2005

Guerra e diritti: tra etica e retorica (*)

Tecla Mazzarese

Non c'è oggi sintomo più angosciante del carattere irreale della maggior parte dei conflitti che sorgono. Hanno ancor meno realtà del conflitto tra greci e troiani. Al centro della guerra di Troia, almeno c'era una donna, e cosa ancora più importante, una donna di perfetta bellezza. Per i nostri contemporanei, il ruolo di Elena è svolto da parole adorne di maiuscole. Se potessimo afferrare, nel tentativo di comprenderla, una di queste parole gonfie di sangue e di lacrime, vedremmo che è priva di contenuto. Le parole che hanno un contenuto e un senso non sono omicide. [Simone Weil, 1937] (1)

Wars of principle are much less often justified than is believed by those in whose age they occur. It is very rarely that a principle of genuine value to mankind can only be propagated by military force: as a rule, it is a bad part of men's principle, not the good part, which makes it necessary to fight for their defence. [Bertrand Russell, 1915] (2)

1. Dubbi sulla pretesa eticità delle guerre per la tutela dei diritti umani

La tutela dei diritti umani non sembra essere stata mai oggetto di tanta attenzione e apprensione così come lo scorso anno, quando la Nato ha fatto ricorso allo strumento estremo della guerra per porre termine alla loro reiterata e massiccia violazione in Kosovo.

Mai, negli ultimi cinquant'anni, la tutela dei diritti umani era stata considerata tanto fondamentale da essere addirittura indicata come ragione di giustificazione etica di una guerra; mai era stata sentita tanto imprescindibile per decidere addirittura dello stesso processo di consolidamento delle democrazie occidentali.

Nonostante, o, forse, proprio in ragione del richiamo alla tutela dei diritti umani, i dubbi sulla liceità, legittimità e giustificabilità di quella guerra sono (stati), però, drammatici e laceranti.

Drammatici e laceranti, ieri, mentre la guerra era ancora in pieno svolgimento: drammatici per il bilancio di vittime e distruzioni di giorno in giorno sempre più grave, e per i timori sui possibili sviluppi ed esiti del conflitto; laceranti perché la tutela e la difesa dei diritti umani, nel cui nome si stava combattendo, erano la comune preoccupazione sia di chi consentiva con il ricorso alla guerra, sia di chi da tale ricorso dissentiva.

Drammatici e laceranti, ancora oggi, nonostante quella guerra sia ormai conclusa (formalmente, almeno, dato che violenze e vendette hanno, in realtà, continuato ad essere cronaca quotidiana).

Il bilancio delle vittime (kosovare e serbe), quasi esclusivamente civili, e delle distruzioni (in Serbia come in Kosovo), ancora una volta quasi esclusivamente civili (ad essere distrutti sono stati non tanto gli armamentari militari, quanto piuttosto strade, ponti, fabbriche, raffinerie, case e scuole), (3) per quanto incerto e ancora approssimato ne conferma, infatti, tutta la drammaticità e ripropone in pieno la contrapposizione lacerante tra chi nella guerra individua uno strumento terribile, ma necessario per la tutela dei diritti umani quando questi siano massicciamente e reiteratamente violati e chi, invece, nella guerra vede uno strumento che, inevitabilmente, non può non provocare, accanto alla violazione massiccia e reiterata dei diritti umani che si dichiara di voler tutelare, una nuova, non meno odiosa, violazione di quegli stessi diritti.

Il quesito sulle condizioni che (eventualmente) consentano di giudicare etica una guerra, nonostante la pace ormai firmata da mesi, non ha cessato, quindi, di essere attuale sia perché, retrospettivamente, i dubbi sulla presunta eticità dell'intervento in Kosovo non sono stati affatto risolti, sia perché, prospetticamente, gli stessi dubbi non possono non riproporsi per ogni eventuale decisione futura di interventi analoghi.

Anch'essi irrisolti, e non meno urgenti nel caso di un'eventuale iterazione dell'esperienza del Kosovo, i dubbi di carattere giuridico e di carattere politico sia nella specificità che è loro propria, sia nella valenza etica che ad essi può essere (e di fatto è stata) ascritta.

2. Inter arma silent leges: a proposito di etica e diritti dell'uomo

La guerra in Kosovo, quindi, è stata la prima ad essere combattuta in nome dei diritti umani. Non era accaduto neppure per la guerra del Golfo, motivata ufficialmente dall'invasione irachena del Kuwait.

