2008

Il globalismo giuridico

Danilo Zolo

Il concetto di globalismo giuridico. L'espressione "globalismo giuridico" è molto recente, ma la nozione cui si riferisce è uno sviluppo della filosofia cosmopolitica elaborata in Grecia dai cinici e dagli stoici, e che ha poi avuto ampia risonanza nelle culture mediterranee, inclusa quella romana. Anche l'universalismo cristiano si è sviluppato nel solco del cosmopolitismo greco e l'illuminismo europeo ha infine ripreso e rielaborato la lezione antica in termini sia politici che giuridici. Christian Wolff ha riproposto l'idea vetero-cristiana di civitas maxima attualizzandola come "comunità universale degli uomini". E Immanuel Kant, nel celebre saggio Zum ewigen Frieden, del 1795, ha concepito l'idea di una Lega dei popoli che avrebbe dovuto istituire un "ordinamento giuridico globale" o "diritto cosmopolitico" (Weltbürgerrecht), avente come fine la promozione di una pace stabile e universale.

Nel contesto dei processi di globalizzazione oggi in atto, con l'espressione "globalismo giuridico" si può dunque designare la corrente di pensiero filosofico-giuridico che risale a Kant e alla sua idea di "diritto cosmopolitico". Attraverso la mediazione del neokantismo epistemologico della scuola di Marburgo questa corrente si è sviluppata nei primi decenni del Novecento sino a trovare la sua massima espressione nella grandiosa costruzione teorico-giuridica di Hans Kelsen. Successivamente, in Italia, il filosofo del diritto e della politica Norberto Bobbio ha avanzato la proposta di un "pacifismo giuridico" che puntava sull'idea dell'unificazione politica e giuridica del pianeta. Nella cultura tedesca, autorevole sostenitore del globalismo giuridico e politico è da decenni il filosofo Jürgen Habermas, alle cui tesi si avvicina la sociologia di Ulrich Beck.

Questa posizione filosofica e sociologica è presente anche nella cultura anglo-americana contemporanea: è stata elaborata da un folto gruppo di autori che Hedley Bull ha chiamato, non senza una punta di ironia, "globalisti occidentali" (western globalists), un termine che poi è stato attribuito in generale ai filosofi "globalisti". Fra costoro Richard Falk, David Held e Antony Giddens si sono segnalati per il loro impegno teorico e politico nella direzione del "costituzionalismo globale", del cosmopolitismo democratico e della diffusione planetaria dei diritti umani. A loro parere i processi di integrazione globale oggi in corso portano a una graduale erosione della sovranità degli Stati e questo fenomeno richiede una riforma delle istituzioni internazionali che miri alla creazione di un ordinamento giuridico mondiale, a garanzia della pace e della giustizia nei rapporti fra i popoli. In questa linea di pensiero si può includere anche World Peace through World Law, di Grenville Clark e Louis B. Sohn, un'opera che al momento della sua pubblicazione, nel 1960, ottenne un grande successo. Il volume, che progettava una radicale ristrutturazione "globalista" delle Nazioni Unite, non ha però avuto alcun esito concreto.

Western globalists. La premessa etico-filosofica del "globalismo giuridico" è l'idea kantiana dell'unità morale del genere umano. Quest'idea giusnaturalistica e illuministica è stata articolata da Kelsen in alcune tesi teorico-giuridiche tanto innovative quanto radicali: l'unità e oggettività dell'ordinamento giuridico globale, il primato del diritto internazionale, il carattere "parziale" degli ordinamenti giuridici nazionali e, last but not least, la necessità di bandire l'idea stessa di sovranità statale. Si tratta di un rigoroso monismo sia conoscitivo che etico-giuridico, il cui punto di partenza è la lezione razionalistica e universalistica di Kant. Da essa Kelsen deduce, seguendo la lezione di Rudolf Stammler, i principi fondamentali della sua "teoria pura" del diritto. Per Kelsen l'universo giuridico del dover essere è inconcepibile senza un riferimento all'idea logica di "unità", e il monismo della conoscenza esige imperiosamente una concezione monistica anche del diritto e della politica. In questo ambito l'"unità" è rappresentata dall'umanità nel suo complesso, nella quale soltanto, secondo l'insegnamento kantiano, il singolo individuo trova il suo senso e il suo compimento etico e giuridico.

