2005

Le ragioni del «terrorismo globale» (*)

Danilo Zolo

Terrorismo, terrorismi

Perché il terrorismo è oggi così diffuso e potente? Perché è riuscito a organizzarsi in forme così capillari ed efficaci al punto da essere considerato una minaccia per il mondo intero? Più in profondità: che cos'è esattamente il terrorismo? Qual è la sua «filosofia», quali le sue radici culturali e le sue motivazioni politiche? È possibile sconfiggerlo? O dobbiamo invece accettare di convivere con il terrorismo e considerare la sicurezza e la pace nel mondo come aspettative illusorie di retori, profeti e visionari?

Si tratta di questioni cruciali per capire il mondo in cui viviamo. E tuttavia non c'è alcuna possibilità di dare risposte definitive e condivise a questi interrogativi, anzitutto perché manca un consenso sulla nozione stessa di terrorismo. Ed anche perché quello che viene chiamato «terrorismo globale», «global terrorism», non è in realtà un fenomeno omogeneo, espressione di una sorta di complotto planetario del male contro il bene, come il manicheismo occidentale tende a presentarlo, ad esempio in autori quali Alan Dershowitz e Michael Walzer, o, in Italia, da parte di personaggi come Oriana Fallaci e Marcello Pera. Se è vero che il mondo arabo-islamico è oggi la sede principale del terrorismo, è tuttavia facile provare che non esiste un'unica organizzazione terroristica mondiale - l'onnipresente Al Qaeda, dominata da Osama bin Laden - e che il terrorismo non è una emanazione esclusiva del cosiddetto fondamentalismo islamico. In realtà, non c'è un solo terrorismo, ma ce ne sono molti e che si esprimono in forme diverse ed entro contesti differenziati. Ad esempio, le «Tigri del Tamil» che nello Sri Lanka si battono, ricorrendo sistematicamente al terrorismo, per la liberazione del Tamil Eelam, non hanno alcuna relazione con il mondo islamico: sono una minoranza indù che si oppone alla maggioranza dei singalesi, di fede buddista. L'incertezza cognitiva e normativa è dunque diffusa, nonostante che siano almeno dodici le convenzioni internazionali che hanno tentato di dettare norme sull'argomento. E questo può essere sostenuto sia in termini di filosofia del diritto internazionale sia in termini di diritto internazionale positivo. Non a caso, nel recente progetto di riforma delle Nazioni Unite - lo High-Level Panel, proposto senza successo dal Segretario generale Kofi Annan - l'esigenza di una definizione rigorosa del terrorismo internazionale era uno dei punti centrali.

Guerra e terrorismo

In assenza di una definizione condivisa e cogente, la dottrina internazionalistica prevalente nei paesi occidentali ritiene che un atto terroristico - e una organizzazione terroristica - sia caratterizzato dall'uso indiscriminato della violenza contro una popolazione civile con l'intento di diffondere il panico e di coartare un governo o un'autorità politica internazionale. All'origine del terrorismo, si aggiunge, ci sono sempre motivazioni ideologiche o politiche (e questo lo differenzia da comportamenti criminosi motivati da ragioni private, come la ricerca del guadagno o la vendetta personale). Ma questa interpretazione - riformulata autorevolmente da Antonio Cassese (1) - resta altamente problematica e non è accolta da molti autori, non soltanto islamici, perché, anzitutto, non tiene conto della condizione in cui si trovano i popoli oppressi dalla violenza di forze occupanti. Questi autori sostengono che i «combattenti per la libertà» o i partigiani in lotta per la liberazione del proprio paese - i sudafricani che lottavano contro l'apartheid o i palestinesi che da decenni «resistono» all'occupazione del loro territorio da parte dello Stato di Israele - non possono essere considerati dei terroristi, qualunque sia l'operazione militare che essi pongono in atto. In questi casi lo spargimento del sangue di civili innocenti, per quanto vietato dal diritto internazionale come un crimine di guerra - anzitutto dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 - non dovrebbe essere qualificato come terrorismo. Nel 1998 e nel 1999, le Convenzioni internazionali della Lega Araba e della Conferenza islamica hanno ribadito con forza questa posizione.

