2005

Kelsen teorico della guerra giusta? (*)

Tecla Mazzarese

0. Introduzione

Lo spunto per questo intervento sul quesito se Kelsen possa considerarsi un teorico della guerra giusta è offerto da un'affermazione di Danilo Zolo:

Hans Kelsen accoglie la teoria della "guerra giusta" in un contesto che vorrebbe essere ispirato al pacifismo. [...] Il giusformalista e pacifista kantiano Hans Kelsen [non] rinuncia [...] a fare della dottrina etica della "guerra giusta" la condizione della giuridicità dell'ordinamento internazionale (1).

Nella sua formulazione, questa affermazione suona quanto meno ingenerosa nei confronti di Kelsen che già nel 1944, di fronte agli orrori non ancora giunti a termine del secondo conflitto mondiale, nella prefazione di Peace Through Law affermava in termini perentori che la pace è un bene tanto irrinunciabile da essere addirittura prioritario rispetto alla stessa scelta fra dittatura e democrazia. E precisamente:

la guerra è un assassinio di massa, la più grande disgrazia della nostra cultura; [...] garantire la pace mondiale dev'essere il nostro principale obiettivo politico, un obiettivo molto più importante della scelta tra democrazia e dittatura, o tra capitalismo e socialismo. Non esiste, infatti, la possibilità di un sostanziale progresso sociale finché non sia istituita una organizzazione internazionale tale da impedire effettivamente la guerra tra le nazioni della terra (2).

Certo, l'urgenza di "riscattare" Kelsen da un giudizio non del tutto meritato, può non apparire immediata in un momento come quello presente: un momento segnato da una pluralità di focolai di guerra regionale, latenti o drammaticamente manifesti come nel caso del conflitto israelo-palestinese, e, soprattutto, minacciato da quello che è (o, forse, ma è difficile scegliere il tempo verbale corretto, avrebbe potuto e/o potrebbe diventare) un nuovo conflitto mondiale. Un momento, cioè, quello presente, minacciato dalla guerra che, dopo l'attentato dell'11 settembre, in nome della lotta al terrorismo internazionale, ha avuto il suo tragico esordio con l'intervento armato in Afganistan ma delle cui forme di prosecuzione, così come dei suoi prossimi obiettivi, nulla è dato sapere. Nulla, a quanto risulta, neppure alle autorità di quei paesi che, schieratisi a fianco degli Stati Uniti, hanno già preso attivamente parte alle fasi iniziali del conflitto e hanno già assicurato la propria disponibilità a continuare ad esserne attori. Le tensioni e le preoccupazioni legate ai tempi e ai modi di prosecuzione di questo nuovo conflitto armato, almeno il terzo in dieci anni di cui l'occidente è non più solo testimone ma anche protagonista, giustificano, cioè, il dubbio se, almeno nell'immediato, valga la pena di affrontare una lettura esegetico-filologica dell'opera di Kelsen per capire se ed in che senso lo si possa indicare come un teorico della guerra giusta, per capire se ed in che senso la sua (ri)affermazione della dottrina della guerra giusta sia compatibile con molti degli assunti formulati nei suoi scritti degli anni quaranta. Assunti che, non è superfluo ricordare, sono fondamento e/o espressione di proposte tecnico-giuridiche per il mantenimento della pace nel mondo che a tutt'oggi non sono ancora state realizzate per mancanza della volontà politica proprio di chi, forte e potente, preferisce non avere impedimenti tecnico-giuridici che ne intralcino i disegni di espansione e/o di consolidamento di una propria supremazia geopolitica (3).

Il dubbio sull'opportunità di tralasciare, almeno per il momento, quello che potrebbe sembrare solo un mero esercizio di pedanteria accademica, si ridimensiona però notevolmente se ed in quanto il giudizio su Kelsen teorico della guerra giusta si riveli non solo ingeneroso, ma anche fuorviante rispetto ad un assunto che è centrale non solo nell'opera di Kelsen, ma anche e soprattutto per decidere dei possibili strumenti, politici e giuridici, con cui affrontare tanto i prossimi sviluppi del conflitto armato da combattere contro un non meglio precisato terrorismo internazionale, quanto i diversi conflitti regionali in corso, così come ogni altro possibile conflitto futuro.

E il giudizio su Kelsen teorico della guerra giusta si rivela non solo ingeneroso, ma anche fuorviante. Tale giudizio, infatti, mira in realtà a svilire e a destituire di fondamento, l'assunto, questo sì innegabilmente centrale nella produzione internazionalistica di Kelsen, della necessità dello strumento giuridico per garantire la pace, della necessità, cioè, di subordinare la sovranità nazionale dei singoli stati alle regole del diritto internazionale quale strumento necessario per il mantenimento della pace.

Questo, in estrema sintesi, è il nucleo di quanto cercherò di mostrare in questo lavoro.

Data la vastità della produzione kelseniana e la complessità dell'impianto teoretico-concettuale della sua reine Rechtslehre, anche il tema della riproposizione della teoria della guerra giusta, così come molti nodi centrali dell'opera di Kelsen, si presta ad essere indagato sotto un duplice profilo: (a) quello dell'eventuale pluralità di forme e di modi della sua formulazione in momenti diversi della sua opera (4); e (b) quello della sua eventuale (in)coerenza, in alcune o in tutte le sue possibili formulazioni diverse, rispetto all'impianto teoretico-concettuale della reine Rechtslehre (5).

Non è mia intenzione, però, non almeno in questa sede, occuparmi rigorosamente e compiutamente di nessuno di questi due profili d'analisi. Gli eventuali accenni all'uno e all'altro saranno, quindi, solo marginali e occasionali.

Ciò di cui in questa sede intendo occuparmi, infatti, non è tanto un problema di carattere esegetico-filologico, quanto, piuttosto, un problema di politica del diritto. E precisamente, il problema del quale intendo occuparmi è se l'individuazione e la definizione dei termini in cui decidere dell'(il)legittimità di una guerra, di ogni guerra, sia, così come sembra suggerire la riproposizione della dottrina della guerra giusta in Kelsen, una condizione necessaria (per quanto palesemente tutt'altro che sufficiente) per l'affermazione e per il mantenimento della pace; se, in altri termini, il diritto possa essere considerato uno strumento essenziale, per quanto di per sé non sufficiente, per garantire la pace.

Due, in particolare, i quesiti che intendo prendere in esame.