La guerra in Kosovo sembra volere e/o potere segnare così l'inizio di un nuovo capitolo del tormentato rapporto tra guerra ed etica: i diritti dell'uomo assumono, infatti, essi stessi la veste di una nuova etica; laica, forse, ma in nome e in difesa della quale, "confessionalmente" si afferma l'obbligo morale di combattere. (4)

Per quanto una guerra sia combattuta in nome della tutela dei diritti umani non si può, però, ignorare, come già a proposito della guerra del Golfo ammoniva Ennio De Giorgi, che

"Anche i popoli che per la loro sfortuna (e forse anche per le nostre passate negligenze e complicità) sono soggetti a regimi che non rispettano i diritti umani sono da considerare sempre amici da salvare e non nemici da distruggere". (5)

Monito che lo stesso Norberto Bobbio (diretto destinatario delle parole di Ennio De Giorgi) raccoglie e fa proprio quando, dopo aver ripercorso i propri argomenti sul carattere necessario di quella guerra, scrive:

"Restano aperte tutte quante le questioni che il Prof. De Giorgi solleva circa il rispetto dei diritti dell'uomo. [...] Il problema dei diritti dell'uomo è strettamente connesso con quello della pace. Inter arma silent leges. Durante la guerra il diritto tace". (6)

Già, inter arma silent leges.

Sembra quindi manifesto, e di difficile soluzione, il paradosso di una guerra che in nome e in difesa dei diritti dell'uomo, non può non essere essa stessa violazione di quegli stessi diritti; il paradosso di una guerra che non può essa stessa non calpestare i valori di quell'etica in nome della quale rivendica il dovere morale di combattere.

Il paradosso è di difficile soluzione, e non solo perché rende dubbio il ricorso all'argomento di tutte le crociate e di tutte le guerre di civilizzazione: i valori per i quali si combatte (i diritti dell'uomo) sono proprio gli stessi valori che non si possono non calpestare combattendo (i diritti dell'uomo); non sono, cioè, valori altri e diversi in nome della cui superiorità si possa accampare la pretesa di uccidere e distruggere. E ancora, sono, ex definitione, valori universali che, quindi, non possono non valere anche nei confronti di coloro ai quali li si voglia imporre. (Detto altrimenti, se l'universalità dei diritti viene fatta valere come ragione per giustificare la guerra, non la si può poi disconoscere quando si è in guerra.)

Il paradosso, però, è di difficile soluzione non solo perché denuncia una contraddizione logica (che, in quanto tale può, forse, destare il sospetto, se non il fastidio, di fuorvianti sofismi), ma soprattutto perché denuncia una contraddizione pragmatica: le forme e i modi in cui si combattono le "nuove guerre" (le "guerre postmoderne") (7) non possono non costituire una sistematica violazione dei canonici principî dello ius in bello, riflettendosi, quindi, sugli eventuali criterî di legittimazione dello ius ad bellum, delegittimandoli.

L'eventuale titolo di legittimazione di una guerra viene meno, cioè, se le forme e i modi in cui essa viene combattuta violino i principî del diritto umanitario (i canoni dello ius in bello); in particolare, se ed in quanto violino il principio di proporzionalità (dei danni inflitti) e il principio di discriminazione (tra combattenti e non combattenti):

"per giusta che sia la causa per cui una guerra è fatta, essa risulta tuttavia del tutto ingiustificata se per vincerla è necessario violare (non importa quanto e quanto spesso) i due principî dello ius in bello". (8)

Incerti come denominarle e/o come individuarne i principali tratti distintivi, le guerre di cui in questi ultimi decenni siamo (stati) testimoni e/o protagonisti (anche a voler prescindere dalla guerra per le Falkland / Malvine, l'Europa ha infatti visto la partecipazione di suoi paesi non solo in Kosovo, ma anche nel Golfo Persico) non possono, anche quando si avvalgono di titoli di legittimità giuridica (guerra del Golfo) o invochino titoli di giustificabilità etica (guerra in Kosovo) non violare entrambi i principî fondamentali dello ius in bello.

