2005

Dalla guerra moderna alla guerra globale
L'uso della forza internazionale dalla guerra del Golfo alla guerra contro l'Iraq (1989-2002) (*)

Danilo Zolo

1. Premessa

Siamo in presenza di un processo di transizione dalla 'guerra moderna' alla 'guerra globale': questa è la tesi che sosterrò in questa comunicazione. Con l'espressione 'guerra moderna' intendo qui riferirmi, molto sommariamente, alla guerra fra Stati sovrani sottoposta a regole di diritto internazionale secondo il modello dello jus publicum europaeum. All'espressione 'guerra globale' attribuisco sia il senso geopolitico di guerra despazializzata, sia il senso sistemico di guerra egemonica (1), sia infine quello, propriamente normativo, di guerra non condotta fra Stati e non limitata dal diritto internazionale: una guerra, perciò, illimitata.

Per cogliere il senso di questa profonda trasformazione è necessaria una minima dilatazione analitica dell'arco temporale dell'ultimo decennio del Novecento. Occorre anzitutto includervi la riflessione strategica che negli Stati Uniti ha fatto prontamente séguito alla conclusione della Guerra fredda e al crollo dell'Impero sovietico (2). E' una riflessione nel corso della quale gli Stati Uniti hanno preso coscienza del fatto che avevano vinto l'ultima guerra mondiale, la vittoria più importante di tutta la loro storia. Essi erano ormai la sola superpotenza politica ed economica del pianeta, in grado di presidiarlo con il loro potenziale bellico e le loro tecnologie militari ed informatiche in continuo sviluppo (3). E' da qui che bisogna partire - non certo dall''11 settembre - per cogliere il senso del processo di globalizzazione della guerra oggi in atto.

In secondo luogo, occorre prendere in considerazione anche la guerra contro l'Afghanistan e la guerra contro l'Iraq. Entrambe rispondono, nel senso più pieno, al modello della guerra globale. La guerra contro l'Iraq è già di fatto in corso da mesi - e forse si potrebbe dire da anni - e si può dare per scontato che l'azione militare decisiva sia ormai imminente.

Sono a mio parere quattro le tappe fondamentali del processo di caratterizzazione della guerra in senso "globale" di cui occorre tenere conto. A ciascuna di esse, come dirò, corrisponde un illuminante documento strategico prodotto dalle alte gerarchie politico-militari statunitensi: la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato, il Pentagono, i vertici della Nato. Le tappe del processo sono ovviamente quattro eventi bellici: la guerra del Golfo del 1991, la duplice guerra nei Balcani, durata a più riprese dal 1991 al 1999, la guerra in Afghanistan iniziata nel 2001 e mai conclusa, la guerra contro l'Iraq, di fatto già iniziata. Si tratta di eventi bellici che si sono svolti tutti - questo non può essere considerato casuale dal punto di vista geopolitico e geoeconomico - in un'area relativamente ristretta del pianeta, che include i Balcani, il Medio Oriente e l'Asia centromeridionale.

In questa cornice analitica l'attentato terroristico dell'11 settembre (2001) presenta un rilievo marginale. Lo sottolineo perché recenti interpretazioni filosofico-politiche - penso ad esempio al recente saggio di Carlo Galli, La guerra globale - assumono invece l'11 settembre come uno spartiacque cruciale, addirittura come il discrimine fra età moderna ed età globale (4).

2. La Guerra del Golfo

Il 2 agosto 1990, in un discorso ad Aspen, nel Colorado, il Presidente degli Stati Uniti, George Bush senior, traccia le linee di un nuovo progetto di pace stabile ed universale: il New World Order. Questo progetto verrà poi perfezionato nell'agosto del 1991, qualche mese dopo la conclusione della Guerra del Golfo, con la direttiva National Security Strategy of the United States (5). Agli inizi del 1992 le linee strategiche delineate dal Presidente vengono sviluppate nel celebre documento Defence Planning Guidance, redatto da un gruppo di funzionari del Dipartimento di Stato e del Dipartimento della Difesa, sotto la presidenza del Sottosegretario alla Difesa Paul Wolfowitz (6).

Nel frattempo un'ampia letteratura specialistica è andata elaborando le implicazioni strategico-militari della nozione di global security che è al centro di questi documenti. In un mondo non più diviso dal contrasto ideologico e sempre più interdipendente, si sostiene, le minacce contro la pace e l'ordine mondiale, lungi dall'estinguersi, sono più capillari e diffuse e richiedono quindi forme nuove di concentrazione e di esercizio del potere internazionale.