Il primo quesito concerne i termini in cui questo problema trova espressione in Kelsen, e precisamente: Perché Kelsen (ri)propone la dottrina della guerra giusta per affermare il principio della "pace attraverso il diritto", del diritto quale strumento necessario per il mantenimento della pace?

Il secondo quesito concerne invece la plausibilità dei termini in cui Kelsen formula il problema in esame, e precisamente: L'affermazione del principio della "pace attraverso il diritto" può prescindere, contrariamente a quanto sembra ritenere Kelsen, dall'individuazione e dalla definizione dei casi in cui una guerra può dirsi (il)legittima?

Per poter procedere ad un'analisi del primo e del secondo quesito, è però necessaria, preliminarmente, qualche precisazione di carattere lessicale.

1. Precisazioni di carattere lessicale, ma non solo

E' innegabile che l'affermazione di Zolo secondo la quale Kelsen è un teorico della guerra giusta trovi numerosi riscontri testuali nell'opera di Kelsen.

Nondimeno, il tono duro e quasi sprezzante della sua formulazione mette a disagio. Mette a disagio anche e soprattutto perché 'guerra giusta' e 'teorico della guerra giusta' sono espressioni che prevalentemente, se non esclusivamente, rinviano a una letteratura in cui, con malcelata irrisione per la pace, si propongono argomenti che consentano di dare una copertura di matrice politica, quando non addirittura etica, all'unica ragione di tutte le guerre: il desiderio di sopraffazione, la volontà e l'arroganza di imporre, con la forza, i propri interessi su quelli altrui.

Così, ad esempio, è questo l'uso che dell'espressione 'guerra giusta' è possibile registrare nell'imponente e sin troppo fortunato volume del 1977 di Michael Walzer Just and Unjust Wars (6). Volume che, esplicitamente e dichiaratamente, aspira a fornire i termini per un "discorso morale" sulla guerra (7).

E ancora, è questo l'uso ricorrente che dell'espressione 'guerra giusta' è possibile rilevare (con connotazioni, secondo i casi e/o gli autori, positive o negative) nella letteratura degli ultimi dieci anni che ha accompagnato i tre eventi bellici di cui l'occidente è stato promotore e protagonista: la guerra del Golfo, la guerra del Kosovo e la guerra in Afganistan.

E infine, è prevalentemente questo l'uso (sempre con una connotazione manifestamente negativa) che Zolo stesso assume dell'espressione 'guerra giusta' quando, nei suoi lavori degli ultimi dieci anni, rifiuta con veemenza la riaffermazione di quella che lui stigmatizza come una dottrina di matrice etico-politica e/o etico-teologica.

Ora, è in questo senso di 'guerra giusta', senso oggi prevalente anche nell'uso comune, che è ingeneroso etichettare Kelsen come teorico della guerra giusta. Così come è ingeneroso etichettare Kelsen come teorico della guerra giusta anche quando, più semplicemente, della non univocità dei possibili usi di quest'espressione e della diversità dei suoi possibili significati non si faccia menzione o vi si faccia solo un cenno fugace per negarne più che per segnalarne il possibile rilievo (8).

Di 'guerra giusta' è infatti possibile distinguere almeno due nozioni diverse, nozioni in relazione a ciascuna delle quali è poi possibile procedere a un'ulteriore distinzione di usi e/o di concezioni differenti.

Una prima nozione di 'guerra giusta', nozione che corrisponde all'uso ciceroniano di 'bellum justum', è quella secondo la quale una guerra è giusta se è conforme a quanto è stabilito dal diritto. In questa sua prima accezione, cioè, 'guerra giusta' non significa altro che guerra giuridicamente legittima.

Una seconda nozione di 'guerra giusta', nozione oggi ricorrente anche nell'uso comune, è quella secondo la quale una guerra è giusta se è possibile individuare una giustificazione morale e/o etica e/o teologica indipendente da, e in ogni caso preminente rispetto a quanto il diritto (internazionale) preveda o possa stabilire.

La prima delle due nozioni di 'guerra giusta', pur nella varietà delle sue possibili concezioni, individua cioè una categoria giuridica.

La seconda delle due nozioni di 'guerra giusta', pur nella varietà delle sue possibili concezioni, individua, invece, una categoria metagiuridica.

Per quanto, poi, tra la prima e la seconda nozione si possa determinare una tensione e/o si possa stabilire una pluralità di relazioni diverse, le due nozioni rimangono nondimeno distinte: esse riposano su presupposizioni differenti e comportano conseguenze non equivalenti (9).

Di queste due nozioni di 'guerra giusta', quella che è possibile registrare in Kelsen è la prima, quella che individua, cioè, una categoria giuridica, non la seconda, non, cioè, quella che rinvia ad una categoria metagiuridica.

Una prima duplice conferma di quest'affermazione si ha già con Il problema della sovranità, lavoro pubblicato nel 1920, all'indomani della conclusione della prima guerra mondiale. Duplice conferma che deriva sia dal filo conduttore dell'intera opera, sia dai termini in cui, in essa, Kelsen richiama la dottrina della guerra giusta.

Filo conduttore dell'intera opera è, infatti, un attacco sistematico, uno dei primi e dei più severi, al concetto di sovranità statale: un attacco mosso sia in nome della giuridicità / obbligatorietà del diritto internazionale e della sua supremazia sul diritto interno dei singoli stati, sia, e forse soprattutto, in nome del pacifismo (di un valore, cioè, consapevolmente riconosciuto e rivendicato come valore politico).

E ancora, i termini in cui, già in quest'opera, Kelsen richiama la dottrina della guerra giusta sono quelli che consentono di negare, in aperta opposizione alla dottrina internazionalistica allora dominante, il principio secondo il quale «uno Stato può fare la guerra sempre e per qualunque ragione» (10). Detto altrimenti, Kelsen richiama strumentalmente la dottrina della guerra giusta per potere affermare il principio secondo il quale una guerra è giusta (vale a dire: legittima) solo nel caso in cui vi si faccia ricorso conformemente a quanto stabilito dal diritto internazionale; in caso contrario, qualunque guerra è da considerare, invece, un illecito internazionale (vale a dire: illegittima).

Che la (ri)affermazione della dottrina della guerra giusta in Kelsen si esaurisca nella mera individuazione di criteri giuridici per potere decidere dell'(il)legittimità di una guerra è ancora più evidente nelle Holmes Lectures tenute da Kelsen nel 1940-41, e pubblicate poi nel 1942 con il titolo Law and Peace in International Relations. Lezioni nelle quali il problema, ancora una volta, è quello di rivendicare la giuridicità / obbligatorietà del diritto internazionale e di affermare la sua supremazia sul diritto interno dei singoli stati, anche e soprattutto in nome del pacifismo. Il quesito che Kelsen si pone è quindi:

is it possible to say that according to international law war is permitted only as a sanction, and any war which has not the character of a sanction is forbidden by international law, is a delict? (11)

Due, secondo Kelsen, le risposte possibili.