Il postulato dell'unità della conoscenza deve valere senza limiti anche per il piano normativo e trovare la sua più rigorosa espressione nell'unità, coerenza, completezza ed esclusività del sistema universale delle norme giuridiche, ovvero dell'"ordinamento giuridico mondiale o universale". L'unità del diritto e il connesso primato del diritto internazionale significano per Kelsen che l'ordinamento internazionale include tutti gli altri ordinamenti ed è ad essi sovra-ordinato. Le norme interne a qualsiasi ordinamento giuridico nazionale o locale devono perciò conformarsi a quelle internazionali e in caso di contrasto sono quest'ultime a prevalere. In linea di principio le norme dell'ordinamento globale - sostiene Kelsen - devono essere assunte come jus cogens e applicate dalle corti nazionali senza alcun bisogno di essere prima trasformate dai parlamenti in diritto interno. Il diritto internazionale è perciò incompatibile con l'idea della "sovranità" degli Stati nazionali e territoriali e dei loro ordinamenti giuridici: quest'idea deve essere "radicalmente rimossa". Il diritto interno degli Stati non è per Kelsen che un "ordinamento parziale" rispetto all'universalità dell'ordinamento internazionale ed è anzi la piena giuridicità e la validità di quest'ultimo a conferire validità agli ordinamenti statali.

Quanto al fondamento della obbligatorietà del diritto internazionale, esso non può essere cercato in qualcosa di esterno all'ordinamento medesimo: la sua validità, sostiene Kelsen, deve essere postulata in termini logico-trascendentali come immagine giuridica del mondo e, nello stesso tempo, come riflesso dell'unità morale del genere umano. E il primato di questo ordinamento mondiale può essere correlato all'idea di una "comunità giuridica universale degli uomini", che travalica le singole comunità statali e la cui validità - sostiene Kelsen violando la "purezza" della sua teoria del diritto - è ancorata nella sfera dell'etica. Così come, secondo una concezione oggettivistica della vita, l'"umanità" è il concetto etico di "uomo", per la teoria oggettivistica del diritto il concetto del diritto si identifica con quello del diritto internazionale e proprio per questo è in pari tempo un concetto etico. "L'essenza imperitura del diritto" risiede nella oggettività della sua universale, globale validità.

Sulla base di questi presupposti epistemologici e filosofico-giuridici Kelsen sostiene che la via per raggiungere l'obiettivo della pace è l'unificazione degli Stati nazionali in uno Stato federale mondiale. Le forze armate e gli apparati politici degli Stati devono essere messi a disposizione di una corte penale mondiale che eserciti il suo potere secondo le norme emanate da un parlamento universale. Quando l'ordinamento sovrano dello Stato mondiale avrà assorbito tutti gli altri ordinamenti, il diritto diventerà "organizzazione dell'umanità e perciò tutt'uno con l'idea etica suprema". Kelsen profetizza che solo temporaneamente e non per sempre l'umanità contemporanea si dividerà in Stati, organismi territoriali che del resto si sono formati in maniera più o meno arbitraria. L'unificazione giuridica dei popoli, e cioè la civitas maxima come organizzazione del mondo è, a parere di Kelsen, il nocciolo politico del primato del diritto internazionale, ed è al tempo stesso l'idea fondamentale del pacifismo.

Per Norberto Bobbio, che risente fortemente dell'influenza del normativismo kelseniano, l'istituzione di un ordinamento giuridico globale e di uno "Stato mondiale" che goda di un assoluto monopolio nell'uso della forza è la soglia di razionalità che l'umanità deve superare per scongiurare il rischio dall'autodistruzione. In questa prospettiva teorica Bobbio ritiene che l'organizzazione delle Nazioni Unite sia un'anticipazione e quasi il nucleo generatore del "Superstato" il cui potere sarà in grado di limitare l'uso della forza internazionale sottoponendola alle regole del diritto e alla fine garantirà condizioni di pace stabili e universali. Secondo Bobbio, con la costituzione della Società delle Nazioni e poi delle Nazioni Unite, la storia delle relazioni internazionali ha finalmente imboccato la strada del "pacifismo cosmopolitico". E tuttavia, sostiene Bobbio, le Nazioni Unite presentano una grave lacuna: non prevedono la sottomissione degli Stati membri all'autorità di un governo e di una giurisdizione globale cui spetti l'esclusività dell'esercizio del potere coattivo.