Le indicazioni di lungo periodo che emergono da questi documenti, in modo tutto particolare dal documento Defence Planning Guidance, possono essere considerate una sorta di codice strategico dell'ultimo decennio del secolo, essenziali per la comprensione del suo intero sviluppo. I punti fondamentali sono i seguenti:

1. il crollo dell'impero sovietico e la fine della guerra fredda hanno aperto una nuova era. Gli Stati Uniti hanno a portata di mano la "straordinaria possibilità" di costruire un sistema internazionale giusto e pacifico, ispirato ai valori della libertà, della democrazia e dell'economia di mercato, propri dell'Occidente;

2. la costruzione del nuovo ordine mondiale (New World Order) deve fondarsi su un sistema di sicurezza 'globale' che tenga conto della crescente interdipendenza economica, tecnologica e informatica del pianeta. Questo sistema di global security esige una stretta cooperazione fra i paesi che appartengono alle tre grandi aree industriali del pianeta - l'America del Nord, l'Europa e il Giappone - sotto la leadership politica e militare degli Stati Uniti;

3. l'organizzazione di un sistema di global security comporta una drastica correzione della struttura e della strategia della NATO. Il tradizionale quadro geografico dell'Alleanza atlantica deve dilatarsi fino a tener conto dei crescenti rischi di anarchia internazionale provenienti da una molteplicità di aree regionali. E' dal cosiddetto Terzo mondo, in particolare, che vengono le minacce più gravi per la sicurezza collettiva e per la pace. Le crescenti rivalità economiche, l'esplosione dei nazionalismi, l'intolleranza religiosa, gli odi razziali, la pressione demografica, i disastri ambientali sono tutti fattori destinati a minacciare la sicurezza della comunità internazionale e in particolare gli interessi dei paesi industriali (7);

4. data l'accresciuta complessità e interdipendenza dei fattori internazionali, gli interessi vitali dei paesi industriali sono divenuti più vulnerabili. Si tratta del libero e regolare accesso alle fonti energetiche, anzitutto al petrolio e al gas combustibile, dell'approvvigionamento delle materie prime, della libertà e della sicurezza dei traffici marittimi ed aerei, della stabilità dei mercati mondiali, in particolare di quelli finanziari. I paesi industriali sono perciò fortemente interessati a reprimere il terrorismo politico internazionale e a contrastare la proliferazione delle armi biologiche, chimiche e nucleari;

5. per realizzare gli obbiettivi della global security le potenze industriali dovranno mettere da parte il classico principio vestfaliano della non-ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani. Esse dovranno esercitare e legittimare di fatto un loro diritto-dovere di 'ingerenza umanitaria' in tutti i casi in cui giudicheranno necessario intervenire per risolvere situazioni di crisi interne a singoli Stati.

In questo quadro strategico la Guerra del Golfo viene interpretata come "il crogiolo del nuovo ordine mondiale". La crisi del Golfo Persico - si sostiene - ha visto la comunità mondiale pronta a reprimere con la forza, attraverso l'organizzazione di un intervento collettivo, un atto di aggressione contro un membro delle Nazioni Unite.

In realtà la guerra contro l'Iraq può essere interpretata come la prima, vera "guerra globale" e, in quanto tale, come il modello delle "guerre globali" successive. Gli indici empirici che possono essere segnalati in questo senso sono i seguenti:

1. La guerra del Golfo non è stata una guerra fra Stati sovrani, non è stata cioè una "guerra vestfaliana" nella quale la posta in gioco fosse l'integrità territoriale o l'indipendenza politica degli Stati belligeranti. (Da questo punto di vista, anche le due guerre mondiali, nonostante alcune anomalie, rientrano nel paradigma vestfaliano). Il Kuwait ha fornito un contributo irrilevante alla guerra, che è andata molto al di là della restaurazione del regime feudale dell'emiro Jaber al-Ahmed al-Sabah. Senza procedere ad alcuna classica 'occupazione territoriale', al termine della guerra gli Stati Uniti si sono saldamente insediati nel Medio Oriente e in particolare in Arabia Saudita, con proprie basi militari e una presenza di circa centomila soldati (8).

2. In secondo luogo, pur trattandosi di una guerra legittimata dalle Nazioni Unite - e quindi sotto la loro formale responsabilità - non si è trattato di una "guerra limitata", nel senso, proprio dello jus publicum europaeum, di una guerra "messa in forma" da procedure e da vincoli giuridici. Nessun limite di jus in bello è stato imposto alla logica dell'annientamento del nemico, incluso il bombardamento delle città e il coinvolgimento della popolazione civile. Secondo stime attendibili la 'Tempesta del deserto' ha provocato, fra vittime civili e militari, la morte di circa trecentomila persone, senza contare le vittime del successivo embargo (9). Per quanto riguarda le armi usate nel conflitto, è provato che sono stati usati sia i proiettili all'uranio impoverito, sia le bombe a grappolo (cluster bombs), sia i micidiali, quasi-nucleari fuel-air explosives. Tristemente famosa è la strage di migliaia di persone in fuga con mezzi di fortuna sull'autostrada che collega la capitale del Kuwait a Bassora, ribattezzata l''autostrada della morte' (10).

