2007

L'intervento umanitario armato fra etica e diritto internazionale

Danilo Zolo

Secondo molti autori inglesi e statunitensi un attacco militare contro uno Stato le cui autorità politiche si siano macchiate di gravi violazioni dei diritti umani coinciderebbe senz'altro, salvo rare eccezioni, con il trionfo dei valori universali della comunità internazionale e non con gli interessi particolari dello Stato impegnato nell'azione bellica. Si potrebbe sostenere, come ha scritto il giurista statunitense Michael Glennon, che in questo caso - come è avvenuto nel 1999 nella guerra della Ntao per la questione del Kosovo - l'uso della forza non sarebbe altro che lo strumento per realizzare il "grande ideale della giustizia" (1), ben oltre il formalismo di chi venera i canoni mummificati del diritto internazionale e si oppone all'uso della forza che non sia formalmente legittimato dalle istituzioni internazionali. Se la forza delle armi viene usata per fare giustizia, "il diritto seguirà", legittimando il fatto compiuto in forme codificate o per via consuetudinaria. Il rispetto della sovranità degli Stati, come ha sostenuto fra gli altri Michael Ignatieff, è problema del tutto secondario rispetto al dovere di tutelare i diritti dell'uomo facendone valere l'universalità anche con l'uso della forza. All'universalità dei diritti umani non può che corrispondere l'universalità degli interventi armati necessari per tutelarli. (2).

Le cose non vanno e non possono andare così, ha scritto autorevolmente Thomas Franck (3), che non tace la sua diffidenza nei confronti di una apologia indiscriminata dell'uso della forza per finalità umanitarie. Franck pensa con saggezza - e, bisogna dire, del tutto ovviamente - che è necessario discriminare fra interventi umanitari "genuini" ed interventi umanitari insinceri e opportunistici. Può accadere che l'emergenza umanitaria sia pura invenzione di una potenza che si propone di interferire nella domestic jurisdiction di un altro Stato per ragioni politiche e/o economiche. Oppure può accadere che una guerra civile di ridotte dimensioni venga gonfiata di proposito da parte di una grande potenza per giustificare l'aggressione contro un paese militarmente debole che essa ha deciso di occupare per ragioni strategiche.

A mio parere non si può che concordare con Franck sull'esigenza di un rigoroso accertamento delle motivazioni e delle finalità di chi usa la forza dichiarando la propria generosa vocazione "umanitaria". Come dimenticare il radicale scetticismo di Carl Schmitt, espresso nella celebre massima: wer Menschheit sagt, will betrügen? Chi cerca di vestire il suo attacco militare con panni umanitari è un impostore: in realtà egli cerca di consacrare la propria guerra come "guerra giusta" e di degradare moralmente il proprio avversario, di isolarlo come nemico dell'umanità e di essergli ostile sino all'estrema disumanità (4). Franck sembra consapevole di questo altissimo rischio. E tuttavia, a mio parere, egli non indica dei criteri normativi che consentano di distinguere con sicurezza fra i (poco probabili) interventi umanitari "genuini" e i (molto più probabili) interventi umanitari "falsi". Egli accosta contesti storici assai difficilmente comparabili in termini giuridici e tanto meno in termini etici. La nozione contemporanea di "intervento umanitario" è a mio parere indissociabile dall'emergere della dottrina dei diritti umani e in particolare dalla internazionalizzazione di tali diritti con la Dichiarazione universale del 1948 e i Trattati internazionali successivi, in particolare il Trattato dei diritti economici, sociali e culturali, e il Trattato sui diritti civili e politici, entrambi del 1966.

Oltre a ciò, è a mio parere un errore di prospettiva storico-politica non tener conto della profonda novità degli "interventi umanitari" che si sono succeduti nella seconda metà del secolo scorso, in particolare dopo la caduta dell'impero sovietico e la fine dell'assetto bipolare delle relazioni internazionali. Fin dagli anni sessanta del Novecento, varie istituzioni internazionali avevano sostenuto il principio dell'"intervento umanitario" come diritto di ingerenza della comunità internazionale entro i confini di uno Stato per accertare un'eventuale violazione dei diritti umani e per portare soccorso alle popolazioni colpite. Negli Stati Uniti, nel corso della presidenza Carter, l'argomento della tutela internazionale dei diritti umani era stato ufficialmente proposto come un motivo legittimo di interferenza negli affari interni di uno Stato (5).

Ma è negli anni novanta che la prospettiva dell'ingerenza umanitaria diviene l'elemento chiave della strategia statunitense e avanza crescenti pretese di legittimità etica e giuridica. In parallelo, prende corpo in Occidente la tendenza a sostituire, anche terminologicamente, il "diritto internazionale umanitario" al "diritto internazionale di guerra". Quest'ultimo, come è noto, era il risultato del lungo processo di secolarizzazione dei principi etico-religiosi della dottrina del bellum justum e si riferiva agli Stati nazionali come soggetti primari del diritto internazionale, impegnati a tutelare la propria sovranità e integrità politica e territoriale. Ora si sostiene che il nuovo "diritto internazionale umanitario" legittima in varie forme - sanzioni di carattere economico, missioni di peace-enforcing, giurisdizioni penali internazionali ad hoc - la possibilità che la sovranità degli Stati subisca deroghe in funzione della protezione internazionale dei diritti umani (6).

Negli anni novanta il tema dell'interventismo umanitario diviene di grande attualità anche grazie a una serie di documenti delle più alte autorità degli Stati Uniti. La ricorrente giustificazione dell'uso unilaterale della forza come humanitarian intervention è una prassi che ha radici proprio in questi documenti. Già nell'agosto del 1990 il Presidente degli Stati Uniti, George Bush, aveva tracciato le linee di un progetto di pacificazione del mondo, che aveva battezzato col nome di new world order. Gli Stati Uniti, aveva sostenuto Bush, avevano vinto l'ultima guerra mondiale - la guerra fredda - e dunque spettava a loro il compito di progettare lo sviluppo futuro dell'ordine internazionale e di indicarne i principi e le regole (7). L'anno successivo il progetto di George Bush venne perfezionato con la direttiva National Security Strategy of the United States (8). E agli inizi del 1992 le linee strategiche delineate dal Presidente vennero sviluppate nella direttiva Defence Planning Guidance (9).

Nel frattempo un'ampia letteratura specialistica andava elaborando le implicazioni strategico-militari della nozione di "sicurezza globale" (global security) che era al centro di questi documenti (10). Il crollo dell'impero sovietico e la fine della guerra fredda - si sosteneva - avevano aperto una nuova era, nella quale si era attenuato il pericolo di una guerra nucleare di ampie proporzioni. Gli Stati Uniti avevano perciò a portata di mano la "straordinaria possibilità" di costruire un sistema internazionale giusto e pacifico, ispirato ai valori della libertà, dello Stato di diritto, della democrazia, dell'economia di mercato. Data l'accresciuta complessità e interdipendenza dei fattori internazionali, gli "interessi vitali" dei paesi industriali - si aggiungeva - erano divenuti più vulnerabili. A rischio erano il libero e regolare accesso alle fonti energetiche, l'approvvigionamento delle materie prime, la libertà e la sicurezza dei traffici marittimi ed aerei, la stabilità dei mercati mondiali, in particolare di quelli finanziari.

L'organizzazione di un sistema di global security comportava perciò due essenziali innovazioni strategiche. Era necessaria anzitutto una correzione della strategia difensiva della NATO, non più impegnata a contrastare il patto di Varsavia, ormai dissolto. Il tradizionale quadro geografico dell'Alleanza atlantica doveva dilatarsi fino a tener conto dei crescenti rischi di disordine internazionale provenienti da una molteplicità di aree regionali (11). In un mondo non più bipolare il sodalizio transatlantico che garantiva la presenza militare degli Stati Uniti in Europa andava fondato su nuove basi. Il nuovo atlantismo doveva essere espressione di una strategia proiettiva e non difensiva, espansiva e non solo reattiva, dinamica e flessibile e non statica e rigida.