La prima risposta è che:

According to one opinion, war is neither a delict nor a sanction. Any state that is not expressly bound by special treaty to refrain from warring upon another state, or to resort to war only under certain definite conditions, may proceed to war against any other state on any ground without violating international law (12).

Secondo questa risposta, cioè, ogni stato, se ed in quanto il diritto internazionale non dica nulla riguardo alla guerra, sarebbe giuridicamente legittimato a muovere guerra quando gli pare e piace.

La seconda risposta consiste invece nella (ri)affermazione della dottrina della guerra giusta:

The opposite opinion [...] holds that according to general international law war is forbidden in principle. It is permitted only as a reaction against an illegal act, a delict, and only when directed against the state responsible for this delict. [...] This is the theory of bellum iustum (13).

Termini, questi della riproposizione della dottrina della guerra giusta, che Kelsen ripete ancora nel 1960, nella seconda edizione della sua Reine Rechtslehre. Dopo aver ricordato la presenza in dottrina della contrapposizione fra due diverse opinioni su guerra e diritto internazionale, Kelsen scrive infatti:

Secondo la prima [opinione], la guerra non è né un delitto né una sanzione. In base al diritto internazionale generale, ogni stato può ricorrere alla guerra per qualunque motivo, senza per questo violare il diritto internazionale. Secondo l'altra dottrina, anche la guerra è ammissibile, secondo il diritto internazionale generale, soltanto come reazione contro la violazione del diritto internazionale, cioè contro la violazione degli interessi di uno stato, contro la quale questo stato è autorizzato dal diritto internazionale generale a reagire con la guerra o la rappresaglia. Come quest'ultima, la guerra stessa, se non è una sanzione è un delitto. Questo è il cosiddetto principio del bellum justum. (14).

In anni più recenti, questa nozione kelseniana di 'guerra giusta' è stata richiamata da Norberto Bobbio (15). Replicando alle severe critiche rivoltegli da Massimo Cacciari, Cesare Luporini e da Danilo Zolo per avere sostenuto che la guerra del Golfo era una guerra giusta, Bobbio scrive infatti:

contrariamente a quello che sembrano credere i miei critici, l'effetto dell'abbandono della dottrina della guerra giusta non fu il principio: "Tutte le guerre sono ingiuste", ma esattamente il principio opposto: "tutte le guerre sono giuste". Il jus ad bellum, cioè il diritto di fare la guerra, fu considerato una prerogativa del potere sovrano. [...] Solo alla fine della prima guerra europea, che apre la strada a un tentativo di rafforzamento del sistema del diritto fra gli Stati con quell'embrione di organizzazione internazionale che fu la Società delle Nazioni, si ricominciò a discutere intorno al problema della liceità della guerra, e alla necessità di distinguere guerre giuste da guerre ingiuste, vale a dire tra la forza usata per violare il diritto e la forza usata come sanzione (16).

A conclusione di queste affermazioni significativamente Bobbio rinvia a due lavori di Kelsen: Teoria generale del diritto e dello stato del 1945 (17) e la Pace attraverso il diritto del 1944, lavoro, quest'ultimo, apparso in traduzione italiana proprio nel 1990 (18).

2. La (ri)affermazione della dottrina della guerra giusta in Kelsen: un tentativo di ricostruzione

Il primo dei due quesiti che, come si è già accennato, costituiscono l'oggetto principale di questo lavoro è: Perché Kelsen (ri)propone la dottrina della guerra giusta per affermare il principio della "pace attraverso il diritto", del diritto quale strumento necessario per il mantenimento della pace?

Sono due le ragioni principali che sembrano giustificare questa scelta da parte di Kelsen.

La prima ragione, alla quale si è già diffusamente fatto riferimento nel precisare che in Kelsen 'guerra giusta' è una categoria giuridica che serve a individuare i criteri di (il)legittimità di una guerra, è che (ri)proporre la dottrina della guerra giusta appare a Kelsen come l'unica alternativa al ricorso indiscriminato alla guerra ogni volta che uno stato lo ritenga anche solo opportuno o conveniente.

La seconda ragione è che la definizione dei casi in cui una guerra è giusta se ed in quanto conforme al diritto (internazionale) consente di individuare in quali casi la guerra possa essere considerata non un illecito, ma una sanzione. E, la possibilità di caratterizzare la guerra non solo come illecito ma anche come sanzione consente a Kelsen, secondo l'apparato categoriale della sua reine Rechtslehre, di affermare la giuridicità / obbligatorietà del diritto internazionale e, quindi, di tracciare un limite alla sovranità dei singoli stati e del loro diritto interno. Limite, quello alla sovranità statale, necessario, secondo Kelsen, se si vuole perseguire e garantire la pace.

Molti i lavori nei quali Kelsen afferma questo assunto già a partire dal 1920. Così, nel saggio Il problema della sovranità, Kelsen scrive:

La comunità giuridica internazionale [...] non ha nessun particolare organo esecutivo. Sarebbe tuttavia sbagliato [...] negare la possibilità di atti giuridici internazionali che impongano il diritto, negare l'esistenza di qualsivoglia coazione giuridica internazionale e di qualsivoglia organo esecutivo. Se la guerra è un fatto del diritto internazionale, se cioè la si può intendere in generale come fenomeno giuridico [...] essa non può non essere considerata come lo strumento coercitivo introdotto dall'ordinamento giuridico internazionale al fine di farsi valere nei confronti di coloro che lo violano (19).

Assunto, questo, assolutamente irrinunciabile per Kelsen che, ancora nel 1960, al quesito se il diritto internazionale possa essere considerato «diritto nello stesso senso in cui lo è il diritto statale», risponde:

il cosiddetto diritto internazionale è diritto se si presenta come un ordinamento coercitivo del comportamento umano presupposto come sovrano; se ricollega, come conseguenza, atti coercitivi da esso predeterminati a fattispecie previste come condizioni (20).

3. Criteri per giudicare dell'(il)legittimità di una guerra e mantenimento della pace attraverso il diritto

Il secondo dei due quesiti che, come si è già accennato, costituiscono l'oggetto principale di questo lavoro è: L'affermazione del principio della "pace attraverso il diritto" può prescindere, contrariamente a quanto sembra ritenere Kelsen, dall'individuazione e dalla definizione dei casi in cui una guerra può dirsi (il)legittima?