3. In terzo luogo la guerra del Golfo è stata una "guerra globale" nel senso che le Nazioni Unite la hanno formalmente legittimata come una guerra condotta dalla comunità internazionale contro uno Stato responsabile di un grave illecito internazionale. La guerra ha mobilitato oltre mezzo milione di uomini e di donne forniti da ben ventisette paesi alleati, sotto la guida degli Stati Uniti. Si è trattato della spedizione militare più imponente nella storia dell'umanità (11). E' stato calcolato che nel corso dei quarantadue giorni della 'Tempesta del deserto' è stata utilizzata una quantità di esplosivo superiore a quella usata dagli Alleati durante l'intera Seconda guerra mondiale (12). Il divario tecnologico-militare fra le parti in conflitto è stato senza precedenti, testimoniato dalla sproporzione fra il numero della vittime irachene e quelle degli alleati, sproporzione che ha precedenti soltanto nel bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaky.

4. Altri due aspetti della Guerra del Golfo giustificano la tesi che essa è stata il primo esperimento non simulato di 'guerra globale' o 'guerra del futuro', secondo l'espressione usata da un generale statunitense.

4.1. Il primo aspetto riguarda l'entità della devastazione ambientale, provocata sia dalla eccezionale quantità di esplosivo usato, spesso altamente tossico e radioattivo (13), sia dalla quantità di petrolio non raffinato che è stato incendiato o che si è riversato nelle acque del Golfo Persico (14). A giudizio degli esperti le contaminazioni del terreno, dell'acqua, dell'aria, del mare e dell'alta atmosfera che sono state causate dalla guerra hanno provocato e continueranno a provocare a livello planetario, anche a distanza di molti anni, migliaia di perdite di vite umane, di animali e di organismi vegetali (15).

4.2. Si è trattato, infine, di una 'guerra globale' per la grandiosa spettacolarità dell'informazione televisiva che ha fatto della Guerra del Golfo l'evento in assoluto più 'comunicato' nella storia umana. Centinaia di milioni di spettatori televisivi in tutto il mondo sono stati coinvolti e affascinati dallo spettacolo della guerra 'in diretta'. Naturalmente nessuno di essi è stato in grado di controllare l'attendibilità di un'informazione bellica alluvionale e, al limite, subliminale: rapida, continua, asettica, incalzante.

3. Le guerre balcaniche della NATO: Bosnia e Kosovo

La guerra di Bosnia introduce una rilevante novità nella secolare storia della 'Questione d'Oriente' e delle guerre balcaniche: è una novità che apre la strada alla successiva guerra per il Kosovo. Per la prima volta si affaccia sullo scenario balcanico una potenza occidentale, ma non europea: gli Stati Uniti d'America. E per la prima volta accanto alle grandi potenze occidentali - in simbiosi con esse - operano istituzioni internazionali che si presentano come portatrici non di interessi di parte o di valori particolari, ma di un punto di vista imparziale e di valori universali: la guerra viene giustificata come un 'intervento umanitario' per la protezione dei diritti dell'uomo.

Si realizza così la "versione umanitaria" del modello della 'guerra globale' inaugurato dalla guerra del Golfo. Si tratta di una guerra contro un piccolo e debole Stato balcanico ad opera di una potentissima alleanza militare che pur essendo una alleanza partigiana, diretta filiazione dalla guerra fredda, si propone fini universalistici ed usa la forza per conto delle Nazioni Unite. Il suo obiettivo non è la conquista territoriale: la guerra per il Kosovo è anzi, in assoluto, la prima guerra non territoriale, totalmente condotta dal cielo. Questo naturalmente non impedirà che, appena finita la guerra, gli Stati Uniti costruiscano nel Kosovo centro-orientale l'imponente Camp Bondsteel. Si tratta della più grande base militare che gli Stati Uniti abbiamo costruito dopo la guerra del Vietnam e che può ospitare cinquemila militari. E' stata ottenuta spianando tre intere colline, un tempo coltivate a frumento (16).