In secondo luogo, e questo è il punto decisivo, la strategia della global security esigeva che le grandi potenze, responsabili dell'ordine mondiale, dessero ormai per superato il vecchio principio vestfaliano della non ingerenza nella domestic jurisdiction degli Stati nazionali. Esse avrebbero dovuto esercitare e legittimare un loro diritto-dovere di "ingerenza umanitaria" (humanitarian intervention) nei casi in cui si rendesse necessario intervenire con la forza per risolvere crisi interne a singoli Stati, in modo particolare per prevenire o reprimere gravi violazioni dei diritti umani.

Questa strategia ha trovato conferma teorica e attuazione pratica subito dopo la guerra del Golfo del 1991, grazie all'attivismo del governo statunitense e di quello britannico, che pur senza alcun consenso esplicito delle Nazioni Unite si sono impegnati nell'operazione umanitaria Provide Comfort sia nell'Iraq settentrionale che in quello meridionale. Successivamente, nel triennio 1992-94, la politica degli interventi umanitari si è affermata al di fuori di qualsiasi riferimento normativo, compresa la Carta delle Nazioni Unite. L'intervento degli Stati Uniti e di alcune altre potenze in Somalia, motivato dalla necessità di garantire l'afflusso di soccorsi alimentari e sanitari, si è rapidamente trasformato in un sanguinoso conflitto militare i cui obbiettivi si sono allontanati sempre più dalle finalità istituzionali delle Nazioni Unite, fino a coincidere con gli interessi di alcune potenti compagnie petrolifere. Altrettanto incerte e tragicamente controverse sono state per lungo tempo le prospettive di un analogo intervento "umanitario" nei territori della ex Jugoslavia. Alla fine, il compito dell'intervento è stato assunto dalle forze della NATO, come se questa organizzazione, figlia della guerra fredda, fosse ormai un'emanazione delle Nazioni Unite e non una struttura politico-militare schierata a difesa degli interessi occidentali e di fatto dominata dagli Stati Uniti.L'attività militare della NATO nei territori della ex Jugoslavia nel corso della guerra bosniaca (1992-95) e soprattutto della guerra per il Kosovo (1999) si è fatta sempre più intrusiva con il tacito assenso delle Nazioni Unite.

A mio parere è solo entro questo contesto strategico e normativo che si può cogliere il significato che nei rapporti internazionali ha assunto nell'ultimo quindicennio la problematica degli 'interventi umanitari', in particolare degli interventi umanitari decisi dalla NATO. Ed è soltanto entro questo contesto che può essere individuato un eventuale criterio di discriminazione fra interventi umanitari "genuini" e interventi umanitari "falsi", come Franck dichiara di voler fare. E il criterio di discriminazione da adottare non può che riferirsi, come vedremo, anzitutto al diritto internazionale vigente, in particolare alla Carta delle Nazioni Unite e ai Trattati, oltre che al diritto internazionale consuetudinario. Ed è dunque necessario lasciare da parte sia le vicende storiche precedenti il secondo conflitto mondiale, sia ogni generico riferimento ai principi o criteri normativi dell'"etica internazionale", intesa come livello normativo superiore e prevalente rispetto al diritto internazionale.

Il ricorso ai principi di un'"etica internazionale" di carattere universalistico e deontologico è nella grande maggioranza dei casi un riferimento strumentale - tipico è il caso dell'etica militare di Michael Walzer - a premesse normative influenzate da valutazioni politiche, da credenze religiose e da universi simbolici molto diversi fra loro. E si tratta inoltre di premesse normative manipolabili sulla base di dottrine meta-etiche disparate e divergenti, a partire dalla opposizione weberiana fra etica dei principi ed etica della responsabilità. Edward Carr ha sostenuto lapidariamente che non è la politica internazionale che può essere concepita come una funzione dell'etica, ma è l'etica internazionale che si presta a essere usata come una funzione della politica nazionale. Secondo Carr - e la tesi mi sembra nuovamente di grande attualità dopo il crollo del muro di Berlino - questo aspetto era particolarmente evidente nell'etica internazionale elaborata dalla cultura anglosassone nella prima metà del Novecento. Essa ha teso a scambiare inconsapevolmente ma sistematicamente, l'interesse particolare del mondo britannico e nordamericano con l'interesse generale dell'umanità (12).

Quella che in Occidente, in modo tutto particolare entro la cultura anglosassone, è stata chiamata "etica internazionale" è in realtà una superfetazione della tradizione giudaico-cristiana assunta come ordinary morality o come common sense of moral justice (13). Si ritiene - come hanno sostenuto fra gli altri Charles Beitz, Stanley Hoffmann, Joseph Nye, Michael Walzer - che essa non richiede alcuna giustificazione sul piano filosofico ed epistemologico, perché si dà per scontato che sia dotata di una razionalità universalmente riconosciuta e di una autorità normativa superiore a quella di ogni altra possibile tradizione morale (14). In realtà essa è priva di fonti normative autorevoli e autorizzate e non è sostenuta da alcun consenso internazionale. In questo essa è profondamente diversa dal diritto internazionale moderno che nonostante la sua scarsa efficacia operativa, si presenta come un ordinameto giuridico consolidato, dotato di fonti normative autorevoli come gli Stati nazionali, articolato in istituzioni e soretto da un diffuso riconoscimento e consenso internazionale.

Ma - e questo è un punto decisivo -, secondo autori come Franck, Glennon e Allen Buchanan, il riferimento all'etica è necessario perché a loro parere il diritto internazionale non fornisce in tema di humanitarian intervention prescrizioni ragionevoli e moralmente accettabili (15). E le Nazioni Unite, a loro parere, non dispongono di procedure decisionali e di strumenti pratici adeguati: in molti casi l'intervento militare umanitario non può che essere illegale perché l'illegalità è la condizione della sua tempestività e della sua efficacia. Questo è stato provato a contrario dal genocidio del Ruanda ed è stato provato in positivo - sostiene Franck - dalla guerra decisa dalla NATO nel 1999 contro la Repubblica Federale Jugoslava. In casi come questo, violare il diritto internazionale è un imperativo morale e lo è stato in modo particolare nel caso della decisione presa dagli Stati Uniti - e quindi dalla NATO - di intervenire nei Balcani per prevenire il rischio di "an imminent genocide in Kosovo".

In questo caso, si ritiene, la violazione del diritto internazionale è stata irreprensibile, oltre che benemerita, perché si è trattato di un uso della forza che la maggioranza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha di fatto considerato come un intervento in buona fede da parte di una "decent coalition of the willing". Ritenere che una norma internazionale impedisca un intervento di questo tipo è dare credito ad un diritto internazionale irragionevole e che viene perciò giustamente disatteso. A mio parere questo è un punto centrale, perché la guerra per il Kosovo è stata la vicenda più importante e significativa in tema di "interventi umanitari" nell'ultimo decennio del Novecento, come molti studiosi ritengono (16). Essa è stata presentata infatti come la più morale e la più giusta delle "nuove guerre": un intervento per fermare il genocidio perpetrato da un regime oppressivo e da un tiranno sanguinario.

1. Il caso della guerra per il Kosovo

Per quanto riguarda l'intervento della NATO contro la Repubblica Federale Jugoslava, molti autori sostengono che si è trattato di un caso nel quale l'intervento ha avito indiscutibili effetti umanitari". A loro parere si è trattato di un intervento la cui assoluta necessità è stata provata a guerra conclusa dalle autorità della NATO, assieme alla loro buona fede nell'avere tentato ogni possibile alternativa all'uso della forza e di averla usata nella misura e per un tempo strettamente necessari. Se non ci fosse stato l'intervento delle armate occidentali molte più persone avrebbero perso la vita a causa della spietata repressione delle milizie serbe nei confronti della minoranza kosovaro-albanese. Questo sarebbe un criterio decisivo per distinguere un intervento umanitario "genuino" da un intervento umanitario "falso" o comunque sbagliato. L'uso della forza per ragioni umanitarie è giustificabile - sostiene in particolare Franck (17) - se si può dimostrare che l'intervento ha salvato più vite di quante ne ha sacrificate.