Patente e innegabile la violazione del principio di discriminazione ieri (e ancora oggi nella versione non dei bombardamenti, ma dell'embargo), nella guerra del Golfo, e oggi (e, realisticamente, anche domani, dato l'uso di armi all'uranio impoverito i cui danni ambientali non sono stati ancora esattamente quantificati), nella guerra in Kosovo. (9)

Meno eclatantemente manifesta, forse, ma non per questo meno concreta la violazione del principio di proporzionalità. Qual è, infatti, la soglia oltre la quale il numero di bambini che, a causa dell'embargo, muoiono per mancanza di medicinali cessa di essere proporzionalmente accettabile rispetto alla gravità della minaccia rappresentata dal regime di Saddam Hussein contro il quale si è deciso l'embargo? E quale la soglia oltre la quale l'inquinamento ambientale (dovuto all'uso di armi all'uranio impoverito e/o di bombe a frammentazione) cessa di essere proporzionalmente accettabile rispetto all'orrore dei crimini commessi dal regime di Milosevic?

Se la violazione del principio di discriminazione e del principio di proporzionalità sia o no ineludibile (se, cioè, tale violazione costituisca la denuncia solo di una verità di fatto di per sé non sufficiente ad enunciare come verità di ragione la negazione della distinzione stessa fra ius ad bellum e ius in bello e/o dell'attendibilità di qualsiasi definizione dei criterî dello ius ad bellum) è un interrogativo forse rilevante, ma certo non dirimente.

Per decidere dell'eticità delle nuove guerre di cui siamo (stati) testimoni o protagonisti e/o di imprese che, in futuro, si propongano di riproporne gli scenari, una "mera" verità di fatto sembra già essere sufficiente. Detto altrimenti, non è il richiamo al carattere manifestamente "pasticciato" e/o "improvvisato" di una guerra (purché combattuta in difesa dei diritti umani) a salvarne o riscattarne la giustificazione e/o giustificabilità etica.

3. Ex crimine oritur ius: a proposito di diritto e diritti dell'uomo

La problematicità (intrinseca o accidentale che sia) della distinzione fra ius ad bellum e ius in bello richiama, per altro, un ulteriore interrogativo che la guerra in Kosovo ha contribuito a sollevare: l'interrogativo, di carattere giuridico, dell'eventuale (in)adeguatezza delle norme (nazionali e sovranazionali) che attualmente individuano e definiscono le uniche condizioni in presenza delle quali una guerra possa dirsi legittima; l'interrogativo, in altri termini, dell'eventuale necessità di ripensare e riscrivere le norme giuridiche che fissano i criterî dello ius ad bellum.

Che la guerra in Kosovo abbia violato norme giuridiche internazionali e (come, ad esempio, nel caso dell'Italia e della Germania, anche) nazionali, sia di carattere sostanziale, sia di carattere procedurale è un'obiezione alla quale, infatti, in non pochi hanno replicato denunciando, delle norme violate, il carattere desueto. (10) Più precisamente, di tali norme alcuni hanno proposto una diversa interpretazione ("meno superficiale e banale") da quella usualmente ricorrente, (11) altri, con maggiore determinazione, ne hanno sollecitato, invece, una modificazione e/o integrazione che, tra le giuste cause di una guerra, esplicitamente riconosca e includa anche quella dell'intervento in difesa dei diritti umani. (12)

Difficile, di fronte a queste reazioni, (13) non sottoscrivere, come Norberto Bobbio per altro, (14) il giudizio sprezzante di Danilo Zolo secondo il quale in questo modo ex crimine oritur ius, dalla violazione della legge si fa scaturire il diritto; difficile, cioè, non condividere la preoccupazione con la quale Danilo Zolo registra che

"Un'aggressione internazionale, per il semplice fatto che i suoi autori l'hanno chiamata "umanitaria", può essere considerata legittima e divenire "eo ipso" fonte di un nuovo assetto di diritto internazionale". (15)

E ancora, difficile non avere un moto di meraviglia rispetto all'autorevole proposta di Antonio Cassese che, sulla base di "nascent trends in the world community" individua sei condizioni ("strict conditions") in presenza delle quali il ricorso ad "armed force may gradually become justified, even absent any authorization by the Security Council". È difficile non avere un moto di meraviglia, e non solo perché, come lo stesso Antonio Cassese sottolinea,

"In the current framework of the international community, three sets of values underpin the overreaching system of inter-state relations: peace, human rights and self-determination. However, any time the conflict or tension arises between two or more of these values, peace must always constitute the ultimate and prevailing factor". (16)