La guerra persegue finalità che ovviamente non hanno nulla a che vedere con le sue pretese umanitarie. Lo ha spiegato con la consueta lucidità Z. Brzezinski nel saggio The Grand Chessboard. Tramontata l'era degli imperi regionali, è necessario che gli Stati Uniti vigilino perché nel continente euro-asiatico non emerga un loro potenziale nemico. Per questa ragione il sistema di sicurezza europeo deve "pienamente coincidere con quello americano" in modo che l'Europa divenga "la testa di ponte americana sul continente euro-asiatico" (17). Il regime serbo si opponeva a questa prospettiva.

In secondo luogo, cruciale è il controllo dei cosiddetti 'corridoi': le pipe-lines per il petrolio e il gas combustibile che, da Oriente ad Occidente, collegano il Mar Caspio e il Caucaso al Mediterraneo, ai Balcani e all'Europa meridionale, e che europei e statunitensi considerano di importanza vitale per far affluire le immense riserve petrolifere della regione verso i paesi industrializzati.

In questa guerra globale umanitaria - despazializzata e universalistica - la Nato si erge a soggetto centrale della guerra. Essa viene gradualmente abilitata a operare come braccio armato delle Nazioni Unite e, nello stesso tempo, a sostituirle e a emarginarle. Alla fine, nel febbraio del 1999, la Nato deciderà l'attacco militare contro la Federazione jugoslava senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza e quindi in aperta violazione della Carta delle Nazioni Unite.

La chiave per intendere la strategia globale cui obbedisce la guerra umanitaria va a mio parere cercata nei documenti dell'amministrazione statunitense che ho citato all'inizio, in particolare in Defense Planning Guidance. Sono quei documenti che, mettendo a fuoco le nozioni di new world order e di global security, introducono, come abbiamo visto, la nozione di humanitarian intervention. E proclamano il superamento del principio vestfaliano della sovranità degli Stati nazionali e programmano la metamorfosi strategica della Nato. Quest'ultimo è a mio parere l'aspetto più specifico e rilevante.

In un mondo non più bipolare il sodalizio transatlantico che garantiva la presenza militare degli Stati Uniti in Europa va fondato su nuove basi. Il nuovo atlantismo deve essere espressione di una strategia rinnovata: proiettiva e non difensiva, espansiva e non soltanto reattiva, dinamica e flessibile e non statica e rigida (18). E' sulla base di queste premesse che, con notevole prontezza di riflessi, al Vertice di Roma dell'Alleanza Atlantica del novembre 1991 gli Stati Uniti avevano già presentato il New strategic concept dell'Alleanza. Nella dichiarazione conclusiva del Vertice di Roma c'era già un primo accenno alla nuova vocazione della Nato a superare i limiti geografici della propria competenza militare, definiti dal suo Statuto, e si accennava al dovere dell'Alleanza di tener conto del 'contesto globale' (19).

La strada è aperta perché, a partire dal giugno del 1992, la Nato si metta a disposizione delle Nazioni Unite e del Csce (oggi Osce) per interventi nei territori della ex Jugoslavia. Si tratta di interventi out of area e per scopi non difensivi, che non solo violano gli articoli 5 e 6 dello Statuto della Nato, ma sono lesivi dell'intera normativa del capitolo settimo della Carta delle Nazioni Unite, che non prevede che un intervento militare di natura non strettamente difensiva possa essere affidato a organizzazioni regionali (20). In una escalation di forzature o di aperte violazioni sia del proprio Statuto, sia della Carta della Nazioni Unite, la Nato finisce per pretendere per sé e ottenere il comando unico dei contingenti militari operanti nei Balcani.

L'ultimo sviluppo di questa metamorfosi istituzionale si verifica al summit della Nato, organizzato a Washington nell'aprile del 1999, in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione della Alleanza Atlantica. Nel Comunicato conclusivo del Vertice (An Alliance for the 21st Century) viene riformulato il New strategic concept del 1991: si ribadisce nei termini più estensivi - globali - il compito della Nato di intervenire al di fuori dei casi previsti dall'art. 5 del suo Statuto - e cioè al di fuori di precisi limiti giuridici e geografici - per garantire il rispetto dei diritti umani, la democrazia, la libertà individuale e il rule of law.