Non si tratta, occorre sottolinearlo, di una questione puramente formale, poiché la definizione di un'organizzazione come terroristica - si pensi alle liste arbitrariamente predisposte dal Dipartimento di Stato dagli Stati Uniti e dall'Unione europea - ha conseguenze rilevantissime. Le ha dal punto di vista degli ordinamenti giuridici interni che hanno emanato norme specifiche contro il terrorismo: in Italia e in Gran Bretagna, ad esempio, sono state varate misure molto severe dal governo Berlusconi e dal governo Blair, per non parlare del Patriot Act statunitense. Il predicato «terrorista» ha conseguenze anche dal punto di vista del diritto internazionale. È infatti ormai diffusa la tendenza a considerare un attentato terroristico di rilevanti proporzioni - in primis quello dell'11 settembre 2001 - come un attacco militare contro lo Stato coinvolto. E secondo alcuni autori occidentali questo giustificherebbe, alla luce dell'art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, l'uso della forza internazionale contro gli Stati ritenuti in qualche modo corresponsabili dell'attentato. L'attacco militare degli Stati Uniti contro l'Afghanistan nell'ottobre 2001 - sicuramente lesivo del diritto internazionale vigente - è stato motivato, e poi di fatto giustificato dalle Nazioni Unite, come un atto di legittima difesa (self-defence) contro la minaccia terroristica.

Ma vi è un'altra grave riserva che si può sollevare nei confronti della nozione di global terrorism che ho sopra ricordato e che si è consolidata in questi anni nel mondo occidentale, senza tuttavia diventare norma consuetudinaria di diritto internazionale, né essere oggetto di un trattato multilaterale. È l'idea, in parte fondata su una vistosa lacuna dell'ordinamento internazionale, secondo la quale nessun comportamento che abbia i crismi della sovranità statale può essere considerato terroristico. Terroristi sono sempre e soltanto i membri di organizzazioni che operano privatamente e clandestinamente, non i militari inquadrati negli eserciti nazionali. Gli Stati e i loro apparati militari non possono essere equiparati a delle organizzazioni criminali terroristiche. Qualsiasi azione da essi intrapresa - anche la più violenta, distruttiva e lesiva delle vite e dei beni di civili innocenti - non è considerata terroristica. Anche una guerra di aggressione che produca, come la recente guerra scatenata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna contro l'Iraq, migliaia di vittime fra la popolazione civile (si pensi all'infamia delle stragi di Fallujah), non ha nulla a che vedere con il terrorismo. Sono comportamenti militari di fatto legittimi, poiché lo scempio di vite umane non è che un «effetto collaterale» di una guerra che si autolegittima grazie al soverchiante potere politico e militare di chi la conduce. Le istituzioni internazionali universalistiche, sorte nella prima metà del secolo scorso - in primis le Nazioni Unite - non hanno il minimo potere di delegittimare le guerre di aggressione vittoriosamente condotte dalla grandi potenze. Solo le guerre degli sconfitti sono guerre criminali.

Analogamente, il popolo palestinese è accusato di essere la culla del terrorismo islamico, in particolare di quello suicida, e con ciò si dimentica fra l'altro che i primi atti terroristici in Palestina sono stati compiuti, soprattutto contro la popolazione palestinese, da organizzazioni ebraiche, come la banda Stern e la banda Irgun. E gli attentati contro la popolazione israeliana da parte dei militanti di Hamas e di altre organizzazioni radicali sono qualificati e universalmente stigmatizzati come terroristici. Nello stesso tempo le devastanti operazioni dell'esercito israeliano che in violazione di numerose risoluzioni del Consiglio di Sicurezza continuano a occupare i territori palestinesi sono al più qualificate come violazioni del diritto bellico (o diritto umanitario). E questo accade anche quando colpiscono indiscriminatamente la popolazione civile, come è il caso dei cosiddetti «omicidi mirati», che oltre ad essere illegali in se stessi, molto spesso provocano la morte o la mutilazione di numerose persone innocenti. Per di più, questo tipo di violazioni del diritto internazionale restano del tutto impunite: la Corte penale internazionale è priva di competenza nei casi in cui lo Stato interessato non abbia aderito al trattato di Roma del 1998: è il caso, ad esempio, degli Stati Uniti e di Israele. Ma più in generale la Corte è priva delle risorse materiali necessarie, non essendo finanziata e sostenuta dagli Stati Uniti, come lo sono invece i Tribunali penali internazionali ad hoc, in particolare il Tribunale dell'Aja per i territori della ex-Jugoslavia. E quando ad essere coinvolte sono delle grandi potenze, i membri della Corte sembrano mancare del coraggio necessario per iniziare un'indagine e avviare un processo. Come ha segnalato Antonio Cassese, nei primi tre anni della sua esistenza la Corte non ha ancora attivato un solo processo.

