2009

Etologia, guerra e politica (*)

Leonardo Marchettoni

1. L'etologia, storia e concetti

In questo lavoro cercherò di affrontare la questione se nello scatenamento della conflittualità bellica entrino in gioco delle predisposizioni biologiche innate, operanti su un piano di autonomia rispetto alle motivazioni razionali. Per esplorare questa possibilità intendo servirmi degli strumenti concettuali elaborati dalla ricerca etologica, offrendo una sintetica presentazione degli scritti intorno all'aggressività e alla guerra di Konrad Lorenz e Irenäus Eibl-Eibesfeldt.

L'etologia è la disciplina naturalistica che studia il comportamento animale analizzandolo comparativamente alla luce dell'evoluzionismo darwiniano (1). In questa ottica il comportamento è visto come un fenomeno soggetto alla selezione naturale: nel corso delle generazioni si affermano ereditariamente i moduli di comportamento che in un certo habitat risultano più redditizi. Ma perché l'evoluzione possa operare sul comportamento, l'etologia deve presupporre la trasmissibilità genetica delle sequenze motorie di base, estendendo così la portata di un modello esplicativo, incentrato sul principio della selezione del più adatto, assai potente e 'corroborato'.

L'etologia, come ambito di ricerca autonomo, nasce all'inizio del nostro secolo con gli studi di Oskar Heinroth sul comportamento sociale degli anatidi ma la vera fondazione della disciplina avviene nel 1935, quando Konrad Lorenz pubblica l'articolo Der Kumpan in der Unwelt des Vogels (2). La novità dell'approccio lorenziano consiste nel rilievo attribuito all'azione istintiva. Lorenz, confrontando il comportamento di specie diverse, sviluppa il concetto di coordinazione ereditaria: nel repertorio dei comportamenti di un animale ci si imbatte sovente in movimenti riconoscibili, costanti nella forma, che l'animale non ha bisogno di apprendere; a tali movimenti Lorenz assegnò appunto il nome di coordinazioni ereditarie, intendendo evidenziarne in questo modo la natura istintuale rigidamente programmata. L'attivazione delle coordinazioni ereditarie richiede la presenza di opportuni segnali scatenanti, filtrati da schemi percettivi innati, cioè da adattamenti filogenetici della percezione. La catalogazione delle coordinazioni ereditarie permette inoltre di osservare omologie comportamentali, vale a dire somiglianze fra strutture del comportamento dovute alla presenza di un progenitore comune; per questa via diventa possibile pertanto ricostruire precise tassonomie orientate filogeneticamente.

Negli anni successivi Lorenz definisce lo status della nuova scienza assieme a Nikolaas Tinbergen: in questo periodo la ricerca etologica privilegia i fattori istintivi, sottolineando la dicotomia tra innato e appreso, e si contrappone alla zoopsicologia comportamentista nordamericana, che enfatizzava invece l'importanza dell'ambiente nel plasmare il comportamento. La metodologia seguita dagli psicologi comportamentisti, come John B. Watson e Burrhus F. Skinner, infatti, era incentrata sull'analisi del comportamento animale per mezzo di esperimenti in laboratorio; le sequenze motorie esaminate venivano quindi interpretate secondo lo schema del circuito stimolo-risposta, prescindendo completamente dalla storia evolutiva della specie. L'etologia, viceversa, nel porre in rilievo il ruolo della programmazione innata, adotta una prospettiva diametralmente opposta, diacronica e descrittiva, senza tuttavia negare l'incidenza dei comportamenti appresi: è di questi anni la formulazione del concetto di imprinting, una forma peculiare di apprendimento per impressione, caratteristico specialmente degli uccelli, per lo più irreversibile e limitato nell'estensione temporale, che presiede alle relazioni di riconoscimento della madre da parte dei nidiacei.

Nel secondo dopoguerra si apre una importante fase di confronto fra la scuola di Lorenz e l'etologia anglosassone, animata dalle figure di Tinbergen, nel frattempo trasferitosi nel Regno Unito, William H. Thorpe e Robert A. Hinde, che condurrà ad una parziale ridefinizione dei concetti chiave della disciplina. La nuova impostazione, che attribuisce maggior spazio ai fattori ambientali, tende a sfumare la distinzione tra innato ed appreso, poiché riconosce che anche talune sequenze motorie codificate nel patrimonio genetico e trasmesse ereditariamente non sono immediatamente attivabili dopo la nascita, ma richiedono un certo periodo di tempo in cui perfezionarsi (3).

A partire dagli anni sessanta l'etologia ha esteso sempre più il suo ambito di indagine allo studio del comportamento umano. In questo campo si tende a mettere in risalto quegli aspetti dell'agire dell'uomo che si basano su una programmazione genetica (anche nell'uomo possiamo rintracciare coordinazioni innate, adattamenti filogenetici della percezione, disposizioni innate all'apprendimento) e, in una diversa direzione, a esaminare quei tratti comportamentali umani che hanno dei precedenti nel mondo animale: la comunicazione non verbale, l'apprendimento per imitazione, l'uso di strumenti, la tradizione, il gioco. L'etologia umana si propone di investigare le radici biologiche del comportamento dell'homo sapiens, portando alla luce quegli aspetti che sono interpretabili come un retaggio del nostro cammino evolutivo. Quest'operazione può tuttavia sollevare perplessità allorché assuma come oggetto quelle dimensioni dell'attività umana che coinvolgono la riflessione morale e il problema della responsabilità individuale. Una situazione di questo tipo si verificò in seguito alla pubblicazione del saggio di Lorenz Das sogenannte Böse (4), in cui l'etologo austriaco sosteneva, come vedremo, la natura istintuale della pulsione aggressiva e, conseguentemente, le sue limitate possibilità di compressione.

La teoria di Lorenz era destinata a suscitare critiche feroci, soprattutto da parte della psicologia statunitense, ancora legata al comportamentismo, che non accettava l'estensione all'uomo dei paradigmi concettuali elaborati per spiegare il comportamento animale. La ricezione delle dottrine lorenziane fu ostacolata in ogni modo, trasportando sovente il dibattito sul piano del confronto ideologico: vi fu persino chi non esitò a muovere l'accusa di razzismo e a sollevare il sospetto di passate compromissioni col regime hitleriano. Nonostante questa opposizione, l'influenza di Das sogenannte Böse è andata progressivamente consolidandosi e oggi, a distanza di quarantacinque anni dalla sua formulazione, la teoria dell'aggressività di Konrad Lorenz rappresenta un inevitabile momento di confronto nella riflessione sul problema della guerra e sui mezzi disponibili per estirparla o, almeno, renderla più tollerabile. È necessario, quindi procedere a una sua dettagliata analisi che ne evidenzi i nodi problematici rilevanti da un punto di vista filosofico-politico; passerò quindi ad esaminare quelle correzioni introdotte nella teoria di Lorenz dal suo più famoso allievo, Irenäus Eibl-Eibesfeldt.

2. La teoria dell'aggressività di Konrad Lorenz

Konrad Lorenz è considerato comunemente il padre dell'etologia; la sua figura così caratteristica, la sua vasta produzione divulgativa e l'attribuzione del premio Nobel per la medicina (nel 1973 assieme a Nikolaas Tinbergen e Karl von Frisch) gli hanno assicurato una popolarità duratura anche presso il grande pubblico. L'ambito di indagine in cui spazia l'opera di Lorenz travalica i confini della pura ricerca biologica per accostarsi a tematiche più strettamente di pertinenza dell'indagine filosofica, per cui si rende opportuno premettere all'analisi dei suoi scritti sull'aggressività una rapida ricognizione delle sue posizioni epistemologiche, come emergono soprattutto in Die Rückseite des Spiegels (5).

La gnoseologia di Konrad Lorenz è imperniata su una salda convinzione: per giustificare la conoscenza umana è necessario indagare la struttura biologica dell'apparato sensoriale. La nostra immagine del mondo è funzione dei nostri organi di senso e la conformazione dell'apparato percettivo è modellata dalla selezione naturale. In ultima analisi, la teoria della conoscenza di Lorenz ha dunque alla sua base l'evoluzionismo darwiniano. In linea con queste assunzioni, Lorenz, sin dal 1941, aveva reinterpretato la dottrina kantiana dell'a priori sostenendo che la filogenesi determina le forme necessarie della conoscenza (6). Più precisamente, Lorenz spiega l'insorgere del pensiero concettuale, in una precisa fase della storia evolutiva, attraverso l'integrazione di prestazioni più elementari ed eterogenee (rappresentazione centralizzata dello spazio, autoesplorazione, movimento volontario, imitazione, tradizione). Da questo punto di vista non solo la forma dell'intuizione dello spazio e del tempo, ma anche le categorie kantiane dell'intelletto e la stessa logica classica hanno basi empiriche e l'illusione della loro validità assoluta è determinata semplicemente dal loro successo adattativo, dall'essere un medium intrascendibile nella nostra rappresentazione del mondo (7).

In questa posizione tuttavia è assente qualsiasi venatura di riduzionismo. Ripercorrere la storia naturale della mente non significa attivare una riconduzione dei processi psichici dall'universo mentale al dato neurologico. Al contrario, Lorenz, nel descrivere le componenti biologiche dei meccanismi conoscitivi, sottolinea ripetutamente come nel momento in cui le facoltà elementari si integrano in un'unità nuova si compia un salto qualitativo non prevedibile. Il pensiero astratto è un'acquisizione specificamente umana che non può essere indagata con un approccio di tipo 'composizionale', ma richiede una comprensione globale della dimensione adattativa che entra in gioco nella genesi biologica dell'apparato conoscitivo dell'uomo (l'apparato immagine-del-mondo).

Ad un diverso livello, il paradigma evoluzionistico viene esteso anche all'interpretazione del progresso culturale e scientifico. La dinamica dello 'spirito umano', come costruzione sovraindividuale segue le stesse strade della filogenesi (8). Questa affermazione può essere riguardata sotto una duplice prospettiva: in primo luogo, nell'evoluzione culturale entrano in gioco facoltà innate acquisite filogeneticamente (ad esempio la programmazione istintuale della competenza linguistica, autorevolmente confermata da Noam Chomsky e dalla sua scuola) (9); secondariamente, il contenuto delle nostre teorie sul mondo si affianca al contenuto del genoma e, non diversamente da quello, è soggetto alla pressione selettiva. A una tale impostazione del problema gnoseologico non corrisponde però alcuna semplificazione ingenua del procedere della scienza; Lorenz non alimenta una fiducia gratuita nella necessaria progressione finalistica del cammino evolutivo e neppure crede che la scienza proceda approssimandosi asintoticamente alla verità. Anzi, afferma esplicitamente la non pianificabilità dell'evoluzione culturale e l'incidenza, nel lavoro scientifico di fattori non razionalizzabili come il senso estetico e le resistenze dell'abitudine (10).

L'approccio evoluzionistico alla teoria della conoscenza viene compendiato da Lorenz nella formula, derivata da Donald Campbell, realismo ipotetico (11). La dicitura 'realismo', tuttavia, non deve far pensare che la posizione di Lorenz possa essere assimilata ad una declinazione del realismo quale viene inteso nel dibattito filosofico attuale: delle due asserzioni che contraddistinguono quest'ultimo, e che affermano l'indipendenza del mondo dalla conoscenza che di esso possediamo e l'indipendenza della verità dei nostri giudizi dalla nostra capacità di accertarla, Lorenz sottoscriverebbe soltanto la prima, che compendia la radicale opposizione ad ogni forma di idealismo. L'adozione del paradigma darwiniano, del resto, richiede che si accetti una preliminare compromissione ontologica: tutto ciò che ci viene segnalato dal nostro apparato conoscitivo deve corrispondere a dati di fatto reali del mondo extrasoggettivo, dal momento che esso stesso fa parte del mondo e nella sua contrapposizione ad altri oggetti altrettanto reali ha raggiunto la sua forma attuale.

D'altro canto, il realismo ipotetico presenta, paradossalmente, significative analogie con alcune forme contemporanee di antirealismo (12). Per il realista metafisico il mondo consiste di una totalità determinata di oggetti indipendenti dalla mente e c'è una e una sola descrizione completa di come il mondo è; inoltre, la verità delle teorie scientifiche è, almeno in via di principio, accertabile (13). Al contrario, secondo Lorenz, la nostra immagine del mondo, che si forma in base al contenuto percettivo trasmesso dai sensi ed elaborato razionalmente, riflette soltanto certi aspetti della realtà, e precisamente quegli aspetti che sono funzionali alla nostra sopravvivenza: le nostre descrizioni del mondo sono solo una rappresentazione, utile ma parziale e imperfetta (14). In definitiva, ciò che distingue soprattutto la posizione di Lorenz è l'impulso a sottolineare, nell'impresa scientifica, l'aspetto della costruzione empirica che poggia sull'evidenza fenomenica accessibile al nostro apparato sensoriale e osserva un misurato agnosticismo sulle cose in sé.

Nel 1963, alla vigilia della pubblicazione di Das sogenannte Böse, lo studio delle cause dell'aggressività nell'ambito della ricerca psicologica vedeva la prevalenza degli indirizzi che spiegavano l'aggressività in base all'azione di fattori ambientali. La ricerca più influente in materia, condotta nel 1939 da John Dollard, aveva collegato l'aggressività alla frustrazione: l'impulso aggressivo sarebbe diretto contro l'agente della frustrazione stessa e sarebbe proporzionale all'intensità di quella (15). Ne segue, pertanto, che l'aggressività può essere controllata rimuovendone le cause dirette o inibita per mezzo della minaccia di una punizione. Lorenz si oppone decisamente a questo modello esplicativo, fondato sull'opinione totalmente errata, a suo avviso, che i comportamenti animali, come quelli umani, siano prevalentemente reattivi e che possano venire illimitatamente modificati attraverso l'apprendimento, intraprendendo una completa inversione di prospettiva.

L'insieme degli elementi di base del comportamento animale ed umano è costituito da fattori innati - sequenze motorie, pulsioni e segnali scatenanti - dalla cui integrazione, a livelli sempre più alti, sorgono le funzioni superiori come l'apprendimento. L'aggressività, in questo quadro concettuale, appare essenzialmente spontanea, una pulsione primaria profondamente radicata e pertanto non coercibile. La rimozione degli oggetti su cui essa si dirige non porta quindi alla sua eliminazione, anzi, poiché ogni movimento istintivo, se privato della possibilità di sfogo, ha la proprietà di rendere tutto l'organismo animale inquieto e di fargli ricercare attivamente gli stimoli che innescano quel movimento, l'aggressività è per principio non estirpabile per mezzo di interventi sull'ambiente. Inoltre, il comportamento di appetenza si accompagna a un abbassamento del valore di soglia degli stimoli innescanti e questo, in un ambiente in cui siano rimosse le sorgenti di frustrazione, può dirottare l'impulso aggressivo su oggetti che in condizioni normali non lo avrebbero scatenato (16). Tuttavia, l'aggressività non è, in situazioni non patologiche, distruttiva ma ha sempre un significato adattativo preciso. L'opera di Lorenz è un tentativo di rendere conto di questa funzionalità, attraverso la chiarificazione degli scopi che l'aggressività, di volta in volta, soddisfa.

In primo luogo, Lorenz distingue tra lotta interspecifica e intraspecifica, a seconda che l'impulso aggressivo sia diretto contro membri della stessa specie o di specie diverse. La lotta interspecifica è, nel mondo animale, un fenomeno circoscritto: si presenta soltanto nel comportamento predatorio (in cui però è singolarmente dissociata dagli atteggiamenti che accompagnano l'aggressività vera e propria), in alcuni casi in cui taluni predatori uccidono altri predatori concorrenti, nell'attacco sferrato dalle potenziali prede allorché, trovandosi in gruppo, incrocino il predatore isolato (il cosiddetto mobbing) e, infine, nella reazione critica, il comportamento di difesa dell'animale cui sia preclusa la via di fuga (17). Nel caso della lotta interspecifica l'utilità per la specie è evidente; più complicato è spiegare quali compiti assolva l'aggressività verso i conspecifici.