La guerra umanitaria del Kosovo ha espresso la sua finalità egemonica e la sua dimensione globale anche dal punto di vista strettamente operativo. La si è chiamata 'guerra dal cielo' non solo alludendo alla rete di monitoraggio satellitare e di vero e proprio spionaggio informatico che ha fatto da contrappunto elettronico della guerra (21), ma soprattutto perché la guerra, per la prima volta nella storia, ha ignorato la dimensione territoriale. Il suo successo ha mostrato che l'ordine globale può essere garantito dagli Stati Uniti senza che essi debbano impegnarsi nell'invasione territoriale del paese attaccato. E' dunque ipotizzabile che la superpotenza americana possa esercitare in futuro la funzione di garante dell'ordine globale riducendo al minimo il rischio - eticamente intollerabile - della perdita di vite umane (statunitensi). E' noto che gli Stati Uniti stanno costruendo aerei militari completamente informatizzati e automatizzati - e quindi senza piloti - in grado di raggiungere qualsiasi punto del globo partendo da basi statunitensi. Essi sono destinati a sostituire i potentissimi e costosissimi bombardieri B2 Spirit (22). In un prossimo futuro la global security potrà essere dunque tale anche nel senso che le nuove tecnologie militari garantiranno un'assoluta sicurezza 'robotica' alla potenza che si impegnerà a stabilizzare l'ordine globale inviando i propri missili o sganciando le proprie bombe in qualsiasi angolo della terra.

4. La guerra in Afghanistan

La guerra contro l'Afghanistan, è noto a tutti, è stata giustificata dall'amministrazione Bush come una replica difensiva nei confronti dell'attentato terroristico subìto l'11 settembre e come l'inizio di una guerra senza limiti di tempo e senza vincoli spaziali contro la rete del global terrorism e i rogue states che si ritengano in qualche modo compromessi con il terrorismo. Gli Stati Uniti fanno derivare la legittimità della guerra dalle due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (la 1368 del 12 settembre e la 1373 del 28 settembre) in particolare dalla prima, nella quale si usa ambiguamente il termine di self-defense che sembra autorizzare un riferimento all'art. 51 della Carta delle Nazioni Unite.

In realtà è agevole mostrare che l'obiettivo strategico perseguito con questa guerra dagli Stati Uniti va molto al di là della repressione del 'terrorismo globale'. Meglio: la guerra prende occasione dalla necessità di reprimere il terrorismo globale per perseguire obiettivi che ancora una volta si rivelano perfettamente in linea con quello che ho chiamato il 'Codice strategico' - il Defense Planning Guidance - elaborato dai vertici politico-militari degli Stati Uniti fra il 1990 e il 1992.

E' sufficiente, per argomentare questa tesi, esaminare un altro illuminante documento, reso pubblico dal Dipartimento della Difesa il 30 settembre 2001, il Quadrennial Defense Review Report. Il documento viene diffuso qualche settimana dopo l'attentato alle Due Torri, ma, salvo alcune minime interpolazioni adattive, è il frutto di una lunga elaborazione precedente l'11 settembre. Il documento, si badi bene, è anche in questo caso ispirato da Paul Wolfowiz, ancora una volta numero due e testa pensante del Pentagono. Nel documento si sostiene che:

4.1. Gli Stati Uniti, in quanto global power sono i soli in grado di 'proiettare potenza' su scala mondiale. Essi hanno interessi, responsabilità e compiti globali e devono perciò estendere la propria influenza globale, rafforzando l'America's global leadership role. E ciò sia per aumentare la propria sicurezza interna, sia per tutelare e promuovere i propri 'interessi vitali' sul piano internazionale.

4.2. Gli Stati Uniti devono mettere a punto una total force militare che sfrutti i 'vantaggi asimmetrici' (asymmetric advantages) di cui godono in termini nucleari, di intelligence, di controllo informatico del pianeta. La risposta al global terrorism deve essere impostata in termini militari in modo da fare delle forze armate statunitensi una total force (anche nucleare) che impedisca ai gruppi terroristici l'uso di armi nucleari, chimiche o batteriologiche.

4.3. Gli Stati Uniti devono rafforzare ed aumentare in numero le loro basi militari nelle aree entro le quali si possono affermare potenze ostili (precluding hostile dominations of critical areas): queste aree sono i Balcani e in modo tutto particolare il continente asiatico: dal Medio Oriente all'Asia centrale, dal Golfo del Bengala al Mar del Giappone e alla Corea, lungo quello che il documento chiama East Asian Littoral, includendovi anche l'Asia del sud-est.

4.4. Gli Stati Uniti devono garantire a proprio vantaggio l'accesso ai mercati e alle risorse strategiche del Medio Oriente e della regione caspica e transcaspica e controllare queste aree con strumenti militari. Se necessario, si dovrà cambiare il regime di uno Stato avversario ed occupare provvisoriamente un territorio straniero finché gli obbiettivi strategici statunitensi non siano realizzati.

