2005

La riabilitazione della guerra e il ruolo delle istituzioni internazionali (*)

Danilo Zolo

1. A metà del secolo scorso la Carta delle Nazioni Unite, nelle prime righe del suo preambolo, aveva definito la guerra come un 'flagello' (scourge) che aveva procurato "indicibili sofferenze all'umanità". Perché le future generazioni potessero essere risparmiate da questo flagello occorreva che la forza delle armi venisse usata (dal Consiglio di Sicurezza e non dagli Stati) solo nell''interesse comune' dei popoli. In questa linea, la Costituzione italiana, che alla Carta si era direttamente ispirata, aveva impegnato lo Stato italiano a "ripudiare" la guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo per la soluzione delle controversie internazionali.

Il diritto e le istituzioni internazionali, si riteneva e si auspicava, avrebbero svolto la funzione - e dato prova della loro capacità - di condizionare le strategie delle piccole come delle grandi potenze allo scopo di contenere e alla fine di neutralizzare l'uso 'privato' della forza militare. Gli Stati avrebbero avuto a disposizione altri mezzi - politici, diplomatici, giudiziari - per la promozione dei propri interessi e per la soluzione delle controversie con gli altri Stati. La guerra sarebbe così scomparsa per sempre dall'orizzonte umano.

Questo miracolo evolutivo non si è verificato ed era molto probabile che non si verificasse. Meno probabile, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale e le stragi atomiche di Hiroshima e Nagasaki, era il processo di riabilitazione della guerra - riabilitazione politica, etica, religiosa - che è stato avviato in Occidente nell'ultimo decennio del secolo scorso e al cui successo oggi assistiamo impotenti.

La guerra è oggi pienamente 'normalizzata'. Lo è nei fatti e lo è, ancor più, nella legittimazione che le maggiori potenze occidentali, inclusa l'Italia, le accordano in termini espliciti. L'"industria della morte collettiva" è più che mai fiorente, nonostante il generoso ma inefficace impegno dei movimenti pacifisti, come scrive Pietro Ingrao nella recente raccolta di saggi, La guerra sospesa (1), che queste pagine vorrebbero qui rapidamente presentare e discutere. La produzione e il traffico delle armi da guerra, incluse quelle nucleari, è fuori dal controllo della cosiddetta 'comunità internazionale'. E l'uso delle armi dipende sempre più dalla 'decisione di uccidere' - l'espressione è di Gino Strada - che le grandi potenze prendono ad libitum, e sempre più di frequente, secondo le proprie convenienze strategiche. Una sentenza di morte collettiva viene emessa, nella più assoluta impunità, contro (centinaia, migliaia di) persone non responsabili di alcun illecito penale, né di alcuna colpa morale. Oggi non c'è tribunale penale internazionale che abbia la competenza - o abbia i poteri effettivi e il coraggio - di incriminare i leader politici responsabili di una delle più gravi violazioni del diritto internazionale: lo scatenamento della 'guerra preventiva' contro l'Iraq, teorizzata e praticata dalla presente amministrazione degli Stati Uniti con la complicità della Gran Bretagna. Anche la nuova Corte Penale Internazionale, da poco insediatasi all'Aja, non sembra in grado di svolgere alcuna efficace funzione in questa direzione, nonostante le grandi, forse eccessive, aspettative che la sua istituzione ha suscitato.