È difficile non avere un moto di meraviglia soprattutto perché, solo pochi anni prima, quasi profeticamente, lo stesso Antonio Cassese metteva in guardia dai possibili pericoli di "considerare i diritti umani come una sorta di nuova religione dell'umanità". (17) E precisamente, Antonio Cassese scriveva:

"Chiamare questo codice nuova "religione dell'umanità" mi sembra eccessivo e fuorviante [...] se si crede in una "religione" e si guarda poi alla realtà (che è fatta di negazioni quotidiane dei diritti umani) si diventa missionari, per realizzarla. Si finisce così per coinvolgere i diritti umani nei conflitti e nelle polemiche Est-Ovest o Nord-Sud, negli scontri ideologici e nei dissidi strategico-militari: la "religione viene pervertita". L'azione -meritoria- per far rispettare i diritti umani diviene una "crociata" e può, alla fine, legittimare intolleranze, manipolazioni, se non persecuzioni -non diversamente dalle religioni storiche, in nome delle quali, come ben si sa, in passato si è bruciato gli eretici, perseguitato i "miscredenti" e condotto guerre sanguinose, mentre oggi, in certe parti del mondo, si invoca la "guerra santa"". (18)

4. Cosmopolis o idiópolis: a proposito di politica e diritti dell'uomo

Proposte, come quella avanzata da Antonio Cassese, di individuare un nuovo elenco di condizioni in presenza delle quali ridefinire, nel diritto internazionale, la legittimazione dell'uso della forza non si scontrano, però, solo con le riserve e le perplessità (ivi comprese quelle premonitrici dello stesso Antonio Cassasse) già menzionate.

Vi sono, infatti, altre due difficoltà, di natura più specificamente politica, che qualsiasi catalogo di condizioni sulla (ri)legittimazione dell'uso internazionale della forza, per quanto accurato nella sua redazione e puntuale nella formulazione di ogni sua singola clausola, sembra non riuscire ad eludere:

  1. chi, con quali procedure, e secondo quali parametri deciderà che sono state inutilmente tentate tutte le possibili soluzioni diplomatiche per porre fine alla massiccia e reiterata violazione dei diritti umani in relazione alla quale si pone l'interrogativo dell'eventuale ricorso all'uso internazionale della forza?, (19) e
  2. secondo quali criterî si selezioneranno, fra le diverse situazioni delle quali si dispera che una soluzione diplomatica possa sortire un qualche esito positivo per arginare o ridurre massacri e violenze sistematiche, quelle in relazione alle quali ricorrere all'uso internazionale della forza?

Entrambe le difficoltà, due facce d'una stessa medaglia, sembrano rinviare ad un'ulteriore regola che, forse, non può non completare il catalogo delle condizioni: una metanorma di chiusura, non scritta, ma non per questo meno esplicita, una "rule of thumb" che sancisca la totale causalità della scelta.

Una rule of thumb, politicamente meno neutrale di quanto forse si potrebbe credere, per ribattere sia a chi lamenta (come nel caso della guerra in Kosovo) l'inadeguatezza o l'insufficienza dei tentativi diplomatici intrapresi, sia a chi si interroga sull'assenza e/o risibilità delle reazioni internazionali rispetto a situazioni che non appaiono meno tragiche di quella che ha sollecitato l'intervento in Kosovo: a situazioni, cioè, come quella di Timor Est (all'indomani del referendum per l'indipendenza dall'Indonesia), del Kurdistan, della Cecenia. (20)

Rule of thumb o realismo politico? In entrambi i casi l'esigenza di giustificazione etica e di legittimazione politica non trova affatto una risposta soddisfacente.

La risposta non è, e non può non essere soddisfacente perché, forse, è sbagliata la scelta dell'interrogativo; perché, forse, ad essere fuorviante è proprio interrogarsi su quali siano le condizioni in presenza delle quali una guerra possa essere eticamente giustificata.

Immanuel Kant, nella Critica della ragion pura, ammoniva che "È già una grande e necessaria prova di saggezza e di acume sapere che cosa si debba ragionevolmente domandare". E, interrogarsi su quali siano le condizioni in presenza delle quali una guerra possa essere eticamente giustificata o giuridicamente legittima, non è, forse, ciò che "ci si debba ragionevolmente domandare".