L'obiettivo della guerra che gli Stati Uniti scatenano contro l'Afghanistan è dunque in realtà quello di consolidare la loro egemonia planetaria, garantendosi una stabile presenza militare nel cuore dell'Asia centrale. Si tratta di controllare, oltre all'Afghanistan e al Pakistan - dove oggi è già in costruzione, a Jacobabad, una base militare permanente - paesi dell'area caucasica, caspica e transcaspica, come la Georgia, l'Azerbaijan, il Turkmenistan, l'Uzbekistan e il Tagikistan. Il progetto non è solo di controllare le immense risorse energetiche racchiuse nel sottosuolo delle Repubbliche ex-sovietiche. E' soprattutto quello di completare il duplice accerchiamento politico-militare della Russia ad Ovest e della Cina ad Est. La Cina è probabilmente il bersaglio principale, anche se di lungo periodo.

5. La guerra contro l'Iraq

La 'guerra preventiva' contro l'Iraq conclude e compendia il panorama bellico sin qui illustrato. Si tratta per ora di una guerra allo stato latente, ma che già si profila come uno sviluppo perfettamente coerente della strategia elaborata e praticata dagli Stati Uniti a partire dai primi anni 90 del Novecento. L'obbiettivo principale della guerra sembra quello di controllare militarmente - e di 'democratizzare' con la forza - l'intera area medio-orientale. Quest'area è nello stesso tempo il più ricco deposito di risorse energetiche del mondo, una regione altamente instabile e il crogiolo del terrorismo islamico. Al suo centro sta l'irrisolta questione del conflitto fra lo Stato di Israele e l'Autorità nazionale palestinese. E' una questione che la guerra potrebbe avviare verso la sua soluzione finale: l'etnocidio del popolo palestinese.

Ancora una volta è un documento della Casa Bianca, - il National Security Strategy of the United States of America, del 17 settembre 2002 - a gettare luce su una prospettiva bellica che si profila come radicalmente eversiva non solo della Carta delle Nazioni Unite ma dell'intero diritto internazionale generale, così come si è consolidato nei secoli della modernità. Le linee fondamentali del documento sono le seguenti quattro:

5.1. l'introduzione della nozione di "guerra preventiva" contro qualsiasi possibile nemico. Si tratta di una nozione che si oppone all'intera struttura del diritto internazionale di guerra oggi in vigore;

5.2. il ricorso strategico alla minaccia dell'uso della forza contro paesi unilateralmente definiti dagli Stati Uniti medesimi come 'Stati canaglia' (rogue States);

5.3. la pressione che gli Stati Uniti intendono esercitare sulla 'comunità internazionale' per indurla ad accettare le proprie richieste, minacciando in alternativa l'intervento militare unilaterale;

5.4. il superamento del trattato di non-proliferazione delle armi di distruzione di massa e l'imposizione della nuova dottrina della 'contro-proliferazione', e cioè del diretto intervento militare per disarmare i potenziali avversari 'nucleari'. Questa dottrina si accompagna alla cancellazione di ogni impegno da parte degli Stati Uniti a ridurre - e alla fine eliminare - il proprio arsenale militare, come prevedeva il Trattato di non-proliferazione. Al contrario essi dichiarano il proposito di aumentare e stabilizzare il loro assoluto primato anche in termini di armamento nucleare.

6. Conclusione

Poche parole conclusive. In questi anni non solo la logica della guerra è prevalsa sulla logica della pace che sembrava ispirare il diritto e le istituzioni internazionali uscite dal secondo dopoguerra. Il flagello della guerra è diventato globale ed una potenza globale - una potenza 'imperiale' - ne è diventata l'alfiere e oggi minaccia apertamente persino il ricorso al suo potentissimo arsenale nucleare.

Nel frattempo assistiamo ad una crisi senza precedenti dell'ordinamento giuridico internazionale che è nello stesso tempo causa e conseguenza della paralisi delle Nazioni Unite, del tutto emarginate dal protagonismo egemonico degli Stati Uniti e costrette a fungere da sistematico appaltatore di guerre e da forzato distributore di legittimità bellica. Dalla fine del bipolarismo ad oggi le potenze occidentali non solo hanno usato la forza in sistematica violazione del diritto internazionale, ma ne hanno esplicitamente contestato le funzioni in nome di un loro incondizionato jus ad bellum. E' evidente che un sistema normativo può esercitare effetti di ritualizzazione dell'uso della forza internazionale - sottomettendola a procedure predeterminate e a regole generali - solo a condizione che nessun soggetto dell'ordinamento possa, grazie alla sua potenza soverchiante, considerarsi ed essere considerato legibus solutus.