È il caso di ricordare, parenteticamente, che la strage di centinaia di migliaia di persone innocenti causata nell'agosto 1945 dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, decisi, a guerra già vinta, dal presidente Harry Truman per affermare, contro l'Unione Sovietica, l'egemonia degli Stati Uniti nell'Asia del Pacifico, non è mai stata qualificata come un atto di terrorismo. E altrettanto vale per i bombardamenti decisi negli ultimi anni del secondo conflitto mondiale dal governo britannico contro la popolazione civile tedesca: costarono oltre trecentomila morti e ottocentomila feriti e rasero al suolo intere città, fra le quali Dresda, Amburgo e Berlino (a Dresda morirono in una sola notte almeno 100.000 civili). Altrettanto si può dire per i bombardamenti statunitensi sulle città giapponesi, in particolare su Tokyo. Queste stragi, che possono essere annoverate, accanto ai lager nazisti, fra le più crudeli e sanguinarie nella storia dell'umanità, non sono mai state qualificate come «terroristiche». Di più, non solo sono rimaste impunite, ma sono state addirittura giustificate moralmente, in particolare da un teorico statunitense della guerra giusta come Michael Walzer, in nome della sua paradossale teoria della supreme emergency (2). Del resto, il Boeing B-29 che il 6 agosto 1945 ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima è stato di recente restaurato e trionfalmente collocato nel museo della US Air Force di Washington.

Nonostante tutto questo, sembra ormai innegabile che mentre il terrorismo, nelle sue varie espressioni, va assumendo sempre più le forme di una «guerra civile globale» - per usare l'espressione di Carl Schmitt -, la «guerra globale» contemporanea ha assunto sempre più le caratteristiche del terrorismo, se per terrorismo si conviene di intendere, come viene proposto in Occidente, l'uso indiscriminato della violenza nei confronti della popolazione civile di uno Stato, al fine di diffondere il panico e di coartarne le autorità politiche. Si può osservare, fra l'altro, che sia l'intento della diffusione del panico, sia quello della coartazione politica potrebbero essere considerati elementi psicologici o ideologici non rilevanti per una definizione normativa del terrorismo. Ciò che dovrebbe contare è che si tratta di operazioni militari nelle quali si fa uso sistematico di mezzi di distruzione di massa. In queste operazioni la classica distinzione fra combattenti e non combattenti è del tutto inoperante, mentre il criterio della «proporzionalità» fra gli obiettivi militari «legittimi» e la distruzione di vite umane, di beni, di strutture civili e dell'ambiente naturale è ormai al di fuori di ogni possibile calcolo. Se è così, è superata l'intera dottrina - di antiche origini etico-teologiche - del bellum justum, assieme alla sua distinzione fra jus ad bellum e jus in bello, che è ancora tacitamente alla base delle Convenzioni di Ginevra del 1949. Operazioni militari che producano inevitabilmente lo sterminio di civili innocenti (i «bombardamenti terroristici» - così li ha chiamati persino Michael Walzer (3) - delle città tedesche, le stragi atomiche di Hiroshima e Nagasaki, la guerra del Golfo del 1991, le guerre per il Kosovo, in Afghanistan e in Iraq) dovrebbero eo ipso essere considerate «terroristiche» e quindi vietate dal diritto internazionale, qualunque sia la loro giustificazione iniziale, ovvero la loro justa causa. E questo dovrebbe valere anche nell'ipotesi che siano state «legittimate» dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, come è accaduto per la guerra del Golfo.