Ragionevole, semmai, interrogarsi non solo (o non tanto) sulle nuove condizioni dello ius ad bellum, ma sulle forme e i modi di quello che Luigi Bonanate denomina lo "ius ante bellum", sulle forme e i modi, cioè, in cui la politica può (non) condurre ad una guerra. (21)

Ragionevole, inoltre, interrogarsi su quali siano e/o potrebbero essere le istituzioni che meglio consentono di difendere il diritto alla pace, che meglio possono garantirne l'attuazione realizzando, così, una precondizione necessaria alla tutela e alla realizzazione dei diritti dell'uomo.

Ragionevole, ancora, interrogarsi, consapevoli delle opposte difficoltà cui possono dare origine i modelli di "cosmopolis" (22) e di "idiópolis" (23), sui termini in cui ripensare e ridefinire le tradizionali categorie politiche della sovranità e della cittadinanza in modo che l'attuazione dei diritti dell'uomo diventi retoricamente meno strumentale e concretamente più reale.

5. "Pacifismo volgare" e "militarismo umanitario": a proposito di retorica e diritti dell'uomo

Secondo l'ineludibile rituale di ogni guerra, anche la guerra in Kosovo non si è sottratta ad un abuso di retorica. L'unica novità, forse, accanto all'immancabile profusione di "parole adorne di maiuscole", (24) quella di una spregiudicata fantasia onomastica e di un'irrefrenabile propensione agli ossimori.

Ritenute forse non sufficientemente pregnanti o inadeguate a sintetizzare la novità di una guerra combattuta in nome dei diritti umani, espressioni (consuete e desuete a un tempo) quali "guerra etica", "guerra santa", "guerra giusta" sono state affiancate, anche se non sempre soppiantate o da espressioni goffamente eufemistiche che si sforzano di dissimulare le guerre con improbabili "operazioni di polizia internazionale", o, invece, da espressioni ostentatamente provocatorie che qualificano "intelligenti" le bombe, "volgare" il pacifismo e "umanitario" il militarismo.

Si ha così, citando Giuliano Pontara,

"un linguaggio che, nascondendo la violenza, in realtà la alimenta, un linguaggio in cui si esprime il processo di imbarbarimento verificatosi in questo secolo di globalizzazione della violenza e di violenza della globalizzazione". (25)

E ancora, si ha sì un linguaggio che è retorico, ma che è anche espressione di una preoccupante esigenza di ridefinire un apparato categoriale in cui etica, politica, diritto tendono a sovrapporsi e a confondersi con il rischio di pericolosi cortocircuiti. (26)

Da qui, per quanto non sia forse ciò che "ci si debba ragionevolmente domandare", se ed in quanto si vogliano individuare le forme e i modi di un'effettiva difesa dei diritti umani, l'opportunità di un'attenta riflessione sull'interrogativo delle eventuali condizioni che possano giustificare eticamente una guerra. Infatti, come ammonisce Simone Weil:

"Se non facciamo uno sforzo serio di analisi, rischiamo, in un giorno prossimo o lontano, di farci cogliere dalla guerra impotenti non solo ad agire, ma anche a giudicare". (27)


Note

*. Salvo qualche modifica, questo lavoro riproduce T. Mazzarese, Guerra e diritti: tra etica e retorica, in "Ragion Pratica", 7 (1999) 13, pp. 13-23.

1. S. Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia (Potere delle parole), in S. Weil, Sulla guerra, Pratiche Editrice, Milano, p. 57.

2. B. Russell, The Ethics of War, in "The International Journal of Ethics", 25, 2, 1915, pp. 127-142, a p. 136.

3. Scrive M. Kaldor: "verso la Serbia sono partiti circa trentaseimila voli, di cui dodicimila in funzione di attacco. Sono state sganciate circa ventimila bombe "intelligenti" e cinquemila bombe convenzionali. A tutt'oggi, non sono ancora disponibili informazioni sull'efficacia di questi bombardamenti. Sembra però che non siano stati arrecati gravi danni alla macchina militare jugoslava. Per cinquant'anni, l'esercito jugoslavo è stato addestrato per resistere ad un nemico più forte. È stata costruita un'ampia rete sotterranea che comprende depositi, aereoporti e caserme. [...] Quando le truppe della Nato sono entrate in Kosovo, non hanno trovato gli attesi danni alle installazioni e agli equipaggiamenti militari jugoslavi. [...] Risultati maggiori sono stati raggiunti contro gli obiettivi civili: strade, ponti, centrali elettriche, depositi di carburante, fabbriche. [...] I cosiddetti "danni collaterali" hanno significato l'uccisione di circa millequattrocento persone. Gli ambientalisti stanno solo ora accertando le conseguenze dei danni alle attrezzature industriali. Siti storici sono stati distrutti, ad esempio Novi Sad". Cfr. M. Kaldor, New and Old Wars. Organized Violence in a Global Era, Oxford, Polity Press, Oxford, 1999; la citazione è tratta dalla trad. it.: Le nuove guerre. La violenza organizzata nell'età globale, Carocci, Roma, 1999, pp. 180-181.