Ovvia la risposta negativa che è possibile desumere dall'opera di Kelsen. Risposta negativa che sembra trovare conferma in quello che lo stesso Kelsen indica come l'accoglimento del principio del bellum justum nel diritto internazionale del novecento. Così, già nel 1942, Kelsen registra che:

It is easy to prove that the theory of bellum justum forms the basis of a number of highly important documents in positive international law, namely, the Treaty of Versailles, the Covenant of the League of Nations, the Kellog Pact (21).

Affermazione, questa del 1942, che troverà un'ulteriore significativa conferma nella stesura della Carta dell'Onu del 1945 dove sia nel preambolo, sia nell'art. 51 si fa riferimento ai casi in cui, seppure del tutto eccezionalmente, è consentito il ricorso alla guerra.

Kelsen stesso, nel 1960, tornando su questo punto scrive:

L'opinione che [il principio del bellum justum] sia parte costitutiva del diritto internazionale, era già posta a fondamento dei trattati di pace che conclusero la prima guerra mondiale e che contenevano lo statuto della Società delle Nazioni. In seguito, per mezzo del patto Briand-Kellog e dello statuto delle Nazioni Unite, il principio è divenuto, senza possibilità di dubbio, contenuto di trattati, uno dei quali (il patto Briand-Kellog) ha come parti contraenti pressoché tutti gli stati, mentre l'altro (lo statuto delle Nazioni Unite) pretende a questo riguardo di valere per tutti gli stati del mondo. Di fronte a questi fatti, è oggi praticamente impossibile ritenere che, secondo il diritto internazionale vigente, uno stato possa per un qualunque motivo dichiarare guerra ad ogni altro stato, senza con ciò stesso violare il diritto internazionale, senza cioè negare la validità generale del principio del bellum justum. Appare quindi saldamente fondata l'opinione secondo cui tanto la guerra quanto la rappresaglia sono sanzioni del diritto internazionale (22).

Manifesta, ancora una volta, la consonanza di Bobbio con la posizione di Kelsen, quando afferma:

A maggior ragione il tema della distinzione fra uso lecito o uso illecito della forza, in cui si risolve il tema tradizionale della guerra giusta, torna ad essere attuale nel sistema internazionale dopo la fondazione delle Nazioni Unite, il cui statuto prevede la guerra di legittima difesa e la formazione di forze armate per prendere misure volte a ristabilire l'ordine internazionale, dopo che il Consiglio di sicurezza abbia deciso di impiegare la forza (letteralmente la "forza") (23).

Bobbio sembra quindi condividere la posizione kelseniana secondo la quale il principio del bellum justum, così come trova espressione nel diritto internazionale vigente, sia uno strumento importante per decidere dell'(il)legittimità della guerra e, quindi, uno strumento importante, per quanto di per sé insufficiente, per arginare le ricorrenti e sempre più frequenti minacce alla pace.

A differenza di Bobbio, non condividono e criticano con fermezza la posizione di Kelsen sia Danilo Zolo, sia, per quanto su posizioni molto diverse, Luigi Ferrajoli e François Rigaux.

In particolare, Danilo Zolo si oppone alla tesi di Kelsen e, rivendicando una posizione di "realismo politico", nega che il diritto (internazionale) abbia e/o possa avere una funzione decisiva per il mantenimento della pace. Due gli ordini di ragioni di questa negazione.

Il primo, che esplicitamente riprende la posizione espressa da Bobbio negli anni sessanta (24), è che, in epoca nucleare, la guerra

si è posta al di fuori di ogni possibile criterio di legittimazione e di legalizzazione: essa è incontrollata e incontrollabile dal diritto come un terremoto o come una tempesta [...] è ritornata ad essere [...] l'antitesi del diritto (25).

Il secondo ordine di ragioni che porta Zolo a negare la tesi della pace attraverso il diritto è dettato, invece, da una dichiarata diffidenza, profonda e generalizzata, nei confronti del diritto internazionale. Ed è proprio su questo punto che in realtà si rivela la sua contrapposizione più netta e radicale con il pensiero di Kelsen: tanto la preoccupazione di Kelsen è sempre stata quella di attaccare il principio della sovranità statale rivendicando dignità giuridica e carattere obbligatorio per il diritto internazionale, quanto, al contrario, la preoccupazione ricorrente di Zolo è quella di mettere in guardia contro l'erosione del principio di sovranità e del principio della domestic jurisdiction denunciando l'inefficienza e a un tempo l'inevitabile strumentalizzazione politica delle istituzioni sovranazionali, soprattutto di quelle con funzioni giudiziarie (26).

Il sempre più frequente succedersi di conflitti bellici sembra dare ragione al "realismo politico" di Zolo. Pure, per quanto non si possa non constatare come ad oggi costituisca ancora uno strumento ben poco risolutivo, il diritto internazionale rimane, nondimeno, l'unico strumento che consente di denunciare l'(il)legittimità di un conflitto bellico. E Zolo stesso si è avvalso proprio di questo strumento per negare la legittimità di ciascuno dei tre conflitti succedutisi negli ultimi dieci anni (27). Ben poca cosa, certo. Ma innegabilmente peggiore sarebbe una situazione in cui anche questo dovesse essere precluso da un ulteriore depotenziamento del diritto internazionale.

Diverse, da quelle di Zolo, le ragioni di critica alla posizione di Kelsen avanzate da Luigi Ferrajoli e da François Rigaux.

Ferrajoli e Rigaux non criticano, infatti, la posizione di Kelsen perché non ne condividano, così come Zolo, l'assunto del carattere giuridico e obbligatorio del diritto internazionale, ma perché ritengono che per affermarlo non sia necessario passare attraverso la caratterizzazione della guerra come sanzione. Ritengono, cioè, che l'affermazione della giuridicità / obbligatorietà del diritto internazionale non comporti il prezzo di dover riconoscere alla guerra, per quanto solo nei casi eccezionali previsti dal diritto internazionale, il carattere di sanzione. Opinione di Ferrajoli e di Rigaux è che i precetti del diritto internazionale, compreso quello del divieto generale di muovere guerra, possano essere fatti valere con sanzioni altre rispetto all'autorizzazione del ricorso alla guerra.

