2008

Se Dio lo vuole
L'insospettabile modernità della guerra "religiosamente corretta" (*)

Nicola Fiorita (**)

1. Le religioni e l'uso della forza: un rapporto controverso ed instabile - 2. Il lungo cammino della Chiesa cattolica tra ricorrente tentazione della crociata e opzione pacifista - 3. Gli sviluppi più recenti: l'ingerenza umanitaria e la riemersione della guerra giusta - 4. L'Islam e la guerra tra contraddizioni secolari e nuove frammentazioni - 5. Le declinazioni della guerra nel tempo dello scontro di civiltà: guerra santa, guerra giusta, guerra globale.

1. Le religioni e l'uso della forza: un rapporto controverso ed instabile

Poche immagini hanno coinvolto ed emozionato l'opinione pubblica internazionale come quelle relative alla protesta (e alla virulenta repressione che ne è seguita) capeggiata nell'ottobre del 2007 dai monaci buddisti birmani nei confronti della spietata dittatura militare che da troppi decenni opprime quel Paese (1). Se ancora oggi non sono noti nella loro interezza i tragici dati relativi agli arresti, ai feriti e ai morti che sono serviti per bloccare la pacifica domanda di libertà (e di beni materiali per la mera sopravvivenza) che proveniva dall'intera società birmana, se ancora oggi appare impossibile esprimere alcuna previsione ragionevole sull'esito della richiesta di una pur timida apertura e democratizzazione di quel regime, ciò che appare definitivamente acquisito è la certezza che non verranno mai dimenticate le centinaia di mantelli porpora e di piedi scalzi che hanno attraversato le strade di tutta la Birmania e che hanno sfidato i fucili dei carnefici per parlare al mondo.

Quelle tragiche immagini restituiscono alla religione, ad ogni religione, il senso di comunità di costruttori di pace che esse sono andate smarrendo nei tempi a noi più vicini sotto i colpi dei mille fondamentalismi che insanguinano l'intero emisfero. In un momento storico in cui le guerre tornano a scandire l'incerto fluire del presente e a riappropriarsi del compito crudele di risolvere le controversie internazionali e di difendere gli interessi politici ed economici di alcune lobbies, questo ricorso continuo alla violenza viene a dotarsi di un armamentario religioso e ad indossare i panni antichi della guerra di volta in volta giusta, santa, lecita, umanitaria, sacra ma comunque sempre "religiosamente corretta".

Proprio in ragione di queste riflessioni appare doveroso rammentare, innanzitutto a noi stessi, come in altrettanti frangenti le religioni abbiano giocato un ruolo cruciale nell'opposizione alle guerre, nella resistenza alle dittature e nella costruzione di uno sbocco positivo in quei passaggi disordinati e convulsi che non di rado accompagnano le fasi di transizione (2). Ovviamente, in situazioni così delicate come quelle appena citate è abbastanza usuale che si manifestino opinioni e giudizi discordanti, quando non assolutamente irriducibili. A seconda dei punti di osservazione, l'azione di un qualunque soggetto in situazioni delicate e cruente può apparire timida o coraggiosa, efficace o velleitaria, opportuna o dannosa, ma quello che non si può occultare è la consapevolezza che, in ripetute occasioni, uomini, organizzazioni e associazioni religiose si sono spese fino in fondo in favore della prevenzione o del superamento dei conflitti; una consapevolezza che permette di alimentare la ragionevole speranza che il messaggio spirituale di pace possa un giorno definitivamente prevalere sulle esigenze politiche e sulle storture indotte da contingenze di vario tipo.