Questa seconda forma di aggressività si sviluppa probabilmente a seguito della concorrenza tra esemplari della stessa specie, anche se, come vedremo, acquista in seguito funzioni ulteriori. La comparsa dell'aggressività intraspecifica è da ricollegare a due esigenze distinte: da una parte la difesa del territorio, dall'altra la selezione dei maschi più forti al momento della riproduzione (18). La distribuzione regolare di animali di una stessa specie su un'area abitabile è, secondo Lorenz, la più importante funzione dell'aggressività intraspecifica, in quanto permette un'allocazione ottimale delle risorse tra gli individui, ed insieme quella in corrispondenza della quale è probabilmente sorto l'impulso aggressivo. In questo caso, gli scontri tra conspecifici possono avere esiti mortali per il soccombente, anche se a ciò si arriva solo molto di rado, poiché l'animale che si avventuri al di fuori del suo territorio reagisce generalmente con la fuga nel caso che si imbatta in un altro esemplare della sua specie.

L'aggressività territoriale è tipica degli animali che vivono isolati al di fuori del periodo riproduttivo mentre negli animali sociali prevale la seconda funzione più sopra ricordata, vale a dire la selezione degli individui che possono garantire il migliore pool genico alla discendenza e contemporaneamente proteggere in maniera più efficace la prole. E' questo il caso degli animali che trascorrono tutta la loro esistenza in branchi come i cervidi, presso i quali, infatti, i combattimenti fra i maschi sono lunghi ed assai elaborati (19).

Nel caso delle specie animali più evolute che conducono una vita sociale l'aggressività ha, inoltre, un'utilità supplementare in quanto consente l'instaurarsi di vincoli gerarchici. In questo modo viene arginata la lotta fra i membri della comunità dal momento che ognuno degli individui sa in quale posizione si colloca ciascun altro esemplare e quindi adegua il suo comportamento a seconda se si debba confrontare con un animale subordinato o sovraordinato. Inoltre, la società acquisisce una particolare coesione e solidità che gli deriva dal ruolo che in essa ricoprono gli esemplari più anziani ed esperti. Questi infatti detengono la posizione gerarchicamente più elevata che li pone in condizione di trasferire per tradizione agli individui più giovani l'esperienza appresa nella loro vita (20).

In quanto detto sinora è già contenuto implicitamente un dato della massima importanza che è necessario porre in adeguato rilievo. L'aggressività intraspecifica, lungi dal caratterizzarsi come un istinto primitivo, un retaggio da superare che ostacola la formazione di organismi sociali complessi, costituisce invece un necessario presupposto dell'integrazione in comunità ordinate. Tuttavia, se l'aggressività presso gli animali sociali non fosse in qualche modo regolata comporterebbe un peso intollerabile in termini di individui morti o gravemente feriti, tanto che i vantaggi che ho elencato non basterebbero a compensarli. Per tale motivo nella storia evolutiva si sono sviluppati una serie di meccanismi idonei a limitare la distruttività delle pulsioni aggressive, che hanno precisamente il compito di rendere possibile la convivenza di numerosi animali all'interno di una comunità. Questi meccanismi sono innati come l'istinto di aggressione e vengono da Lorenz posti in relazione col fenomeno della ritualizzazione filogenetica, sul quale, pertanto, è opportuno soffermarsi preliminarmente (21).

Il concetto di ritualizzazione fu introdotto nella seconda decade del nostro secolo dallo zoologo Julian Huxley - il fratello dello scrittore Aldous - per definire l'impiego di moduli comportamentali non sessuali nel contesto del corteggiamento da parte di alcuni uccelli. Abbiamo già notato come ogni animale sia provvisto di un bagaglio di sequenze motorie, presenti sin dalla nascita, che vengono attivate da opportuni stimoli ambientali. Queste sequenze motorie compaiono generalmente nel quadro di attività ben individuate, ma possono acquistare, sotto la spinta della selezione, un significato ulteriore. La ritualizzazione consiste precisamente nel ri-orientamento adattivo del comportamento in direzione espressiva. In altri termini, certi schemi motorii perdono, nel corso della filogenesi, la loro specifica funzione originaria e diventano pure cerimonie 'simboliche', dei segnali indirizzati ai membri della stessa specie.

La nuova funzione comunicativa del modulo comportamentale esercita una pressione selettiva sull'ulteriore evoluzione di esso, accentuando tutte le caratteristiche che rendono più efficace ed univoco il decorso motorio nell'assolvimento del compito di segnalazione. Spesso questo processo è accompagnato dallo sviluppo di strutture fisiche capaci di evidenziare l'azione. Inoltre, e questo è il dato più importante nell'economia del discorso, una volta che la ritualizzazione si è compiuta la coordinazione motoria ritualizzata si rende totalmente indipendente dalla situazione alla quale era originariamente asservita: la catena di azioni che in un primo tempo adempiva ad altri fini diventa fine a se stessa non appena si ritualizza.

Con la ritualizzazione, dunque, nasce un nuovo istinto completamente slegato dalle altre pulsioni e capace di contrastarle; anche la pulsione aggressiva può venire controllata in questo modo. Così il rito riesce nell'impresa quasi impossibile di ostacolare quegli effetti dell'aggressività intraspecifica che sono dannosi alla vita comunitaria, senza per questo impedire quelle sue funzioni indispensabili alla conservazione della specie. La pulsione, infatti, in generale utile, viene lasciata invariata; per il caso specifico però nel quale si potesse dimostrare nociva, vengono messi in moto dei meccanismi inibitori assolutamente specifici, creati ad hoc.

Lorenz afferma chiaramente che i comportamenti che hanno origine in questa maniera sono, almeno esteriormente, "analoghi alla morale" (22). Se ne possono osservare esempi eloquenti nei combattimenti ritualizzati di molti vertebrati, a partire dai pesci ossei. Lo sviluppo dei combattimenti ritualizzati, nel corso della filogenesi, a partire dalla primitiva lotta cruenta, può essere articolato, seguendo la ricostruzione che ne dà Lorenz, nell'azione indipendente di tre processi. Il primo passo dal combattimento cruento a quello ritualizzato consiste nell'allungamento degli intervalli di tempo che intercorrono tra l'esecuzione dei singoli movimenti minacciosi che, presso tutte le specie in cui si verificano duelli, fanno da cornice allo scontro, e lo scoppio di violenza finale. Questa dilatazione temporale non è ancora la ritualizzazione ma rappresenta una premessa che la rende possibile.

Mano a mano che si allunga la durata delle singole coordinazioni motorie di minaccia queste subiscono un processo di deformazione che conduce a mimiche esagerazioni, a ripetizioni ritmiche e a formazioni di strutture e colori che accentuano visivamente il movimento. L'atto del minacciare tende ad esaurire in sé lo scontro ritardando il passaggio al combattimento vero e proprio, in modo da evitarlo quando sia manifesta la disparità di forze tra i due contendenti. Si potrebbe forse dire che le sequenze motorie implicate negli atti di minaccia nella loro espansione progressiva consumano l'energia accumulata in un'attività simbolica, prima che sfoci nell'aggressione.

Il terzo processo che contribuisce alla trasformazione del combattimento cruento nel combattimento ritualizzato è di natura completamente diversa. Negli animali superiori assistiamo alla comparsa di peculiari meccanismi fisiologici che inibiscono i movimenti d'attacco. Sono esempi di questo genere di adattamenti i segnali infantili che bloccano l'aggressione degli adulti nei confronti dei piccoli e che compaiono, nella storia evolutiva, in relazione all'allungamento del periodo che i nuovi nati trascorrono presso i genitori. Un fenomeno analogo si riscontra, presso numerose specie, nella fortissima inibizione da parte del maschio ad attaccare la femmina. Ebbene, l'azione dei meccanismi inibitori, la cui efficacia è proporzionale alla pericolosità dell'attacco dell'animale, può essere attivata per mezzo di specifici gesti ritualizzati che prendono il nome di comportamenti di pacificazione o di sottomissione (23). Questi cerimoniali vengono adottati dall'individuo che vuole sottrarsi al combattimento o vuol porre termine ad esso e nella quasi totalità dei casi hanno come effetto l'immediato arresto dell'attacco.

Taluni atti di sottomissione derivano, 'per negazione', dai comportamenti di minaccia, consistendo precisamente nel nascondere quei caratteri fisici - dentatura, artigli, colorazione vivace - che innescano il combattimento; il gesto del lupo che distoglie le fauci dall'avversario, esibendo il collo inerme ne è certo l'esempio più noto. In altri casi gli atteggiamenti di sottomissione derivano dai moduli infantili oppure dal comportamento della femmina durante l'accoppiamento. E' importante notare sin d'ora che anche nell'uomo è possibile rintracciare la presenza di atteggiamenti di pacificazione, ormai privati della loro funzionalità originaria: il sorriso ed il riso altro non sono che ritualizzazioni del comportamento di minaccia che consiste nel digrignare i denti e che, nel corso dell'evoluzione, perduta la primitiva carica di aggressività, hanno acquisito una valenza pacificatrice.

Abbiamo visto finora quale utilità pratica abbia l'aggressività intraspecifica, quale sia il suo ruolo nel distribuire gli individui sul territorio, nel selezionare i maschi provvisti del patrimonio genetico migliore ai fini riproduttivi e nell'organizzazione delle comunità degli animali sociali. Abbiamo visto poi quali meccanismi si siano sviluppati attraverso la ritualizzazione per limitare la pericolosità della pulsione aggressiva. Adesso si tratterà di comprendere come, secondo Lorenz, le cerimonie di pacificazione svolgano un compito ulteriore, ancora più importante, che permette l'instaurarsi di vincoli personali all'interno delle società animali.

Nelle comunità più semplici, nei banchi formati da taluni pesci per esempio, l'aggressività intraspecifica è totalmente assente e questa carenza va di pari passo con la più completa mancanza di strutture interne e di legami autonomi tra i vari individui (24). La nascita di un ordine gerarchico, la comparsa di fattori auto-organizzativi che trasformano la 'schiera anonima' in un 'gruppo', diviene possibile invece, come ho già accennato, solo in seguito all''invenzione' dell'aggressività intraspecifica ed il meccanismo che stabilisce un legame duraturo e 'personale', legame che chiaramente non può essere innato ma deve venire appreso, fra due o più individui, consiste nella modificazione di un modulo comportamentale di attacco.

Questo fenomeno, riscontrabile in specie fra loro assai diverse, che è stato osservato da Lorenz particolarmente presso le oche selvatiche, comporta una ridirezione della pulsione aggressiva: la sequenza motoria primitiva di aggressione viene distolta dall'oggetto che ha innescato lo stimolo per essere rivolta ad un bersaglio sostitutivo e contemporaneamente si ritualizza, inducendo nella controparte una 'risposta'. Il risultato che in questo modo viene conseguito è estremamente importante: ciò che si ottiene è di legare strettamente due individui in un vincolo veramente personale, poiché l'identità del partner ai fini dell'esecuzione della cerimonia di pacificazione non è fungibile, e, nello stesso tempo, di dislocare l'aggressività verso l'esterno, verso altri conspecifici che non condividono l'appartenenza al gruppo (25). La comunità che così si viene a creare può variare considerevolmente nelle sue dimensioni: nelle oche ad esempio è limitata alla coppia riproduttiva, il vincolo instaurato dalla cerimonia di pacificazione, che Lorenz chiama giubilo trionfale, lega soltanto il maschio e la femmina durante il periodo della deposizione delle uova, ma nei mammiferi e particolarmente nei primati il numero di esemplari che sono stretti da rapporti di mutua dipendenza, conducendo un'esistenza propriamente sociale può crescere notevolmente.

Dunque, Lorenz ha così mostrato come il sorgere di ogni legame individuale ed esclusivo fra conspecifici sia da porsi in relazione con l'istinto aggressivo e come nelle cerimonie di pacificazione in cui si stringe e si consolida quel legame sia contenuta almeno allo stato latente una certa misura di aggressività. Ogni vincolo personale, in altre parole, si origina, nel corso della filogenesi, a partire dall'aggressività intraspecifica: "non c'è amore senza aggressività".

Gli ultimi tre capitoli di Das sogenannte Böse sono i più controversi dell'opera, quelli che maggiormente hanno suscitato critiche e polemiche. Lorenz, infatti, tenta di estendere all'uomo i risultati della sua ricerca, considerando il funzionamento dei meccanismi inibitori nella specie umana, il perché questi frequentemente falliscono, i pericoli del progresso e gli antidoti opponibili al dilagare della violenza e alla minaccia della guerra. Quest'ultima parte, è bene precisarlo subito, viene presentata dallo stesso autore come una riflessione non supportata dallo stesso carattere di scientificità dei capitoli precedenti: l'estrapolazione di concetti elaborati in relazione al mondo animale e la lorotrasposizione all'uomo, infatti, deve essere necessariamente accompagnata da una accurata considerazione di quei fattori che segnano la distanza, lo 'iato', come dice Lorenz, tra la nostra specie e gli altri esseri viventi (26).

Il pensiero concettuale ed il linguaggio hanno cambiato completamente l'evoluzione umana, sviluppando un sistema capace di acquisire informazione e ritrasmetterla in modo enormemente più rapido dell'adattamento del codice genetico. Ciò che differenzia radicalmente la cultura umana dalle semplici tradizioni esistenti anche presso gli animali è la possibilità di trasferire ad altri un contenuto appreso anche in assenza dell'oggetto al quale esso si riferisce; in tale maniera il nostro mondo culturale possiede una rapidità di diffusione che, attraverso il progresso tecnologico, si è incrementata sino a regolarsi sulla velocità limite dell'universo fisico, la velocità della luce. All'evoluzione darwiniana, basata sull'unità di tempo della singola generazione, con la comparsa dell'uomo si affianca l'evoluzione culturale, incomparabilmente più rapida, generando un divario sempre più ampio fra le condizioni ambientali in cui la nostra costituzione biologica si è modellata e le esigenze che ci impone oggi la convivenza nelle moderne società post-industriali. La selezione naturale non riesce a tenersi al passo con le continue ristrutturazioni del sistema culturale e questa situazione comporta una crescente inadeguatezza della programmazione istintuale umana, calata in un contesto ambientale completamente diverso da quello che ne aveva determinato la configurazione che ancora oggi conserva (27). In particolare la pulsione aggressiva, innata in ciascuno di noi, può divenire estremamente pericolosa quando vengano elusi i meccanismi naturali preposti al suo controllo ed insieme scompaiano le condizioni in risposta alle quali era comparsa.

Gli ominidi dai quali l'uomo discende direttamente erano provvisti, al pari delle attuali scimmie antropomorfe, di una forte carica di aggressività intraspecifica, estremamente funzionale in rapporto all'ordinamento gerarchico della comunità, e contemporaneamente di freni inibitori assai meno sicuri di quelli operanti presso i carnivori più specializzati. Infatti, come si è visto, l'efficacia di quei meccanismi è proporzionale alla capacità di un individuo di uccidere rapidamente animali più o meno della stessa grandezza, capacità di cui i nostri antenati preumani non erano naturalmente dotati: la vittima potenziale, di fronte all'attacco di un altro individuo, aveva sempre la possibilità di mettere in atto cerimoniali di pacificazione prima di venire seriamente ferita. L'invenzione delle armi artificiali, moltiplicando la pericolosità di ogni atto di aggressione, introdusse così un improvviso fattore di squilibrio tra le capacità di uccidere e le inibizioni sociali (28).

L'umanità nascente, continua Lorenz, sarebbe andata in contro all'autodistruzione se, a compensare la diffusione delle armi, non fosse sorta la responsabilità morale. Anche questa facoltà affonda le sue radici nel patrimonio istintuale dell'uomo e precisamente nei fortissimi istinti sociali che, nei primati, legano i membri della stessa tribù. Più precisamente, Lorenz ipotizza che la comparsa della responsabilità morale sia da porre in relazione con una facoltà speciale, assolutamente innata, che rende possibile la percezione dei valori come la vita, l'amore, l'amicizia, la bellezza e ricollega a essi un'esperienza interiore di tipo emozionale (29). La sensibilità ai valori, dunque, evolutasi in una morale responsabile, ripristinò l'equilibrio perduto fra capacità e inibizione ad uccidere. A questo apparato di contenimento dell'aggressività di origine filogenetica si affiancò gradatamente il sistema di norme sociali elaborato per via culturale, consistente di regole di condotta sviluppatesi nell'ambito di ciascuna comunità e trasmesse di generazione in generazione.