4. Questo dato, sottolineato da molti, trova una formulazione particolarmente corrosiva in N. Chomsky, The New Military Humanism, Lessons from Kosovo, Pluto Press, London, 1999, analisi ricchissima di dati e di informazioni, soprattutto (ma non esclusivamente), sulla "lettura" statunitense di questo conflitto. Scrive Chomsky (p. 1): "The crisis in Kosovo has excited passion and visionary exaltation of a kind rarely witnessed. The events have been portrayed as "a landmark in international relations", opening the gates to a stage of world history with no precedent, a new epoch of moral rectitude under the guiding hand of an "idealistic New World bent on ending inhumanity." This new Humanism timed fortuitously with a new millennium, will displace the crass and narrow interest politics of a mean-spirited past".

5. E. De Giorgi, Lettera a Bobbio, in "La Stampa", 13 febbraio 1991; ried. in N. Bobbio, Una guerra giusta?, Marsilio, Venezia, 1991, p. 83.

6. N. Bobbio, Una guerra giusta?, op. cit., p. 85.

7. Sulla denominazione e caratterizzazione di queste nuove guerre, cfr. M. Kaldor, New and Old Wars. Organized Violence in a Global Era, op. cit.

8. G. Pontara, Guerre, disobbedienza civile, non violenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996, p. 42. Meno netta, forse, la posizione di M. Walzer che, nondimeno, riconosce: "Lo jus ad bellum rinvia a concetti quali aggressione e autodifesa; lo jus in bello all'osservanza o alla violazione delle norme consuetudinarie e positive del combattimento. I due tipi di giudizio sono tra loro logicamente indipendenti [...]. Eppure tale indipendenza [...] crea perplessità [...]. Il dualismo jus ad bellum / jus in bello incarna quanto di maggiormente problematico vi sia all'interno della realtà morale della guerra". Cfr. M. Walzer, Just and Unjust Wars, Basic Books, New York, 1977; la citazione è tratta dalla trad. it.: Guerre giuste e ingiuste, Liguori Editore, Napoli, 1990, p. 39.

9. Significativa la crescita esponenziale, dalla prima guerra mondiale a oggi, delle vittime civili: "L'ottanta per cento dei caduti nella prima guerra mondiale furono uomini in uniforme, nella seconda guerra mondiale la percentuale scese al cinquanta per cento, e nelle guerre successive al venti per cento. Su trenta milioni di morti nel corso di conflitti verificatisi dopo il 1945, l'ottanta per cento sono stati dunque civili, soprattutto donne e bambini". Cfr. C. Pinelli, Sul fondamento degli interventi armati a fini umanitari, in G. Coturri (ed.), Guerra. Individuo, Franco Angeli, Milano, 1999, pp. 78-99, a p. 78.

10. Una ricca esemplificazione delle norme giuridiche violate è offerto, ad esempio, da L. Ferrajoli, Guerra "etica" e diritto, in "Ragion Pratica", 7, 13, 1999, pp. 117-128.

11. In relazione alla Costituzione Italiana, una prefigurazione di questa posizione è offerta da E. Bettinelli, I diritti "essenziali" (inviolabili e universali) dell'uomo e le frontiere dell'ordinamento: l'apologo degli Albanesi, in V. Angiolini (ed.), Libertà e giurisprudenza costituzionale, Giappichelli, Torino, 1992, pp. 31-44. Prendendo le mosse dall'ondata migratoria degli albanesi in Italia del 1991 e dalla loro richiesta di asilo politico, Bettinelli afferma la tesi secondo la quale: "occorre non tanto scardinare la "teoria" (e la prassi) della non ingerenza, ma piuttosto riconoscere e ricostruire il principio (e metodo) dell'interferenza, per l'affermazione ovunque e comunque dei diritti essenziali degli uomini. La negazione di siffatti diritti fa insorgere un obbligo di fare (che si può esprimere anche come divieto di inerzia) nello stato italiano" (p. 41, corsivo nel testo); tesi, questa, che Bettinelli fonda sull'interpretazione dell'articolo 2 e dell'articolo 11 della carta costituzionale.