Eppure oggi, come accennavo, si torna a identificare la religione con il fanatismo, l'integralismo, la contrapposizione anche violenta; insomma si riprende a guardare alla religione come elemento di cruenta divisone più che di unione, di scontro più che di dialogo. E risulta di comune percezione che molte delle guerre più recenti abbiano assunto - a volte sin dall'inizio, a volte solo con il progredire del conflitto - un lessico religioso, una motivazione religiosa, un obiettivo religioso. Se pure a nessuno sfugge che oggi, come ieri, si combatte e si uccide principalmente per il petrolio, per i soldi o per gli interessi di cerchie estremamente ristrette di persone, le bandiere che i dittatori, i terroristi, gli eserciti e finanche i governi democratici innalzano sui campi di battaglia e nelle trasmissioni televisive recano ben in vista i propri simboli religiosi e addirittura in alcuni episodi possono, a ragione, citare l'appoggio delle singole autorità spirituali di riferimento. E non si creda che ciò accada soltanto nelle periferie del mondo o nelle culture a noi più lontane, perché come ha scritto Peter Partner, "benché l'Occidente non qualifichi normalmente come sante le sue guerre, non di rado fa appello al suo clero perché sostenga la giustezza della sua causa; in queste occasioni le risposte spesso riecheggiano gli slogan crociati del medioevo" (3). Questa rimodulazione delle strategie geopolitiche, anzi, risulta particolarmente evidente nell'operato dell'amministrazione americana attualmente in carica. Il Presidente George W. Bush, in ripetute esternazioni pubbliche, ha invocato una sorta di mandato religioso per giustificare le sue guerre e tutto il suo lessico ha assunto un tono chiaramente religioso (4) fino a giungere nei discorsi immediatamente successivi all'attentato dell'11 settembre ad introdurre un collegamento palese tra intervento militare e tutela degli interessi di alcuni gruppi religiosi (5).

In questo sofferto passaggio di millennio finanche il buddismo come già prima l'ebraismo, l'Islam, l'induismo, la chiesa ortodossa e quella cattolica, è stato coinvolto in una terribile lotta fratricida, avendo deciso di schierarsi a favore di una delle parti in causa nel conflitto che insanguina lo Sri Lanka e che vede contrapporsi la maggioranza cingalese ai tamil d'origine hindu (6). In questo, come in altri tragici casi (si pensi, tanto per aggiungere qualche altro esempio, alle guerre civili che hanno insanguinato la Jugoslavia o il Ruanda) quando le religioni non hanno benedetto esplicitamente le armi e le armate hanno comunque contribuito alla creazione di una identità collettiva da contrapporre ad un nemico.

Ce n'è a sufficienza, dunque, per chiedersi cosa pensino davvero le religioni della guerra e quale sia il loro rapporto reale con l'uso della forza. E saranno proprio queste domande ad orientare le pagine che seguiranno, scritte e meditate non tanto con l'intento di dimostrare la fondatezza di quei riferimenti all'attualità che fin da subito abbiamo dato per acquisiti né tanto meno ad indagare la genesi e lo sviluppo dei singoli conflitti, ma piuttosto con lo scopo di approfondire le ragioni che hanno permesso che si sviluppasse un uso così strumentale della religione fino al punto da trasformare l'appartenenza confessionale in uno dei motivi per cui si uccide e si combatte, riesumando a ben vedere un passato che si pensava, per l'appunto, passato per sempre. In sostanza si tenterà di:

  1. verificare l'elaborazione teorica prodotta dalle principali religioni monoteiste nei confronti delle guerre (7), ovvero comprendere fino a che punto esse si siano distaccate dall'uso della forza (8), abbiano scelto la strada della pace o seguitino a conservare elementi di violenza tali da giustificare il richiamo alla fede quale elemento fondante di guerre di aggressione o di difesa (9);
  2. verificare quanto e come tale atteggiamento sia andato mutando nel corso dei secoli e se i progressi compiuti, e qui si pensa soprattutto alla Chiesa cattolica, siano stati acquisiti definitivamente o restino esposti ad un pericoloso ripensamento;
  3. verificare la fondatezza delle principali argomentazioni di carattere teologico e dottrinario del radicalismo musulmano e la loro conciliabilità con la lettura tradizionale e maggioritaria del diritto islamico.