Sul piano teorico generale ritengo che il criterio proposto da Frank per individuare l'autenticità e la legittimità di un intervento umanitario armato - il calcolo a posteriori delle vite umane risparmiate - sia impraticabile oltre che giuridicamente insostenibile. Per quanto riguarda il Kosovo, è indiscutibile che nella regione non era in corso alcun genocidio a carico della minoranza kosovaro-albanese, né che ce ne fosse il pericolo: neppure le autorità politiche e militari della NATO hanno mai sostenuto una tesi di questo genere. Si trattava in realtà di una guerra civile che vedeva da una parte le milizie serbe e dall'altra l'Esercito di Liberazione del Kosovo (Ushtria Çlirimtare ë Kosovës, in sigla Uçk), è cioè un'organizzazione caratterizzata dall'estremismo nazionalistico e dall'uso sistematico del terrorismo. Alla spietata repressione praticata dal governo di Belgrado contro il movimento indipendentista corrispondeva la guerriglia di non meno di diecimila soldati armati, in larga parte equipaggiati con risorse provenienti dalle comunità kosovare all'estero: dalla Svizzera, dalla Germania e soprattutto dagli Stati Uniti, dove al Congresso operava una consistente lobby filokosovara, guidata dal senatore Robert Dole (18). E l'amministrazione statunitense aveva già più volte dichiarato di considerare il Kosovo, assai più della Bosnia-Erzegovina, uno spazio geopolitico che coinvolgeva interessi strategici fondamentali per la sicurezza nazionale americana (19).

In Kosovo era in corso una guerra civile non particolarmente violenta e sanguinosa, soprattutto se paragonata con conflitti in atto nella stessa area mediterranea, come la tragedia del popolo palestinese e come la guerra civile di Algeria dove, nello stesso periodo, erano stati trucidati circa novantamila civili, nella più assoluta indifferenza delle potenze occidentali. In Kosovo, il numero delle vittime causate dalla guerra civile nel corso dell'anno precedente all'attacco della NATO non aveva superato le duemila unità (20), mentre i morti durante i due mesi e mezzo dell'intervento della NATO sono stati circa tremila. E gli orrori della 'pulizia etnica', attribuiti alle milizie serbe e imputati alla esclusiva responsabilità politica (e penale) del governo di Belgrado, vanno considerati con prudenza, in particolare se riferiti al Kosovo. Persino la strage di Raçak, del 15 gennaio 1999, che è stata assunta come l'emblema della barbarie serba, ed è stato il pretesto decisivo per l'attacco militare della NATO contro la Repubblica Federale Jugoslava, è molto controversa e tutt'altro che ben documentata (21).

Che Raçak sia stato un pretesto è provato ad abundantiam dalla condotta tenuta dagli Stati Uniti alla conferenza di Rambouillet, convocata il 6 febbraio 1999, dal "Gruppo di contatto". Gli Stati Uniti avevano già deciso che il Kosovo sarebbe stato comunque sottratto alla Serbia e si erano impegnati in questo senso con il leaders dell'UçK. L'obiettivo sarebbe stato raggiunto o con la pressione della diplomazia coercitiva o con la forza delle armi, del resto già pronte da mesi, a partire dall'Activation order del Consiglio Atlantico dell'ottobre 1998. Per questo a Rambouillet gli Stati Uniti avevano chiesto un'ulteriore limitazione della sovranità territoriale della Serbia: il diritto delle milizie NATO di accesso incondizionato ai territori della Repubblica Federale Jugoslava (22). Come era stato riconosciuto persino da Henry Kissinger, si era trattato di un Diktat inaccettabile, poiché imponeva al governo di Belgrado di riconoscere la Nato come forza militare di occupazione dell'intero territorio serbo e montenegrino (23).

Del resto, per evitare l'intervento militare della NATO non era servito a nulla l'atteggiamento distensivo tenuto dal governo serbo in applicazione all'accordo Holbrooke-Milosevic dell'ottobre 1998. Sottoscrivendo quell'accordo Milosevic aveva accettato che la crisi del Kosovo venisse internazionalizzata e aveva inoltre acconsentito a rilevanti limitazioni della sovranità jugoslava: aveva accettato che le frontiere del Kosovo venissero varcate dai duemila osservatori dell'Osce, che una parte dei territori fosse pattugliata da semiblindati forniti dai paesi dell'Osce e che i cieli della Jugoslavia meridioniale venissero aperti al monitoraggio degli aerei della NATO. Milosevic aveva inoltre ritirato gran parte delle forze di sicurezza serbe dall'area del Kosovo e aveva dato esecuzione all'"accordo scolastico"con Ibrahim Rugova, restituendo agli albanesi gli edifici del campus di Prishtina (24). Ma nonostante queste concessioni e queste aperture di dialogo con i rappresentanti democratici della resistenza kosovara, la richiesta jugoslava che venisse annullato l'Activation order impartito alla NATO dal Consiglio Atlantico non era stata accolta.

A tutto questo occorre aggiungere che l'intervento militare delle armate statunitensi ed europee ha fatto strage di alcune migliaia di persone innocenti e ha sacrificato i diritti più elementari di decine di migliaia di altre persone. Nel corso di oltre diecimila missioni d'attacco da parte di circa mille aerei alleati e l'uso di oltre 23 mila ordigni esplosivi, tra missili, bombe e proiettili di vario tipo, la NATO ha inoltre distrutto le strutture civili e produttive di un intero paese. La Serbia e la Voivodina sono state sottoposte ininterrottamente per 78 giorni a bombardamenti da parte di aerei che volavano ad una quota tanto alta da renderli irraggiungibili dalla difesa contraerea e da moltiplicare gli "effetti collaterali", che sono stati devastanti. Human Rights Watch ha raccolto le prove di almeno 500 morti fra i civili jugoslavi in circa novanta incidenti mortali provocati da ordigni finiti fuori bersaglio. In questo modo, ha scritto David Luban, l'intervento umanitario della NATO

sent a message that could hardly be lost on the world: that Americans considered one American life to be worth thousand of Yugoslav lifes - hardly a resounding endorsement of the doctrine of universal human rights (25).

Le autorità della NATO hanno ammesso ufficialmente, o non hanno smentito, l'uccisione, la mutilazione o il ferimento grave "per errore" di civili serbi, kosovaro-albanesi e zingari in numerosi casi e hanno riconosciuto di aver bombardato industrie chimiche, fabbriche di automobili, treni in corsa (carbonizzandone i passeggeri), convogli di profughi, mercati pubblici, ospedali e prigioni (23 morti nella prigione di Istok Kosovo). Non per errore, ma con un'azione preordinata e rivendicata dai comandi della NATO, un bombardamento missilistico ha distrutto, nella notte fra il 23 e il 24 aprile 1999, l'edificio della televisione di Belgrado, dove si trovavano al lavoro 150 persone, fra giornalisti e impiegati, uccidendone sedici e ferendone altrettanti. Questa azione, essendo stata intenzionalmente diretta contro civili, ha violato la Convenzione di Ginevra del 1949, che vieta ogni attacco deliberato contro la popolazione civile. Infine, nella notte fra il 7 e l'8 maggio, alcuni missili della NATO hanno colpito l'Ambasciata cinese di Belgrado, uccidendo tre persone e ferendone venti.