Anche Jürgen Habermas, ispirandosi direttamente a Zum ewigen Frieden, sottolinea con insistenza la necessità di rafforzare le istituzioni internazionali. Kant aveva concepito la grande idea di un "ordinamento giuridico globale" (ein globaler Rechtszustand) che unisse i popoli e abolisse la guerra, ma la sua proposta, sostiene Habermas, oggi deve essere radicalizzata. Il progetto di una "Lega dei popoli" che unisca fra loro degli Stati sovrani va tradotto nel progetto di uno "Stato cosmopolitico" che limiti e alla fine assorba completamente la sovranità degli Stati nazionali. Ed è in questa direzione che vanno riformate, anzitutto, le Nazioni Unite. Non ci sono dubbi, per Habermas, che le Nazioni Unite "incarnano un pezzo di 'ragione esistente', un pezzo delle idee che Kant aveva chiaramente formulato duecento anni fa". E tuttavia esse sono gravemente inadeguate. Per Habermas occorre affidare alle Nazioni Unite ampi poteri amministrativi e giudiziari perché garantiscano un'effettiva tutela dei diritti umani.

Se si vuole che i diritti fondamentali godano della cogenza erga omnes propria degli ordinamenti giuridici positivi, non ci si può arrestare all'istituzione di tribunali internazionali privi di giurisdizione obbligatoria, come la Corte internazionale di giustizia. Nonostante che la Carta delle Nazioni Unite imponga ai suoi membri il rispetto dei diritti umani, essa non prevede, osserva Habermas, una Corte permanente che giudichi e condanni i responsabili di gravi violazioni di tali diritti. Questa giurisdizione universale e obbligatoria deve essere urgentemente istituita in modo che le Nazioni Unite possano intervenire anche militarmente nella repressione delle violazioni dei diritti umani, usando forze armate poste sotto il proprio comando. La tutela dei diritti non può essere lasciata nelle mani degli Stati nazionali, ma deve essere affidata sempre più ad organismi sovranazionali.

La premessa generale di questa tesi è ovviamente l'universalità della dottrina dei diritti umani. Per Habermas questa dottrina contiene in sé un nucleo di intuizioni morali verso il quale convergono le grandi religioni universalistiche del pianeta: un nucleo che gode quindi di una universalità trascendentale, ben oltre le vicende storiche e culturali dell'Occidente. Ma c'è un secondo ordine di argomenti, di carattere pragmatico, che Habermas propone: l'universalità della dottrina dei diritti umani sta nel fatto che i suoi standard normativi sono dettati dalla necessità, che oggi tutti i paesi avvertono, di rispondere alle sfide della modernità. La modernizzazione è ormai una deriva globale con la quale sono costrette a misurarsi tutte le culture e le religioni del pianeta, non solo la civiltà occidentale. Entro le società moderne - si trovino in Asia, in Africa, in America o in Europa - non esistono equivalenti funzionali che possano sostituirsi al diritto occidentale nella sua capacità di integrare socialmente soggetti fra loro "estranei". In questo senso il diritto occidentale, con le sue norme nello stesso tempo coercitive e garanti delle libertà individuali, è un apparato normativo tecnicamente universale e non l'espressione di un'etica particolaristica.

Per tutte queste ragioni Habermas ritiene che sia necessario che le grandi potenze industriali decidano concordemente di dotare le Nazioni Unite di una considerevole forza politica e militare. Spetta alle grandi potenze il compito di realizzare "un ordine cosmopolitico giusto e pacifico". Queste trasformazioni istituzionali dovranno incidere sulla sovranità esterna ed interna degli Stati nazionali, limitandola drasticamente. Il "diritto cosmopolitico" deve essere istituzionalizzato in modo da vincolare i governi al rispetto delle sue regole sotto la minaccia di sanzioni. Solo così il fragile sistema vestfaliano dell'equilibrio fra Stati sovrani si trasformerà in una federazione mondiale dotata di istituzioni comuni capaci di regolare giuridicamente le relazioni fra i loro membri e di imporre con la forza il rispetto delle regole.

Nei progetti cosmopolitici dei tre autori che abbiamo sin qui considerato - Kelsen, Bobbio, Habermas - l'universalismo kantiano viene tradotto nell'istanza della globalizzazione del diritto nella forma di un ordinamento giuridico che abbracci l'intera umanità e assorba in sé ogni altro ordinamento. Il diritto, anzitutto il diritto penale, dovrebbe assumere la forma di una legislazione universale - di una sorta di lex mundialis valida erga omnes - sulla base di una graduale omologazione delle differenze politiche e culturali delle diverse civiltà, oltre che delle consuetudini e delle tradizioni normative nazionali.