Come è ovvio, non si pretende di accertare una volta per tutte se la guerra e/o l'uso della forza siano impresse nel codice genetico delle grandi religioni (10) o se al contrario esse si presentino in una relazione di incompatibilità logica con il nucleo duro ed irrinunciabile del loro messaggio; un quesito di questo genere, infatti, non conosce e non conoscerà risposta certa e definitiva, essendo destinato ad attraversare fino in fondo la storia dell'umanità. L'obiettivo di questo lavoro, allora, può essere solo quello di enucleare una serie di indicazioni utilizzabili al momento di valutare la presenza di Dio negli attuali scenari di guerra. Sono le religioni che scelgono di combattere o esse sono semplicemente e tragicamente strumentalizzate da chi combatte? E, in questo secondo caso, ciò accade per la permanenza di punti oscuri e antichi cedimenti alla violenza da parte del pensiero dei grandi monoteismi o a causa di una grave e infida distorsione del messaggio divino e della sua interpretazione ufficiale?

2. Il lungo cammino della Chiesa cattolica tra ricorrente tentazione della crociata e opzione pacifista

Sebbene si possa agevolmente sostenere che la presenza delle divinità abbia accompagnato senza soluzione di continuità l'insorgere e il dispiegarsi dei conflitti bellici, si può comunque convenire con chi rileva che la nascita del cristianesimo abbia scombinato lo scenario tradizionale, aprendo una questione sconosciuta all'umanità, ovvero quella relativa alla necessità di giustificare in maniera convincente la guerra (11).

Per la prima volta, infatti, la logica militare deve fare i conti con un pensiero che è fermamente contrario alla violenza e che si snoda a partire da precetti chiaramente incompatibili con la guerra. La ricerca di queste giustificazioni si svilupperà, peraltro, non all'esterno e contro il cristianesimo, ma al suo interno e rimestando per secoli tra le sue contraddizioni. Lo scandalo del messaggio evangelico, così radicalmente pacifista, sarà ben presto attenuato da una elaborazione teorica più duttile e flessibile, che impedirà di trarre da esso tutte le necessarie e consequenziali implicazioni pratiche, finendo non solo con il fornire avallo alla permanenza della guerra nella storia ma addirittura con il garantire supporto e autorevolezza a numerose imprese militari. Così, per centinaia e centinaia di anni le guerre verranno combattute con l'approvazione dell'autorità religiosa o su richiesta di essa, senza che faccia più capolino l'idea di un rifiuto totale della guerra da parte della Chiesa, il cui impegno sarà principalmente rivolto alla costruzione progressiva di una imponente opera di individuazione e definizione dei requisiti che permettessero di considerare la guerra lecita, se non giusta, o addirittura santa (12).

Già con Sant'Agostino, comunque, i termini del dibattito che si protrarrà nei secoli appaiono sufficientemente chiari. Già in quel momento, infatti, sono ben riconoscibili le tre opzioni che divideranno ogni società umana, ovvero la tendenza a considerare la guerra come un evento possibile - necessario, opportuno o naturale a seconda delle situazioni -, la scelta di distinguere tra le guerre - tra le guerre giuste e ingiuste, lecite e illecite, e così via -, la decisione di rifiutare radicalmente la guerra (13). Con la sua opera, Sant'Agostino rafforza e blinda l'adesione del cristianesimo alla seconda di queste tre opzioni, provvedendo a indicare i requisiti che devono ricorrere per poter considerare giusto un conflitto bellico. Si tratta, come è noto, della necessità che la guerra sia proclamata e condotta da un'autorità legittima, sia dovuta ad una aggressione del nemico, sia animata da una retta intenzione e si mantenga priva di inutili atti di vendetta, crudeltà e saccheggio (14).

Tali condizioni saranno oggetto, da parte dei grandi Maestri del diritto canonico (15), di un continuo lavoro di cesellamento che risponderà, però, più alle esigenze pratiche che a quelle giuridico-teologiche, allargandosi o restringendosi le maglie di quel filtro apposto alla guerra prevalentemente in ragione del contesto geo-politico, dei rapporti di forza, degli obiettivi temporali del Papato. La guerra apparirà così non solo giusta ma meritoria o doverosa se, a seconda dei momenti, verrà indirizzata contro i pagani o contro i cattivi cristiani, contro gli eretici o contro dei semplici avversari del Pontefice (16).