Da questo punto di vista, la «guerra preventiva» degli Stati Uniti e della Gran Bretagna contro l'Iraq, con le clamorose falsificazioni che l'hanno motivata, l'uso massiccio di mezzi di distruzione di massa, inclusi il napalm e il fosforo bianco, l'imponente campagna ideologica, le stragi di civili, l'occupazione militare del paese, la depredazione delle risorse energetiche, il controllo da parte degli occupanti delle strutture politiche e giudiziarie, la frammentazione del territorio, è l'esempio paradigmatico della natura illegale e terroristica della «guerra globale» contemporanea.

Le ragioni del terrorismo

Nella cultura politica occidentale si è affermata l'idea che il «terrorismo globale» esprima la volontà dei paesi non occidentali - in modo tutto particolare del mondo islamico - di annientare la civiltà occidentale assieme ai suoi valori fondamentali: la libertà, la democrazia, lo Stato di diritto, l'economia dei mercato. E si sostiene che il terrorismo esprime la volontà profondamente irrazionale di ottenere questo risultato nel modo più spietato, distruttivo e violento, senza il minimo rispetto per la vita. La figura del terrorista suicida, affermatasi in particolare in Palestina, sarebbe l'espressione emblematica dell'irrazionalità, del fanatismo e del nichilismo terrorista, perché la vita del kamikaze perde ai suoi stessi occhi ogni valore. Al fondo del terrorismo palestinese ed islamico - nucleo generatore di ogni altro terrorismo - ci sarebbe l'odio teologico contro l'Occidente diffuso dalle scuole coraniche fondamentaliste. Secondo questo punto di vista nessun'altra «causa» starebbe alla base del fenomeno, e sarebbe addirittura errato andare alla ricerca delle ragioni politiche, economiche o sociali del terrorismo.

Si tratta ovviamente di tesi infondate e cariche di rischi. Il terrorismo è un fenomeno assai meno irrazionale di quanto si pensi o si voglia far credere. Occorrerebbe anzitutto tenere presente che il terrorismo, nelle forme che si sono imposte negli anni novanta del secolo scorso, ha trovato un impulso determinante nel «trauma globale» che la guerra del Golfo del 1991 ha provocato nel mondo non occidentale, anzitutto nel mondo islamico, colpito nel cuore dei suoi luoghi sacri, della sua civiltà e della sua religione. La guerra voluta da George Bush padre è stata la più grande spedizione militare di tutti i tempi ed ha provocato non meno di 300.000 vittime, non solo irachene ma anche palestinesi, giordane, sudanesi ed egiziane. Si è trattato di una guerra, come ha sostenuto con forza Fatema Mernissi (4), che ha mostrato la soverchiante, invincibile potenza degli Stati Uniti e l'estrema fragilità del mondo arabo-islamico e della sua millenaria tradizione. E che ha consentito alle armate statunitensi di insediarsi stabilmente in Arabia Saudita e in altri paesi arabo-mussulmani del Golfo, a cominciare dal Kuwait, e ha definitivamente annientato le aspettative di riscatto del popolo palestinese, sottoponendolo a un irreversibile etnocidio.

Il luogo comune occidentale secondo il quale l'Occidente è stato aggredito dal terrorismo islamico - in particolare con l'attentato dell'11 settembre - alimenta l'idea che l'uso della forza militare da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna è soltanto una replica difensiva, necessaria per la sopravvivenza dell'Occidente e dei suoi valori di fronte all'emergere di una nuova barbarie. Ma si tratta di pura retorica neo-coloniale, come ha recentemente provato ad abundantiam il presidente del Senato italiano, che in una conferenza all'università statunitense di Georgetown, ha parlato della necessaria lotta della civiltà occidentale contro i «cannibali» che la assediano. In realtà il terrorismo che si è sviluppato all'interno del mondo arabo-islamico - incluso il terrorismo suicida - è una risposta strategica all'egemonia del mondo occidentale, è una rivolta contro la soverchiante potenza dei suoi strumenti di distruzione di massa e all'esteso controllo militare che esercita sui territori dei paesi che sono stati storicamente la culla dell'islam. Ed è anche, sullo sfondo, una protesta contro le crescenti disparità in potere e ricchezza che oppongono il direttorio delle grandi potenze industriali alla grande maggioranza dei paesi deboli e poveri, alla quale appartengono in larga parte i paesi a prevalente confessione islamica.