La genesi di questo apparato normativo è da porre in relazione con il fenomeno della ritualizzazione culturale, un processo che rappresenta la controparte, a livello della comunicazione propriamente simbolica, della formazione filogenetica di segnali di cui ho già avuto modo di parlare. In maniera non dissimile dalla ritualizzazione filogenetica, il rito culturale consiste nell'acquisizione da parte di un certo modulo comportamentale di una funzione di comunicazione totalmente nuova che gradatamente soppianta lo scopo primitivo. L'aspetto essenziale, comune tanto alla ritualizzazione filogenetica che a quella culturale, è dato dalla comprensione dello schema motorio messo in atto e dalla conseguente capacità di prevedere il comportamento successivo, ma, mentre nel primo caso la 'comprensione' si fonda sulle prestazioni acquisite per via ereditaria da colui che riceve il segnale, nella ritualizzazione culturale tanto il processo della trasmissione quanto quello della ricezione di simboli si fondano sull'apprendimento e sulla facoltà di tramandare culturalmente i caratteri acquisiti.

Il fenomeno della ritualizzazione culturale ha coinvolto, sin dagli albori della storia dell'uomo, un numero vastissimo di moduli comportamentali tra quelli posti in essere in presenza di altre persone, proibendo tutta una serie di comportamenti istintivi (le buone maniere sono un tipico prodotto della ritualizzazione); si giunge, per questa via, ad imporre un controllo ferreo e pervasivo al soddisfacimento delle proprie pulsioni, che vengono disciplinate e rese socialmente accettabili. Non diversamente dalla ritualizzazione filogenetica, anche la ritualizzazione culturale conduce così al temperamento dell'aggressività, rafforzando l'efficacia dei meccanismi inibitori istintivi e codificando nuove cerimonie di pacificazione e regole di combattimento non cruento, e insieme contribuisce al consolidamento dei legami interni al gruppo, ne accresce la coesione, dirottando all'esterno, in direzione delle altre comunità indipendenti, la carica aggressiva spontanea. Questo risultato è possibile perché le usanze tipiche di ciascun gruppo, grazie alla ripetizione costante nel tempo, raggiungono una particolare autonomia, creando nuove motivazioni al comportamento, indipendenti dalle funzioni originarie di comunicazione, che l'individuo ricerca per se stesse, sino ad attingere ad una dimensione sacrale fondata sulla persuasione che la rottura delle regole tradizionali e dell'ordine che ad esse si collega comporti accadimenti funesti (30). La ritualizzazione culturale, in sostanza, istituisce una polarizzazione interno-esterno, contribuendo a definire uno spazio - quello della comunità - in cui la pulsione aggressiva deve essere controllata e ri-direzionata, in opposizione all'altro spazio, ben più vasto, esterno al gruppo, nel quale l'aggressività recupera la sua funzionalità.

Questo profilo assume, ai fini della presente ricerca, un rilievo particolare: norme e riti sociali culturalmente evoluti diventano, col passare delle generazioni, caratteristici del nucleo sociale in seno al quale hanno avuto origine quanto le qualità ereditarie, evolutesi con la filogenesi, sono caratteristiche di sottospecie, specie, generi e unità tassonomiche superiori. La loro divergenza nello sviluppo storico erige barriere fra unità culturali nello stesso modo in cui l'evoluzione divergente le erige fra le specie; questo processo per tale motivo è stato chiamato dallo psicanalista Erik Erikson pseudo-speciazione (31). La pseudo-speciazione è alla base della differenziazione delle culture umane ma, allo stesso tempo, può innescare pericolose conflittualità tra culture confinanti; può condurre infatti, ed è questo il punto cruciale, a un indebolimento dei meccanismi innati di inibizione dell'aggressività, nella misura in cui impedisce l'operazione di riconoscimento degli appartenenti a pseudo-specie diverse come esseri umani, paralizzando la comunicazione filogeneticamente ritualizzata che dovrebbe accomunare tutti gli uomini in quanto membri della stessa specie biologica (32).

Quando l'umanità primitiva, organizzata in orde similmente ai primati superiori, ebbe raggiunto una certa sicurezza in virtù della scoperta del fuoco e della fabbricazione di armi e di utensili, ai fattori selettivi di natura ambientale si sostituì, secondo Lorenz, l'incidenza prevalente della concorrenza intraspecifica. Questo stato di cose indirizzò il successivo cammino evolutivo della razza umana verso un incremento delle pulsioni aggressive a cui corrispose un ulteriore rapido accentuarsi della conflittualità fra gruppi limitrofi e la formazione parallela di una cultura della guerra (33). In questo processo di rafforzamento dei comportamenti bellicosi, infatti, l'evoluzione culturale dovette operare parallelamente, alla selezione genetica, sia in modo diretto, attraverso l'esaltazione rituale dell'aggressività e la perpetuazione delle 'virtù guerresche' tradizionali, sia indirettamente in conseguenza del carattere fortemente esclusivo, di cui si è già detto, dei moduli comportamentali sviluppati all'interno di ciascuna comunità.

Così la carica di aggressività nell'uomo si è accresciuta in misura assai maggiore rispetto ai primati, raggiungendo, in taluni casi livelli insostenibili. Lorenz, inoltre, ipotizza che presso alcune comunità, esposte in particolar modo alla minaccia di attacchi da parte delle popolazioni confinanti, l'aggressività si sia incrementata ancor più rapidamente e intensamente, per effetto dell'estrema pressione selettiva. A sostegno di questa controversa conclusione Lorenz riporta gli studi condotti dallo psicanalista Sidney Margolin sugli Ute, una tribù indiana i cui appartenenti sono afflitti in gran numero da nevrosi riconducibili all'ingorgo delle pulsioni aggressive e subiscono con frequenza condanne per crimini violenti, anche se va detto che i dati forniti da Margolin sono stati interpretati diversamente da altri psicanalisti, senza ricorrere a spiegazioni che, in qualche modo, siano strumentalizzabili in chiave razzista (34).

Abbiamo visto come, per Lorenz, l'aggressività umana sia riconducibile alla duplice azione della filogenesi e dell'evoluzione culturale ed al prevalere della concorrenza intraspecifica sulla selezione operata dall'ambiente. Il processo che ha condotto al rafforzamento delle pulsioni aggressive si è svolto entro una cornice ambientale completamente diversa da quella delle società contemporanee. L'aggressività nelle età preistoriche dell'evoluzione umana aveva un preciso significato adattativo, collegato alla conflittualità fra tribù, significato che è del tutto venuto meno allorché l'uomo, divenuto sedentario in seguito all'inizio dell'agricoltura e istituzionalizzata la proprietà privata, ha cominciato a costituire comunità più vaste.

Con l'aumento della popolazione le primitive corti contadine sono divenute regni sempre più estesi nei quali la conoscenza personale, così importante per disinnescare gli istinti aggressivi, non è più possibile al di fuori di una cerchia ristretta. Nelle attuali società post-industriali il fenomeno della spersonalizzazione dei rapporti sociali è portato all'estremo, anche in conseguenza delle enormi possibilità di spostarsi rapidamente che competono all'uomo moderno. In questo contesto radicalmente trasformato l'aggressività è divenuta un pericoloso retaggio dell'evoluzione che deve essere tenuto costantemente sotto controllo dalla morale responsabile.

Dissoltasi l'opposizione membri della tribù - estranei, che definiva la classe dei possibili nemici contro i quali rivolgere l'istinto aggressivo, l'uomo moderno deve fare leva sul meccanismo di compensazione della morale, su quell'unità sistemica di pulsioni istintive e moduli comportamentali filogeneticamente e culturalmente ritualizzati, per neutralizzare il rischio di comportamenti antisociali (35). Ad aggravare la situazione il progresso nella costruzione delle armi consente oggi di uccidere altri esseri umani impedendo ogni contatto visivo, in maniera tale da precludere l'attivazione dei meccanismi inibitori e degli atteggiamenti di pacificazione. L'uomo che preme il pulsante di innesco di un'arma a distanza, un missile o una bomba, è totalmente schermato dal percepire emozionalmente le conseguenze del suo atto; per questo motivo riesce a condannare a morte migliaia di persone senza che i meccanismi inibitori arrestino la sua mano (36).

Come ho già detto, le norme sociali, evolutesi per ritualizzazione culturale rivestono un ruolo ambivalente in rapporto alle dinamiche dell'aggressività: da una parte esercitano un'importante funzione di controllo degli istinti aggressivi, dall'altra, in virtù del loro carattere esclusivo, possono portare a conflitti fra culture diverse. In ogni caso, afferma Lorenz citando Arnold Gehlen, l'uomo è per natura un essere culturale: l'intero sistema delle sue attività e reazioni innate è costruito filogeneticamente in modo da richiedere di essere completato dalla tradizione culturale (37). Anche i moduli di comportamento sociale innati si trovano in un tale rapporto di interazione con la tradizione che la costituzione di comunità più vaste dei nuclei familiari primitivi non sarebbe possibile senza l'elemento coesivo rappresentato dalla cultura comune, dalla sua preservazione e difesa. Ebbene, secondo Lorenz, nel nostro secolo, a causa dei rapidissimi cambiamenti tecnologici e ambientali, si è verificata una pericolosa rottura della continuità tradizionale. L'industrializzazione diffusa ed inarrestabile ha creato un'insormontabile distanza tra le generazioni, ostacolando il processo di fissazione dei valori e delle norme sociali nei più giovani. Alla carente interiorizzazione dei contenuti trasmessi per via culturale si aggiunge l'omologazione crescente, su scala planetaria, delle nuove usanze e tradizioni. Nella progressiva occidentalizzazione del mondo, infatti, è contenuto un pericolo incombente dal momento che sopprimendo le differenze locali, essa rischia di impedire l'insorgere di processi creativi (38).

La vena pessimistica e predicatoria di Lorenz, accentuatasi nell'ultima parte della sua vita e culminata nel saggio Der Abbau des Menschlichen (39), si affaccia già nelle pagine conclusive di Das sogenannte Böse, in cui l'etologo austriaco descrive il fenomeno dell'indottrinamento. Nella fase conclusiva dell'adolescenza - sostiene Lorenz - i giovani attraversano un periodo sensibile in cui avviene la fissazione dei valori culturali che, da quel momento in poi, saranno sentiti come propri. Anche in questo caso alla base del fenomeno si situa un meccanismo filogenetico, riscontrabile già nei primati superiori, che in origine doveva presiedere allo scatenamento dell'aggressività collettiva in funzione di difesa del gruppo. Lorenz chiama questo meccanismo, che corrisponde alla sensazione soggettiva del sentirsi percorsi da un 'sacro brivido', entusiasmo militante (40).

L'entusiasmo militante ha come controparte osservabile l'adozione di una postura di minaccia in cui tutto il corpo viene teso e irrigidito, mentre il volto si atteggia ad un'espressione 'eroica'; una tale postura nei nostri antenati preumani era accompagnata dall'erezione del pelo (da ciò il brivido lungo la schiena), che doveva far apparire ancora più impressionante la figura dell'ominide (41). L'entusiasmo collettivo di tipo aggressivo si è probabilmente evoluto a partire da una reazione di difesa dell'unità sociale, e per questo motivo comporta un azzeramento quasi completo dei freni inibitori e delle funzioni regolatrici della morale responsabile; in ciò risiede la sua pericolosità. Nell'uomo, infatti, l'attivazione dell'entusiasmo militante può essere collegata, scomparsa l'esigenza di tutelare l'integrità del gruppo, alla difesa di quei valori e rituali culturalmente sviluppati che sono stati fissati nel periodo post-adolescenziale. L'indottrinamento consiste esattamente in questo processo di fissazione. Servendosi del meccanismo dell'entusiasmo militante - continua Lorenz - un abile demagogo, per mezzo di una propaganda mirata, può far leva su un'adesione prerazionale a certi contenuti tradizionali per accreditare una soluzione violenta contro coloro che non condividono quei contenuti. In questo modo, in presenza di una situazione di inaridimento della continuità tradizionale, possono instaurarsi le condizioni propizie alla dittatura ideologica; l'ideologia, infatti, che consiste, secondo Lorenz, in una consapevole deformazione e polarizzazione della tradizione, per il suo carattere semplificato e tendenzialmente manicheo si presta naturalmente a suscitare una reazione emotiva di difesa.

Come si è visto, la descrizione lorenziana delle radici biologiche dell'aggressività dà corpo ad una visione senz'altro cupa della 'situazione attuale dell'umanità', a fronte della quale la 'dichiarazione di speranza' con cui si conclude il volume appare quasi una clausola di stile, assolta senza troppa convinzione. E' certo che le ultime pagine di Das sogenannte Böse - in cui Lorenz introduce alcuni "semplici precetti che possano servire da misure preventive contro i pericoli esposti" (42) - sono in più punti inficiate da un tono paternalistico e predicatorio francamente fastidioso, e tuttavia anche fra queste righe sono racchiuse osservazioni importanti.

In estrema sintesi, si possono individuare tre 'precetti': in primo luogo viene sottolineata l'importanza della ridirezione dell'aggressività che si opera per mezzo della ritualizzazione e particolarmente di quella forma specificatamente umana di ritualizzazione culturale che è lo sport (43). Lo sport può esser definito, secondo Lorenz, "come una forma di combattimento non ostile governata dalle regole più severe che si siano sviluppate culturalmente" (44). Lo sport non consente soltanto uno sfogo catartico della pulsione aggressiva, ma fornisce altresì una valvola di sicurezza all'entusiasmo militante collettivo (45). Inoltre, può favorire, e così veniamo al secondo punto, la conoscenza personale fra uomini di diverse nazioni ed etnie; una tale conoscenza, infatti, rappresenta un forte ostacolo all'aggressione in quanto azzera la distanza creata dalla pseudo-speciazione e coltivata dalle ideologie, ricostruendo la consapevolezza di una comune appartenenza biologica, fondata sull'operatività di comuni meccanismi filogenetici.

Infine, l'ultimo precetto riguarda la possibilità di "dare un indirizzo all'entusiasmo militante, in altre parole aiutare le nuove generazioni a trovare nel mondo moderno cause genuine che valga davvero la pena di servire" (46). Per Lorenz ci sono almeno "tre grandi imprese collettive del cui valore ultimo e assoluto nessun essere umano può dubitare" (47): l'arte, la scienza e la medicina. L'affermazione di queste tre discipline, inoltre, può trovare un potente alleato, nella facoltà, tipicamente umana, dell'umorismo: l'ironia, il riso - ancora una ritualizzazione di un comportamento aggressivo - hanno, infatti, un ruolo essenziale in quanto consentono di smascherare i falsi ideali (48).

In conclusione, cercherò di presentare cinque punti che compendiano i dati che ritengo essenziali per l'indagine che mi sono proposto.

  1. L'aggressività umana ha un'origine endogena. La sollecitazione ambientale interviene soltanto a scatenare l'impulso preesistente.
  2. L'aggressività costituisce un prodotto della filogenesi. Essa è fondamentalmente utile poiché rende possibile la coesione e l'organizzazione gerarchica del gruppo nonché l'instaurarsi di vincoli personali tra gli individui.
  3. Esistono meccanismi filogenetici di controllo dell'aggressività.
  4. I pericoli dell'aggressività sono collegati alla discrepanza tra le velocità dell'evoluzione biologica e di quella culturale. Le trasformazioni nell'ambiente determinate dal progresso, infatti, hanno neutralizzato quei meccanismi di controllo innati facendo ricadere il peso del contenimento degli impulsi antisociali sull'unità sistemica della morale responsabile e delle norme sociali di origine culturale.
  5. L'effetto della ritualizzazione culturale è ambivalente. Da una parte disciplina i comportamenti aggressivi verso i membri della comunità, dall'altra però incrementa la conflittualità contro coloro che appartengono ad una pseudo-specie culturale diversa e questo tipo di conflittualità non è ricomponibile per mezzo dei meccanismi biologici di pacificazione.