In particolare, è tesi di Ferrajoli che:

Kelsen per sostenere che la guerra è (almeno nella maggior parte dei casi) un illecito, è costretto a ricercarne comunque una sanzione, e quindi a sostenere - a causa della mancanza nel diritto internazionale di altre tecniche sanzionatorie idonee a contrastarla - che il bellum justum, ossia la guerra in risposta a una precedente violazione del diritto internazionale è essa stessa una sanzione. E questo a dispetto del diritto vigente che, nella Carta dell'Onu, consente la guerra solo nei casi, ben più ristretti, di legittima difesa vietandola in ogni altro caso. Viceversa, la definizione di illecito [...] semplicemente come atto informale vietato, mentre consente di ravvisarlo pur in mancanza di sanzioni, vale a configurare tale mancanza come una lacuna dell'ordinamento, sia esso statale o internazionale. Non si tratta di una questione di parole [...] la qualificazione come illeciti della guerra e delle violazioni dei diritti fondamentali commesse dagli Stati è il presupposto giuridico della costruzione di una democrazia internazionale; mentre la configurazione delle sanzioni di tali illeciti come altrettante tecniche di garanzia consente di concepirne l'assenza come "lacune", che è obbligo della comunità internazionale colmare (28).

Ma, se secondo Ferrajoli sono questi i termini in cui ripensare e/o riformulare la disciplina giuridica della guerra, allora i punti di consenso con la teoria di Kelsen si rivelano più numerosi e più significativi delle ragioni di dichiarato dissenso. E precisamente, il consenso con la teoria di Kelsen si rivela maggiore di quanto si possa pensare sia perché Ferrajoli, come Kelsen, è un convinto sostenitore della giuridicità / obbligatorietà del diritto internazionale, sia perché, ad un esame più attento, anche i tre punti di dichiarato dissenso si rivelano, forse, apparenti.

In particolare, il primo punto di dissenso di Ferrajoli è relativo alla kelseniana caratterizzazione della guerra (non solo come illecito, ma anche) come sanzione. Nondimeno, con riferimento alla Carta dell'Onu, lo stesso Ferrajoli non può non ricordare la legittima difesa come caso di guerra legittima (nel lessico di Kelsen 'giusta').

Il secondo punto di dissenso di Ferrajoli che, come l'osservazione precedente, attenua la radicalità del primo, è relativo all'ambito troppo ampio dei possibili casi in cui la kelseniana riproposizione della dottrina della guerra giusta sembrerebbe autorizzare il ricorso alla guerra come sanzione. Innegabile il carattere generico e indeterminato del linguaggio usato al riguardo da Kelsen: «no war is permissible save as a reaction against a wrong suffered, against a delict» (29). Nondimeno, per quanto questa formulazione sia innegabilmente inquietante per la vasta gamma di casi che essa consente di comprendere (lo stesso Kelsen ne è consapevole e non evita di metterlo in evidenza (30)), non si può non ricordare, come per altro si è già segnalato, che per Kelsen il principio del bellum justum è quello che ha trovato espressione nel Patto della Società delle Nazioni, prima, e, poi, nella Carta Onu. Carta, quella dell'Onu, che afferma sì il valore della pace come valore costituivo e fondante del nuovo assetto internazionale all'indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale, che mette sì al bando la guerra salvo in caso di legittima difesa (art. 51), ma che, con linguaggio non meno sconsolantemente generico di quello usato da Kelsen, nel suo preambolo afferma anche che i "Popoli delle Nazioni Unite" sono:

Decisi [...] ad assicurare, mediante l'accettazione di principi e l'istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell'interesse comune.

Il terzo punto di dissenso di Ferrajoli è relativo alla mancata individuazione e/o indicazione di sanzioni altre dalla guerra (e dalla rappresaglia) per reagire agli illeciti della guerra e delle violazioni dei diritti fondamentali commesse dagli Stati. Ancora una volta, però, il dissenso si rivela meno radicale di quanto possa apparire. Se infatti nel 1920 ne Il problema della sovranità, Kelsen non immagina e non suggerisce sanzioni del diritto internazionale altre dalle rappresaglie e dalla guerra, nel 1944, invece, come si è già fatto cenno (31), ne La pace attraverso il diritto, accanto e oltre alle rappresaglie e alla guerra Kelsen propone quello che ancora oggi continua ad essere in larga misura un obiettivo difficile da conseguire: l'elaborazione di un diritto penale internazionale scandito in termini di responsabilità individuale non solo nel caso di crimini riconducibili al jus in bello, ma (in modo indiscutibilmente innovativo nel 1944) anche per i crimini contro la pace, per i crimini, cioè, riconducibili al jus ad bellum. Un diritto penale internazionale scandito in termini di responsabilità individuale anche nei confronti di coloro che, con responsabilità di governo, mettono a repentaglio la pace, perché:

Le specifiche sanzioni di diritto internazionale, le rappresaglie e la guerra non sono dirette contro l'individuo la cui condotta ha violato il diritto internazionale; le rappresaglie e la guerra sono dirette contro lo Stato come tale, cioè contro i cittadini di quello Stato, contro individui che non hanno commesso il delitto o che non hanno avuto la capacità di prevenirlo (32).

4. Rilievi conclusivi

Kelsen è un teorico della giuridicità / obbligatorietà del diritto internazionale, non della guerra giusta.

Kelsen è un teorico della giuridicità / obbligatorietà del diritto internazionale e di una concezione monistica del diritto in cui il diritto internazionale sia fonte gerarchicamente superiore al diritto interno dei singoli stati (33). Affermazione della giuridicità / obbligatorietà del diritto internazionale e critica della tradizionale concezione della sovranità assoluta degli stati come momenti complementari e simmetrici, entrambi funzionali non tanto ad esigenze dell'impianto teoretico della reine Rechtslehre, quanto piuttosto alla realizzazione di quello che già a partire dal 1920 Kelsen stesso individuava come un ideale non scientifico, ma politico: il pacifismo (34). Scrive infatti Kelsen:

Solo temporaneamente e nient'affatto per sempre l'umanità si divide in Stati, formati del resto in maniera più o meno arbitraria. La sua unità giuridica, la civitas maxima come organizzazione del mondo: questo è il nocciolo politico dell'ipotesi giuridica del primato del diritto internazionale, che è però al tempo stesso l'idea fondamentale di quel pacifismo che nell'ambito della politica internazionale costituisce l'immagine rovesciata dell'imperialismo (35).