L'analista statunitense Robert Pape ha sostenuto che la variabile determinante nella genesi del fenomeno terroristico, in particolare di quello suicida, non è il fondamentalismo religioso, e nemmeno la povertà o il sottosviluppo: si tratta in realtà, nella grande maggioranza dei casi, di una risposta organizzata a ciò che viene percepito come uno stato di occupazione militare del proprio paese (5). Per «occupazione militare» si deve intendere non solo e non tanto la conquista del territorio, quanto la presenza invasiva e la pressione ideologica di una potenza straniera che si propone di trasformare in radice le strutture sociali, economiche e politiche del paese occupato. Nel caso dei paesi arabo-islamici si tratta del progetto di «democratizzazione» dell'intero Medio Oriente, messo a punto dalla strategia statunitense del Broader Middle East. L'obiettivo delle organizzazioni terroristiche di matrice islamica, secondo Pape, è di carattere «secolare e strategico»: si tratta essenzialmente di liberare il mondo islamico dalla oppressione straniera. In particolare, per quanto riguarda l'occupazione dell'Iraq, Pape sostiene che la presenza prolungata e massiccia degli eserciti occidentali nei paesi musulmani aumenta giorno dopo giorno la probabilità di un secondo, altrettanto micidiale «11 settembre».

La tesi di Pape è suffragata da una serie rilevante di dati empirici, relativi in particolare al terrorismo suicida. A partire dal 1980, dei 315 attacchi complessivi, ben 301 sono stati il risultato di campagne terroristiche organizzate collettivamente e più della metà è stata condotta da organizzazioni non religiose (ben 76 sono attribuibili alle Tigri del Tamil). E questo prova, secondo Pape, la natura politica e prevalentemente secolare della lotta terroristica, come è ulteriormente confermato dalle dichiarazioni dei leader dei gruppi terroristici, inclusi quelli religiosi. Il carattere razionale del ricorso al terrorismo suicida viene motivato argomentando che i costi umani che esso richiede sono più limitati rispetto alla guerriglia convenzionale, e la sua efficacia è notevolmente superiore. Si tratta dell'«ultima risorsa» a disposizione di attori deboli che operano in condizioni di totale asimmetria delle forze in campo: «un'opzione realistica», come nel 1995 la definì al-Shaqaqi, il segretario generale di Jihad islamico.

Come sconfiggere il terrorismo?

Secondo Alan Dershowitz, uno dei più celebri avvocati liberal degli Stati Uniti, è del tutto irrilevante l'indagine sulle «ragioni profonde» del terrorismo (6). Anzi, questa indagine potrebbe essere pericolosa. L'errore più grave che gli avversari del terrorismo possono commettere è quello di attardarsi a riflettere sulle sue «cause». Nei confronti del terrorismo occorre adottare una strategia opposta: è necessario «non cercare mai di comprendere e di eliminare le sue supposte cause prime» e opporre invece un rifiuto intransigente, che non ammetta dialogo o negoziato. Il messaggio da inviare ai terroristi non deve riguardare le loro ragioni o i loro fini: anche se le ragioni fossero ottime e le finalità legittime, dovrebbero comunque essere negate e respinte come non pertinenti. Non farlo significa istigare tutti coloro che si ritengono vittime dell'ingiustizia, dell'oppressione o dello sfruttamento ad usare il terrorismo per far valere la propria causa.