Più che indugiare sulla analisi di questi requisiti, e sulla loro indubbia vaghezza, mi preme evidenziare come il consolidarsi del mandato religioso che deve autorizzare la guerra solo apparentemente contribuisce a limitare il numero degli eventi sanguinosi - sì che la condanna di una guerra perché illecita si ritrova sempre strettamente connessa alla giustificazione della guerra intrapresa dagli altri contendenti e mai è propedeutica alla mera invocazione della pace - producendo piuttosto un irrigidimento della retorica bellicista che rende molto più arduo porre termine ai singoli conflitti armati. E' che la nozione di guerra giusta presuppone sempre la presenza d'altra parte della barricata di un nemico che sia ingiusto, barbaro o malvagio, così come la nozione di guerra santa presuppone sempre che il nemico sia un infedele o un eretico. Da ciò discende che le guerre che assumono un connotato religioso tendono ad essere particolarmente efferate anche perché escludono sin da principio la possibilità di un esito negoziato: esse sono guerre intrinsecamente refrattarie ai compromessi e agli accordi perché indirizzate ad affermare la prevalenza dell'unico vero Dio, guerre destinate a non fare prigionieri e a non avere termine se con l'annientamento o la resa totale (la conversione) dei nemici. In questo scenario, se possono darsi limiti, per quanto come visto nebulosi e facilmente eludibili, alle cause che giustificano la guerra non possono dettarsi condizioni che la facciano cessare oltre alla definitiva vittoria del Bene sul Male (17).

E ciò è ancora più vero, sia detto per inciso, quando la guerra religiosa è indirizzata contro l'eretico piuttosto che contro l'infedele. D'altra parte, come nota Piero Bellini, quel progressivo sfavore verso le guerre di aggressione che, seppur lentamente, comincia a farsi strada nel pensiero cattolico non produce nessuna influenza al momento di tratteggiare il comportamento da assumere nei confronti di chi rinnega la verità (18). Al contrario, in questa ipotesi, la difesa dell'ortodossia e la lotta nei confronti degli eversori interni viene perseguita senza alcun limite e rimuovendo qualsiasi ostacolo di ordine etico che potesse ingolfare l'azione di bonifica della società. Una impostazione non troppo dissimile dagli orientamenti che ancora oggi continuano a manifestarsi in quei settori del mondo musulmano che, pur restii a recepire gli inviti del radicalismo islamico a intraprendere una guerra santa contro l'Occidente, si rivelano invece propensi a reprimere tutte quelle posizioni critiche che sconfinano nel rifiuto della lettura ufficiale dell'islam, o ad impedire forme di allontanamento e uscita dalla religione, difendendo anche con l'applicazione della pena di morte la purezza del messaggio religioso ritenuto originario e vero.

Ricapitolando queste prime considerazioni, potremmo sinteticamente affermare che la storia del diritto canonico in questo settore si identifica con la storia della procedimentalizzazione della guerra, ovvero della progressiva definizione di condizioni di legittimità, requisiti essenziali e modalità di svolgimento dello sforzo bellico: un lungo percorso che essenzialmente pare finalizzato più a legittimare la guerra che a costruire le condizioni per la pace.

Un assetto che, a parte inevitabili variazioni di dettaglio, non pare scalfito dal passare del tempo e, ancora nel secolo scorso, dimostra di godere di buonissima salute, tant'è che la teoria della guerra giusta trova nel primo novecento ripetute occasioni di applicazione nella sua più classica declinazione. Se oggi la lettura delle dichiarazioni dei Pontefici del ventesimo secolo ci turba e ci indigna, in fondo, è solo per la maggiore vicinanza degli avvenimenti che prendiamo in considerazione e non certo per una deviazione dal percorso consolidato del pensiero cristiano in materia. Certo è che a fronte della nascita e della diffusione di movimenti pacifisti in ogni angolo del mondo, la guerra continua a ricevere la benedizione dell'autorità religiosa, anche quando è una guerra coloniale, come quella dell'Italia in Etiopia (19), o quando nasce da una sollevazione militare contro un governo legittimo, come nel caso della Spagna (20), e finanche (almeno in ipotesi) laddove essa dovesse comportare l'uso della bomba atomica (21). Lo stesso Benedetto XV, pur lacerato dalle terribili notizie che giungevano dagli angoli più remoti del territorio europeo, e fermo nel denunciare l'inutile strage che si consumava davanti ai suoi occhi, non si libererà mai dello schema classico ereditato dai suoi predecessori (22).