L'unificazione planetaria dovrebbe riguardare in primo luogo la produzione del diritto, il cui compito dovrebbe essere affidato ad un organismo centrale, identificabile in linea di principio in un parlamento mondiale. In secondo luogo, il processo di globalizzazione dovrebbe interessare l'interpretazione e l'applicazione del diritto. Questa duplice funzione dovrebbe essere svolta da una giurisdizione universale e obbligatoria, competente a giudicare i comportamenti dei singoli individui e non soltanto le responsabilità degli Stati. Sul terreno della politica internazionale il "globalismo giuridico" auspica il rafforzamento delle istituzioni internazionali oggi esistenti e un'estensione delle loro funzioni. I processi di globalizzazione hanno provato, si sostiene, che il potere normativo e il potere coercitivo degli Stati nazionali è funzionalmente sfasato e fuori scala rispetto ai problemi che affollano l'agenda internazionale: la pace, la protezione dei diritti umani, la tutela dell'ambiente, la repressione del traffico internazionale delle armi e della droga, la lotta contro il terrorismo, e così via. Nell'era dell'interdipendenza globale sarebbe anacronistico puntare ancora sul "modello di Vestfalia" per la garanzia dell'ordine mondiale e per il mantenimento della pace. Il sistema dell'equilibrio degli Stati sovrani, si ritiene, ha ormai fatto il suo tempo: le prerogative di indipendenza degli Stati nazionali appaiono sempre più come delle pretese velleitarie e come un ostacolo per la soluzione dei problemi cruciali per il destino del pianeta, a cominciare dal contenimento dei particolarismi etnici che rischiano di precipitare il mondo in una guerra civile generalizzata.

Come abbiamo visto, la premessa filosofica generale di questo "cosmopolitismo giuridico" è la credenza nell'unità etica e razionale del genere umano, oltre che nella qualità morale o "dignità" della persona. Si tratta di un universalismo etico-metafisico che risente fortemente della tradizione monoteistica dell'ebraismo e del cristianesimo: c'è un solo Dio, creatore del mondo e legislatore supremo. A questo monismo metafisico ed etico si accompagna la tesi della "razionalità" del processo storico di integrazione universale delle società umane in un'unica società mondiale. E si aggiunge la certezza - che assume talora accenti profetici e religiosi - che l'unificazione culturale e politica del genere umano è un processo necessario e irreversibile, ormai a portata di mano. Lo è grazie all'imponente fenomeno che a partire dalla metà del secolo scorso viene chiamato "globalizzazione" e che coincide in larga parte con la deriva della modernizzazione e della occidentalizzazione del mondo.

Globalismo giudiziario. Il "globalismo giuridico" è una teoria del diritto e della politica istituzionale in larga misura vincente. Negli ultimi decenni un gran numero di filosofi, politologi, giuristi, sociologi e teologi occidentali - da Habermas a Rawls, a Bobbio, a Lyotard, a Dahrendorf, a Beck, a Küng, per citarne solo alcuni - hanno più volte espresso la convinzione che la creazione di una giurisdizione obbligatoria universale e di una vera e propria polizia internazionale è l'unica alternativa alla guerra e al disordine internazionale (se non addirittura alla distruzione del pianeta e all'estinzione della specie). È una convinzione che dà per scontata - grazie a una sorta di generale entimema argomentativo - la domestic analogy: se è vero che la centralizzazione del potere politico e giuridico ha dato buoni risultati dal punto di vista della riduzione della violenza all'interno degli Stati nazionali, allora si può ritenere che la concentrazione del potere nelle mani di una suprema autorità sovranazionale è la strada maestra per costruire un mondo più giusto, ordinato e pacifico. L'assunzione tacita è il rapporto di stretta analogia che viene stabilito fra la "società civile" interna ad uno Stato nazionale (occidentale) e la cosiddetta "società mondiale" contemporanea.