Oltre a tutto ciò, i bombardieri statunitensi e britannici hanno usato bombe a grappolo (cluster bombs) i cui ordigni equivalgono alle mine anti-uomo che colpiscono e sfigurano soprattutto i bambini, ciò che è accaduto e sta tuttora accadendo in Kosovo e nel resto della Serbia. Inoltre, per ammissione del Segretario generale della NATO, il britannico George Robertson, i bombardieri A10 tank-buster, in esclusiva dotazione degli Stati Uniti, hanno sganciato, nel corso di cento missioni, 31 mila proiettili all'uranio impoverito (depleted uranium, in sigla DU) (26). Dopo l'esplosione della testata l'uranio si diffonde contaminando il suolo, l'acqua e l'aria e si inserisce nella catena alimentare producendo un aumento della radioattività ambientale e questa può generare tumori maligni, leucemie, malformazioni dei feti, malattie infantili e ha già causato la morte di centinaia di persone, inclusi un numero elevato di militari della NATO (27). Dunque, anche in questo caso la NATO ha violato le Convenzioni di Ginevra che vietano l'uso di armi chimiche, velenose o che provochino sofferenze inutili. Per tacere delle contaminazioni ambientali provocate dai bombardamenti di Pancevo e Novi Sad e delle distruzioni del patrimonio culturale di città come Prishtina, Pec, Djakovica, Novi Sad e Belgrado, compresa la chiesa medievale di Gracanica, nei pressi di Prishtina, che l'Unesco aveva dichiarato patrimonio dell'umanità e che è andata completamente distrutta.

Quanto al calcolo a posteriori delle vittime - posto che abbia qualche senso fare la somma e la sottrazione del numero dei cadaveri come in una specie di immenso obitorio "umanitario" - è importante ricordare che la guerra voluta dalla NATO non ha mai arrestato la violenza e lo spargimento del sangue in Kosovo. Come ogni altra guerra, la guerra del Kosovo ha lasciato una lunga scia di odio, di paura, di corruzione, di prostituzione, di miseria e di morte. La discriminazione etnica, la repressione e la violazione sistematica dei diritti umani - come ha più volte denunciato Amnesty International (28) - è continuata spietatamente, ma in direzione inversa: contro i serbi ormai sconfitti, per opera dei terroristi dell'Uçk, dell'Esercito di liberazione di Presevo, Medvedja e Bujanovac (Uçpmb) e del Corpo di Sicurezza del Kosovo (Tmk).

I profughi serbi e rom sono stati oltre 300 mila, mentre duemila persone, in maggioranza di etnia serba, sono state uccise o sono scomparse. E circa 150 monasteri e chiese ortodosse sono stati distrutti, come l'Unesco ha di recente denunciato. E tutto ciò è accaduto nonostante la presenza in Kosovo di massicci reparti militari della NATO, e nonostante che gli Stati Uniti, secondo una logica che è arduo definire "umanitaria", abbiano illegalmente costruito nel cuore del Kosovo un'imponente base militare - la più grande che essi hanno costruito dopo la guerra del Vietnam -, dopo aver spianato tre intere colline coltivate a frumento. Si tratta di Camp Bondsteel, in prossimità di Urosevać, che può ospitare sino 5 mila militari e dove sono stati rinchiusi clandestinamente anche detenuti provenienti dall'Afghanistan e dall'Iraq.

Se tutto quanto è stato sin qui esposto ha un minimo fondamento, allora è ben difficile accettare il giudizio di Franck e di altri autori, secondo il quale "the 'clean hands' of partecipants in NATO's action was unassailable, in the sense that its members evidently had no territorial designs on Kosovo and appeared to be fighting a war for purely humanitarian objectives and mostly with means calibrated to avoid excessive and collateral damage" (29).

È invece il caso di ricordare che nell'aprile 1999, mentre da oltre un mese erano in corso gli attacchi aerei della NATO contro la Federazione Jugoslava, l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell'uomo, Mary Robinson, aveva duramente criticato i bombardamenti della NATO in Jugoslavia. A parere della Robinson il Consiglio di Sicurezza aveva il dovere di valutare se la campagna militare della NATO fosse conforme ai principi di legalità della Carta delle Nazioni Unite, e di pronunciarsi urgentemente in proposito. La Robinson riteneva che i civili sottoposti ai martellanti bombardamenti della NATO subivano una grave violazione dei loro diritti umani. E aggiungeva che il Tribunale dell'Aia per la ex Jugoslavia aveva il compito di passare al vaglio i comportamenti dei membri dell'Uçk e dei membri della NATO, e non solo quelli delle milizie serbe. La NATO non poteva essere considerata il solo giudice competente a decidere le modalità di una guerra che coinvolgeva persone e obiettivi civili (30). Qualche settimana più tardi, mentre i bombardamenti della NATO continuavano senza sosta, il diplomatico brasiliano Sergio Viera de Mello, alla testa di una delegazione delle Nazioni Unite nei territori della Serbia e del Kosovo, aveva assunto una posizione non meno critica. In una affollata conferenza-stampa a Belgrado, de Mello aveva denunciato il "disastro umanitario" provocato dai bombardamenti della NATO e aveva dichiarato che in Kosovo anche i miliziani dell'Uçk, e non solo i serbi, erano imputabili di gravi violazioni e soprusi.

Se è così, cade anche l'idea secondo la quale l'intervento della NATO in Kosovo fosse stato impedito dall'"esercizio arbitrario" o dalla minaccia dell'"esercizio arbitrario" del potere di veto [arbitrary exercise of, or threat of, a veto] da parte di uno o più membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. E Cade l'idea che la NATO abbia rimediato ad un institutional failure, cancellando gli effetti della paralisi imposta al Consiglio di Sicurezza dalla Russia e dalla Cina per interessi clientelari [to protect a client state]. Va detto, anzitutto, che l'esercizio del potere di veto - per quanto possa essere ritenuto assai poco democratico - non è mai in sé stesso arbitrario, ma è del tutto legale alla luce della Carta delle Nazioni Unite, come lo è stato nel caso del veto contro la proposta di censura della NATO deciso da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Ma, oltre a questo, nel caso della guerra per il Kosovo, l'opposizione della Russia e della Cina (e dell'India) all'uso unilaterale della forza da parte della NATO, non solo corrispondeva alle aspettative di governi che rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, ma era perfettamente in linea con la Carta delle Nazioni Unite e con il diritto internazionale generale.

Come è noto, la Carta delle Nazioni Unite consente l'uso della forza da parte di uno Stato solo per legittima difesa, in presenza di un attacco militare in atto [if an armed attack occours] da parte di un altro Stato (art. 51), mentre riserva al Consiglio di Sicurezza il potere di usare la forza nel caso in cui uno Stato violi o minacci di violare la pace internazionale, in particolare dando vita ad una guerra di aggressione. E questo non era certo il caso di una modesta guerra civile scoppiata all'interno di un paese piccolo, debole e isolato come la Serbia, qualunque fosse il parere contrario di Kofi Annan, un Segretario Generale orientato ad assecondare i punti di vista degli Stati Uniti, ai quali, come è noto, doveva la sua nomina. La sua giustificazione a posteriori dell'intervento militare della NATO, che a suo parere aveva evitato il rischio di un genocidio, non era più fondata né più attendibile delle ben diverse valutazioni di Mary Robinson e di Sergio Viera de Mello. E non andrebbero sottovalutate le numerose condanne e proteste ufficiali contro l'illegale azione della NATO, provenienti dalle più varie aree geopolitiche del mondo, inclusi i 12 Paesi latino-americani del "Gruppo di Rio" e i 114 Stati del "Movimento dei non allineati" (31).

2. Il calcolo delle vite umane risparmiate

Mi sono dilungato sulla vicenda del Kosovo sia per mostrare che il criterio proposto per individuare l'autenticità e la legittimità di un intervento umanitario armato - il calcolo delle vite umane risparmiate - non è sostenibile.

