere poi la decisione giusta. L'interrogativo importante è: cosa si deve fare ora?

Tutti i consigli benintenzionati riguardo ciò che le diverse parti avrebbero o non avrebbero dovuto fare prima, in modo che non si sarebbe dovuto neppure porre l'interrogativo "Intervento -sì o no?", sono ugualmente irrilevanti per una valutazione morale dell'attuale intervento. Essere saggi dopo l'evento, dovrebbe essere messo a frutto per affrontare meglio situazioni simili in futuro; non serve a molto per una valutazione della situazione attuale, che evidentemente non siamo stati in grado di gestire meglio. Far riferimento alla genesi della situazione attuale ci aiuta a capirla; non risolve i problemi morali che emergono soltanto una volta che ci si trova in mezzo.

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Questo conclude la parte del mio commento che, a meno che non riusciate a convincermi altrimenti, si fonda, per così dire, sulla mia formazione filosofica. Siamo giunti ora a quello che Max Weber avrebbe caratterizzato come un giudizio personale. Credo, comunque, che, utilizzando l'approccio che si è qui descritto, ognuno sia in grado di formularne uno autonomamente.

Leipzig, 20 maggio 1999


Note

*. Is This War Good? An Ethical Commentary. Traduzione di Tecla Mazzarese.
Come avverte lo stesso Georg Meggle, il lavoro che qui si traduce è stato scritto nel maggio del 1999, mentre la guerra in Kosovo era ancora in pieno svolgimento. L'intento, dichiarato e manifesto, di individuare le condizioni in presenza delle quali si possa fondare la giustificazione etica di un "intervento umanitario" non ne fa venir meno l'attualità, nonostante la conclusione (almeno formale) di quella guerra. Le condizioni elencate offrono, infatti, uno strumento di riflessione per decidere dell'eticità di quello come di qualsiasi altro intervento con pretese umanitarie. [N.d.T.]

1. Questo commento trae origine da conferenze che agli inizi di maggio 1999 ho tenuto a Leipzig, Münster e Frankfurt am Main. Oltre Georg Henrik von Wright e mia figlia, desidero ringraziare anche, per l'aiuto ricevuto, Jovan Babic, Kurt Bayertz, Lutz Eckensberger, Günther Grewendorf, Franz von Kutschera, Wolfgang Lenzen, Weyma Lübbe, Matthias Lutz-Bachmann, Thomas Metzinger, Richard Raatzsch, Veronika Reiss, Sabine Rieckhoff, Peter Rohs, Mark Siebel, e il mio braccio destro in tutto questo periodo, Christian Plunze.