Ideale scopertamente e dichiaratamente politico, quindi, quello del pacifismo. Ma non solo. Nel 1920 Kelsen va oltre e di questo ideale politico afferma addirittura la natura etica. Scrive infatti Kelsen:

Come per una concezione oggettivistica della vita il concetto etico dell'uomo è l'umanità, così per una teoria oggettivistica del diritto il concetto di diritto si identifica con quello di diritto internazionale e proprio perciò è in pari tempo un concetto etico (36).

La natura etica è rivendicata, quindi, per il valore del pacifismo, non per la dottrina della guerra giusta. La dottrina della guerra giusta è infatti esplicitamente circoscritta, e, come si è già sottolineato, in termini anche consapevolmente problematici, ai pochi casi eccezionali esplicitamente indicati, per quanto non sempre in forme univoche e coincidenti, nei trattati internazionali del novecento.

La dottrina della guerra giusta è considerata solo come uno strumento non come un fine. Il fine (quello sì secondo Kelsen di natura etica) rimane sempre quello del pacifismo e la dottrina della guerra giusta è solo uno strumento per limitare il potere dello stato sovrano altrimenti libero di muovere guerra a proprio piacimento.


Note

*. In A. Calore (a cura di), 'Guerra giusta'? Le metamorfosi di un concetto antico, Giuffrè, Milano 2003, pp. 159-181.

1. D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, 2000, p. 112. Cfr., inoltre, D. Zolo, Il globalismo giudiziario di Hans Kelsen, in D. Zolo, I signori della pace. Una critica al globalismo giuridico, Roma, pp. 21-48. Un primo accenno alla diversa lettura della (ri)affermazione della teoria della guerra giusta in Kelsen è già presente in T. Mazzarese e D. Zolo, Guerra, diritto e ordine globale. Un dialogo tra Tecla Mazzarese e Danilo Zolo, in La società degli individui, 11, 2, 2001, pp. 151-164.

2. H. Kelsen, Peace through Law, Chapel Hill, 1944; trad. it a cura di L. Ciaurro: La pace attraverso il diritto, Torino, 1990; la citazione è tratta dalla trad. it., pp. 35-36.

3. Tra le proposte esplicitamente avanzate da H. Kelsen in Peace through Law, cit.: (a) l'istituzione di un tribunale penale internazionale con giurisdizione obbligatoria; (b) la creazione di «una forza di polizia internazionale diversa e indipendente dalle forze armate degli stati membri» per renderne esecutive le eventuali sanzioni; (c) la redazione di un diritto penale internazionale attentamente declinato in termini di responsabilità personale non solo nel caso di crimini di guerra (nel caso, cioè, di violazione del jus in bello) ma anche nel caso di crimini contro la pace (nel caso, cioè, di violazioni del jus ad bellum). Di queste proposte, quella sulla quale Kelsen ha maggiormente insistito sembra finalmente avviarsi ad attuazione: il primo luglio 2002 è infatti entrata ufficialmente in funzione l'International Criminal Court. Sulla sua sorte non mancano, però, già fondati timori. E non solo perché il Trattato di Roma con il quale veniva istituita nel 1998 è stato firmato da 120 stati, ma ratificato, al primo luglio 2002, solo da 74 stati fra i quali non figurano né la Cina, né la Federazione Russa, né Israele, né gli Stati Uniti. Sulla sua sorte non mancano fondati timori anche e soprattutto per l'aperta ostilità proprio degli Stati Uniti. Significativamente, lo stesso giorno della sua effettiva entrata in funzione, gli Stati Uniti, infatti, hanno minacciato il proprio veto alla prosecuzione dell'azione di peace-keeping in Bosnia nel caso in cui i propri soldati non fossero stati sottratti alla giurisdizione della Corte. Scandaloso, nel giudizio di Amnesty International, l'accordo di compromesso raggiunto due settimane dopo, per scongiurare il boicottaggio di questa e di future azioni di peace-keeping: il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha deciso infatti che i soldati statunitensi (così come quelli di tutti i paesi impegnati in operazioni di peace-keeping) siano esentati dalla giurisdizione della Corte per un anno. Esenzione che, alla sua scadenza, potrà, però, essere rinnovata.

4. Di molti temi centrali della kelseniana reine Rechtslehre è possibile distinguere formulazioni differenti in periodi diversi della sua pluridecennale (ri)elaborazione dal 1911, anno della pubblicazione di Hauptprobleme der Staatsrechtslehre Entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatz, Tübingen, al 1979, anno della pubblicazione postuma di Allgemeine Theorie der Normen, Wien, trad. it. a cura di M.G. Losano: Teoria generale delle norme, Torino, 1985. Particolarmente puntuali e dettagliate, pur nella non coincidenza delle ricostruzioni proposte, le periodizzazioni suggerite da M.G. Losano, Saggio introduttivo, in H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, 1964, pp. xiii-cv e Id., The Periodization of Kelsen Proposed by S.L. Paulson, in L. Gianformaggio (a cura di), Hans Kelsen's Legal Theory. A Diachronic Point of View, Torino, 1990, pp. 111-121 e da S.L. Paulson, Toward a Periodization of the Pure Theory of Law, in L. Gianformaggio (a cura di), Hans Kelsen's Legal Theory, cit., pp. 11-47. E ancora, numerosi gli studiosi che si sono interessati alle diverse formulazioni di assunti o temi particolari della reine Rechtslehre quali, ad esempio, il rapporto tra diritto e logica, la distinzione fra norme primarie e norme secondarie, il concetto di norma fondamentale, le forme dell'interpretazione giuridica, i modi della scienza e/o della conoscenza giuridica. Sorprendentemente, invece, in letteratura non si registra molta attenzione per una periodizzazione della trattazione delle tematiche di matrice internazionalistica e, in particolare, per i termini della (ri)proposizione della teoria della guerra giusta.

5. Se in letteratura la periodizzazione delle tematiche di matrice internazionalistica non è oggetto di grande attenzione, al contrario, il problema della possibile (in)coerenza della trattazione di tali tematiche rispetto all'assetto complessivo della reine Rechtslehre è, invece, oggetto di numerose analisi. Cfr., ad esempio, H. Bull, Hans Kelsen and International Law, in R. Tur e W. Twining (a cura di), Essays on Kelsen, Oxford, 1986, pp. 323-336; L. Ciaurro, Un diritto internazionale per la pace, in H. Kelsen, La pace attraverso il diritto, Torino, 1990, pp. 1-33; Ch. Leben, Un commento a Rigaux, in Ragion Pratica, 4, 6, 1996, pp. 105-120; F. Rigaux, Hans Kelsen e il diritto internazionale, in Ragion Pratica, 4, 6, 1996, pp. 79-103; D. Zolo, Il globalismo giudiziario di Hans Kelsen, cit., M.G. Losano, Pace, guerra e diritto internazionale: una controversia fra Kelsen e Campagnolo, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 31, 1, 2001, pp. 111-130.