Si tratta anzitutto di un criterio a posteriori, che non offre alcuna indicazione per quanto riguarda la decisione da prendere circa l'esistenza di una grave emergenza umanitaria e circa la necessità di un intervento armato unilaterale anziché, in ipotesi, di un intervento di peace-keeping, o di peace-building, e cioè di interposizione, monitoraggio e assistenza civile con il consenso di entrambi i belligeranti. Per un verso, è del tutto imprevedibile il numero delle vittime che una guerra civile può provocare, anche in un futuro molto prossimo, soprattutto se i contendenti - o uno di essi - usano armi di distruzione di massa o metodi terroristici. E per un altro verso, il bilancio sia preventivo che consuntivo delle vittime di un intervento militare di ampie proporzioni è sempre controverso e, spesso, impossibile da definirsi in termini empirici, come fu il caso della guerra del Golfo del 1991.

Ma l'argomento decisivo non può che essere di carattere normativo, con riferimento all'ordinamento giuridico internazionale e non a una presunta etica internazionale da usare a piacere per piegare il diritto alle proprie convenienze. Il primo punto è che una guerra decisa unilateralmente da uno Stato o da una alleanza fra Stati contro uno Stato sovrano è, alla luce della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale, una guerra di aggressione e cioè un crimine internazionale gravissimo, al punto che la sentenza del Tribunale di Norimberga lo ha definito "crimine internazionale supremo". È appena il caso di sottolineare che il divieto dell'uso unilaterale e preventivo della forza militare enunciato dall'art. 2 (4) della Carta è il pilastro che sorregge l'intera struttura delle Nazioni Unite. La guerra di aggressione, nonostante i tentativi che le grandi potenze hanno fatto negli ultimi decenni per impedire che si arrivasse a una definizione rigorosa di "aggressione" (32), coincide con l'uso preventivo e unilaterale della forza da parte di uno Stato, quali che siano le motivazioni che esso adduce. La guerra scatenata dalla NATO contro la Repubblica Federale Serba nel 1999 è da questo punto di vista - ma non solo da questo - equivalente alla guerra scatenata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna contro l'Iraq nel 2003, una guerra di cui nessun giurista ha mai osato negare il carattere aggressivo e quindi illegale.

Un secondo punto, altrettanto rilevante, riguarda il divieto di usare la violenza contro la popolazione civile, divieto che la quarta Convenzione di Ginevra pone a carico dei belligeranti. Nessuno ha il diritto di sopprimere la vita di (migliaia di) persone innocenti nel corso di operazioni militari che, grazie dell'uso di mezzi di distruzione di massa, non possono non fare strage anzitutto della popolazione civile. Nel caso del Kosovo, ciò è accaduto sistematicamente, con un cinico ricorso da parte delle autorità militari della NATO alla formula degli "effetti collaterali". Si è trattato in realtà di crimini di guerra e di crimini contro l'umanità che la Procura generale del Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia, se non fosse stata legata a filo doppio con le autorità della NATO, avrebbe sottoposto a indagini, incriminandone i responsabili. Al contrario, come è noto, la Procura non ha svolto alcuna indagine ed ha archiviato tutte le denunce contro la NATO che le sono state formalmente presentate (33).

C'è un terzo argomento, giuridicamente di grande rilievo. Ci si può chiedere se le autorità politiche di un Stato, o di una alleanza militare fra Stati, abbiano il diritto di sopprimere in modo indiscriminato la vita di persone sicuramente innocenti - donne, bambini, anziani, malati, detenuti, nomadi -, barattando la loro vita con quella di altre persone, supposte in pericolo di morte e supposte innocenti. Chi ha il potere di negare il diritto alla vita di persone innocenti, usando strumenti di distruzione di massa "per fare giustizia"? Se è vero che il diritto alla vita è un diritto fondamentale e personalissimo, allora la dottrina dei diritti dell'uomo non può essere concepita come una dottrina utilitaristica che valuta in aggregato la vita e la morte delle persone, sommando e sottraendo il bene della vita e il male della morte come se fossero fungibili e interscambiabili. A mio parere, le autorità di una alleanza militare come la NATO non possono esercitare il potere di vita e di morte su persone innocenti, quasi fossero una reincarnazione dei pontefici romani che in nome di Dio benedivano le armate cattoliche che facevano strage di infedeli. È noto che nei mesi precedenti alla guerra per il Kosovo esponenti di primo piano dell'amministrazione statunitense, come il vicesegretario di Stato Strobe Talbott, avevano dichiarato che la NATO si attribuiva il diritto di decidere l'uso della forza in modo del tutto indipendente rispetto ad ogni altra istituzione internazionale, le Nazioni Unite comprese (34).

Infine, è doveroso chiedersi, più in generale, se la guerra moderna, con i suoi strumenti di distruzione di massa, può essere "appaltata" da parte delle Nazioni Unite a grandi potenze o ad alleanze militari come la NATO, attribuendo loro il compito di proteggere valori ritenuti universali come i diritti umani. Ci troviamo qui di fronte ad una evidente aporia: sostenere che tutti gli individui sono soggetti dell'ordinamento internazionale in quanto titolari di diritti inviolabili e inalienabili significa attribuire loro anzitutto il diritto alla vita, riconosciuto dall'articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948. In secondo luogo significa riconoscere loro, come vuole ancora la Dichiarazione universale, i diritti fondamentali di habeas corpus: nessuno può essere sottoposto a trattamenti ostili che comportino una lesione della sua integrità fisica, della sua libertà, dei suoi rapporti affettivi e dei suoi beni, se non in seguito all'accertamento di suoi comportamenti consapevolmente contrari a normative penali. E questo accertamento richiede che siano adottate le procedure giudiziarie "in un equo e pubblico dibattimento, davanti a un tribunale indipendente e imparziale". Infine la Dichiarazione universale, all'art. 7, riconosce il diritto di tutti gli uomini ad un eguale trattamento giuridico.

La legittimazione della "guerra umanitaria" equivale ad una contradditoria negazione di tutti questi principi. Nel caso della guerra per il Kosovo, ad esempio, una sentenza di morte collettiva è stata di fatto applicata a migliaia di cittadini jugoslavi prescindendo da qualsiasi indagine sulle loro responsabilità personali. Ed è stato violato anche il principio dell'eguaglianza del trattamento giuridico: non si dovrebbe dimenticare che nei territori della ex Jugoslavia la pretesa tutela umanitaria dei diritti dell'uomo è stata simultaneamente perseguita secondo due approcci incompatibili fra loro. Il Tribunale dell'Aja per la ex-Jugoslavia ha esercitato il suo potere repressivo applicando il principio secondo il quale nessuno può essere sottoposto a sanzioni penali se non perché è stato giudicato responsabile di crimini personalmente e consapevolmente commessi. Per di più lo Statuto del Tribunale dell'Aja ha escluso la pena di morte dal novero delle sue sanzioni. Questo trattamento, rispettoso, almeno formalmente, di alcuni importanti principi di rule of law, è stato riservato ad una esigua minoranza di cittadini della ex Jugoslavia, spesso appartenenti alle alte gerarchie politiche o militari, indiziati di illeciti internazionali. Migliaia di semplici cittadini hanno invece subito un trattamento molto diverso: quello di micidiali bombardamenti, che non solo hanno distrutto vite umane ma hanno procurato danni gravissimi alle strutture civili e produttive di un intero paese, moltiplicando i mutilati, i feriti, gli orfani, i rifugiati, i miseri e i senza tetto.

Il divieto della guerra di aggressione proclamato dalla Carta delle Nazioni Unite non può essere considerato da nessuno, in nessun caso, come una norma irragionevole se è vero che la guerra moderna è la più radicale negazione dei diritti soggettivi. La guerra moderna, condotta con ordigni sempre più sofisticati e micidiali, ha per sua natura la funzione di distruggere - senza proporzioni, senza distinzioni e senza limiti - la vita, i beni e i diritti delle persone. Solo chi sottovaluta - e non ha mai provato o visto da vicino - gli effetti distruttivi e sanguinari della guerra moderna può esaltarla come uno strumento idoneo per la tutela dei diritti e per la realizzazione della giustizia. Dulce bellum inexpertis, ammoniva Erasmo da Rotterdam già molti secoli fa.