La dottrina della 'guerra preventiva', Ingrao lo sottolinea più volte, fonda una sorta di nuovo Nomos della Terra che scardina il diritto internazionale vigente: è un manifesto imperiale che nel nome della lotta contro il terrorismo viola non solo le norme positive dello jus ad bellum, ma anche quelle dello jus in bello. In Iraq, come in Kosovo e in Afghanistan, nessuna limitazione 'umanitaria' degli strumenti bellici è stata praticata (e, rebus sic stantibus, sembra praticabile, considerato lo strapotere degli aggressori). Anzi, è vero il contrario: le 'guerre umanitarie' sono servite, soprattutto agli Stati Uniti, per sperimentare nuovi sistemi d'arma, sempre più sofisticati e devastanti. Basti pensare all'uso delle cluster bombs, dei proiettili all'uranio impoverito (DU), degli ordigni quasi-nucleari come i fuel-air explosives e le bombe 'taglia-margherite' (daisy-cutter), del micidiale predator, per non dire dei bombardamenti con missili 'guidati' di ospedali, di carceri, di stazioni televisive, di fabbriche, di ambasciate. E per tacere dell'infamia delle prigioni militari di Guantanamo. Il fatto che in Occidente ci sia qualcuno che definisce queste guerre 'democratiche' getta luce su un particolare non trascurabile: chiarisce perché il global terrorism, anziché essere sconfitto, si diffonde sempre più in tutto il mondo sino a diventare la sola risposta - tragica, impotente e nichilista - dei popoli oppressi dallo strapotere degli Stati Uniti e dei loro più stretti alleati, l'Italia compresa.

Altrettanto vistoso è il processo di diffusione e amplificazione degli strumenti retorici e comunicativi di imbonimento propagandistico della guerra: essa è ormai presentata come lo strumento principe della tutela dei diritti dell'uomo, dell'espansione della democrazia, della promozione dell'economia di mercato, dell'acquisizione delle risorse energetiche necessarie ai paesi industriali. Ritorna trionfale - si pensi al documento elaborato da decine di intellettuali statunitensi guidati da Michael Walzer - l'antica dottrina ebraico-cristiana del bellum justum, per la quale lo spargimento del sangue umano può essere moralmente raccomandato, se non addirittura esaltato perché voluto da Dio. E la guerra arriva talora ad essere guardata come l'espressione suprema - inarrestabile e invincibile - del progresso scientifico-tecnologico che ha consentito e consentirà sempre più, come Ingrao sottolinea, la 'guerra celeste' (2): una guerra che scende dal cielo e quasi non tocca più terra, una guerra 'intelligente' e 'chirurgica', tecnologicamente sterilizzata e sublimata, nella quale la morte, la mutilazione dei corpi, la devastazione della vita quotidiana, la distruzione delle città e dell'ambiente naturale, il terrore, sono ormai ingredienti scontati di uno spettacolo rituale che non suscita emozioni. "L'uccidere collettivo in nome del potere pubblico - scrive Ingrao - torna ad essere compito nobile ed ambito: sotto l'aspetto delle retribuzioni, del rango sociale, del riconoscimento pubblico" (3).

Dunque, dovremmo realisticamente rassegnarci all'idea che la pace è un'aspirazione utopica che accomuna adolescenti, visionari e mistici, della quale, giustamente, la politica e l'economia non tengono conto e non hanno mai tenuto conto. L'aggressività e la guerra, hanno sostenuto alcuni esponenti dell'etologia umana, hanno radici biologiche e culturali così profonde nell'homo sapiens da dover essere considerate del tutto naturali e, al limite, evolutivamente funzionali. L'impotenza del diritto internazionale e l'insuccesso delle Nazioni Unite (come, nei secoli scorsi, della Santa Alleanza e della Società delle Nazioni) sarebbe dunque un destino inevitabile: l'incapacità di queste istituzioni di mantenere la pace non dipende dai loro eventuali limiti teorici o pratici. Dipenderebbe dal fatto che aggressività, conflitto e guerra - e quindi diseguaglianza, miseria, odio, terrorismo - sono componenti insopprimibili della storia umana e dello sviluppo stesso della civiltà.

2. Ingrao non è certo d'accordo con questo tipo di realismo. E tuttavia ammette - lo aveva ammesso del tutto esplicitamente anche in un'intervista a Liberazione del 2 giugno dello scorso anno - che è ormai necessario un radicale ripensamento della funzione delle istituzioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite. In quell'intervista Ingrao aveva parlato di definitivo "fallimento delle Nazioni Unite" dopo l'11 settembre. E si era chiesto se oggi ha ancora senso immaginare una riforma delle Nazioni Unite o non sia invece più realistico e più coraggioso abbandonare l'idea di istituzioni internazionali che per garantire la pace pretendano di concentrare in se stesse il monopolio dell'uso della forza.