La regressione che si profila è conclamata: è una regressione globale, si potrebbe dire. E' una regressione che ci riporta agli inizi del secolo scorso, alla situazione anarchica precedente alla fondazione delle istituzioni internazionali del Novecento - la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite -, con il connesso pericolo di un sempre più diffuso ricorso all'uso della forza da parte delle potenze che oggi dominano il mondo, che lo dominano non solo dal punto di vista militare, ma anche da quello economico e tecnico-scientifico (23). Potrebbe dunque riaprirsi un ciclo di nuove guerre mondiali - di guerre globali di un Impero globale contro il global terrorism e contro gli Stati eventualmente accusati di sostenerlo - che né il diritto né le istituzioni internazionali, così come sono oggi, potrebbero fermare o limitare nei loro effetti più distruttivi.


Note

*. Relazione alla seduta della trentunesima sessione del Tribunale permanente dei popoli, dedicata a 'Il diritto internazionale e le nuove guerre', Roma, Protomoteca del Campidoglio, 14-16 dicembre 2002.

1. La nozione di 'guerra globale' (o 'guerra egemonica') è stata elaborata dagli analisti sistemici, in particolare da William R. Thompson: "guerre globali sono le guerre combattute per decidere chi svolgerà il ruolo della leadership entro il sistema, chi imporrà le regole sistemiche, chi avrà il potere di modellare politicamente i processi di allocazione delle risorse e chi potrà far prevalere il proprio senso o la propria visione dell'ordine" (On Global War: Historical-Structural Approaches to World Politics, cit., p. 7); cfr. anche R. Väyrynen, 'Global Power Dynamics and Collective Violence', in R. Väyrynen, D. Senghaas, C. Schmidt (a cura di), The Quest for Peace, London, Sage Publications, 1987, pp. 80-6.

2. Si possono vedere, fra i molti altri: P. Wolfowitz, 'An American Perspective', in E. Grove (a cura di), Global Security. North American, European and Japanese Interdependence in the 1990s, London, Brassey's, 1991, pp. 19-28; R. Art, 'A Defensible Defense: America's Grand Strategy after the Cold War', International Security, 15 (1991), 1, pp. 5-53; J.L. Gaddis, 'Toward the Post-Cold War World', Foreign Affairs, 70 (1991), 2, pp. 102-22; si veda inoltre R.F. Helms II, R.H. Dorff (a cura di), The Persian Gulf Crisis. Power in the Post-Cold War World, Westport-London, Praeger, 1993. Sul tema della 'sicurezza collettiva' dopo la fine della guerra fredda si veda T.G. Weiss (a cura di), Collective Security in a Changing World, Boulder-London, Lynne Rienner Publishers, 1993.

3. Nel periodo della guerra fredda gli Stati Uniti hanno mantenuto in permanenza fuori dai propri confini circa mezzo milione di soldati e un numero di poco inferiore di dipendenti civili del Pentagono, assegnati a quasi quattrocento basi militari e a numerose centinaia di installazioni di minore rilievo, dislocate in trentacinque paesi. Con il dissolvimento del Patto di Varsavia una parte di queste basi è divenuta superflua, ma è dubbio se ciò porterà ad una effettiva riduzione della 'presenza avanzata' degli Stati Uniti nel mondo. L'altro elemento della 'presenza avanzata' è la forza navale, che agli inizi degli anni novanta era costituita da quindici portaerei e da oltre cinquecento navi da guerra.

4. Cfr. C. Galli, La guerra globale, Roma-Bari, Laterza, 2002.

5. Pubblicata dalla Casa Bianca nell'agosto 1991; si veda: The President of the United States, National Security Strategy of the United States, Washington, The White House, 1991.

6. Il documento, Defence Planning Guidance for the Fiscal Years 1994-1999, è stato pubblicato dal New York Times l'8 marzo 1992. In seguito alle polemiche sollevate dalla sua pubblicazione, il testo è stato successivamente rielaborato a cura di Paul Wolfowitz (cfr. New York Times, del 26 maggio 1992).

7. Sul tema si veda anche l'intervento del Segretario generale della NATO, Manfred Wörner, Global Security: The Challenge for NATO, in E. Grove, Global Security, cit., pp. 100-5.

8. Escluse le istallazioni militari statunitensi in Marocco, Tunisia, Sudan, Somalia, Kenia ed altri paesi dell'Africa del Nord e dell'Est ed escluse quelle stanziate in Pakistan e nel Qatar.

9. Si sa con certezza che le perdite degli Stati Uniti, causate in parte da 'fuoco amico' (37 unità), sono state esattamente di 148 combattenti. Nessuno è in grado di calcolare quanti soldati iracheni sono stati sepolti, spesso ancora in vita, dai grandi mezzi corazzati degli alleati che avanzando nel deserto letteralmente spianavano con le loro pale meccaniche i bunkers dei nemici e le loro trincee di sabbia. (Su questo punto si veda J. Adams, 'Iraki Toll Could Be 200,000 Dead', London Times, 3 marzo 1991; P. Sloyan, 'Buried Alive', Newsday, 12 settembre 1991).