Tutto cambia, invece, con il Pontificato di Giovanni XXIII. Se cerchiamo un punto di frattura nella teologia della guerra, che abbiamo così sommariamente descritto, è alla Pacem in Terris che dobbiamo guardare. Pur senza rinnegare esplicitamente l'elaborazione teorica precedente, e condizionando le nuove conclusioni al mutare dei fattori esterni e al proliferare delle armi di distruzione di massa, sarà una breve frase contenuta in questa enciclica ("perciò in questa nostra epoca, che si gloria dell'energia atomica, è del tutto contrario alla ragione che la guerra sia utilizzata per restaurare i diritti violati" (23)) a scardinare lo schema tradizionale e a trasformare la guerra in un evento moralmente inaccettabile (24).

La Pacem in Terris, prima, e la costituzione conciliare Gaudium et Spes, poi (e, forse, un po' meno nettamente (25)) rifiutano senza mezzi termini la teoria della guerra giusta e proiettano il pensiero cattolico verso una nuova dimensione, tanto da potersi affermare che a partire dai due documenti appena citati comincia a formarsi il Dna pacifista della Chiesa (26). E che di vera svolta si tratti è dimostrato in special modo dalle resistenze che una parte delle gerarchie ecclesiastiche oppongono al recepimento effettivo di questi documenti. Si ricordi, in proposito, che il tentativo di addomesticamento della Pacem in Terris comincia già al momento della sua traduzione in italiano (27), poiché l'assoluta inconciliabilità tra guerra e ragione sancita dal testo latino (alienum est a ratione) si trasforma immediatamente in una più sfumata e generica contrarietà nel testo riportato dall'Osservatore Romano (28) ("per cui riesce quasi impossibile pensare che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia").

Questa nuova fase, per quanto sofferta, ricevette ulteriore impulso per opera di Papa Montini e di Papa Wojtyla. Sarà Paolo VI a coltivare la condanna della guerra e a rafforzare la scelta della pace attraverso una miriade di dichiarazioni e di appelli, oltre che mediante la decisione di indire una giornata mondiale per la pace; sarà Giovanni Paolo II a ribadire il rifiuto assoluto e intransigente nei confronti della guerra e a sintonizzare l'azione della Santa Sede sull'onda dei nuovi postulati teorici traendone le dovute conseguenze. Di enorme importanza si rivela, da questo punto di vista, la condotta tenuta da Giovanni Paolo II in occasione della prima guerra del Golfo. Non solo e non tanto perché Papa Wojtyla guidò l'intera Chiesa Cattolica verso un'opposizione radicale alla guerra che poteva contare ben pochi precedenti (29), quanto soprattutto perché quella specifica azione militare, originata dall'arbitraria invasione irachena del Kuwait, sembrava possedere tutti i requisiti tradizionalmente richiesti per poter essere considerata una guerra giusta o perlomeno un'applicazione del principio di legittima difesa (30).

Eppure, l'azione di Paolo VI e Giovanni Paolo II non può considerarsi del tutto lineare. Se dalle prime impressioni si passa ad un esame attento e approfondito del loro magistero, si riscontrano in entrambi i pontificati oscillazioni e contraddizioni di un certo rilievo. E' gioco facile notare, per gli studiosi più attenti, come le preoccupazioni geopolitiche, gli echi della deterrenza, la lotta al comunismo, gli strascichi della guerra fredda abbiano condizionato in più occasioni le dichiarazioni dei due Pontefici, stemperando complessivamente la forza dei loro pronunciamenti in favore della pace (31). Quello che resta oggi sul tavolo della storia è allora un quadro incerto, in cui sembrano riassumersi le difficoltà tradizionali della Chiesa cattolica stretta da un orientamento naturale verso la pace e da un ruolo pubblico e politico che richiede l'accettazione di ogni fenomeno umano, anche quello della guerra, o - come scrive Prosperi - condizionata da un'ambiguità di fondo tra la tentazione della crociata e la spinta dello spirito evangelico della fraternità (32).