3. L'intervento umanitario alla luce del diritto internazionale

La guerra per il Kosovo sembrava aver consacrato la prassi dell'interventismo umanitario, dal momento che la motivazione umanitaria era stata assunta nel modo più esplicito come justa causa di una guerra unilaterale e asimmetrica. Si era infatti ritenuto che l'uso della forza internazionale per motivazioni umanitarie fosse legittima non soltanto in opposizione al principio di non ingerenza nella domestic jurisdiction di uno Stato sovrano, ma anche in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite, con i principi della statuto e della sentenza del Tribunale di Norimberga, oltre che con il diritto internazionale generale.

Di fronte a questa autentica eversione del diritto internazionale la reazione delle Nazioni Unite era stata di sostanziale inerzia e subordinazione alla volontà delle potenze occidentali. Il Consiglio di Sicurezza e il Segretariato generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, aveva legittimato a posteriori la "svolta umanitaria", imposta dalla massima potenza occidentale, senza sollevare la minima obiezione di principio, ed anzi attribuendole il crisma della piena legittimità internazionale. E tuttavia, la tesi secondo la quale la finalità della protezione dei diritti dell'uomo può essere assunta come prevalente rispetto all'integrità della domestic jurisdiction degli Stati, tale quindi da giustificare l'uso della forza, non è affatto pacifica e può essere contrastata con validi argomenti giuridici. Questo vale sia nel caso in cui l'uso della forza sia stato autorizzato dalle istituzioni internazionali, sia, e tanto più, se non sia stato autorizzato, come è avvenuto nella guerra per il Kosovo.

Si può anzitutto sostenere, assieme a Bruno Simma, che non esiste una norma consuetudinaria che in deroga alla Carta della Nazioni Unite e al diritto internazionale generale conferisca al Consiglio di Sicurezza il potere di autorizzare l'uso della forza in situazioni di emergenza umanitaria (35). Una norma consuetudinaria di questo tipo dovrebbe emergere dal comportamento uniforme degli Stati e dal generale convincimento che si tratti di una prassi legale. Ma la prassi è tutt'altro che uniforme dal punto di vista della regolarità dei comportamenti sanzionatori. In alcuni casi, ad esempio in Somalia nel 1992, si è fatto ricorso all'intervento armato, mentre in altri casi, si pensi alla Cecenia, si è ritenuto sufficiente lo strumento diplomatico nella forma di una (platonica) censura nei confronti delle autorità moscovite. In altri casi ancora - la sanguinosa repressione della minoranza curda da parte della Turchia -, non vi è stata alcuna reazione della comunità internazionale.

Argomenti altrettanto validi si possono opporre alle tesi dei molti autori che, in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, hanno sostenuto la legittimità dell'uso della forza per ragioni umanitarie anche senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Le strategie argomentative che sono state usate a questo fine sono sostanzialmente tre:

1. Secondo la posizione più radicale, sostenuta da autori come Michael Ignatieff, Fernando Tesón e Robert Keohane (36), la tutela internazionale dei diritti dell'uomo è legittima e doverosa indipendentemente dal rispetto o meno delle prescrizioni dell'ordinamento giuridico internazionale. Le norme della Carta delle Nazioni Unite che regolano l'uso della forza si rivelano sempre più superate, vincolate come sono ad una concezione westfaliana dei rapporti internazionali. Il dogma della sovranità degli Stati nazionali deve essere abbandonato e si deve riconoscere che il rispetto della loro domestic jurisdiction è un valore strumentale che non può impedire alla comunità internazionale di intervenire, anche con la forza, per impedire o per fermare atrocità come, ad esempio, il genocidio ruandese. In questi casi l'omissione di soccorso da parte della comunità internazionale è un comportamento molto più censurabile di un intervento militare non rispettoso delle norme scritte del diritto internazionale vigente.

2. Un secondo gruppo di autori - fra questi Michael Glennon (37) e Antonio Cassese (38) - sottolinea l'esigenza di aggiornare il diritto internazionale introducendo nuove norme che consentano e disciplinino l'intervento armato per ragioni umanitarie. In questa direzione si sono pronunciati anche Kofi Annan e i 16 membri dello High Level Panel da lui convocato nel dicembre 2004. Secondo il Segretario generale e i suoi consiglieri era necessario che l'uso della forza da parte del Consiglio di Sicurezza, previsto dal Capitolo VII della Carta, includesse anche la cosiddetta "responsabilità collettiva internazionale di proteggere" [the collective international responsibility to protect] (39). Occorreva cioè prevedere una nuova modalità di intervento del Consiglio di Sicurezza: l'intervento armato contro uno Stato responsabile di gravi violazioni dei diritti fondamentali dei propri cittadini, anche se non tale da compromette la pace e l'ordine internazionale. Questa medesima tesi era già stata avanzata dalla International Commission on Intervention and State Sovereignty (ICISS), istituita per iniziativa del governo canadese, nella sua relazione The Responsibility to Protect, pubblicata nel dicembre 2001 e messa a disposizione delle Nazioni Unite. Infine era intervenuta la risoluzione 1674 del 28 aprile 2006 del Consiglio di sicurezza che agli articoli 4 e 26 confermava la dottrina della Responsibility to Protect e che prevedeva la possibilità che il Consiglio di sicurezza, in presenza di una grave violazione dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, dichiarasse che si trattava di una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale e adottasse le misure adeguate (40). Molto più avanti si era spinto Antonio Cassese, che aveva proposto un aggiornamento del diritto internazionale che disciplinasse con norme generali l'intervento umanitario armato in assenza dell'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Cassese aveva riconosciuto che la NATO aveva commesso una grave violazione della Carta delle Nazioni Unite attaccando la Repubblica jugoslava e tuttavia aveva sostenuto che l'uso della forza era stato legittimo, perché la vicenda della guerra per il Kosovo era stata la prova che si stava creando "una nuova legittimazione nel diritto internazionale dell'uso della forza" (41). Era illusorio attendersi che in futuro il principio vestfaliano del carattere inviolabile della sovranità degli Stati venisse rispettato dalle grandi potenze. Compito del giurista non era quello di opporsi alla tendenza "umanitaria" in atto, ma era quello di precisare le condizioni perché tale tendenza desse luogo ad un regime internazionale che prevedesse una nuova ipotesi di uso legittimo della forza prescindendo dal Consiglio di Sicurezza (42).

3. Infine, altri autori, in particolare Jane Stromseth (43), hanno sostenuto l'inutilità e persino l'erroneità di un tentativo di codificare un nuovo diritto internazionale umanitario che, a certe condizioni, giustifichi l'uso della forza in presenza di "catastrofi umanitarie". Tale era, a suo giudizio, la situazione del Kosovo nel 1999, che aveva reso necessario l'intervento militare della NATO, intervento esemplarmente rispettoso del diritto di guerra (44). Piuttosto era necessaria un'interpretazione flessibile ed evolutiva delle norme dell'ordinamento internazionale in modo da favorire la formazione di una nuova consuetudine che superasse il dogma della sovranità statale. Non si trattava di scrivere nuove norme di diritto internazionale e di pretenderne una rigorosa interpretazione e applicazione, come aveva proposto Cassese. Anzi, il carattere incerto dello statuto giuridico dell'intervento umanitario doveva essere mantenuto, poiché l'incertezza normativa era il terreno più fertile per una graduale emergenza, caso dopo caso, di un consenso della comunità internazionale sull'uso umanitario della forza.