3. L'etologia della guerra di Irenäus Eibl-Eibesfeldt

Irenäus Eibl-Eibesfeldt, allievo di Konrad Lorenz e continuatore della sua opera, ha edificato sulle basi teoriche tracciate dal maestro una completa trattazione dell'etologia, sviluppando in particolare l'analisi del comportamento umano e fondando, nell'ambito della Max-Planck-Gesellschaft, il primo istituto di ricerca per l'etologia umana. A partire dagli anni sessanta inoltre Eibl-Eibesfeldt ha affiancato agli impegni accademici una intensissima attività di ricerca sul campo, attraverso una lunga serie di spedizioni scientifiche condotte in Asia, Africa e Sud America per documentare usanze e rituali delle culture cosiddette 'tribali'. Sono state in questo modo accumulate informazioni di eccezionale valore, raccolte con grande scrupolo metodologico. Eibl-Eibesfeldt e i suoi collaboratori si servono infatti, per filmare i comportamenti che stanno studiando senza turbare i soggetti ripresi, di un originale espediente: una telecamera appositamente modificata, sulla quale è stato montato un obbiettivo a specchio, così da nascondere la vera direzione in cui avviene la ripresa.

Eibl-Eibesfeldt nel suo trattato sui fondamenti dell'etologia e nel suo manuale di etologia umana (49) ricollega l'evoluzione della socialità alla cura della prole, con ciò staccandosi nettamente da Lorenz, il quale, come abbiamo visto, riteneva che "non c'è amore senza aggressività " (50). Per Eibl-Eibesfeldt l'evoluzione dei segnali tra genitori e figli, degli appelli infantili, dei moduli comportamentali di assistenza, ha reso disponibili quegli schemi motori che permettono l'esistenza di un rapporto di amicizia-tenerezza anche fra adulti. Egli ipotizza che, attraverso un processo di ritualizzazione filogenetica, alcuni degli schemi motori sviluppati nell'ambito delle cure parentali si siano resi disponibili per nuove funzioni espressive, così da inibire la carica aggressiva spontanea che viene sollecitata dall'incontro con conspecifici sconosciuti. In questo contesto esplicativo, l'origine del legame individualizzato, che Lorenz faceva derivare dalla ridirezione dell'attacco, è riconducibile alla relazione madre-figlio ed è conseguenza dell'ampliarsi dello spazio di tempo in cui la prole è strettamente dipendente dalla madre (51).

L'adozione di comportamenti derivati dalle cure parentali ricorre in primo luogo nell'ambito delle interazioni col partner, producendo l'effetto di consolidare il vincolo tra i due soggetti: un esempio di questo genere di comportamenti è costituito, nell'uomo, dal bacio, che trae origine dalla ritualizzazione dell'atto di nutrire l'infante con una trasfusione di cibo da bocca a bocca. D'altra parte, la presenza di ritualizzazioni del comportamento infantile è attestata anche nella sfera degli atti di sottomissione, come già aveva rilevato Lorenz. Invece, la funzione legante dell'aggressività, su cui Lorenz si era soffermato, compare solo in uno stadio evolutivo successivo, derivando dalla pratica della difesa comune della famiglia. In definitiva, per Eibl-Eibesfeldt, l'ethos di gruppo non è che un'estensione dell'ethos familiare: da quest'ultimo il primo dipende storicamente e logicamente (52).

Queste premesse concettuali influenzano decisamente la risposta che Eibl-Eibesfeldt fornisce al problema che qui ci interessa, la spiegazione dell'aggressività umana. La visione generale che Eibl-Eibesfeldt ha della natura umana è, infatti, assai più incline di quanto non fosse quella del suo maestro, ad un moderato ottimismo e a una considerazione positiva delle capacità dell'uomo di interagire pacificamente. Questa posizione è stata espressa in quello che è probabilmente il testo più importante e discusso nel dibattito etologico sull'aggressività dopo Das sogenannte Böse, il saggio The Biology of Peace and War, pubblicato nel 1979 (53). In questa opera le intuizioni di Lorenz vengono vagliate criticamente e poste a confronto con i risultati della ricerca sul campo intorno alle condizioni di vita delle popolazioni 'primitive'.

In primo luogo, Eibl-Eibesfeldt si preoccupa di fornire una definizione rigorosa di aggressività: sono aggressivi tutti i moduli di comportamento che determinano la distribuzione spaziale dei membri della stessa specie o che portano al dominio di un membro sull'altro (dunque, non solo i moduli di attacco veri e propri ma anche quei meccanismi basati sull'effetto improvviso di forti stimolazioni sensoriali come il canto territoriale degli uccelli) (54). Inoltre, viene per la prima volta tematizzata con chiarezza la distinzione tra aggressività interna al gruppo e aggressività tra gruppi separati. Entrambe le forme di aggressività hanno radici biologiche ma nella seconda è la pseudo-speciazione culturale ad assumere la funzione decisiva (55).

Per Eibl-Eibesfeldt l'incontro con i conspecifici innesca naturalmente una reazione aggressiva che viene tuttavia inibita dalla conoscenza personale. In questo modo l'aggressività in seno al gruppo può essere controllata e neutralizzata attraverso i meccanismi elaborati dalla ritualizzazione filogenetica e culturale, essenzialmente per mezzo dei comportamenti di sottomissione e di pacificazione, nonché per l'intervento di individui gerarchicamente sovraordinati (56). Questo genere di aggressività possiede, come si è visto, molteplici funzioni, collegate alla difesa del proprio ambito spaziale e dei propri beni, all'ordinamento interno del gruppo e alla reazione contro gli individui devianti nell'aspetto o nel comportamento (57).

Nella guerra tra gruppi l'aggressività intraspecifica innata gioca certo un ruolo essenziale ma a essa si sovrappone l'incidenza di fattori di natura culturale - come l'adozione di certi modelli educativi - che operano creando una distanza tra gli appartenenti ai vari gruppi. La propaganda bellica, infatti, fa leva sull'innata reazione di difesa del gruppo familiare, attraverso il meccanismo, cui ho già fatto cenno, dell'entusiasmo militante; questa innata risposta difensiva, preordinata in origine alla difesa della famiglia, può estendersi, come abbiamo visto, in seguito ad un processo di indottrinamento, alla difesa di una comunità più vasta e dei suoi simboli e valori. In questo modo la pulsione aggressiva verso gli estranei può divenire assolutamente distruttiva, al pari della lotta interspecifica. La guerra, sostiene Eibl-Eibesfeldt, ha origini antichissime, praticamente coincidenti con l'inizio della storia umana (58) mentre non posseggono alcun fondamento le ricorrenti affermazioni secondo le quali l'aggressività sarebbe comparsa nell'uomo posteriormente alla nascita dell'agricoltura e all'abbandono del nomadismo a favore di un insediamento stabile sul territorio. Le più antiche raffigurazioni di scene di battaglia, infatti, si trovano già nelle pitture rupestri del Paleolitico, un'epoca in cui l'uomo viveva ancora di caccia e di raccolta. Inoltre, presso tutti i popoli 'primitivi', anche presso quelli che non praticano l'agricoltura come gli eschimesi, sono documentabili manifestazioni di aggressività e indizi di ritualizzazione delle pulsioni antisociali (59).

Tutto ciò induce a ritenere che la conflittualità fra gruppi debba adempiere, almeno in origine, ad una qualche funzione. Eibl-Eibesfeldt sostiene che la guerra compaia come prodotto dell'evoluzione culturale in risposta all'esigenza di operare un'allocazione dei beni e dei territori tra le comunità limitrofe; la nascita della guerra sarebbe, in questo modo, connessa col prevalere della selezione di gruppo sulla selezione individuale in seguito all'evoluzione culturale e all'aumento dell'integrazione sociale nei nostri antenati pre-umani (60). La guerra è l'espressione estrema della concorrenza tra comunità culturali distinte e conduce alla selezione delle culture più forti, in ciò consiste il suo profilo adattativo; parafrasando Von Clausewitz si può forse dire che la guerra non è che la continuazione - sul piano dell'evoluzione culturale - dell'evoluzione biologica con altri mezzi.

Dalla comprensione delle cause 'naturali' della guerra, dal rifiuto a considerarla come una degenerazione patologica dell'umanità, non segue però che essa debba essere accettata e ritenuta inevitabile; nell'uomo, del resto, è innato, insieme all'inibizione a uccidere i conspecifici, anche il desiderio della pace, tant'è vero che le norme culturali che ingiungono di uccidere il nemico fanno leva sulla sua disumanizzazione per vincere le resistenze della coscienza morale. Inoltre, è possibile documentare nella storia dell'umanità e nel patrimonio culturale delle popolazioni tribali un gran numero di regole elaborate per ritualizzazione concernenti le forme in cui deve avvenire la dichiarazione di guerra e alla conduzione delle operazioni belliche, regole che, nella tradizione occidentale, sono venute a costituire un vero e proprio jus speciale. Tutto ciò induce a ritenere che anche nei rapporti tra gruppi umani sia in atto un'evoluzione verso forme di conflitto incruento.

Un indice importante di questo processo evolutivo è dato dal consolidarsi di rituali complessi per la stipulazione della pace, in parte basati su sequenze comportamentali innate (riti consistenti in uno scambio di doni o nella consumazione di un pasto in comune), in parte su usanze culturali (come nel caso dell'intrecciarsi di vincoli matrimoniali tra le comunità che erano in guerra o dell'interposizione di stranieri super partes in qualità di mediatori). Gli Tsembaga della Nuova Guinea, per esempio, solennizzano il consolidamento della pace celebrando un gran numero di rituali, organizzati in una trama complessa e distribuiti in un arco di tempo di alcuni anni; in questo periodo si svolgono danze, avvengono scambi di maiali appositamente allevati e, da ultimo, si concludono matrimoni tra le figlie dei vincitori ed i giovani appartenenti alla tribù dei vinti (61).

Un altro genere di riti assai significativo è rappresentato dalle cerimonie dirette alla conservazione della pace, come gli scambi di doni che vengono ripetuti, accompagnati da grandi festeggiamenti, a scadenze regolari dagli indigeni del monte Hagen, sempre in Nuova Guinea (rituali del moka) (62). Presso tutte le tradizioni, inoltre, la guerra è sentita come un male: la situazione di conflitto tra norme culturali che ingiungono lo sterminio del nemico e gli adattamenti filogenetici che predispongono l'uomo alla socialità è vissuta con disagio. Di questa tensione irrisolta tra imperativi biologici e culturali è un sintomo evidente l'esistenza di numerosi riti descritti da Eibl-Eibesfeldt che presso vari popoli - i bellicosi Yanomami dell'America meridionale, ad esempio - vengono celebrati a conclusione delle azioni di guerra; in queste cerimonie avviene una sorta di purificazione collettiva dei combattenti che hanno versato il sangue attraverso un loro temporaneo allontanamento dalla comunità, accompagnata talvolta da pubbliche deprecazioni della guerra e professioni di pace per il futuro (63).

Per Eibl-Eibesfeldt, dunque, il patrimonio pulsionale dell'uomo, la sua struttura motivazionale, lo predispone efficacemente alla convivenza pacifica nelle moderne società di massa (64). In ciò la sua opinione si distingue da quella di Lorenz, il quale, come abbiamo visto, riteneva che l'uomo fosse "buono 'quanto basta' per una società di undici persone" (65). Nell'uomo, infatti, la paura dell'estraneo, che può scatenare reazioni aggressive, non è mai disgiunta dal desiderio, conseguente alla sua organizzazione familiare, di instaurare rapporti amichevoli: "l'uomo possiede il senso della famiglia e, attraverso un'identificazione di simboli, è in grado di considerare come sua famiglia l'intera umanità" (66). In altri termini, è possibile far leva sugli adattamenti sviluppati in funzione della vita in piccoli gruppi come la disposizione all'ubbidienza verso i superiori gerarchici, la lealtà e la capacità di identificarsi con i membri del gruppo per rendere possibile la coesistenza anche nelle moderne società industriali. Gioca a favore della convivenza pacifica, inoltre, l'esistenza dei meccanismi di ritualizzazione per mezzo dei quali lo scontro armato viene reso meno distruttivo e quindi più tollerabile.

Ipotizzare che sia storicamente in atto un processo evolutivo operante sul piano culturale capace di condurre ad una progressiva regolamentazione dell'attività bellica tuttavia, se da un lato istituisce una significativa simmetria tra evoluzione biologica e culturale, comporta al tempo stesso che la domanda intorno alla possibilità di conseguire nel futuro una pace durevole venga a inserirsi in una prospettiva inedita: per dare ad essa risposta è necessario formulare una predizione sulle prossime tappe della stessa evoluzione culturale. A questo proposito Eibl-Eibesfeldt ritiene che sia necessario considerare se le funzioni della guerra possano essere espletate anche in assenza di essa. Pertanto, se la funzione principale cui la guerra ha storicamente adempiuto è quella di allocare le risorse vitali, selezionando le culture più 'evolute' bisogna porre il problema se oggi questa allocazione sia operabile sulla base di una programmazione razionale e attraverso quali strumenti.

L'opzione di Eibl-Eibesfeldt è a favore di un potenziamento del diritto internazionale e delle organizzazioni sovrastatuali in direzione di un governo mondiale su base federativa (67). Un simile progetto richiederebbe naturalmente l'istituzione di "una forza di polizia internazionale dotata di un armamento moderno ma convenzionale e composta da rappresentanti di tutti i paesi, sotto la cui protezione le grandi potenze potrebbero cominciare a smantellare i loro arsenali di armi" (68); su questa base diventerebbe inoltre possibile attribuire la proprietà dei giacimenti di materie prime alle organizzazioni internazionali e "sviluppare il commercio mondiale nel senso di un sistema di distribuzione cooperativo" (69).

All'implementazione di questo progetto istituzionale dovrebbe fare da contraltare, nella sfera interna ai singoli Stati, l'incentivazione di sistemi educativi mirati alla formazione di un atteggiamento tollerante e aperto alla diversità culturale: la possibilità di conseguire questi obbiettivi dipende, secondo Eibl-Eibesfeldt, in buona parte da come i mezzi di comunicazione di massa sapranno porsi nei confronti delle minoranze e dei popoli stranieri e, in secondo luogo, dalla capacità delle tradizioni di mantenersi vitali, conservando il loro patrimonio di rituali - rituali collegati alle feste, alle forme di saluto, allo scambio di doni - fondati sull'attivazione dei moduli di comportamento innati per la formazione del vincolo di gruppo e degli appelli di acquietamento (70).

In definitiva, la prospettiva tracciata da Irenäus Eibl-Eibesfeldt finisce, per esplicita ammissione dell'autore, col coincidere con una riproposizione del federalismo kantiano su basi diverse (71); il federalismo, infatti, tanto nella struttura interna dello Stato che nell'organizzazione dei rapporti sovrastatuali, in quanto realizza una bilanciata integrazione fra appartenenze comunitarie e diritti della tradizione liberale, costituisce la migliore risposta al problema della coesistenza fra etnie diverse. In questa maniera, allo stesso tempo, viene conseguito l'importante risultato di salvaguardare il pluralismo strutturale delle società contemporanee.

Nella forma di Stato federale Eibl-Eibesfeldt sembra riconoscere un superamento del modello dello Stato nazionale affermatosi nel secolo scorso, un nuovo prodotto dell'incessante lavoro dell'evoluzione culturale che si viene a collocare ad un più alto livello di rispondenza adattativa rispetto all'ambiente. Il segno distintivo del progetto federale è dato dalla sostituzione, sul piano dei valori ideologici soggiacenti, "del nazionalismo tradizionale, con caratteristiche di arroganza e di durezza, con un patriottismo liberale che unisca il riconoscimento e la tutela del proprio Stato e della propria cultura con la stima e il rispetto di quelli altrui" (72).