A conclusione di questo paragrafo, e prima di compiere l'ultimo passo verso l'attualità, pare essere opportuno segnalare come nei medesimi anni - gli anni '60 del secolo scorso - in cui la Chiesa finalmente e coraggiosamente intraprendeva questo accidentato cammino pacifista, all'interno del mondo islamico si assisteva alla nascita di posizioni teoriche chiaramente ed esplicitamente belliciste (33), così che nello stesso periodo in cui si giungeva in ambito cattolico a proclamare il rifiuto della guerra assumendo le necessarie conseguenze sul piano pratico - e siamo ormai all'inizio degli anni '90 - nell'altro campo iniziava a udirsi il richiamo a quella guerra santa che era da tempo confinata negli scaffali polverosi della storia.

3. Gli sviluppi più recenti: l'ingerenza umanitaria e la riemersione della guerra giusta

Il novecento, secolo breve scandito in ogni suo passaggio cruciale da guerre e rivoluzioni, è anche il secolo che generato un diritto internazionale basato sul riconoscimento della sovranità dei singoli Stati e sulla messa al bando della guerra, considerata ammissibile, ai sensi dell'art. 51 della Carta dell'Onu, solo nel ristretto ambito della legittima difesa contro una aggressione in atto. Più di recente, come è ampiamente noto, questo assetto ha dovuto fare i conti con l'apparizione di conflitti definiti in maniera tanto innovativa quanto generica (34), e di volta in volta presentati come operazioni di ingerenza umanitaria, mantenimento della pace, prevenzione dei conflitti, costruzione della pace (peace building), imposizione della pace (peace enforcement) intervento umanitario o polizia internazionale.

L'analisi e la valutazione di queste nozioni non può rientrare tra gli obiettivi di questo saggio, ma si ritiene comunque necessario sottolineare come al di là degli scopi, generalmente condivisibili, che la scelta di intraprendere operazioni del genere intendeva raggiungere - e fondamentalmente sintetizzabili nella tutela internazionale dei diritti dell'uomo - gli interventi di questo tipo abbiano condotto a vanificare il principio della non ingerenza negli affari interni dei singoli ordinamenti e ad ammettere la sospensione della sovranità degli Stati in nome della difesa di valori universali, o anche di valori semplicemente ritenuti tali da una parte dell'umanità. Un'evoluzione che apre scenari complessi quanto delicati, manifestandosi il pericolo che dietro all'azione umanitaria variamente declinata si nasconda un disegno egemonico di alcuni Stati e di alcune culture, e che comunque riporta indietro di qualche secolo le lancette della storia (35), sebbene tale percorso a ritroso venga sapientemente occultato mediante la retorica della tutela della libertà delle minoranze o della salvaguardia della democrazia (36).

Il principio così ambivalente, suggestivo quanto pericoloso, di un uso della forza a carattere umanitario deflagra con il suo dirompente carico di implicazioni anche nel mondo cattolico, rimettendo in moto quelle millenarie contraddizioni cui abbiamo fatto riferimento in chiusura del paragrafo precedente e su cui ora dobbiamo ritornare. Se nell'immaginario collettivo andava sedimentandosi l'idea di una Chiesa definitivamente attestata sul ripudio radicale della guerra, la realtà effettiva delle cose continuava a essere molto più fluida. In fondo, la svolta impressa dalla Pacem in Terris non è mai stata completamente metabolizzata dalla Chiesa cattolica, così che il rifiuto della guerra ha coesistito per un certo lasso di tempo con la ciclica riproposizione della teoria della guerra giusta (37). Un'ambiguità che ha permesso a settori contrapposti del mondo cattolico di fondare la propria azione su quella parte del magistero che meglio si attagliava alla propria sensibilità, così che se una miriade di associazioni e movimenti irrorava della propria spiritualità il movimento pacifista internazionale, contemporaneamente non mancavano coloro i quali potevano agevolmente sostenere che la Chiesa cattolica non aveva mai cessato di ribadire l'insegnamento millenario della liceità della guerra al ricorrere di precise condizioni (38).