4. Fondamentalismo umanitario

Questa sorta di militarismo umanitario, merita a mio parere, in tutte le sue tre versioni, di essere criticato sul piano teorico e contrastato sul terreno politico (45). Non si tratta minimamente di opporre all'etica internazionale sostenuta dei fautori dell'intervento umanitario armato una diversa - ed eventualmente superiore - etica internazionale. Si tratta piuttosto di rivendicare in termini politici e giuridici il rispetto e l'applicazione delle norme e dei principi del diritto internazionale vigente, in particolare le norme della Carta delle Nazioni Unite e i Trattati a difesa della pace e dell'ordine internazionale e della tutela dei diritti umani. Il militarismo umanitario che tenta di introdurre nel corpo del diritto internazionale vigente nuove motivazioni che legittimino l'uso unilaterale e asimmetrico della forza militare è di fatto schierato a favore degli intersessi delle grandi potenze, in particolare di quelle occidentali. La moltiplicazione delle ragioni che si pretende legittimino sul piano giuridico o su quello etico il ricorso alla violenza non può che produrre un ulteriore indebolimento della capacità normativa e regolativa del diritto internazionale, che è già molto limitata. La conseguenza finale è che i meccanismi istituzionali e normativi di controllo dell'uso della forza internazionale diventino del tutto evanescenti e che l'intero apparato delle Nazioni Unite si riduca a funzioni adattive di legittimazione dello statu quo imposto da alcuni Stati con l'uso, o la minaccia dell'uso, del loro strapotere militare. Le proposte "umanitarie" di una aperta violazione del diritto internazionale in nome di superiori principi etici, così come le ipotesi di un "aggiornamento" militarista del diritto internazionale in forme codificate o in forme consuetudinarie, erodono in eguale misura la prospettiva di relazioni internazionali meno spietate e minimamente pacifiche.

L'ideologia occidentale della humanitarian intervention, con la sua pretesa di diffondere nel mondo intero i valori occidentali - e tali sono i valori sottesi alla dottrina dei diritti umani e della democrazia -, coincide in realtà con una strategia generale di promozione di "interessi vitali" dei singoli Stati "umanitari" - o di alleanze fra Stati -, presentati come interessi della comunità internazionale e che dovrebbero pertanto prevalere sul particolarismo delle sovranità nazionali. Il processo regressivo che porta dalla ricerca multilaterale della sicurezza collettiva alla pratica di guerre unilaterali e asimmetriche comporta un tendenziale ritorno alla situazione "anarchica" precedente alla fondazione delle istituzioni internazionali del secolo scorso, come la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite. In un contesto tendenzialmente anarchico, la sempre più diffusa pretesa di ricorso legittimo all'uso della forza da parte delle grandi potenze non è estranea alla parallela diffusione del cosiddetto global terrorism. Liberare il mondo dal flagello del terrorismo eliminandone le cause non può che essere il principale obiettivo di un diritto e di istituzioni internazionali fedeli al loro compito primario: ridurre gli effetti sanguinari e devastanti delle nuove guerre.

La guerra della NATO per il Kosovo ha mostrato al mondo intero l'assoluta supremazia tecnologica, informatica e militare delle armate occidentali. E ha provato la volontà degli Stati Uniti di far uso della propria supremazia militare senza tener conto del diritto internazionale, attribuendosi un assoluto jus ad bellum che avrebbe trovato la sua estrema espressione qualche anno più tardi nella guerra di aggressione contro l'Iraq. Il terrorismo, in particolare quello di matrice islamica, può essere interpretato come la replica anarchica e nichilista al nichilismo di chi intende dominare il mondo grazie all'uso sistematico della forza. Il fondamentalismo terroristico è la replica al fondamentalismo di un potere che tende ad assumere caratteristiche egemoniche e dispotiche su scala globale.

Non ci sono dubbi che oggi sia necessaria una tutela internazionale - e non solo nazionale - dei diritti soggettivi, per quanto sia illusorio pensare che sia possibile costruire una sorta di Stato di diritto cosmopolitico che trascenda le strutture degli Stati nazionali. Se gli obiettivi del diritto internazionale sono la sicurezza e la pace, allora il problema è di rendere compatibili gli interventi transnazionali a tutela dei diritti soggettivi con la diversità delle culture, con l'identità e la dignità dei popoli, con l'integrità delle strutture giuridico-politiche di cui essi si siano liberamente dotati. Ed è fondamentale riconoscere che l'uso della forza militare da parte delle grandi potenze non può cancellare le ragioni profonde che in tutto il mondo - si pensi se non altro alla questione palestinese, a quella irachena e a quella cecena - sono alla base della esplosioni di guerre civili, di conflitti etnici spietati, sino alla pulizia etnica e al genocidio. Le guerre civili hanno motivazioni profonde che non possono essere soffocate militarmente e che occorre invece cercare di arginare lasciando ai popoli coinvolti il ruolo di protagonisti centrali sia della guerra che del processo di pace L'intervento militare - inevitabilmente tardivo - non solo non risolve ma molto spesso aggrava le situazioni conflittuali, aggiungendo atrocità ad atrocità, sofferenze a sofferenze, come hanno mostrato, oltre al Kosovo, il caso della Somalia, dell'Afghanistan e, clamorosamente, quello dell'Iraq. Se è così, non può che essere respinta l'ambizione di singole potenze o di alleanze militari come la NATO ad erigersi a custodi della universalità dei diritti umani e delle istituzioni democratiche. Il rispetto dei diritti e la subordinazione del potere a regole democratiche sono beni delicatissimi che soltanto lo sviluppo civile, la conquista di un livello minimo di benessere economico e soprattutto l'impegno culturale e la lotta politica possono produrre localmente, secondo i tempi e i modi di culture che spesso sono lontanissime dalla tradizione occidentale dello Stato di diritto e della dottrina dei diritti umani. Tutto il resto - compresa la retorica della responsibility to protect - rischia di non essere altro che imperialismo culturale e, nei casi più gravi, imperialismo tout court.


Note

1. Cfr. M.J. Glennon, "The New Interventionism", Foreign Affairs, 78 (1999), 3, p. 7.

2. Cfr. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton, Princeton University Press, 2001, pp. 37-48.

3. Si veda T.M. Frank, "Interpretation and change in the law of humanitarian intervention", in J.L. Holzgrefe and R.O. Keohane (eds), Humanitarian Intervention, Cambridge: Cambridge University Press, 2003.

4. Cfr. C. Schmitt, Begriff des Politischen, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1963.

5. Cfr. N. Albala, "Limites du droit d'ingérence", Manière de voir, 45 (1999), pp. 82-3.

6. Si veda: J. Gardam (ed.), Humanitarian Law, Brookfield, Ashgate, 1999.

7. Mi permetto di rinviare al mio Cosmopolis, Cambridge, Polity Press, 1997, in particolare alle pp. 35-38.

8. Cfr. The President of the United States, National Security Strategy of the United States, Washington, The White House, 1991.

9. Il documento, redatto da uno staff di funzionari del Dipartimento di Stato e del Pentagono, venne pubblicato dal New York Times l'8/3/1992 e successivamente rielaborato.

10. Cfr., fra i molti altri, P. Wolfowitz, "An American Perspective", in E. Grove (a cura di), Global Security, London, Brassey's, 1991, pp. 19-28; R. Art, "A Defensible Defense: America's Grand Strategy after the Cold War", International Security, 15 (1991), 1, pp. 5-53; J.L. Gaddis, "Toward the Post-Cold War World", Foreign Affairs, 70 (1991), 2, pp. 102-22.

11. Cfr. M. Wörner, "Global Security: The Challenge for NATO", in E. Grove (ed.), Global Security, cit., pp. 100-5.

12. Cfr. E.H. Carr,, The Twenty Years' Crisis 1919-1939.

13. Cf. T.M. Franck, "Interpretation and change in the law of humanitarian intervention", in J.L. Holzgrefe and R.O. Keohane (eds), op. cit., p. 216.

14. Cf. C.R. Beitz, Political Theory and International Relations, Princeton: Princeton University Press, 1979; S. Hoffmann, Duties Beyond Borders, Syracuse: Syracuse University Press, 1981; J.S. Nye, Jr., Nuclear Ethics, New York: The Free Press, 1986; M. Walzer, Just and Unjust Wars, New York: Basic Books, 1992.