12. Per una panoramica di tali posizioni, cfr., ad esempio, P. De Sena, Uso della forza a fini umanitari, intervento in Jugoslavia e diritto internazionale, in "Ragion Pratica", 7, 13, 1999, pp. 141-165.

13. Di altre reazioni più fantasiosamente capziose come, ad esempio, quella secondo la quale non si può affermare che l'Italia abbia violato l'articolo 11 della Costituzione entrando in guerra, perché le Camere non hanno mai dichiarato, come prevede invece l'articolo 78, lo stato di guerra, è meglio tacere.

14. N. Bobbio, Questa guerra somiglia tanto a una guerra santa, in "L'Unità", 25 aprile 1999, ried. sotto il titolo Perché questa guerra ricorda una crociata, in AA.VV., L'ultima crociata? Ragioni e torti di una guerra giusta, i libri di Reset, Roma, 1999, p. 19.

15. D. Zolo, Così si distrugge il cuore del diritto, in "L'Unità", 17 aprile 1999, ried. sotto il titolo Ma i raid della Nato affossano il diritto, in AA.VV., L'ultima crociata? Ragioni e torti di una guerra giusta, cit., p. 31.

16. A. Cassese, Ex iniuria ius oritur: Are we Moving towards International Legitimation of Forcible Humanitarian Countermeasures in the World Community?, in "European Journal of International Law", 10, 1, 1999, pp. 23-30, a p. 24.

17. A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Bari, p. 78 (corsivo nel testo).

18. A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, op. cit., p. 79.

19. Il rinvio è alla quarta delle sei "strict conditions" elencate da A. Cassese, Ex iniuria ius oritur, op. cit., p. 27: "all peaceful avenues which may be explored consistent with the urgency of the situation to achieve a solution based on negotiation, discussion and any other means short of force have been exhausted, notwithstanding which, no solution can be agreed upon by the parties to the conflict".

20. Entrambe le questioni sono denunciate con particolare rigore da E. Garzón Valdés, Guerra e diritti umani, in "Ragion Pratica", 7, 13, 1999, pp. 25-49.

21. Scrive L. Bonanate, Guerra, politica e morale, in "Ragion Pratica", 7, 13, 1999, pp. 83-93, a p. 91: "l'importante [...] è [...] stabilire [...] se i momenti ai quali applicare la nostra facoltà morale di giudicare non siano invece che due, tre: quello del diritto alla guerra e quello del diritto in guerra ci sono noti, propongo quindi di prendere in considerazione anche un diritto prima della guerra [...]. Insomma, se possiamo applicare con qualche utilità le classiche condizioni che, 1) la guerra sia proclamata dall'autorità legale, 2) la decisione di combatterla discenda da una giusta causa, 3) l'intenzione di chi la combatte sia rivolta al bene (jus ad bellum), 4) i fini di guerra non superino la restaurazione del diritto, e quindi, 5) non si infliggano sofferenze inutili allo sconfitto (jus in bello) [...] perché non dovremo ricorrervi per conoscere e valutare anche le modalità che alla guerra hanno condotto? Rifarsi a un jus ante bellum significa dunque richiamare la nostra attenzione morale sul fatto che una politica può continuativamente svilupparsi in modo tutto interno a un progetto bellicoso (anche se può succedere anche il contrario)" (p. 91, corsivo nel testo).

22. Cfr. D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano, 1995, e Id., I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Carocci, Roma, 1998.

23. Cfr. M. Bovero, Idiópolis, in "Ragion Pratica", 7, 13, 1999, pp. 95-115.

24. L'espressione è di S. Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia (Potere delle parole), op. cit., p. 57.

25. G. Pontara, Guerra etica, etica della guerra e tutela globale dei diritti, in "Ragion Pratica", 7, 13, 1999, pp. 51-68, alle pp. 52-53.

26. Questo rischio è segnalato, ad esempio da G. Meggle, Questa guerra è buona? Un commento etico, in "Ragion Pratica", 7, 13, 1999, pp. 69-82.

27. S. Weil, Riflessioni sulla guerra, in S. Weil, Sulla guerra, op. cit., p. 27.