10. Un convoglio di oltre dieci chilometri di lunghezza, composto quasi esclusivamente di autocarri, autobus, ambulanze e centinaia di automobili in fuga disordinata, è stato annientato nel corso dell'ultima notte di guerra con una serie di attacchi dal cielo. Migliaia di civili, in gran parte palestinesi, sudanesi ed egiziani, sono stati sterminati senza che potessero opporre alcuna resistenza. La notizia e la documentazione della strage venne fornita inizialmente da fonti britanniche (BBC e The Times) e venne poi ripresa fra gli altri, con ampia documentazione fotografica, da Newsweek (11 marzo 1991). Secondo queste fonti nessun giornalista o fotografo è stato ammesso allo spettacolo 'apocalittico' della strage - così lo ha definito il maggiore americano Bob Williams - prima che migliaia di cadaveri carbonizzati fossero stati seppelliti nel corso di tre giornate; si veda inoltre S. Sackur, On the Basra Road, London, London Review of Books, 1991; K. Royce, T. Phelps, 'Pullback a Bloody Mismatch', Newsday, 31 marzo 1991.

11. Il contributo militare più rilevante, dopo quello statunitense, è stato offerto dalla potenze occidentali, in particolare dall'Inghilterra, dalla Francia e, in misura molto più limitata, dall'Italia. Tutte queste forze hanno operato sotto il comando del generale statunitense Norman Schwarzkopf. La guerra ha comportato non meno di centomila azioni di bombardamento da parte degli alleati - una ogni trenta secondi - e lo sganciamento sul territorio iracheno di oltre ottantamila tonnellate di bombe, senza contare i missili lanciati da terra, dal cielo e dal mare; cfr. R. Clark, The Fire this Time, New York, Thunder's Mouth Press, 1992, pp. 38-42, 59-84.

12. Si veda J. Balzar, 'Marines Feel Pity as B-52s Pound Irakis', Los Angeles Times, 5 febbraio 1991.

13. Si veda N. Cohen, 'Radioactive Waste Left in Gulf By Allies', London Independent, 10 novembre 1991.

14. Si veda T.M. Hawley, Against the Fires of Hell. The Environmental Disaster of the Gulf War, New York-San Diego-London, Harcourt Brace Jovanovich, 1992.

15. Cfr. T.M. Hawley, Against the Fires of Hell. The Environmental Disaster of the Gulf War, cit., p. 184.

16. Cfr. M.J. Jordan, Settling In For a Long Kosovo Run, 'Christian Science Monitor', 22 novembre 1999.

17. Si veda Z. Brzezinski, The Grand Chessboard, Basic Books, New York 1997, trad. it. Longanesi, Milano 1988.

18. Si veda E. Grove (a cura di), Global Security. North American, European and Japanese Interdependence in the 1990s, Brassey's, London 1991.

19. Esiste un'abbondante letteratura sulla Nato e sulle sue più recenti trasformazioni. Si vedano, oltre alle opere pertinenti già citate, A. Cagiati, La nuova Alleanza Atlantica, 'Rivista di studi politici internazionali', 66 (1999), 3, pp. 339-47. Si veda inoltre il fascicolo 4 del 1999 di 'Limes', largamente dedicato al tema della trasformazione della Nato e del ruolo dell'Italia al suo interno, con interventi, fra gli altri, di F. Fubini, A. Desiderio, C. Pelanda, F. Mini, R. Menotti, A. Nativi.

20. Cfr. B. Conforti, Le Nazioni Unite, Cedam, Padova 1979, pp. 205-8; B. Simma, NATO, the UN and the Use of Force: Legal Aspects, 'European Journal of International Law', 10 (1999), 1, p. 10; C. Pinelli, Sul fondamento degli interventi armati a fini umanitari, in G. Cotturri (a cura di), Guerra - individuo, Angeli, Milano 1999, pp. 86-90; U. Villani, La guerra del Kosovo: una guerra umanitaria o un crimine internazionale?, 'Volontari e terzo mondo', (1999), 1-2, p. 30.

21. Sugli aspetti telematici della guerra e in particolare sullo spionaggio elettronico si veda L. Mainoldi, Spiarsi fra alleati: la Nato nella rete Anglo-americana, 'Limes', (1999), 2, pp. 151-66.

22. Sui costi della guerra in termini di spese militari cfr. A. Lodovisi, La grande dissipazione, cit., pp. 16-8.

23. Cfr. M. Spinedi, Uso della forza da parte della NATO in Jugoslavia e diritto internazionale, cit., pp. 30-1.