15. Cfr. A. Buchanan, "Reforming the international law of humanitarian intervention", in J.L. Holzgrefe and R.O. Keohane (eds), op. cit., pp. 130-73.

16. Cfr. R.O. Keohane, "Introduction", in J.L. Holzgrefe and R.O. Keohane (eds), op. cit., pp. 1-11.

17. Cfr. T.M. Franck, "Interpretation and change in the law of humanitarian intervention", in J.L. Holzgrefe and R.O. Keohane (eds), op. cit., passim.

18. Cfr. M. Vickers and J. Pettifer, Albania, London, Hurst and Company, 1997; P. Mastrolilli, "La lobby albanese in America", Limes, (1998), 3, pp. 287-90.

19. Nel 1994 il presidente Clinton aveva incaricato il nuovo Segretario di Stato, Lawrence Eagleburger, di inviare un breve telegramma al suo ambasciatore a Belgrado, con l'incarico di leggerlo personalmente a Milosevic. Il testo del telegramma diceva: "In caso di conflitto in Kosovo causato da un'azione serba, gli Stati Uniti saranno pronti a utilizzare forze militari contro i serbi in Kosovo e contro la stessa Serbia", cfr. M. Calvo-Platero, "Le tentazioni di una superpotenza", in E. Berselli, et al., La pace e la guerra, Milano, Il Sole 24 Ore, 1999, pp. 126-7.

20. Questo dato, confortato dal parere del Consiglio per la Difesa dei Diritti Umani e delle Libertà di Prishtina, viene oggi generalmente accettato e vale da solo a smentire sia le dichiarazioni del ministro della difesa degli Stati Uniti, William Cohen, che il 16 maggio 1999 aveva denunciato l'uccisione di centomila kosovaro-albanesi, sia la cifra ufficiale della Nato, che era di diecimila vittime; cfr. A. Lodovisi, "La grande dissipazione", Guerre e pace, 7 (1999), 60, p. 14.

21. Oggi ci sono molti dubbi, che la commissione di inchiesta finlandese non è stata in grado di dissolvere, sulle responsabilità dell'eccidio, sulle sue modalità e sulla stessa identità di una parte delle vittime: per gli uni si è trattato di un massacro di civili inermi compiuto dalla polizia serba, per gli altri è stato il risultato di sparatorie provocate da agguati dell'Uçk contro pattuglie serbe (come hanno testimoniato alcuni osservatori italiani dell'Osce), poi 'costruito' come un eccidio efferato e raccapricciante a fini propagandistici; cfr. R. Morozzo della Rocca, "La via verso la guerra", cit., pp. 24-5.

22. Art. 8 dell'appendice B al capitolo 7 dell'Interim Agreement for Peace and Selfgovernment in Kosovo, UN Doc. S/1999/648 (1999), del 7/6/1999.

23. Si veda H. Kissinger, "US Intervention in Kosovo is a Mistake", The Boston Globe, 1/3/1999.

24. Cfr. R. Morozzo della Rocca, op. cit., pp. 20-21.

25. Cfr. D. Luban, "Intervention and Civilization: Some Unhappy Lessons of the Kosovo War", in P. De Greiff and C. Cronin (eds), Global Justice and Transnational Politics, Cambridge (Mass.), The MIT Press, 2002, p. 82.

26. Dalle dichiarazioni del sottosegretario italiano alla Difesa, Paolo Guerrini; cfr. M. Nese, "Allarme insensato", Corriere della Sera, 11/3/2000, p. 10.

27. Si veda F. Gustincich, "I misteri del Kosovo radioattivo", Limes, (1999), 4, pp. 231-3.

28. Cfr. Amnesty International Report 2007, Serbia. Human Rights Committee 86th Session, July 2006, Index EUR 70/001/2006; Amnesty International Report, Kosovo (Serbia). The United Nations in Kosovo. A Legacy of Impunity, 8 November 2006, Index: Eur 70/015/2006.

29. Cfr. T.M. Franck, "Interpretation and change in the law of humanitarian intervention", in J.L. Holzgrefe and R.O. Keohane (eds), op. cit., p. 226.

30. Cfr. M. Robinson, Report on the Human Rights Situation Involving Kosovo (30/4/1999).

31. Si veda S. Zappalà, "Nuovi sviluppi in tema di uso della forza armata in relazione alle vicende del Kosovo", Rivista di diritto internazionale, 1999, p. 975 ss.

32. Cfr. G. Gaja, "The Long Journey towards Repressing Aggression", in A. Cassese, P. Gaeta and J.R.W.D. Jones (eds), The Rome Statute of the International Criminal Court: A Commentary, Oxford, Oxford University Press, 2002, pp. 427-8.

33. Mi permetto di rinviare al mio Invoking Humanity, London, Continuum International, 2002, pp. 5, 106-120.

34. "We must be careful not to subordinate NATO to any other international body or compromise the integrity of its command structure. [...] the Alliance must reserve the right and the freedom to act when its members, by consent, deem it necessary"; cfr. S. Talbott, Address, Bonn, 4 febbraio 1999, citato in B. Simma, "NATO, the UN and the Use of Force: Legal Aspects", European Journal of International Law", 10 (1999), 1, p. 15.

35. Cfr. B. Simma, op. cit., p. 3; secondo Simma "In the contemporary international law, as codified in the 1969 Vienna Convention on the Law of Treaties (aricles 53 and 64), the prohibition enunciated in Article 2(4) of the Charter is part of jus cogens, i.e. it is accepted and recognized by the international community of states as whole as a norm from which no derogation is permitted".

36. Cfr. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, cit., passim; Id., "State failure and nation-building", in J.L. Holzgrefe and R.O. Keohane (eds), op. cit., pp. 299-321; F.R. Tesón, "The liberal case for humanitarian intervention", cit., passim; R.O. Keohane, "Political authority after intervention: gradation in sovereignty", in J.L. Holzgrefe and R.O. Keohane (eds), op. cit., pp. 272-298.

37. Cfr. M.J. Glennon, op. cit., passim.

38. Cfr. A. Cassese, "Ex iniuria ius oritur", European Journal of International Law, 10 (1999) 1, pp. 23-5. Contra: B. Simma, op. cit., pp. 1-6; C.M. Chinkin, "Kosovo: A 'Good' or 'Bad' War?", American Journal of International Law, 93 (1999) 4, pp. 841-47.

39. Si veda il rapporto A More Secure World: Our Shared Responsibility.

40. United Nations Security Council, Resolution 1674, 28/4/2006, S/RES/1674(2006); per una acuta critica del documento e dell'intera dottrina della responsibility to protect si veda J.E. Alvarez, The Schizophrenias of R2P, Panel Presentation at the 2007 Hague Joint Conference on Contemporary Issues of International Law, The Hague, The Netherlands, 30/6/2007.

41. Cfr. A. Cassese, "Le cinque regole per una guerra giusta", in N. Bobbio, et al., L'ultima crociata?, Roma, I libri di Reset, 1999, p. 28.

42. Cfr. A. Cassese, "Zolo sbaglia, il diritto va aggiornato", ibid., pp. 34-8.

43. Cfr. J. Stromseth, "Rethinking humanitarian intervention: the case for incremental change", in J.L. Holzgrefe and R.O. Keohane (eds), op. cit., pp. 232-72.

44. Ibid., p. 249.

45. Cf. in questo senso: B. Simma, op. cit., passim; D. Luban, "Intervention and Civilization: Some Unhappy Lessons of the Kosovo War", cit., pp. 79-115; R.W. Miller, "Respectable Oppressors, Hypocritical Liberators: Morality, Intervention, and Reality", in D.K. Chatterjee and D.E. Scheid (eds), Ethics and Foreign Intervention, Cambridge: Cambridge University Press, 2003; M. Byers and S. Chesrerman, "Changing the rules about rules? Unilateral humanitarian intervention and the future of international law", in L. Holzgrefe and R.O. Keohane (eds), op. cit., pp. 177-203.