Questa osservazione può suggerire un ulteriore punto di contatto fra il federalismo di Eibl-Eibesfeldt e l'originale formulazione kantiana. Il pacifismo giuridico di Kant non è separabile dalla sottostante visione teleologica del divenire storico. E' la fiducia metafisica nel progresso del genere umano che alimenta nel filosofo di Königsberg la speranza della pace perpetua. Quest'ultima, se non fosse garantita dalla segreta provvidenza che guida nascostamente il cammino della storia - come immagina Kant -, sarebbe anzi completamente gratuita. In maniera non troppo dissimile da Kant anche Eibl-Eibesfeldt (come già Lorenz) è portato a ipostatizzare le dinamiche evolutive, pur predicandone l'imprevedibilità e l'assenza di finalismo. In altri termini, l'evoluzione, sia quella biologica che la sua controparte culturale, è vista costantemente - in contrasto con il quadro teorico del darwinismo - come un processo cognitivo in cui le modificazioni apportano nuove informazioni sull'ambiente. A questo proposito, credo che si debba ammettere che questo orientamento di fondo è comprensibile solo se si considera l'idea di progresso come parte di una 'metafisica influente' nell'accezione usata da John Watkins (73). La fiducia che Eibl-Eibesfeldt ripone nella capacità della cultura umana di produrre nuove ritualizzazioni, idonee a disciplinare il patrimonio pulsionale dell'animale-uomo, va dunque valutata come adesione ad una concezione metafisica della storia e del progresso dell'umanità (74).

Come si è visto, mentre le comunità più ridotte sono legate dalla conoscenza personale, l'identificazione dei componenti di una società formata da milioni di persone nella struttura statuale è possibile solo se mediata da simboli e valori comuni: questa esigenza, fondata su quegli adattamenti filogenetici che sono alla base della spontanea costituzione e differenziazione dei gruppi, può essere soddisfatta solo entro la cornice di un organismo statuale che riconosca uno spazio autonomo alle diverse componenti etniche. In modo particolare, l'edificazione di forme di governo federali sarebbe fortemente auspicabile in vista della risoluzione dei conflitti etnici che hanno luogo nel continente africano; in rapporto a questi eventi, la scelta operata dagli Stati occidentali di appoggiare una delle etnie coinvolte risulta per lo più arbitraria, dal momento che i reciproci antagonismi comportano intolleranze e persecuzioni da ciascuna parte. Ad esempio, nel caso della Namibia, il sostegno fornito da parte della Comunità Europea alla fine degli anni ottanta al leader del gruppo etnico Ovambo, Sam Nujoma, incaricato successivamente di guidare il nascente Stato namibiano ha rappresentato probabilmente una presa di posizione indebita e immotivata entro un contesto caratterizzato da un esasperato pluralismo (75).

Un ultimo dato è necessario porre in evidenza: Eibl-Eibesfeldt sottolinea come la disponibilità dei singoli ad una solidarietà di portata mondiale richieda la precondizione di un inserimento in comunità minori da parte di ciascun individuo. Entro la disposizione concentrica delle appartenenze una identificazione simbolica con la comunità più vasta, quella che ci comprende in quanto membri della stessa specie biologica, diviene possibile solo se è già attivo il radicamento in una sfera inferiore, in cui il legame operi ad un livello personale e diretto (76).

4. Sviluppi più recenti

Nel maggio del 1986 si tenne a Siviglia, per iniziativa dell'antropologo messicano Santiago Genovés e di David Adams, della International Society for Research on Aggression, un importante convegno intorno ai temi dell'aggressività e della guerra. Alla conclusione dei lavori fu redatto un documento, la Dichiarazione di Siviglia sulla violenza, firmato da venti studiosi provenienti da dodici differenti paesi, il cui scopo dichiarato era quello di "sfidare un certo numero di presunte scoperte che sono state usate per giustificare la violenza e la guerra".

Il tenore delle affermazioni contenute nella Dichiarazione di Siviglia lascia supporre che gli estensori del documento, in massima parte psicologi, medici ed etologi, avessero di mira come obbiettivo polemico una certa versione della teoria lorenziana dell'aggressività, accusata di rappresentare una forma di pessimismo biologico che condanna inesorabilmente l'uomo alla guerra. Nella Dichiarazione si legge infatti che:

E' scientificamente scorretto sostenere che abbiamo ereditato una tendenza a fare la guerra dai nostri antenati preumani. (...)
E' scientificamente scorretto sostenere che la guerra o qualsiasi altro comportamento violento è geneticamente programmato nella natura umana. (...)
E' scientificamente scorretto sostenere che nel corso dell'evoluzione umana si è verificata una maggior selezione in favore dei comportamenti aggressivi che degli altri comportamenti. (...) La violenza non è né nella nostra eredità evolutiva né nei nostri geni. (77).

I contributi di alcuni degli studiosi che avevano preso parte al convegno di Siviglia sono stati in seguito raccolti, nel 1989, in un volume, a cura dello psicologo Jo Groebel e dell'etologo Robert A. Hinde, improntato ad una severa, quantunque talvolta aprioristica critica delle posizioni espresse da Lorenz (78). L'impressione che si ricava dalla lettura è che la natura delle censure mosse a Lorenz sia piuttosto ideologica che scientifica, provenendo per lo più da autori che dimostrano di possedere una conoscenza alquanto sommaria dei lavori dell'etologo austriaco. A Lorenz viene, ad esempio diffusamente attribuita l'affermazione secondo la quale, poiché i nostri progenitori erano esseri aggressivi, allora anche gli uomini devono comportarsi aggressivamente (79). Lorenz, tuttavia, non ha mai sostenuto che esista qualcosa come un programma genetico che obblighi irresistibilmente al comportamento aggressivo: l'aggressività è sì una pulsione endogena, ma non è assolutamente un fattore che governa in maniera invincibile il nostro modo di agire (80).

Un'obiezione più fondata è mossa da Felicity Ann Huntingford e da Seymour Feshbach, i quali si soffermano sul modo in cui Lorenz concettualizza l'aggressività, interpretandola come un principio interno che si accumula spontaneamente fino a quando non trova sbocco nell'azione. Feshbach in particolare sottolinea acutamente la contiguità tra il modello esplicativo lorenziano e la visione freudiana dell'interiorità come sede di incontenibili energie pulsionali: ciò che avvicina Lorenz a Freud è certamente il ricorso, comune ad entrambi, ad immagini che traducono i processi psichici in un linguaggio mutuato dalle scienze fisiche. Questo dato è particolarmente evidente proprio in rapporto al modello 'psico-idraulico' di spiegazione dell'aggressività - l'interpretazione dell'aggressività come una pulsione che si accumula costantemente sino a rompere gli argini - in cui si esprime con chiarezza la tendenza di Lorenz a concepire l'istinto, non diversamente da Freud, come un principio energetico incapace di modificarsi in relazione alle circostanze ambientali.

Le opinioni attuali sulla natura dell'istinto sono senza dubbio ben diverse da quelle a suo tempo sostenute da Lorenz: le versioni più aggiornate della teoria dell'istinto, infatti, insistono a buon diritto sulle possibilità di integrazione tra innato e appreso e sulla modificabilità dei patterns di comportamento acquisiti ereditariamente (81). D'altra parte, già Eibl-Eibesfeldt aveva apportato al concetto lorenziano di istinto delle correzioni importanti, contribuendo ad una definizione più sfumata e meno dogmatica, senza che peraltro venisse intaccata la sua visione complessiva dei problemi dell'aggressività e della guerra (82).

In definitiva, non mi sembra che nel dibattito etologico posteriore all'uscita di The Biology of Peace and War siano emersi contributi di tale portata da configurare una reale alternativa alla proposta teorica di Lorenz e Eibl-Eibesfeldt; è accaduto invece che il quadro concettuale delineato dall'allievo di Lorenz abbia trovato indirette conferme nei lavori di studiosi della generazione posteriore i quali, partendo dalla ricerca in un settore specifico, sono pervenuti a considerazioni di più vasto raggio. E' questo il caso, ad esempio, dell'opera di Frans de Waal, primatologo olandese che ha conseguito negli ultimi anni una notevole popolarità grazie ai suoi studi sul comportamento delle scimmie antropomorfe.

Nei suoi lavori de Waal ha approfondito particolarmente il tema delle tecniche di peacemaking attuate dalle varie specie di primati, giungendo alla conclusione che la propensione al comportamento aggressivo e la tendenza a ripristinare la pace sono tra loro intimamente legate, sino a formare una profonda unità funzionale (83). Le scimmie antropomorfe più evolute come lo scimpanzé pigmeo, o bonobo (pan paniscus) - in assoluto la specie animale che possiede la maggiore affinità con l'uomo a livello genetico (84) -, sono provviste di una notevole aggressività che si manifesta soprattutto nei combattimenti fra i maschi all'interno del gruppo. Ma una volta che la carica aggressiva si è esaurita sono ugualmente pronte alla riconciliazione, nel corso della quale vengono messi in atto rituali di pacificazione complessi e diversificati. E in questi rituali la ridirezione dei moduli di comportamento derivati dalla sfera sessuale gioca un ruolo determinante.

La conclusione di de Waal è che l'aggressività è parte integrante dei rapporti sociali: "essa nasce al loro interno e ne sovverte le dinamiche, e i suoi effetti nocivi possono essere neutralizzati mediante un contatto tranquillizzante" (85). Per comprendere le cause dei comportamenti violenti è inutile postulare un'accumulazione di energia pulsionale: basta considerare il significato sociale che questi rivestono, il modo in cui la vita della comunità viene condizionata dalle aggressioni e dalle riconciliazioni. In questo modo de Waal sembra recuperare l'intuizione di Lorenz, che collegava l'instaurarsi di vincoli individuali all'aggressività (86). Ma al tempo stesso la spiegazione complessiva dell'etologo olandese conferma anche l'ipotesi di Eibl-Eibesfeldt che la presenza di legami tra adulti sia resa possibile dalla ritualizzazione degli schemi motori evolutisi nell'ambito delle cure parentali, dal momento che i comportamenti di pacificazione si basano proprio sull'impiego di gesti derivati dal rapporto madre-figlio oppure, nel caso del bonobo, dal comportamento riproduttivo.

La ricca documentazione fornita da de Waal suggerisce una considerazione olistica del sistema comportamentale che viene istituito dalla polarizzazione tra tendenze aggressive e necessità di riconciliazione. Aggressione e pacificazione appaiono strettamente legate, due modelli di comportamento che nella reciproca interrelazione assolvono il compito di coordinare l'attività del gruppo e, in definitiva, di stabilire i confini tra la sfera interna e quella esterna alla comunità. Nei rapporti tra i diversi gruppi vige infatti presso i primati un'aperta conflittualità, che non può essere inibita dai rituali di pacificazione - che richiedono, per operare efficacemente, la preesistenza di una conoscenza personale e l'inserimento in una 'tradizione culturale' comune (87) - e che può portare in molti casi, diversamente da quanto si credeva sino a non molti anni addietro, all'uccisione di membri dei gruppi rivali (88).

Come si vede, i risultati che emergono dalle ricerche di de Waal confermano in larga misura il quadro concettuale tracciato da Eibl-Eibesfeldt, facendo della guerra un fenomeno complesso in cui un ruolo preponderante viene giocato dalle tradizioni culturali e dai processi di riconoscimento-disconoscimento che da esse sono innescati. Tuttavia, la frattura creata dalle barriere culturali non è invalicabile poiché esse sono soggette a revisione e a modifica e possono venire deformate per consentire la fusione di comunità diverse tra le quali si sia stabilita una conoscenza diretta. L'esistenza di contatti faccia-a-faccia ha il potere, attivando l'operatività dei meccanismi innati di sottomissione, di bruciare la distanza generata dalla pseudo-speciazione culturale, innescando il riconoscimento dell'appartenenza ad un'identica specie biologica (89). Su queste basi diviene forse possibile impostare una strategia efficace per fronteggiare la minaccia della guerra e costruire le premesse per un avvicinamento tra le nazioni.

Per concludere vorrei ritornare sui cinque punti che avevo enunciato al termine della discussione della teoria lorenziana dell'aggressività, in modo da presentare un quadro sintetico che tenga conto delle acquisizioni più recenti.

  1. L'aggressività - affermava il primo punto - ha un'origine endogena. Tuttavia, mentre Lorenz, in accordo alla sua versione della teoria dell'istinto, sottovalutava la possibilità che i comportamenti innati si modifichino in relazione alle situazioni ambientali, attualmente si tende a privilegiare un concetto di istinto più sfumato che restituisca gli aspetti relazionali dell'aggressività e la sua plasticità adattativa.
  2. Il secondo punto sottolineava che l'aggressività è un prodotto dell'evoluzione e come tale deve essere provvisto di una sua intrinseca funzionalità. Lorenz aveva sostenuto che il profilo funzionale del comportamento aggressivo va visto nella sua capacità di accrescere la coesione del gruppo. Eibl-Eibesfeldt, invece, ha affermato che l'aggressività si è evoluta per consentire una distribuzione efficiente sul territorio. De Waal, a sua volta, ha in una certa misura recuperato la tesi di Lorenz, poiché nei suoi lavori collega le manifestazioni di aggressività in seno al gruppo all'organizzazione della comunità.
  3. Nel terzo punto si stabiliva l'esistenza di meccanismi filogenetici di controllo dell'aggressività. In relazione a questo argomento non è necessario aggiungere ulteriori osservazioni.
  4. Un altro tema centrale nella teoria lorenziana dell'aggressività è quello della discrepanza tra le velocità dell'evoluzione biologica e dell'evoluzione culturale. La rapidità dell'evoluzione culturale, infatti, può generare un contrasto fra gli schemi di comportamento innati e le norme sociali originatesi per mezzo della ritualizzazione culturale. Questo aspetto è stato approfondito, come si è visto, soprattutto da Eibl-Eibesfeldt, il quale peraltro ha confermato nella sostanza le conclusioni di Lorenz, supportandole con un'abbondante documentazione etnologica.
  5. L'ultimo punto introduceva la questione centrale in rapporto al tema che mi sono proposto di svolgere. Lorenz e Eibl-Eibesfeldt hanno sostenuto che alla base delle guerre si situa il fenomeno della pseudo-speciazione, l'opposizione tra gruppi che sono caratterizzati da tradizioni culturali diverse. Sotto questo aspetto, l'evoluzione culturale replica quella biologica: nello stesso modo in cui l'aggressività intraspecifica è funzionale -in base all'ipotesi di Eibl-Eibesfeldt -alla distribuzione degli individui sul territorio, così la guerra permette - e in ciò va visto il suo profilo adattativo - un'allocazione ottimale delle risorse scarse tra le varie popolazioni.

5. Etologia e politica

Quali insegnamenti trarre dalla ricerca etologica ? L'esame dell'opera di Eibl-Eibesfeldt induce alcune riflessioni capaci di ribaltare, a mio avviso, taluni nessi accettati acriticamente e, al tempo stesso, di introdurre un ripensamento intorno ad importanti categorie politiche.

Come si è visto, il problema della guerra non è legato univocamente alla carica pulsionale aggressiva ma viene piuttosto a collocarsi nel punto in cui si intersecano adattamenti filogenetici e sovrastrutture culturali. (90) La guerra nasce dalla diversificazione delle pseudo-specie e affonda le sue radici tanto nell'istintiva diffidenza verso l'estraneo quanto nelle altrettanto innate propensioni alla socialità, alla cooperazione con i membri del gruppo e all'obbedienza disciplinata ai comandi di un leader. D'altra parte, la predisposizione al comportamento cooperativo è segnata, nel momento stesso della sua remota genesi presso i nostri antenati pre-umani, da un sigillo di esclusività in relazione all'appartenenza dell'individuo ad un gruppo determinato, potenzialmente ostile verso le comunità circostanti. Come ha sostenuto Frans de Waal infatti, cooperazione e aggressività sono costitutivamente intrecciate, essendosi la socialità, e quindi la cultura, evolute come conseguenza della pratica della caccia (91).