Occorre aggiungere che il successo del "globalismo giuridico" è provato in modo particolare dall'evoluzione delle relazioni e delle istituzioni internazionali dopo il crollo dell'impero sovietico e la fine del bipolarismo. Si può dire che siamo in presenza di una progressiva dilatazione dello "spazio giuridico globale" e dell'emergere al suo interno di uno "spazio giudiziario globale". Per un verso si è consolidata e di fatto legittimata la prassi dell'interventismo "umanitario" delle grandi potenze e cioè la loro tendenza ad attribuirsi un diritto di ingerenza, potenzialmente universale, nella domestic jurisdictio degli altri Stati, in nome della tutela dei diritti dei loro cittadini. La risoluzione 1674 del 28 aprile 2006 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha sposato il principio della international responsibility to protect, va esattamente nella direzione di questo globalismo umanitario. Per un altro verso, un successo ancora più eloquente è rappresentato dalla creazione, fra il 1993 e il 1994, per volontà del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, del Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia e di quello per il Ruanda. Si tratta di assise giudiziarie dotate di una primazia giurisdizionale che prevale sull'ordinamento giuridico degli Stati coinvolti e ne limita la sovranità.

Ma uno sviluppo ancora più importante, che ha dato vita a quello che potremmo chiamare il "globalismo giudiziario", è stata l'approvazione a Roma, nel giugno del 1998, dello Statuto della nuova Corte Penale Internazionale (International Criminal Court) e la sua ratifica nel 2003. A differenza di tutti i precedenti tribunali penali internazionali questa Corte non è un'assise temporanea e speciale. Essa è dotata di una competenza permanente ed universale - sia pure di natura complementare rispetto a quella dei tribunali nazionali - per la repressione dei crimini contro l'umanità, dei crimini di guerra e dei crimini di genocidio commessi da qualsiasi abitante del pianeta. Essa dovrà emanare le sue sentenze sulla base di una sorta di "codice globale", penale e di procedura penale, che nessun parlamento nazionale ha mai approvato e che sarà in larga parte il prodotto dell'attività giurisprudenziale della Corte.

In sintonia con queste trasformazioni istituzionali si è affermato negli ultimi decenni un processo evolutivo altrettanto rilevante: la funzione giudiziaria e il potere dei giudici tendono ad espandersi sia a livello nazionale che a livello internazionale, limitando il potere legiferativo dei parlamenti ed erodendo ulteriormente la sovranità degli Stati. L'indice empirico più evidente del fenomeno è il moltiplicarsi delle corti internazionali. Oggi sono operanti a livello internazionale - senza contare le corti regionali come la Corte europea di giustizia - la Corte internazionale di giustizia, la Corte europea dei diritti dell'uomo, la cui competenza si estende anche alla Federazione russa, il Tribunale penale internazionale dell'Aja per la ex-Jugoslavia, il Tribunale penale internazionale di Arusha per il Ruanda, l'Organo per la risoluzione dei conflitti dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio, il Tribunale internazionale per il diritto del mare, la Corte penale internazionale.

In presenza di questi sviluppi ci sono autori che parlano sia di "giudizializzazione del diritto" a livello globale - usando espressioni come judicial globalization e global expansion of judicial power -, sia di "internazionalismo giudiziario", con riferimento all'espansione della giustizia penale internazionale. Non c'è dubbio che la giustizia penale è oggi chiamata a svolgere funzioni e a garantire valori e interessi la cui promozione un tempo veniva affidata ad altri soggetti sociali o ad altre istituzioni. Al fine di garantire l'ordine mondiale le grandi potenze hanno sempre usato la forza politico-militare e la diplomazia, non gli strumenti giudiziari. Oggi, in sinergia con i processi di globalizzazione, si è affermata con forza l'idea, emersa sul piano teorico agli inizi del secolo scorso, che la criminalizzazione degli individui responsabili di gravi illeciti internazionali offra un contributo decisivo per il mantenimento della pace e per la tutela internazionale dei diritti umani.

Per la maggioranza degli osservatori e degli studiosi si tratta di uno sviluppo altamente positivo: l'ordinamento internazionale si sta adattando con prontezza ad uno scenario internazionale nel quale è in via di superamento il principio groziano dell'esclusione degli individui dalla soggettività di diritto internazionale e si assiste al moltiplicarsi di soggetti internazionali non statali. E si tratta di una pertinente replica normativa al diffondersi, dopo la fine della guerra fredda, di fenomeni di conflittualità etnica, di nazionalismo virulento e di fondamentalismo religioso che portano ad estese e gravi violazioni dei diritti umani. Antonio Cassese, ad esempio, ha sostenuto che le corti penali internazionali possono garantire, in modo assai più efficace rispetto alle corti nazionali, la tutela dei diritti umani e la repressione dei crimini di guerra. Questo, perché i tribunali interni sono assai poco inclini a perseguire crimini che non presentino rilevanti connessioni territoriali o nazionali con lo Stato cui i tribunali appartengono. Inoltre, i processi internazionali, godendo di una visibilità massmediale molto superiore rispetto ai processi interni, esprimono con maggiore efficacia la volontà della comunità internazionale di punire i soggetti colpevoli di gravi crimini internazionali e attribuiscono più chiaramente alle pene inflitte una funzione di stigmatizzazione dei condannati e non di semplice "retribuzione".