6. M. Walzer, Just and Unjust Wars, New York, 1977. Per una sua lettura critica, cfr. D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, 1995, pp. 97-103.

7. Discorso morale sulla guerra dei cui termini e delle cui categorie Walzer si è servito, negli ultimi dieci anni, per riconoscere una giustificazione e un fondamento morale alla guerra del Golfo e alla guerra del Kosovo, prima, e, da ultimo, all'intervento armato in Afganistan.

8. E' così, ad esempio, nel caso della notazione con la quale D. Zolo, Chi dice umanità, cit., p. 112, riduce, un po' sbrigativamente, la posizione di Kelsen a una mera «variazione giuridica» della «tradizionale formulazione etico-teologica» della dottrina della guerra giusta.

9. Nel richiamare alcune delle più significative formulazioni della teoria del bellum justum a partire dall'antica Grecia, H. Kelsen, Law and Peace in International Relations., Harvard, 1942, seconda ed. 1948, pp. 43-45, non presta eccessiva attenzione né alla distinzione, né al rischio della possibile confusione, fra le due nozioni: così, ad esempio, delle concezioni di Sant'Agostino e di Isidoro da Siviglia, Kelsen segnala l'influenza ciceroniana ma non indica quali ne siano i tratti distintivi e innovativi. Lo stesso rilievo vale per Principles of International Law, New York, 1952, pp. 34-35, anche se però, in quest'opera, alla prima ricorrenza della locuzione 'just war', in nota, Kelsen avverte che «The term 'just' meaning 'legal' in the sense of positive international law». La non eccessiva attenzione di Kelsen sul punto di per sé non pregiudica comunque né l'opportunità della distinzione in esame, né la caratterizzazione della sua nozione di bellum justum come categoria giuridica e non metagiuridica.

10. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts. Beitrag zu einer Reinen Rechtslhere, Tübingen, 1920; trad. it. a cura di A. Carrino: Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, Milano, 1989; la citazione è tratta dalla trad. it. p. 390.

11. H. Kelsen, Law and Peace, cit., p. 34.

12. Ivi, pp. 34-35.

13. Ivi, p. 35.

14. H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Wien, 1960; trad. it. di M.G. Losano: La dottrina pura del diritto, Torino, 1966; la citazione è tratta dalla trad. it., pp. 353-354.

15. In queste pagine i diversi riferimenti a Bobbio hanno un intento molto circoscritto: corroborare una lettura della (ri)affermazione della teoria della guerra giusta in Kelsen che ne chiarisca la valenza riguardo alla rivendicazione sia del pacifismo, sia del carattere giuridico e obbligatorio del diritto internazionale. I diversi riferimenti a Bobbio di queste pagine non hanno, invece, alcuna pretesa di cogliere e/o di render conto di un qualche nucleo ultimo del pensiero dello stesso Bobbio sui temi della guerra e della pace. Pensiero, quello di Bobbio, sviluppato nell'arco di più decenni in una vasta produzione che, come forse è inevitabile, non manca di qualche ripensamento; che non è priva, cioè, di spunti, riflessioni e valutazioni non sempre coincidenti. Sul punto si vedano, in particolare, N. Bobbio, Autobiografia. A cura di Alberto Papuzzi, Roma-Bari, 1997, pp. 217-246 e D. Zolo, Il pacifismo cosmoploitico di Norberto Bobbio, in D. Zolo, I signori della pace, cit., pp. 71-83.

16. N. Bobbio,Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Venezia, 1991, pp. 55-56.

17. H. Kelsen, General Theory of Law and State, Cambridge (Massachusetts), 1945; trad. it. di S. Cotta e G. Treves: Teoria generale del diritto e dello stato, Milano, 1952.

18. Sempre riguardo al problema dei termini in cui coniugare guerra e diritto internazionale, l'influenza di Kelsen su Bobbio appare manifesta anche in assenza di espliciti rinvii. Così, ad esempio, quando N. Bobbio, Teoria della norma giuridica, Torino, 1958, pp. 215-216 afferma: «Forse che nell'ordinamento internazionale un illecito non importa alcuna conseguenza? Che cosa sono la rappresaglia e, nei casi estremi, la guerra se non una risposta alla violazione, cioè quella risposta alla violazione che è possibile e legittima in quella particolare società che è la società degli stati? Ora rispetto a questa risposta alla violazione non vi sono che due possibilità: o la risposta è libera o è a sua volta regolata e controllata da altre norme appartenenti al sistema. La prima possibilità è quella che si attua nell'ipotetico stato di natura; la seconda è quella che trova applicazione nella comunità internazionale attraverso la regolamentazione del diritto di rappresaglia e di guerra» (corsivo nel testo). E ancora, cfr. N. Bobbio, Il positivismo giuridico. Lezioni di Filosofia del diritto raccolte dal Dott. Nello Morra, Torino, 1979, p. 186 (seconda ed. 1996, pp. 160-161), e Lettera di Norberto Bobbio a Nicola Matteucci del 25.7.1963, pubblicata su Materiali per una storia della cultura giuridica, 30, 2, 2000, pp. 416-425, a p. 419.

19. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität, cit.; la citazione è tratta dalla trad. it., pp. 387-388, corsivo nel testo.

20. H. Kelsen, Reine Rechtslehre, cit.; la citazione è tratta dalla trad. it., p. 352.

21. H. Kelsen, Law and Peace, cit., p. 35.

22. H. Kelsen, Reine Rechtslehre, cit.; la citazione è tratta dalla trad. it., p. 354. E ancora, l'equiparazione del principio del bellum justum al divieto, ricorrente nei trattati internazionali del novecento, di muover guerra se non in casi particolarissimi ricorre anche nella postumaAllgemeine Theorie der Normen, cit. E precisamente, commentando il saggio di F.S.C. Northrop, The Complexity of Legal and Ethical Experience, Boston-Toronto, 1959, a proposito dell'influenza dello sviluppo delle scienze naturali sul diritto, Kelsen scrive: «Northrop dice: "Nell'era atomica gli uomini civili non possono chiaramente permettersi di fare la guerra". Ma già molto tempo prima della scoperta dell'energia atomica la guerra era stata proibita dal diritto internazionale (Patto Briand-Kellog, il principio del bellum justum)». La citazione è tratta dalla trad. it., p. 14. Non una mera equiparazione fra il principio delbellum justum e il divieto di ricorso indiscriminato alla guerra, ma un'analisi puntuale delle diverse formulazioni di tale divieto già dalla sua prefigurazione nel Trattato di pace di Versailles fino alla redazione della Carta dell'Onu è offerto da Kelsen in Principles of International Law, cit., pp. 38-64.