Si affaccia dunque un nodo problematico di grande spessore, potenzialmente capace, ritengo, di ripercuotersi sui modelli tradizionali dell'associarsi politico. Vorrei tentare di esplorare il tema, infatti, del modo in cui la riflessione etologica possa indurre un ripensamento intorno al rapporto tra il paradigma aristotelico-scolastico della polis come comunità di natura, e l'individualismo liberale moderno.

Nella ricostruzione della biologia evoluzionistica la genesi della comunità è connotata da caratteri non dissimili da quelli che ad essa attribuisce Aristotele nella Politica: l'associarsi dell'uomo in comunità non è visto come un dato problematico bensì come un prodotto assolutamente naturale delle dinamiche evolutive, affermatosi in ragione del suo valore adattativo. L'uomo, non diversamente dagli altri primati superiori, è geneticamente predisposto alla vita sociale e tende spontaneamente alla formazione di gruppi organizzati, i quali, nella loro strutturazione interna, poggiano sull'estensione dei legami familiari ad una sfera di individui più vasta. L'adozione del paradigma darwiniano sembra pertanto ripristinare il peculiare naturalismo ed organicismo aristotelici, in parziale coerenza con quegli approcci moderni che si caratterizzano come comunitari (92).

Tuttavia, come è stato ampiamente discusso, la propensione alla socialità trova un limite nella tendenza alla contrapposizione tra comunità limitrofe che hanno sviluppato sistemi culturali indipendenti. L'associarsi degli uomini, quando dalla comunità ristretta, legata da vincoli di conoscenza diretta, si passa alla società organizzata, formata da svariati milioni di persone, non è dunque un mero prodotto naturale, in quanto tale aproblematico, bensì consiste in una creazione artificiale in cui trovano posto, strettamente intrecciati, pre-adattamenti biologici ed elementi, ascrivibili alla sfera culturale. In questo senso la costruzione statuale rappresenta veramente, come riconosce anche Eibl-Eibesfeldt, una struttura che si sovrappone, in virtù di dispositivi culturalmente ritualizzati, alle predisposizioni innate.

La nascita dello Stato moderno costituisce un evento sicuramente non naturale; non è il prodotto di una spontanea accumulazione di comunità minori ma il frutto della violenza esercitata da un gruppo sugli altri e rivestita successivamente dai simboli culturali che dovrebbero consentire l'identificazione di tutti gli individui con l'organismo statuale. Lo Stato però rimane soggetto alla minaccia di una nuova esplosione di violenza, al riaccendersi delle ostilità tra le parti che si sono scontrate al momento della sua fondazione. La pace, la sicurezza e la giustizia che lo Stato si incarica di garantire sono perpetuamente insidiate, come scrive Michel Foucault, dalla guerra che nascostamente "continua ad infuriare all'interno di tutti i meccanismi di potere" (93).

Si potrebbe essere portati a credere che la natura fondante della guerra rispetto al potere politico e alla pace sia stata colta in primo luogo dal modello contrattualistico hobbesiano. La guerra di cui parla Hobbes non è però una guerra reale, effettivamente combattuta, è soltanto una possibilità logica di guerra, la proiezione del modello antropologico elaborato dal filosofo inglese. La conflittualità insanabile che contraddistingue lo stato di natura è conseguenza dell'intrecciarsi di tre fattori:

  1. l'illimitato desiderio di potere che sollecita sempre nuove acquisizioni;
  2. la sostanziale uguaglianza tra gli individui che impedisce il formarsi di un ordine stabile fondato sulla signoria del più forte;
  3. la difformità dei giudizi e delle passioni che preclude la possibilità della percezione di un'identità comune (94).

L'individuo hobbesiano si risolve al contratto sulla base della rappresentazione dei rapporti di forza tra i diversi soggetti, tutti ugualmente animati da una volontà acquisitiva illimitata. In questo contesto il potere politico si inserisce pertanto come una costruzione artificiale che procede dal basso, dalla volontà concorde degli individui, mossa dalla paura, senza che possano incidere le contingenze della storia (95).

Hobbes, quindi, elimina dalla propria interpretazione della genesi dello Stato il riferimento alla guerra come evento storico per sostituirvi una disposizione naturale alla guerra che non arriva mai a tradursi in un conflitto reale. Il risultato dell'operazione condotta dal filosofo inglese consiste così nella neutralizzazione del processo di costituzione della sovranità rispetto alla concretezza delle vicende storiche (96). Il prezzo che Hobbes si trova però a dover pagare per seguire la sua strategia diretta a fondare lo Stato su basi razionali, consiste nell'adozione di un modello antropologico che nega la possibilità della formazione nello stato di natura di comunità legate da un vincolo diverso da un pactum subjectionis.

Hobbes, per dimostrare la necessità di affidarsi a un potere sovrano, è portato a enfatizzare il carattere soggettivo delle passioni e dei giudizi, in modo da rendere impossibile la formazione di un'identità di gruppo che funga da legante anche in assenza di strutture di potere. Ma, come ho cercato di chiarire, l'etologia ha descritto l'uomo come un essere essenzialmente socievole, portato naturalmente alla vita in gruppo; inoltre, le ricerche condotte nei vari settori della biologia evoluzionistica hanno messo in risalto come la stessa costituzione psico-fisica dell'uomo, le sue attitudini e le sue capacità attuali dipendano in larga misura dal suo essere un 'animale sociale' (97). Per questi motivi ritengo che la ricostruzione antropologica hobbesiana vada vista come una consapevole deformazione della natura umana motivata dall'esigenza di perseguire un preciso disegno teorico-politico.

D'altra parte, bisogna tenere presente che la lezione di Hobbes ha condizionato in maniera decisiva la riflessione politica successiva e, in primo luogo, l'analisi della politica internazionale. Questa influenza è particolarmente evidente, ad esempio, nel capostipite del realismo internazionalistico moderno, Hans Morgenthau, che in Politics Among Nations assume come categoria esplicativa il concetto di potere, sulla base del postulato che l'uomo è mosso costantemente dalla ricerca del potere (98), ma già in Ranke, Treitsche e negli altri teorici ottocenteschi della politica di potenza l'eredità di Hobbes era chiaramente percepibile. In sostanza, la teoria delle relazioni internazionali ha costituito un'area di sopravvivenza per una certa immagine della natura umana, che ha potuto così perpetuarsi, facendo valere la sua prestigiosa ascendenza, almeno fino all'avvento del neorealismo di Waltz e di Keohane e della loro critica corrosiva all'elementare realismo di Morgenthau (99).

Ho sostenuto che l'eredità hobbesiana ha condizionato la tradizione del realismo internazionalistico sul piano dell'orientamento antropologico soggiacente; da ciò è seguita l'incapacità di una parte consistente della moderna analisi politica internazionale a valutare il rilievo dei meccanismi che veicolano l'appartenenza degli individui ai gruppi di cui sono membri e l'importanza dei legami che vengono così stabiliti. Da ciò deriva anche l'incomprensione del valore delle simbologie, prodotte in via di ritualizzazione culturale, in cui si compendia l'identità delle comunità più vaste.

Negli Stati moderni l'assolvimento dell'esigenza di coesione è divenuto particolarmente difficoltoso in seguito all'eclissi delle ideologie e alla contemporanea diffusione delle società multirazziali. La fine delle 'grandi narrazioni', la crescente complessificazione della rete delle appartenenze, unitamente ai fenomeni di globalizzazione e all'intensificarsi dei flussi migratorii ha trasformato radicalmente il substrato su cui deve esercitarsi la ritualizzazione culturale. L'attuale egemonia del liberalismo, uno dei contrassegni teorici di più spiccata evidenza della postmodernità, riflette chiaramente questa situazione: la tradizione liberale, che assume la priorità assiologica dell'individuo e configura la posizione del cittadino rispetto all'ordinamento statuale come un'adesione associativa, possiede una limitata capacità di convogliare i processi di identificazione, dimostrandosi inidonea, nel complesso, ad assolvere una funzione di collante sociale. E d'altra parte, l'insufficienza delle immagini condivise idonee a servire come base per la costruzione di un'identità collettiva vincolante si ripercuote anche sul versante della legittimità dell'ordinamento, dal momento che l'esistenza di un'identità di gruppo costituisce una sorta di metacondizione dello stare assieme politicamente (100).

Se dal livello statuale si passa a considerare il sistema internazionale le difficoltà di individuare fonti di coesione si fanno ancora più evidenti. Allo stesso tempo diviene estremamente difficile rispondere alla questione se sia possibile, attraverso un'opportuna costruzione simbolica, edificare un legame identitario capace di legare uomini e donne di cultura ed etnia diverse, fungendo da supporto per la creazione di un ordinamento internazionale.

E' chiaro che in questo caso l'eventuale identità cosmopolitica dovrebbe collocarsi ad un livello di astrazione assai maggiore rispetto all'identità nazionale, dal momento che essa dovrebbe prescindere da qualsiasi elemento attinente all'affinità di lingua, cultura o religione. In questa ottica pertanto, la riflessione della biologia evoluzionistica sembra inserirsi proficuamente in un ambito d'indagine che si colloca al crocevia di discipline diverse, laddove la sociologia e la scienza politica si confrontano con la filosofia della politica e del diritto, offrendo spunti interessanti per la tematizzazione, all'interno di un contesto alternativo all'individualismo liberale ma che non coincide con una scontata riproposizione comunitaria dell'aristotelismo, del nesso tra identità di gruppo e politica, in vista anche dell'esplorazione delle chances di un'identità sovranazionale.

La possibilità di un'identità sovranazionale cosmopolitica, riferibile al genere umano nella sua totalità, è legata all'esistenza di simboli che siano riconoscibili da parte di tutti gli uomini e che siano preposti alla mediazione di significati capaci di suscitare un'adesione emozionale. Secondo Furio Cerutti, per esempio, un'identità sovranazionale è pensabile attualmente come interazione tra quattro elementi.

  1. L'interdipendenza fra gli attori nei settori dell'economia, delle comunicazioni, degli stili di vita e dei comportamenti dei consumatori.
  2. L'universalismo normativo dei diritti umani, cioè l'idea che i diritti umani, di cui sono titolari i singoli individui, possono, in quanto presupposto della democrazia, porre vincoli alla politica.
  3. Le sfide globali, ossia quei "problemi o minacce - il riscaldamento del pianeta, il buco nella fascia di ozono, il rischio nucleare - che non soltanto riguardano noi tutti, generazioni future incluse, in un modo che non discrimina tra gruppi ed individui, ma che possono essere affrontate efficacemente solo dallo sforzo comune di tutti gli attori, o almeno della loro stragrande maggioranza".
  4. L'istituzionalizzazione di un ordine mondiale mediante la codificazione di regole, sanzionabili da organizzazioni internazionali, tali da soddisfare alle richieste dell'universalismo normativo (101).

Per Cerutti, dunque, la formazione di un'identità sovranazionale segue dalla giustapposizione di una componente cognitiva - l'immagine di un mondo interdipendente - e di una emozionale e motivazionale - i rischi e le paure provocati dalle sfide globali. Questo processo dovrebbe aver luogo entro la cornice di una 'società civile globale', uno spazio sociale ed economico caratterizzato da elevati standard di omogeneità, esteso in tutto il mondo e potenzialmente idoneo a fungere da base per la creazione di istituzioni politiche mondiali.

Quali difficoltà solleva questa impostazione del problema dell'identità sovranazionale? E' accettabile dal punto di vista della ricerca etologica la previsione di una società civile mondiale, derivante dai fenomeni di integrazione nei settori economico, finanziario, scientifico, delle comunicazioni? Mi sembra evidente che la nozione cruciale sia proprio quella di società civile globale. Non ci sono dubbi che oggi le interdipendenze tra attori che vivono in regioni lontanissime del mondo siano distintamente percepibili. Un diverso problema è quello di stabilire se l'accresciuta consapevolezza di queste interdipendenze abbia in sé la forza di generare un'effettiva omogeneità tra culture e sistemi di vita in origine assai dissimili gli uni dagli altri, rendendo così possibile l'avvento di una 'democrazia transnazionale'.

Non sono pochi gli autori - sociologi e filosofi della politica - che guardano con sospetto ai fenomeni di globalizzazione, mettendo in risalto come non sia in corso un processo di integrazione culturale quanto, piuttosto, una 'creolizzazione', un'assimilazione forzata da parte delle popolazioni dei paesi economicamente più deboli dei contenuti di una tradizione culturale - quella occidentale, europea e nordamericana - ad esse totalmente estranea (102). Secondo Serge Latouche, ad esempio, la colonizzazione culturale ed economica dell'Occidente procede impersonalmente strappando le masse dalla loro terra e dai loro legami sociali, senza peraltro sostituire alla perduta identità culturale tradizionale un nuovo modello di riferimento. Il processo di industrializzazione e tecnicizzazione, in altri termini, aumenta la differenziazione funzionale e la specializzazione del lavoro ma non è capace di promuovere un'effettiva integrazione, costruendo un nucleo di valori condivisi e un immaginario collettivo comune (103).

Ora, mi sembra evidente che, se si accettano le conclusioni a cui perviene Latouche, diventa impossibile continuare a considerare attuabile il progetto di un'identità sovranazionale. E d'altra parte il quadro tracciato dal sociologo francese contiene indubbiamente degli aspetti persuasivi che non possono essere trascurati. Tuttavia, mi sembra che nel tratteggiare i pericoli della globalizzazione si tenda per lo più a evidenziare gli aspetti di immobilità delle tradizioni culturali, invece di sottolinearne l'intrinseco dinamismo e la plasticità adattativa. La considerazione che Latouche dimostra per i patrimoni tradizionali dei popoli del cosiddetto 'terzo mondo' esprime tipicamente il punto di vista della benevolenza paternalistica del mondo occidentale nei confronti delle civiltà ritenute meno progredite. Latouche, e come lui molti altri critici della globalizzazione, assume ideologicamente l'identità delle culture come un valore da preservare ad ogni costo, scongiurando lo spettro delle ibridazioni e delle contaminazioni fra tradizioni reciprocamente estranee. In questo modo, però, dimentica che i sistemi culturali posseggono naturalmente una tendenza ad evolvere e a modificarsi in relazione alle modificazioni dell'ambiente e ai contatti con altre tradizioni; le culture non sono qualcosa di statico ma dei complessi essenzialmente mutabili. Sostenere che l'Occidente ha il dovere di non trasformare l'identità culturale delle popolazioni dell'Africa o del Sud Est asiatico significa percepire i processi di globalizzazione in un'ottica non dissimile da quella di certi 'amici della natura' che vorrebbero congelare i biotopi attualmente esistenti per impedire l'estinzione delle specie animali in pericolo (104).

Con questo non voglio certamente nascondere che il processo di 'occidentalizzazione del mondo', procede attraverso trasformazioni che avvengono su basi di profonda ineguaglianza e che sanciscono relazioni di dipendenza internazionale; quello che vorrei sostenere è che, nonostante tutti i limiti che sono stati menzionati, i fenomeni di globalizzazione mantengono la potenzialità di creare, attraverso l'interazione fra tradizioni lontane per storia e per contenuti, una classe di elementi simbolici provvisti di significato per gli esponenti di culture molto diverse fra loro. Inoltre, la ricezione di questi elementi non è necessariamente passiva, ma può comportare un'assimilazione creativa degli emblemi della cultura occidentale, se non un loro utilizzo in chiave di resistenza (105).

La mia opinione, in definitiva, è che i processi di integrazione in corso possano condurre alla formazione di un universo simbolico capace di legare, individui appartenenti ad etnie e tradizioni fra loro lontanissimi. La ricezione di simboli appartenenti a culture diverse dovrebbe costituire in ogni caso un momento creativo, in cui i contenuti estranei vengono assimilati e metabolizzati attraverso l'inserimento nel contesto della tradizione autoctona. In questo modo si dovrebbe produrre una variabilità regionale all'interno di questo immaginario collettivo, positivamente correlata alle specifiche identità locali che con quell'immaginario si troverebbero a doversi confrontare.