Legal pluralism. Numerosi autori hanno avanzato critiche e riserve a proposito sia dell'opportunità sia dell'efficacia della giurisdizione penale internazionale. Alcuni dubbi erano già stati espressi nel dopoguerra da Hannah Arendt, da Bert Röling e in particolare da Hedley Bull. Con riferimento ai processi di Norimberga e di Tokyo, Bull aveva sostenuto che la giurisdizione penale delle corti internazionali aveva amministrato una giustizia selettiva ed "esemplare", e ciò in palese violazione del principio di eguaglianza giuridica dei soggetti. Queste valutazioni critiche sono state riprese a proposito dei Tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda. Si è sostenuto che la lesione di alcuni principi fondamentali del diritto moderno - l'irretroattività della legge penale, l'uguaglianza delle persone di fronte alla legge e la certezza del diritto - è stata di proporzioni vistose. E notevoli dubbi sono stati sollevati anche sulla qualità di una giustizia sovranazionale che viene esercitata, come è inevitabile che sia, molto al di fuori e al di sopra dei contesti sociali, culturali ed economici entro i quali hanno operato i soggetti sottoposti alle sue sanzioni.

Il dibattito sulle funzioni della giurisdizione penale internazionale rinvia ad una serie di questioni più generali. Esse riguardano anzitutto il fondamento teorico e l'accettabilità etico-politica del cosiddetto "globalismo giuridico". E riguardano in secondo luogo la legittimità politica e giuridica di una tutela internazionale dei diritti umani che assuma forme coercitive - giurisdizionali e militari - in nome dell'universalità dei diritti. Anche qui le opinioni si dividono nettamente. Gli autori che guardano con favore all'espansione della giurisdizione penale internazionale auspicano anche l'avvento di un "diritto cosmopolitico" al posto dell'attuale diritto internazionale e sono inclini a sottoscrivere la tesi della universalità dei diritti umani. Ed è vero l'inverso: i critici della giurisdizione penale internazionale si oppongono all'idea del "diritto cosmopolitico" e a ogni forma di universalismo normativo.

I critici del "globalismo giuridico" - in particolare i teorici del new legal pluralism come Boaventura de Sousa Santos e John Griffiths - rivendicano anzitutto la molteplicità delle tradizioni normative e degli ordinamenti giuridici oggi in vigore a livello planetario e sottolineano il loro prevalente carattere "trans-nazionale" e "trans-statale". Nel farlo essi si richiamano a ricerche classiche di antropologia del diritto, come quelle di Leopold Pospisil e Sally Falk Moore. Santos, ad esempio, ha parlato di interlegality, indicando con questo termine l'esistenza di "reti di legalità" parallele - sovrapposte, complementari o antagoniste - che obbligano a costanti transazioni e trasgressioni e che non sono riconducibili ad alcun unitario paradigma normativo preesistente alle controversie. Le norme sono in costante elaborazione e le controversie sono risolte da chi ha il potere di decidere quale è la norma da applicare al caso concreto in un contesto conflittuale che può essere chiamato "the politics of definition of law". Il pluralismo giuridico è una conseguenza del pluralismo sociologico e nessuna società - tanto meno la pretesa "società civile mondiale" - è omogenea. Il pluralismo giuridico è dunque provato empiricamente dalla pluralità dei codici normativi che coesistono entro società culturalmente, etnicamente, religiosamente segmentate. La complessità è tanto maggiore se si considera la dimensione globale: la cosiddetta società globale è una sorta di galassia giuridica nella quale il diritto statale non svolge alcun ruolo egemone. Basti pensare al ruolo normativo delle law firms nei settori del diritto commerciale, fiscale e del lavoro e dell'emergere di una nuova lex mercatoria a livello globale.