Non si tratta qui di dare torto o ragione a Ingrao. Si tratterebbe piuttosto di aprire un dibattito teorico e politico per domandarsi, come Ingrao propone lucidamente, se nella struttura delle Nazioni Unite non c'è per caso, per così dire, uno errore radicale e se ha ancora senso - sono parole sue - "porsi la questione di un'assemblea e di una dirigenza mondiale" (4). Viceversa, sarebbe poco lucido, dopo l'11 settembre, ignorare la questione e continuare a riferirsi alle Nazioni Unite come a una sorta di baluardo istituzionale per la creazione di un ordine mondiale universale e pacifico, e magari attardarsi nell'accademico esercizio delle proposte di una loro 'riforma democratica' che realizzi in prospettiva l'unità politica del genere umano (5).

Poco lucido è pensare che la tragedia irachena che in questi giorni sta 'spalancando le porte dell'inferno' - un'espressione usata da religiosi islamici sunniti - possa essere superata affidando alle Nazioni Unite il compito della 'ricostruzione': come se le Nazioni Unite fossero un soggetto indipendente dalla volontà delle grandi potenze e cioè, oggi, essenzialmente, degli Stati Uniti d'America. Forse aveva ragione Ingrao quando, nei giorni più caldi del conflitto iracheno, sorprendendo un po' tutti, sostenne su 'Il Manifesto' che era necessario solidarizzare con il popolo iracheno che tentava di resistere all'aggressione anglo-americana. Ed ha ragione nel ripetere oggi - siamo alla fine di novembre 2003 - che occorre sottolineare il valore della 'resistenza' irachena: "di fronte alla guerra in atto bisogna pur rispondere alla sua violenza: combattere, e anche sostenere l'aggredito che lotta con le armi in pugno" (6).

Denunciare gli insuccessi delle Nazioni Unite è ormai poco più che un esercizio accademico. Le funzioni che esse svolgono sono ormai residuali e distorte rispetto ai loro compiti istituzionali. Conservano alcune funzioni minori, sicuramente positive, ma che non incidono minimamente sulle macrostrutture del potere mondiale e sulle dinamiche della loro evoluzione. In realtà il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite opera come una sorta di distributore automatico di legittimazione preventiva o successiva di guerre che le grandi potenze interessate farebbero in ogni caso, e fanno in ogni caso. Opera ratificando sistematicamente decisioni prese al di fuori della sua sede e sulle quali non è in grado di esercitare il minimo controllo. Si pensi, per citare il caso più clamoroso, alla completa inerzia delle Nazioni Unite di fronte all'etnocidio in corso del popolo palestinese, nonostante la loro platonica (e patetica) presenza nel 'Quartetto' incaricato di promuovere la Road Map disegnata da Sharon e Bush. Si potrebbe dire che per quanto riguarda la loro massima funzione e competenza - contrastare e imbrigliare la violenza internazionale sottoponendola a regole generali e a procedure prestabilite - il ruolo delle Nazioni Unite è mortificato sino all'inverosimile. Esse operano ormai come una sorta di impresa internazionale di rimozione delle macerie della guerra al servizio dei vincitori. Il recente attentato terroristico contro la loro rappresentanza in Iraq deve essere letto anche in questa chiave.

3. Ma il punto centrale non è la rassegna dei fallimenti delle Nazioni Unite. Il punto centrale è interrogarsi sulle ragioni per cui oggi il diritto internazionale e le sue principali istituzioni appaiono, in forme forse non molto diverse ma sicuramente molto più gravi rispetto al passato, inerti, impotenti, subordinati alla logica delle grandi potenze, rassegnati a svolgere funzioni puramente adattive, anziché normative e regolative. Ciò equivale a domandarsi perché quello che è stato chiamato da Bobbio, con riferimento a Kant e a Kelsen, 'il pacifismo giuridico' o 'istituzionale' sia sostanzialmente fallito, come sembra fallito, probabilmente in modo irreversibile, l'ideale cosmopolitico dei Western globalists. Sul tema possono essere isolati tre principali nuclei problematici:

3.1. Anzitutto c'è da chiedersi se sia ancora proponibile quello che è stato chiamato 'il modello cosmopolitico della Santa Alleanza', e cioè l'idea che una pace stabile e universale possa essere realizzata grazie alla concentrazione del potere internazionale in un organismo politico-militare titolare di una facoltà quasi illimitata di intervento e quindi di limitazione della sovranità degli Stati: nelle Nazioni Unite questo organismo è il Consiglio di Sicurezza, dominato dai cinque membri permanenti, titolari del diritto di veto (7). Un organismo di questo tipo non può che essere strumentalizzato o svuotato o paralizzato dalle grandi potenze, a meno che esse non si siano preventivamente convertite all'altruismo umanitario che i Western globalists più zelanti - penso in particolare a Jürgen Habermas - richiedono ai soggetti internazionali per la loro adesione al culto cosmopolitico. In realtà la gerarchia di potere è talmente asimmetrica e polarizzata che gli Stati che si trovano al vertice del sistema possono attribuirsi la funzione di regolare con l'uso della forza le controversie internazionali che riguardano gli altri paesi e nello stesso tempo sottrarsi a qualsiasi procedura di regolazione coattiva di eventuali controversie che riguardino i loro rapporti reciproci o i loro rapporti con gli altri paesi.

3.2. C'è in secondo luogo da chiedersi se le istituzioni internazionali che nel secolo scorso sono succedute alla crisi del sistema vestfaliano - non solo le Nazioni Unite ma anche la Società delle Nazioni - non siano il prodotto di un eccesso di aspettative nei confronti del diritto internazionale e delle istituzioni che dovrebbero farlo valere coattivamente. Messa da parte l'idea semplicistica - legata ad una altrettanto semplicistica adozione della domestic analogy - secondo la quale un forte Leviatano sovranazionale è la soluzione di tutti i problemi dell'umanità, forse si tratterebbe di rivisitare la tradizione neo-groziana e realista che fa capo ad autori di grande autorevolezza - ma quasi sconosciuti in Italia - come Martin Wigth e Hedley Bull (8).

Wight e Bull, fondatori della 'scuola inglese' delle relazioni internazionali - il celebre British Committee - sottolineavano la necessità di recuperare categorie normative meno forti e cioè meno ispirate ad una concezione illuministica e giacobina dell'ordinamento internazionale. Bull riproponeva, contro il normativismo kelseniano applicato alla sfera internazionale, idee come l'equilibrio fra le grandi potenze, come la diplomazia, soprattutto quella preventiva, come lo jus gentium, inteso quale complesso di consuetudini internazionali affermatesi lentamente nel tempo, capaci, se non certo di sopprimere la guerra, almeno di renderla meno distruttiva. Del resto sono innumerevoli i 'regimi internazionali' che nel secolo scorso sono emersi spontaneamente da trattati multilaterali e si sono stabilizzati: la protezione dei cittadini all'estero, i rapporti diplomatici e consolari, il sistema dei cambi, la disciplina delle attività umane nell'Antartico, l'accordo postale mondiale e quello sulle previsioni meteorologiche. In queste non marginali issue-areas il diritto internazionale è efficace nonostante - anzi, proprio grazie a - l'assenza di un 'governo mondiale' centralizzato e di una 'polizia internazionale' (9).