23. N. Bobbio, Una guerra giusta?, cit., p. 56.

24. Il riferimento è a N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, in Nuovi Argomenti 1, 3-4, 1966, pp. 29-90; seconda ed. Bologna, 1984.

25. D. Zolo, Chi dice umanità, cit., p. 113, ma anche I signori della pace, cit., p. 143.

26. Riprendendo i termini della critica all'ideologia dei Western globalists di H. Bull, The Anarchical Society, London, 1977, D. Zolo, I signori della pace, cit., p. 146, contrappone a quella etichettata come la pretesa kelseniana di un "ordine politico ottimo", l'obiettivo di un "ordine politico minimo"; obiettivo da perseguire sostituendo al diritto internazionale un "diritto sovranazionale minimo", un diritto, cioè, che «secondo una logica federalistica applicata al rapporto fra competenze normative degli Stati nazionali e competenze normative di organi sovranazionali [...] lascerebbe un ampio spazio alle funzioni della domestic jurisdiction, senza pretendere di sostituirla o di soffocarla con organismi normativi o giudiziari sovranazionali. In altre parole, l'"ordine minimo" [...] dovrebbe fondarsi su una sorta di "regionalizzazione policentrica" del diritto internazionale, anziché su una struttura gerarchica che rischierebbe, se non altro, di provocare la rivolta delle "periferie"».

27. Significative, in particolare, le argomentazioni in Chi dice umanità, cit., pp. 80-123, sul carattere illegittimo della guerra in Kosovo, guerra icasticamente caratterizzata come «guerra contro il diritto». E ancora, altrettanto netto il giudizio sul carattere illegittimo dell'intervento armato in Afganistan nell'intervista a E. Milanesi, L'illegalità del conflitto, apparsa su il Manifesto, 8 novembre 2001, p. 2. Solo accennati, invece, in Cosmopolis, cit., p. 48, i dubbi e le perplessità sulla legittimità della guerra del Golfo.

28. L. Ferrajoli, Principia Juris, cap. 9, § 9.4., manoscritto. Cfr., inoltre, F. Rigaux, Hans Kelsen e il diritto internazionale, cit.

29. Così, ad esempio, a p. 35 di Law and Peace, cit., e, non diversamente, anche in altri lavori anteriori e successivi.

30. Cfr., ad esempio, H. Kelsen, Law and Peace, cit., p. 37: «An examination of the various justifications for resorting to war reveals that it is usually contended that the other state has done wrong». E ancora, prendendo in esame le possibili obiezioni alla teoria del bellum justum, Kelsen ammette: «Who is to decide the disputed issue as to whether one state actually has violated a right of another state? General international law knows no tribunal to decide this question. [...] If no agreement be reached between the parties to the conflict, the questions of whether or not international law has actually been violated and who is responsible for the violation cannot be uniformly decided [...]. If there is no uniform answer to the question of whether in a given case there has been a delict, then there can be no uniform answer to the question of whether the war waged as a reaction against what is claimed to have been a delict is actually a "just war"».

31. Cfr. supra nota 3.

32. H. Kelsen, Peace through Law, cit.; la citazione è tratta dalla trad. it., p. 106.

33. Al di là di qualsiasi preoccupazione di carattere esegetico-filologico, è questo, secondo A. Cassese, Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo, Bologna, 1984, p. 29, il merito maggiore della posizione kelseniana: «Quali che siano le sue incongruenze logiche e pratiche, essa ha utilmente contribuito a consolidare l'idea che gli organi degli stati devono rispettare il diritto internazionale, facendo prevalere i precetti internazionali sui valori nazionali». Sul punto cfr. anche A. Carrino, Presentazione, in H. Kelsen, Il problema della sovranità, cit., 1989, pp. V-XLVI, a p. XLV.

34. Nell'impianto teoretico-concettuale della reine Rechtslehre, condizione necessaria perché si possa avere conoscenza del diritto è la sua unitarietà; condizione logico-epistemologica per l'elaborazione di una vera scienza giuridica è, cioè, la possibilità di ridurre ad unità il suo oggetto: il diritto. Tale riduzione, sotto un profilo logico-epistemologico, è possibile sia nel caso si assuma la superiorità gerarchica del diritto internazionale rispetto al diritto interno nazionale, sia, al contrario, nel caso si assuma, invece, la superiorità gerarchica del diritto interno nazionale rispetto al diritto internazionale. La scelta fra queste due alternative, di per sé indifferenti sotto un profilo logico-epistemologico, non può, secondo Kelsen, che essere dettata e condizionata da considerazioni di carattere politico, se non addirittura etico. Con una felice sintesi, M.G. Losano, Pace, guerra e diritto internazionale, cit., pp. 117-118, riassume così i termini della questione: «All'interno della piramide discendente da un'unica norma fondamentale, il diritto interno e il diritto internazionale non potranno mai essere paritetici: uno dovrà essere superiore all'altro. Qui sta il vero problema: quale dei due deve essere considerato superiore? [...] La soluzione di questo problema dipende da quale risposta si dà alla domanda: qual è il valore o bene supremo cui deve tendere la società e, di conseguenza, quel suo strumento che è lo Stato [...]? Per Kelsen, questo valore ultimo della società, dello Stato e del diritto è costituito dalla pace». E ancora, sul carattere politico della scelta kelseniana in favore della superiorità del diritto internazionale sul diritto interno nazionale, cfr., ad esempio, N. Bobbio, Nazioni e diritto: Umberto Campagnolo allievo e critico di Hans Kelsen, in Diritto e cultura, 1993, pp. 117-132; seconda ed. in H. Kelsen e U. Campagnolo, Diritto internazionale e Stato sovrano, Milano, 1999, pp. 81-98, a p. 91 e M. Koskenniemi, The Gentle Civilizer of Nations. The Rise and Fall of International Law 1870-1960, Cambridge, 2002, pp. 238-249.

35. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität, cit.; la citazione è tratta dalla trad. it., p.468, corsivo nel testo.

36. Ibidem.