Oggi non si può trascurare - sostengono gli anti-globalisti - che il monismo giuridico è contraddetto nei fatti. Non solo le minoranze etniche applicano di fatto e, sempre più, un loro diritto particolare, ma lo stesso diritto positivo degli Stati moltiplica le possibili opzioni concernenti la singola situazione giuridica: regimi patrimoniali fra coniugi, pluralità delle cause del divorzio, pluralità dei regimi fiscali in sede europea, e così via. Il pluralismo giuridico si esprime attraverso dispositivi normativi diversi che si applicano a situazioni giuridiche identiche. In questo quadro è di grande rilievo l'interazione fra i modelli normativi forti (occidentali) e le tradizioni normative autoctone. Questo fenomeno è stato studiato in alcune aree continentali che hanno lungamente conosciuto la presenza coloniale, in particolare nel mondo latino-americano e in un certo numero di paesi dell'Asia centrale e meridionale. In Argentina, in Brasile, in Messico, in Perù, il diritto statale di derivazione occidentale confligge sia con le rivendicazioni normative dei movimenti politici più radicali, sia con le tradizioni giuridiche delle minoranze aborigene: basti pensare al movimento dei "Sem Terra" in Brasile, a quello zapatista in Messico, alla rivolta degli indios andini in Perù. In Asia centrale, in particolare in paesi come il Pakistan e l'India, il diritto statale ereditato dall'esperienza coloniale viene sfidato dalla pressione verso il recupero delle tradizioni normative pre-coloniali.

Per un altro aspetto, gli avversari del "globalismo giuridico" denunciano la debolezza di una dottrina che nonostante le sue aspirazioni cosmopolitiche rimane ancorata alla cultura delle vecchia Europa, e cioè al giusnaturalismo classico-cristiano. L'idea del diritto internazionale che essa propone è indissociabile da una visione teologico-metafisica - riflessa nella nozione di civitas maxima - che pone a fondamento della comunità giuridica internazionale la duplice credenza nella natura morale dell'uomo e nell'unità morale del genere umano. Questa filosofia del diritto è dominata dall'idea, kantiana e neokantiana, che il progresso dell'umanità sia possibile solo a condizione che alcuni principi etici vengano condivisi da tutti gli uomini e siano fatti valere da poteri sovranazionali che trascendano il "politeismo" delle convinzioni etiche e degli ordinamenti normativi oggi esistenti. Non a caso, si sostiene, la dottrina individualistico-liberale dei diritti umani - anch'essa, come Kelsen stesso ha riconosciuto, di impronta giusnaturalistica - viene oggi presentata alle culture non occidentali come il paradigma della costituzione politica del mondo.

I critici del "globalismo giuridico" esprimono notevoli perplessità anche a proposito delle forme coercitive della tutela internazionale dei diritti umani. A loro parere è dubbio che questa funzione possa essere attribuita senza rischi a organismi giudiziari la cui imparzialità resta comunque condizionata dall'esigenza di affidare le funzioni di polizia giudiziaria alle forze armate delle grandi potenze. E c'è chi sostiene, più in generale, che sia poco opportuno affidare la protezione dei diritti soggettivi alla competenza esclusiva - o anche soltanto prevalente - di organi giudiziari diversi da quelli nazionali, persino nell'ipotesi in cui siano le autorità politiche di uno Stato nazionale a violare i diritti dei cittadini. Sembra infatti poco realistico pensare che la tutela delle libertà fondamentali possa essere garantita coattivamente in ambito internazionale a favore dei cittadini di uno Stato se questa tutela non è anzitutto garantita dalle istituzioni democratiche interne.

Quanto alla universalità dei diritti umani, gli oppositori occidentali del "globalismo giuridico" non negano il grande significato che la dottrina dei diritti soggettivi ha avuto all'interno della storia politica e giuridica occidentale. Per loro è fuori discussione che questa dottrina è uno dei lasciti più rilevanti della tradizione europea del liberalismo e della democrazia. Il problema è un altro: riguarda il rapporto fra la filosofia individualistica che è sottesa a questa dottrina, da una parte, e, dall'altra, l'ampia gamma di civiltà e di culture i cui valori sono molto lontani da quelli europei. Si pensi, in particolare, ai paesi del sud-est e del nord-est asiatico, di prevalente cultura confuciana, all'Africa sub-sahariana e al mondo islamico.

Bibliografia

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