3.3. Se si prende atto della paralisi delle Nazioni Unite e della attuale assenza di prospettive di un diritto internazionale che pretenda ad una sua diretta efficacia 'sovranazionale', allora occorre rivalutare pienamente la negoziazione bilaterale e multilaterale fra gli Stati. Ovviamente, perché la cooperazione politica interstatale si sviluppi occorre che siano soddisfatte preventivamente complesse condizioni economiche, tecnologico-informatiche, culturali, religiose, condizioni che rendano possibile un confronto interculturale fra le grandi civiltà del pianeta. Certo, la sfera pubblica internazionale oggi è occupata - e vanificata nelle sue potenzialità equilibratrici e moderatrici - dagli eserciti imperiali anglo-americani. Ma proprio per questo, ogni tentativo di contrastare il monismo e il monoteismo angloamericano dovrebbe essere guardato con attenzione e favore. Il pensiero va, ovviamente, all'Europa unita, un'Europa che ritrovi la sua autonomia politica e la sua identità culturale - le sue radici mediterranee, anzitutto - e sappia intavolare un dialogo con l'altra sponda del Mediterraneo e in generale con le culture arabo-islamiche. E non si può non pensare alla Cina, la cui ambizione a porsi come la grande variabile degli equilibri mondiali dei prossimi decenni è sempre più evidente e credibile. E non si dovrebbero trascurare le strategie che paesi come l'Argentina e il Brasile stanno faticosamente mettendo a punto per resistere all'offensiva panamericana (l'ALCA) contro l'autonomia economica e politica dell'area del Mercosur e dell'intero subcontinente latino-americano. E oggetto di attenzione dovrebbero essere anche i processi di polarizzazione dell'economia e della politica africana attorno a centri attrattori come la Nigeria e il Sud-Africa. In questo quadro può assumere un grande valore progettuale l'idea, lanciata dall'attuale governo brasiliano, di un'alleanza strategica fra paesi come la Cina, l'India, il Sud-Africa e il Brasile contro l'unilateralismo egemonico che oggi domina i processi di globalizzazione. Occorrerebbe insomma riconoscere che l'interazione fra gli ordinamenti statali - nonostante l'infinita retorica che annuncia l'estinzione della loro sovranità - oggi non ha alcuna alternativa, se non quella dell'attuale scontro fra egemonia statunitense e replica terroristica, fra il nichilismo delle guerre imperiali e il nichilismo anarchico di un terrorismo che si sta diffondendo in tutti i continenti.

Ha scritto con sorprendente lungimiranza, a metà del secolo scorso, Carl Schmitt: "se confrontata con il nichilismo di un ordine centralizzato, che prevale servendosi dei moderni mezzi di distruzione di massa, l'anarchia può apparire all'umanità disperata non solo come il male minore, ma anzi come il solo rimedio efficace" (10).


Note

*. La crisi del governo mondiale, 'La rivista del Manifesto', 2003, 45, pp. 48-51.

1. Cfr. P. Ingrao, La guerra sospesa, Bari, Edizioni Dedalo, 2003, p. 114 e ss. C'è da prendere atto, scrive Ingrao, della "sconfitta grave e dolorosa del pacifismo" (ivi, p. 115).

2. Cfr. P. Ingrao, op. cit., pp. 113-4.

3. Ivi, p. 122.

4. Cfr. 'Liberazione', 2 giugno 2002.

5. Sul tema dellla riforma delle Nazioni Unite mi permetto di rinviare al mio Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 2002, 2a ed., pp. 60-4, 196-8, dove sostengo l'irreformabilità delle Nazioni Unite.

6. Ivi, p. 127.

7. Sul tema mi permetto di rinviare nuovamente al mio Cosmopolis, cit., pp. 21-35.

8. Su questo punto si veda l'importante saggio di Alessandro Colombo, La società anarchica fra continuità e crisi, in 'Rassegna italiana di sociologia', 44 (2003), 2, pp. 237-55.

9. Sui 'regimi internazionali' si veda R.O. Keohane, The demand for international regimes, ora in S.D. Krasner (a cura di), International Regimes, New York, Cornell University Press, 1983, pp. 141-71; R.O. Keohane, Lo studio dei regimi internazionali e la tradizione classica nelle relazioni internazionali, 'Rivista italiana di scienza politica', 17 (1987), 3, pp. 349-76; S.D. Krasner, Regimes and the limits of realism: regimes as autonomous variables, ora in S.D. Krasner (a cura di), International Regimes, citato.

10. Cfr. C. Schmitt, Donoso Cortés in gesamteuropäischer Interpretation, Köln, Greven Verlag, 1950, trad. it. Donoso Cortés, Milano, Adelphi, 1996, p. 13.