Per fermare i terroristi ci sarebbe una sola strategia: impedire che essi ricavino vantaggi dalle loro azioni e far capire loro in anticipo che non otterranno alcun beneficio dalle loro imprese sanguinarie. Ma per spezzare il corto-circuito di cause ed effetti che alimenta il terrorismo internazionale sarebbe necessario intervenire con misure molto più energiche di quelle che sono state usate finora. Occorrerebbe infliggere ai terroristi punizioni severe, «inabilitare» i suoi militanti arrestandoli o uccidendoli, decidere misure preventive e sanzionatorie che includano la tortura, l'assassinio, l'infiltrazione di spie, la corruzione, il ricatto, le rappresaglie collettive, la distruzione delle case dei parenti degli attentatori suicidi. Una metafora efficace per rappresentare questa corretta strategia di inabilitazione, spiega Dershowitz, forse ispirandosi alle gabbie di Guantanamo, è lo zoo. Nello zoo gli animali feroci sono tenuti dietro le sbarre: «in tal modo non si cerca di modificare le propensioni naturali degli animali, ma si erige semplicemente una barriera insuperabile tra noi e loro».

La modalità con cui affrontare e sconfiggere il terrorismo internazionale è senza dubbio uno dei massimi problemi della nostra epoca. Da questo punto di vista Dershowitz ha perfettamente ragione. Ed è ovviamente importante non incoraggiare e incentivare il terrorismo. È altrettanto rilevante, inoltre, definire le misure concrete che devono essere prese per sconfiggerlo, facendogli mancare le giustificazioni ideali e il sostegno popolare. Ma è proprio per queste ragioni che l'intero apparato delle argomentazioni e delle proposte avanzate da Dershowitz è a mio parere da respingere con fermezza. Il terrorismo ha successo perché nel mondo occidentale si sostengono tesi analoghe alle sue e ci sono governi che ispirano la loro lotta al terrorismo proprio ai principi raccomandati da Dershowitz. Sia nel microcosmo palestinese, sia su scala mondiale il terrorismo funziona perché le repliche strategiche che gli sono state opposte - la repressione etnocida della seconda Intifada, la guerra in Afghanistan, la guerra in 'Iraq - sono esattamente quelle che Dershowitz pensa di proporre come qualcosa di nuovo e di risolutivo. Sono in realtà delle repliche sanguinarie quanto lo sono gli attentati terroristici - e moralmente altrettanto deprecabili - e per di più motivate non dalla disperata volontà di un popolo di resistere all'oppressione, ma dalla spietata volontà di una grande potenza (o di un suo alleato militarmente efficientissimo e dotato di armi nucleari, come Israele) di imporre al mondo una logica di potenza.

In questo modo non si fa che teorizzare e razionalizzare ex post una strategia antiterroristica già in corso da anni: quella di Ariel Sharon in Medio Oriente e quella di George Bush su scala globale. È una strategia che in Palestina ha impedito sia alle Nazioni Unite, sia alla diplomazia europea di tentare una mediazione politica fra i contendenti ricorrendo a forze di interposizione e di peacekeeping. Ed è fallita anche in Afghanistan e in Iraq, dove trascina i contendenti in una spirale di odio, di paura, di distruzione e di morte che rischia di condurci ad una guerra terroristica globale e senza fine. L'alternativa sarebbe in teoria semplicissima, anche se nella pratica oggi è di ardua se non impossibile realizzazione. Occorrerebbe liberare il mondo dal dominio economico, politico e militare degli Stati Uniti e dei loro alleati europei. La fonte prima, anche se non esclusiva, del «terrorismo globale» è infatti lo strapotere dei nuovi, civilissimi «cannibali»: bianchi, cristiani, occidentali.


Note

*. Da Iride, XVIII (2005), 44.

1. A. Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 167.

2. M. Walzer, Just and Unjust Wars: A Moral Argument with Historical Illustrations (1977), New York, Basic Books, 19922 (trad. it. Napoli, Liguori, 1990).

3. Ibidem, pp. 263-8.

4. F. Mernissi, Islam and Democracy. Fear of the Modern World, Cambridge (Mass.), Perseus, 1992, trad. it. Firenze, Giunti, 2002.

5. R. Pape, Dying to Win: The Strategic Logic of Suicide Terrorism, New York, Random House, 2005. Riprendo le argomentazioni che seguono dal commento di Pietro Montanari al volume di Pape. Cfr. P. Montanari, Morire per vincere. La strategia del terrorismo suicida.

6. A.M. Dershowitz, Why Terrorism Works, New Haven, Yale University Press, 2002, trad. it. Roma, Carocci, 2003.