Anche Eibl-Eibesfeldt, come si è visto, ha sostenuto che, per mezzo di un'appropriata "identificazione di simboli [l'uomo] è in grado di considerare come sua famiglia l'intera umanità" (106). In base a questa considerazione l'etologo tedesco ipotizzava che il progetto di uno Stato mondiale a struttura federale costituisse un traguardo realisticamente conseguibile. Tuttavia, credo che, se pure sia ragionevole pensare alla possibilità di un'identità sovranazionale, rimanga fortemente dubbio se questa identità possa fungere da supporto ad un a qualche istituzionalizzazione dell'umanità come corpo politico.

Le mie perplessità si legano a due ordini di considerazioni.

  1. L'eventuale emersione di un sentimento di identità capace di legare, in una certa misura, individui di etnie e culture diverse non autorizza a pensare che le identità nazionali e locali risultino automaticamente obliterate. Al contrario, un'identità sovranazionale è concepibile solo se inserita entro una struttura modulare, "in cui sezioni più astratte ed universalistiche (...) si collocano - in maniera che non è necessariamente né armonica né disgregante - accanto o sopra a sezioni più connesse con la nostra vita quotidiana nella comunità locale" (107).
  2. La fisionomia di un'ipotetica identità cosmopolitica rischia, a mio avviso, di acquistare un profilo eccessivamente episodico e frammentario dal momento che viene a costituirsi a partire da un nucleo di simboli totalmente irrelati fra loro. In altre parole: mi sembra ragionevole supporre che esistano delle immagini pregnanti, immediatamente comprensibili da tutti - o almeno dalla stragrande maggioranza degli esseri umani - in cui si compendiano quelle sfide globali di cui parla Cerutti, tuttavia ritengo che il complesso di queste immagini non sia idoneo a definire un concetto di identità se non in un senso molto astratto - e quindi politicamente inservibile - del termine.

Come esempio concreto di immagine simbolica Cerutti cita in primo luogo l'ecatombe di Hiroshima e Nagasaki, emblema della minaccia della guerra nucleare, ma aggiunge:

forse all'identità cosmopolitica corrisponde meglio un tipo sublimato e davvero kantiano di simbolo: l'idea stessa di una legge fondamentale, i diritti umani, che vale per tutti gli uomini e tutte le donne e va rispettata e fatta rispettare ovunque (108).

Certamente, se fosse possibile interpretare l'adesione generale degli Stati alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo come il corrispettivo osservabile di una reale assimilazione e condivisione da parte di tutti gli uomini di quei valori su cui la dichiarazione si fonda, allora sarebbe lecito affermare a buon diritto che esiste a livello mondiale qualcosa come un complesso di principi morali uniformemente accolti e riconosciuti cogenti, e, su questa base, argomentare in favore della legittimità di un ordinamento sovranazionale ispirato ad essi.

Tuttavia, bisogna constatare come attualmente persistano dubbi consistenti in merito alla diffusione dell'idea stessa di diritto soggettivo presso le tradizioni di molti popoli extraeuropei (109); molti autori tendono a riconoscere che il linguaggio dei diritti, che appare oggi così radicato nella nostra immagine di civiltà e di comunità socialmente ordinata, non è che un'acquisizione specifica della cultura occidentale (110). Tutto ciò non può che indurci a considerare con scetticismo la tesi che l'idea della validità universale dei diritti umani possa entrare a far parte dell'universo simbolico comune all'intero genere umano.

La persistenza di una pluralità di sfere concentriche gerarchicamente ordinate da una parte, la segmentazione dell'identità sovranazionale dall'altra, i due connotati che dovrebbero caratterizzare un'eventuale identità cosmopolitica, costituiscono probabilmente un impedimento per l'attuazione del disegno di un ordinamento sovranazionale che non voglia ridursi ad una tirannide su scala planetaria, dal momento che si risolvono in un ostacolo per la genesi di una weltbürgerliche Öffentlichkeit - un'opinione pubblica mondiale fatta di cittadini competenti - che da Kant in poi appare come un requisito ineludibile del metodo democratico.

In conclusione la mia idea è che, per quanto sia pensabile che i processi di globalizzazione comportino l'individuazione di una qualche forma di interazione simbolica capace di stabilire un legame al di sopra delle nazioni, le concrete modalità di questa interazione e la tipologia del complesso di simboli ad essa associato rendono decisamente problematica una loro eventuale assunzione all'interno del codice della comunicazione politica. Per questa ragione, credo che per riflettere sulla possibilità di un identità sovranazionale sia necessario considerarla in base a quelle 'sfide globali' che in un certo senso ne costituiscono il catalizzatore. Un'identità che si costruisce in relazione a problemi quali il rischio nucleare o la minaccia del dissesto ambientale manca di una specifica valenza politica: può sollecitare e legittimare una cooperazione internazionale, la realizzazione di un ordine minimo risultante dalla contrattazione tra diversi organismi statali sovrani, ma non può essere invocata a supporto di una istituzionalizzazione dell'umanità come corpo politico (111).

Se si accetta di pensare all'identità cosmopolitica contestualizzandola all'interno del modello gerarchico delle appartenenze si dovrebbe essere portati a concludere che, mano a mano che si amplia il raggio della sfera che racchiude i membri del gruppo stetti dal vincolo di identità, diminuiscono le aspettative e la pervasività degli obblighi che possono essere imposti in nome del legame comunitario. Fatalmente, a una communitas maxima non può che corrispondere un ordine minimo (112).


Note

*. Questo testo è stato ricavato da una sommaria revisione del secondo capitolo della mia tesi di laurea L'etologia della guerra e il problema della pace, discussa presso l'Università di Firenze il 13 febbraio 1999. Lo pubblico adesso, a distanza di tanti anni, perché accanto a molte ingenuità mi sembra di ritrovarvi alcune tesi ancora condivisibili e attuali. Nel processo di revisione ho beneficiato dei consigli di Filippo Ruschi, che ringrazio.

1. La definizione è tratta con adattamenti da I. Eibl-Eibesfeldt, Grundriss der vergleichenden Verhaltensforschung, München, Piper, 1987, trad. it. I fondamenti dell'etologia, Milano, Adelphi, 1995, p. 3.

2. Cfr. K. Lorenz, "Der Kumpan in der Umwelt des Vogels", J. Ornith., 83, 1935, pp. 137-413. Per una ricostruzione dello sviluppo storico dell'etologia si veda I. Eibl-Eibesfeldt, I fondamenti dell'etologia, cit., pp. 9-22.

3. Su questo punto si può consultare N. Tinbergen, The Study of Instinct, Oxford, Oxford University Press, 1951, trad. it. Lo studio dell'istinto, Milano, Adelphi, 1994.

4. Cfr. K. Lorenz, Das sogenannte Böse. Zur Naturgeschichte der Aggression, Wien, Borotha-Schöler, 1963, trad. it. della seconda edizione L'aggressività, Milano, Il Saggiatore, 1976.

5. Cfr. K. Lorenz, Die Rückseite des Spiegels. Versuch einer Naturgeschichte menschlichen Erkennens, München, Piper, 1973, trad. it. L'altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza, Milano, Adelphi, 1983.

6. Cfr. K. Lorenz, "Kants Lehre vom Apriorischen im Lichte gegenwärtiger Biologie", Blätter für Deutsche Philosophie, 15, 1941, pp. 94-125, ristampato in K. Lorenz, Das Wirkungsgefüge der Natur und das Schicksal des Menschen, München, Piper, 1978, trad. it. "La dottrina kantiana dell'a priori e la biologia contemporanea", in Natura e destino, Milano, Mondadori, 1985, pp. 83-112. Il saggio in questione fu scritto a Königsberg nel periodo in cui Lorenz deteneva la cattedra di psicologia comparata che era stata di Kant.

7. Particolarmente interessante mi sembra, ad esempio, la riconduzione della categoria di connessione causale al meccanismo della reazione condizionata, per cui l'organismo opera un'associazione tra un evento con funzione di segnale ed una situazione, successiva a quell'evento, di importanza vitale, preparandosi ad essa. Ciò che abbiamo, dunque, è un collegamento tra eventi temporalmente contigui, entro una trasformazione di energia. Su ciò cfr. K. Lorenz, L'altra faccia dello specchio, cit., pp. 172-7.

8. Ivi, pp. 295-324.

9. Si veda N. Chomsky, Language and Problems of Knowledge: The Managua Lectures, Cambridge, Mass., MIT Press, 1988, trad. it. Il linguaggio e i problemi della conoscenza, Bologna, il Mulino, 1991; S. Pinker, The Language Istinct, Cambridge, Mass., MIT Press, 1994, trad. it.L'istinto del linguaggio, Milano, Mondadori, 1997.

10. Cfr. K. Lorenz, L'altra faccia dello specchio, cit., pp. 379-86.

11. Si veda D.T. Campbell, "Evolutionary Epistemology", in P..A. Schilpp (a cura di), The Philosophy of Karl Popper, vol. I, La Salle, Open Court, 1974, pp. 413-63, trad. it. Epistemologia evoluzionistica, Roma, Armando, 1981.

12. In questo, esso condivide probabilmente la sorte di altre epistemologie di ascendenza kantiana.

13. Cfr. H. Putnam, Reason, Truth and History, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, trad. it. Ragione, verità e storia, Milano, Il Saggiatore, 1985, pp. 57ss.

14. Cfr. K. Lorenz, L'altra faccia dello specchio, cit., pp. 25-38.

15. Si veda J. Dollard et al., Frustration and Aggression, New Haven, Yale University Press, 1939, trad. it. Frustrazione e aggressività, Firenze, Giunti-Barbera, 1967.

16. Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., pp. 89-96. Mi sia consentito di notare in margine al discorso come il paradigma sotteso all'approccio lorenziano, concettualizzando l'origine endogena delle pulsioni aggressive sulla base di un'immagine 'idraulica', quella dell'impulso innato che si accumula come una massa d'acqua fino a tracimare se non liberato, sia chiaramente riconducibile, nella sua consistenza visiva e nel suo potenziale esplicativo, all'influsso della teoria freudiana e al ricorso a parallelismi fisico-matematici che essa stava introducendo nella formulazione dei modelli psicologici.

17. Ivi, pp. 60-5.

18. Ivi, pp. 66-76.

19. E' interessante notare come la competizione tra i maschi per l'accoppiamento conduca in certi casi ad adattamenti finalizzati univocamente a quello scopo, che possono risultare, per altri versi, penalizzanti. Le corna dei cervidi, come la livrea multicolore di taluni uccelli, sono caratteri funzionali soltanto a prevalere nella competizione sessuale; per il resto sono completamente inutili se non dannosi. Non di meno questi caratteri si conservano perché gli individui che non ne sono provvisti non si riproducono: l'evoluzione, come dice Lorenz, pare qui inoltrarsi in un vicolo cieco. Su ciò cfr. ivi, pp. 76-8.

20. Ivi, pp. 81-4. In ogni caso la funzione dell'organizzazione gerarchica del gruppo non va posta sullo stesso piano rispetto alla distribuzione spaziale e alla selezione riproduttiva. Infatti, queste ultime costituiscono le esigenze ambientali in risposta alle quali l'aggressività intraspecifica si è affermata come pulsione; viceversa, l'organizzazione gerarchica del gruppo rappresenta un 'sottoprodotto' dell'aggressività, in quanto si è sviluppata per renderla più tollerabile.

21. Ivi., pp. 99-113.

22. Ivi, pp. 155-61.

23. Ivi, pp. 177-84.

24. Ivi, pp. 189-99.

25. Ivi, pp. 225-77.

26. Ivi, p. 281.

27. Ivi, pp. 301-2. Cfr. anche K. Lorenz, L'altra faccia dello specchio, cit., pp. 288-91.

28. Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., pp. 303-05. Sul tema dell'origine evolutiva della moralità si può vedere anche F. de Waal, Good natured: The Origins of Right and Wrong in Humans and Other Animals, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1996, trad. it. Naturalmente buoni. Il bene e il male nell'uomo e in altri animali, Milano, Garzanti, 1997. La tesi sostenuta da de Waal è che la comparsa di regole morali sia strettamente collegata alla pratica della caccia in comune. La caccia ai grandi mammiferi richiede una coordinazione ed un affiatamento che è possibile raggiungere solo se i cacciatori appartengono ad un gruppo strettamente coeso e l'affermazione di modelli di comportamento condivisi contribuisce a generare quella coesione. Seguendo questa linea argomentativa, de Waal può concludere che il comportamento morale è radicato nella nostra costituzione biologica.

29. Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., pp. 308-12.

30. Ivi, pp. 113-20. Cfr. anche K. Lorenz, L'altra faccia dello specchio, cit., pp. 341-63.

31. Cfr. E.H. Erikson, A Way of Looking at Things. Selected Papers from 1930 to 1980, New York-London, W. W. Orton, 1987.

32. Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., pp. 122-6. Cfr. anche K. Lorenz, L'altra faccia dello specchio, cit., pp. 319-23.

33. Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., pp. 305-6.

34. Ivi, pp. 306-7. Per quanto concerne gli approcci di tipo genetistico al problema dell'aggressività umana si può vedere R.P. Shaw, Y. Wong, Genetic Seeds of Warfare, Boston, Unwin Hyman, 1989. La tesi di Shaw e Wong è che il nazionalismo, il patriottismo e le altre forme di propensione umana per la guerra rientrino tra le strategie messe in atto dal gruppo genetico per assicurare la propria sopravvivenza.

35. Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., pp. 314-21.

36. Ivi, p. 305.

37. Ivi, p. 326. Cfr. anche A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Wiesbaden, Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion, 1978, trad. it. L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1983.

38. Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., pp. 324-5.

39. K. Lorenz, Der Abbau des Menschlichen, Piper, München 1983, trad. it. Il declino dell'uomo, Milano, Mondadori, 1984. Il pessimismo di Lorenz però non è mai assoluto, non riesce mai a sopprimere totalmente la fiducia - certamente prerazionale - nel progresso del genere umano. Per un discussione di questi aspetti kantiani in Lorenz si veda anche infra il paragrafo seguente.

40. Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., pp. 328-36; cfr. anche K. Lorenz, Il declino dell'uomo, cit., pp. 152-60.

41. L'esistenza di una fase sensibile in cui si verifica l'apprendimento delle norme etiche era già stata ipotizzata nel 1960 da Conrad H. Waddington in The Ethical Animal, London, Allen and Unwin, 1960.

42. Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 340.

43. Ivi, pp. 342-6.

44. Ivi, p. 344.

45. Non è necessario sottolineare come Lorenz si ingannasse su questo punto. Lo sport, ben lungi dal divenire occasione di scambio pacifico e di confronto, ricopre attualmente un ruolo esattamente opposto. Le differenze tra fazioni sportive sembrano operare secondo il modello della pseudo-speciazione e le insegne delle squadre rivali costituiscono un segnale capace di scatenare l'entusiasmo collettivo di tipo aggressivo. Su ciò cfr. R. G. Sipes, "War, Sports and Aggression: An Empirical Test of Two Rival Theories", American Anthropologist, 75, 1973, pp. 64-8.

46. Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., pp. 350-5.

47. Ivi, p. 350.

48. Ivi, pp. 356-60.

49. I. Eibl-Eibesfeldt, I fondamenti dell'etologia, cit.; Id., Die Biologie des menschlichen Verhaltens. Grundriß der Humanethologie, München, Piper, 1984, trad. it. Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, Torino, Bollati-Boringhieri, 1993.

50. K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 275.

51. Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana, cit., pp. 108-10.

52. Ivi, p. 109. La riconduzione dell'ethos di gruppo all'ethos familiare sottintende l'adesione ad un modello antropologico del soggetto politico caratterizzato in senso naturalistico ed organicistico: per una discussione sulla portata di questi echi di aristotelismo vedi infra il paragrafo seguente.

53. I. Eibl-Eibesfeldt, The Biology of Peace and War, London, Thames & Hudson, 1979, trad. it. Etologia della guerra, Torino, Bollati-Boringhieri, 1990.

54. Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., p. 40.

55. Ivi, passim.

56. Vale la pena di rilevare come la polarizzazione tra aggressività interna al gruppo ed aggressività fra gruppi diversi comporti una limitazione all'efficacia di quei meccanismi ritualizzati volti a limitare la pericolosità degli scontri intraspecifici: lo stesso Eibl-Eibesfeldt ammette che presso gli animali sociali gli atteggiamenti di sottomissione ed i segnali infantili sortiscono effetto solo se diretti verso membri dello stesso gruppo, verso individui cioè, con i quali già sussiste un legame di conoscenza personale. Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., pp. 98-100.

57. Ivi, pp. 85-111.

58. Ivi, pp. 131-5.

59. Ivi, pp. 135-42.

60. Ivi, pp. 174-92. Eibl-Eibesfeldt si serve qui dei concetti introdotti dal biologo Ernst Mayr e della sua teoria gerarchica dell'evoluzione, incentrata sull'ipotesi che l'evoluzione operi su livelli differenti, agendo di volta in volta sul singolo esemplare o sul gruppo. D'altra parte lo stesso Mayr è recentemente giunto a conclusioni simili a quelle di Eibl-Eibesfeldt intorno alle attitudini aggressive dei nostri progenitori. Cfr. E. Mayr, This Is Biology: The Science of the Living World, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1997, trad. it. Il modello biologico, Milano, McGraw-Hill Italia, 1998, p. 199.

61. Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., pp. 212-5.

62. Ivi, pp. 218-9.

63. Ivi, p. 196.

64. Ivi, pp. 228 e ss.

65. Cfr. K. Lorenz, Il declino dell'uomo, cit., p. 127. Undici, come ricorda Lorenz, è il numero dei componenti di ciascuna squadra in molti sport, è quasi il numero che simboleggia la comunità perfettamente coesa: come non ricordare che dei dodici discepoli di Gesù solo undici gli furono fedeli?

66. Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., p. 230.

67. Ivi, pp. 234-6. Cfr. anche I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana, cit., pp. 407-10.

68. Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., p. 234.

69. Ivi, p. 235.

70. Ivi, pp. 239-40.

71. I. Kant, Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf,(1795), in Kants gesammelte Schriften, vol. VIII, Berlin und Leipzig, Deutschen Akademie der Wissenschaften, 1923, trad. it. Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, in G. Bedeschi (a cura di), Il pensiero politico di Kant, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 153-200.

72. Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana, cit., p. 410.

73. Cfr. J.W.N. Watkins, "Confirmable and Influential Metaphysics", Mind, 67, 1958, pp. 344-65.

74. Forse la chiave per superare quest'impasse è racchiusa nell'investimento nel concetto di complessità e nell'elaborazione di paradigmi evolutivi post-darwiniani che integrino la selezione naturale con la teoria dei sistemi. Questa possibilità è stata esplorata dal genetista Stuart A. Kauffman che ipotizza una freccia del tempo forte, orientata in direzione della complessità crescente, e l'insorgere di processi autoorganizzativi nei sistemi biologici. Su ciò si veda: S.A. Kauffman, The Origins of Order: Self-organization and Selection in Evolution, New York, Oxford University Press, 1993; Id., Investigations, New York, Oxford University Press, 2000, trad. it. Esplorazioni evolutive, Torino, Einaudi, 2005.

75. Nel 1966, in seguito alla revoca da parte dell'ONU del mandato al Sudafrica ad amministrare il territorio namibiano, ebbe inizio un periodo di guerriglia indipendentista protrattosi fino al 1990. In questa fase, le operazioni belliche furono condotte soprattutto dall'Organizzazione del Popolo dell'Africa del Sud-Ovest (SWAPO), rappresentativa dell'etnia Ovambo. Le rivendicazioni avanzate dalla SWAPO ricevettero l'appoggio degli Stati europei, saldamente schierati contro la politica imperialista e razzista del governo sudafricano. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che i militari della SWAPO, guidati da Sam Nujoma, futuro presidente della Namibia, si macchiarono di gravi crimini, documentati dalla Società internazionale per i diritti umani di Francoforte, nei confronti degli appartenenti ad altri gruppi etnici residenti sul territorio namibiano. Le riflessioni sulla situazione politica nel continente africano sono contenute in I. Eibl-Eibesfeldt, Der Mensch - das riskierte Wesen, München, Piper, 1988, trad. it. L'uomo a rischio, Torino, Bollati-Boringhieri, 1992.

76. Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana, cit., p. 410.

77. Il testo della Dichiarazione di Siviglia sulla violenza è riportato in J. Groebel, R. A. Hinde (a cura di), Aggression and War. Their Biological and Social Bases, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, pp. XIII-XVI.

78. J. Groebel, R.A. Hinde, Aggression and War, cit. Singolarmente Eibl-Eibesfeldt non viene nemmeno citato, nonostante sia l'autore dell'unico trattato disponibile nel campo dell'etologia umana, in cui, come si è visto, sviluppa le teorie lorenziane, liberandole dalla loro primitiva rigidità e sviluppandole in una costruzione teorica organica e coerente.

79. Cfr. ad esempio J. H. Goldstein, "Beliefs about human aggression", in J. Groebel, R.A. Hinde, Aggression and War, cit., p. 12.

80. D'altra parte, Patrick Bateson e Aubrey Manning affermano con chiarezza che il corredo genetico influenza decisamente il livello di aggressività. Manning, in particolare, ritiene che la presenza di un moderato livello di aggressività abbia rappresentato, presso i nostri progenitori un carattere distintivo capace di accrescere la fitness globale degli individui che ne erano provvisti. Su ciò cfr. P. Bateson, "Is aggression instinctive?", in J. Groebel, R.A. Hinde, Aggression and War, cit., pp. 35-47; A. Manning, "The genetic bases of aggression", in J. Groebel, R.A. Hinde, Aggression and War, cit., pp. 48-57.

81. Cfr. F.A. Huntingford, "Animals fight, but do not make war", in J. Groebel, R.A. Hinde, Aggression and War, cit., pp. 25-34; S. Feshbach, "The bases and development of individual aggression", in J. Groebel, R.A. Hinde, Aggression and War, cit., pp. 78-90. Ma si veda anche N. Tinbergen, Lo studio dell'istinto, cit.

82. Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, I fondamenti dell'etologia, cit., pp. 43-4, 103-6.

83. Su ciò si veda F. de Waal, Peacemaking among Primates, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1989, trad. it. Far la pace tra le scimmie, Milano, Rizzoli, 1990; Id.,Naturalmente buoni, cit.; F. de Waal et al., Primates and Philosophers, Princeton, Princeton University Press, 2006, trad. it. Primati e filosofi, Milano, Garzanti, 2008.

84. Studi recenti hanno messo in luce come il bonobo condivida con l'uomo un frammento di DNA assente nello scimpanzé che è stato messo in relazione con il comportamento sociale. Cfr. E.A.D. Hammock, L.J. Young, "Microsatellite Instability Generates Diversities in Brain and Sociobehavioural Traits", Science, 308, 2005, pp. 1630-4.

85. Cfr. F. de Waal, Naturalmente buoni, cit., p. 212.

86. Cfr. F. de Waal et al., Primati e filosofi, cit., pp. 79-80.

87. Già i primati superiori possiedono delle tradizioni, cioè delle usanze costanti, tipiche di una comunità ristretta, che si formano in conseguenza della 'scoperta' di un singolo individuo e vengono successivamente apprese per imitazione dagli altri membri del gruppo, tramandandosi così alle nuove generazioni.

88. Addirittura, de Waal riferisce dell'osservazione di vere e proprie spedizioni condotte da scimpanzé maschi nei territori limitrofi al fine di uccidere gli esemplari dominanti dei gruppi rivali. Su ciò si veda F. de Waal, Naturalmente buoni, cit., p. 45.

89. De Waal ricorda che "l'esperienza accumulata negli ultimi due decenni in zoo organizzati secondo criteri di avanguardia (...) ha dimostrato che gli scimpanzé imparano presto a vivere un'esistenza sana, sia fisicamente che socialmente, in grande colonie in cattività, anche se questa situazione comporta l'abbandono della possibilità di praticare la fusione e al successiva divisione dei gruppi". In queste condizioni, per fronteggiare il rischio che la sovrappopolazione scateni lotte mortali la vita di gruppo viene considerevolmente intensificata, aumentando il tempo dedicato al grooming reciproco e le spartizioni di cibo. Cfr. F. de Waal, Naturalmente buoni, cit., pp. 217 e ss.

90. Senza dimenticare che, almeno dopo la nascita dello Stato moderno, molte guerre sono state decise a tavolino, come strumento per perseguire razionalmente una certa politica. Cfr., per un'obiezione a Eibl-Eibesfeldt su questo punto, P.R. Ehrlich, Human Natures: Genes, Cultures, and the Human Prospect, Washington, Island Press, 2000, trad. it. Le nature umane. Geni, culture e prospettive, Torino, Codice, 2005, pp. 259 e ss.

91. Cfr. F. de Waal, Naturalmente buoni, cit., pp. 187-9.

92. Cfr. F. de Waal et al., Primati e filosofi, cit., pp. 23 e ss. Un altro aspetto di tensione riguarda il modello antropologico sottostante. Mentre infatti il liberalismo sembra sottoscrivere una teoria gerarchico-dualistica del soggetto politico - cfr. E. Santoro, Autonomia individuale, libertà e diritti. Una critica dell'antropologia liberale, Pisa, ETS, 1999 - dalla ricerca etologica emerge una visione "continuista" del soggetto, in cui, per esempio, le propensioni più elevate alla socialità e a ricambiare i favori ricevuti poggiano su uno strato risalente di meccanismi empatici più semplici e più immediati. Cfr. Cfr. F. de Waal et al., Primati e filosofi, cit., pp. 60-5.

93. Cfr. M. Foucault, "Il faut défendre la société", Paris, Seuil-Gallimard, 1997, trad. it. "Bisogna difendere la società", Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 48 e ss. Foucault sostiene che dietro l'ordine e la pace e dietro l'immagine dello Stato come organismo gerarchicamente ordinato diffusa dai filosofi della politica come Hobbes la società nasconda una struttura binaria, in cui si fronteggiano due categorie di individui. Secondo Foucault, inoltre, la guerra che oppone questi due gruppi è in realtà "la guerra delle razze" che, attraverso varie forme di scontro sociale, si riproduce e si propaga nei secoli.

94. Cfr. D. D'Andrea, Prometeo e Ulisse, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997, pp. 113 e ss.

95. Cfr. T. Hobbes, Leviathan (1651), Harmondsworth, Penguin, 1968, cap. XIII, trad. it. Leviatano, Firenze, La Nuova Italia, 1976, pp. 117 e ss.

96. Su ciò cfr. M. Foucault, "Bisogna difendere la società", cit., pp. 83-6. L'analisi di Foucault è volta a dimostrare che le due diverse forme di sovranità considerate da Hobbes, la sovranità di istituzione e la sovranità di acquisizione, benché traggano origine, l'una dal contratto con cui si esce dallo stato di natura, l'altra da una vera guerra, non si differenziano sostanzialmente dal momento che in entrambe l'elemento qualitativamente indispensabile è rappresentato dalla volontà radicale dei sudditi che riconoscono, spinti dalla paura, l'autorità del sovrano.

97. Per esempio, è opinione assai diffusa che la spiegazione della nascita del linguaggio vada collegata al bisogno di scambiarsi informazioni tra i membri del gruppo in modo da accrescere le capacità di cooperazione tra gli individui.

98. Cfr. H. Morgenthau, Politics Among Nations: The Struggle for Power and Peace, New York, McGraw Hill, 1985, trad. it. Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, il Bologna, Mulino, 1997, pp. 7 e ss.

99. Su ciò si può vedere K.N. Waltz, Theory of International Politics, New York, Newbery Award Records, 1979, trad. it. Teoria della politica internazionale, Bologna, il Mulino, 1987; R. Keohane, Neorealism and Its Critics, New York, Columbia University Press, 1986.

100. Cfr. F. Cerutti, Identità e politica, in F. Cerutti (a cura di), Identità e politica, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 19 e ss.

101. Ivi, pp. 31-8.

102. Su questo tema si può vedere D. Zolo, Cosmopolis, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 160-73.

103. Cfr. S. Latouche, L'occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et les limites de l'uniformisation planétaire, Paris, Editions La Découverte, 1989, trad. it. L'occidentalizzazione del mondo, Torino, Bollati-Boringhieri, 1992, pp. 65-88.

104. Cfr. soprattutto J. Clifford, The Predicament of Culture: Twentieth-Century Ethnography, Literature, and Art, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1988, trad. it. I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Torino, Boringhieri, 1993.

105. Cfr. J. Breidenbach, I. Zukrigl, Tanz der Kulturen. Kulturelle Identität in einer globalisierten Welt, München, Kunstmann, 1998, trad. it. Danza delle culture. L'identità culturale in un mondo globalizzato, Torino, Boringhieri, 2000, cap. 2. Si deve però notare che il fatto stesso che questa dialettica si svolga nei termini predisposti da una sola delle parti comporta quantomeno che queste forme di discorso si presentino come subalterne rispetto a quelle alle quali si oppongono (per la nozione di «subalternità» cfr. R. Guha, G.C. Spivak (a cura di), Selected Subaltern Studies, New York, Oxford University Press, 1988, trad. it. parz. Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, Verona, ombre corte, 2002). In ogni caso, siamo molto lontani dall'implementazione di un dialogo paritetico.

106. Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., p. 230.

107. Cfr. F. Cerutti, Identità e politica, cit., p. 37.

108. Ivi, p. 38.

109. Vedi: A.A. An-Na'im (a cura di), Human Rights in Cross-Cultural Perspectives: A Quest for Consensus, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1992; J.K. Cowan, M.B. Dembour, R. Wilson (a cura di), Culture and Rights: Anthropological Perspectives, Cambridge, Cambridge University Press, 2001; E. Brems, Human Rights: Universality and Diversity, Martinus Nijhoff, The Hague, 2001. Sulla situazione della Cina, vedi: S.C. Angle, Human Rights and Chinese Thought: A Cross-Cultural Inquiry, Cambridge University Press, Cambridge, 2002; M. Svensson, Debating Human Rights in China: A Conceptual and Political History, Rowman & Littlefield, Lanham, 2002. Su diritti umani e Islam vedi invece A.E Mayer, Islam and Human Rights: Tradition and Politics, Westview Press, Boulder, 2007.

110. Anche parte di coloro che propendono comunque per la sua "universalizzazione". Cfr., per esempio, J. Donnelly, Universal Human Rights in Theory and Practice, Ithaca, Cornell University Press, 2002.

111. L'opzione del diritto sovranazionale minimo ha dalla sua parte innanzitutto il vantaggio di rinunciare ad una 'imposizione della pace'. In questo senso è l'unica prospettiva, a mio avviso, capace di salvaguardare il sostanziale pluralismo delle visioni del mondo e delle tradizioni culturali. Inoltre, dal momento che si propone essenzialmente come ratifica giuridica di un apparato di regole già definito informalmente, garantisce anche che non venga smarrita la funzionalità genetica di quelle regole in quanto prodotti della ritualizzazione culturale.

112. La preferenza normativa per un diritto internazionale minimo riflette la preferenza teorica per una interpretazione dei fenomeni di globalizzazione che faccia a meno dell'idea metafisica di progresso per tentare una comprensione delle dinamiche auto-organizzative che operano a livello del sistema politico mondiale. A sua volta, questa interpretazione si raccomanda soprattutto perché non contraddice la visione biologizzante dell'evoluzione culturale come processo non teleologicamente orientato, nel quale tuttavia l'ordine può emergere spontaneamente da configurazioni precedenti altamente disordinate (l'idea che i processi di auto-organizzazione giochino un ruolo determinante nell'evoluzione biologica è stata sostenuta da S.A. Kauffman (The Origins of Order. Self-Organization and Selection in Evolution, cit.). In questa sede considero una sua estensione all'evoluzione culturale.