Tali contraddizioni esplodono fragorosamente all'inizio degli anni '90, quando l'accelerazione degli eventi che segue alla caduta del muro di Berlino produce una equivalente accelerazione dell'attività della diplomazia vaticana. La teoria della guerra giusta si reincarna improvvisamente nella formula della guerra umanitaria (39) creando una sorta di corto-circuito nel pensiero delle gerarchie ecclesiastiche, impegnate da un lato nella condanna della guerra "senza se e senza ma" e, dall'altro lato, nella delimitazione degli spazi in cui può o deve riconoscersi l'uso della forza. Così nel giro di pochi mesi Giovanni Paolo II sancisce (12 gennaio 1991) la proscrizione della guerra e il Cardinale Sodano, segretario di Stato, afferma (6 agosto 1992) la legittimità dell'intervento (militare) umanitario nell'ex Jugoslavia (40).

Non mancano in dottrina alcuni pregevoli tentativi di valorizzare la distinzione che il pontefice introduce tra guerra e ingerenza umanitaria per spiegare il diverso atteggiamento che la Chiesa assume nei confronti dell'una e dell'altra, distinzione che si appunterebbe sulla peculiarità dei fini (disarmare l'aggressore), delle motivazioni (solo dopo aver esperito ogni altra possibile strada) e delle modalità di realizzazione (circoscritta nel tempo) che connoterebbero l'ingerenza umanitaria (41). L'autonomia della nozione di ingerenza umanitaria, che peraltro non necessariamente implicherebbe l'uso delle armi, si consoliderebbe nel successivo svolgimento del magistero pontificio e troverebbe la sua definitiva sistematizzazione nel messaggio per la giornata della pace del 2000, laddove Giovanni Paolo II chiarisce che non può esservi pace vera senza rispetto dei diritti umani e che gli interventi di questo tipo debbono essere intesi come iniziative limitate, volte a sostenere i diritti delle popolazioni civili e non a sconfiggere un ipotetico avversario, sebbene la necessità di impedire stragi o genocidi possa legittimare il ricorso alla forza (42).

E', per l'appunto, un tentativo nobile e generoso di un autore particolarmente sensibile ai temi della pace, che si spinge fino a leggere nelle parole del Pontefice l'abbandono definitivo della concezione della guerra giusta (43), ma che, al di là della sua maggiore o minore fondatezza, risulta immediatamente contraddetto dai documenti ufficiali successivamente adottati dalla Santa Sede. Tra essi il più netto e preciso va considerato il Nuovo Catechismo della Chiesa cattolica che, al paragrafo 2309, ripropone esplicitamente la dottrina della guerra giusta, specificando come il ricorso alla guerra di difesa debba considerarsi pienamente legittimo qualora il danno causato dall'aggressore sia durevole, grave e certo, gli altri mezzi di reazione siano impraticabili o efficaci, vi siano fondate condizioni di successo e, infine, il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi.

Il messaggio inviato da Benedetto XVI in occasione della giornata mondiale della Pace del 2006 appare, in questo senso, particolarmente significativo. Papa Ratzinger richiama l'altissimo insegnamento di Paolo VI e Giovanni Paolo II ma non quello di Giovanni XXIII, cita a piene mani la Gaudium et Spes ma ignora la Pacem in Terris, condanna la violenza inutile e le sofferenze evitabili ma non la guerra in sé. Il primo messaggio del nuovo Pontefice sul tema della pace e della guerra appare complessivamente inadeguato rispetto alla tragicità dei tempi e all'evoluzione dello scenario geopolitico, esso invita tutti al rispetto del diritto internazionale umanitario ma non sollecita il mondo a unirsi al ripudio della guerra (44), attenuando così la forza dei messaggi di Giovanni Paolo II e il tono quasi apocalittico (45) delle sue ultime dichiarazioni sul tema.

Una linea riduttiva, un tono prudente, che divengono ancora più marcati nel messaggio inviato da Benedetto XVI in occasione della giornata mondiale della pace del 2007, laddove il giudizio negativo nei confronti della guerra si accompagna alla disincantata presa d'atto della sua salda e persistente presenza nella storia dell'umanità, tanto che la preoccupazione del pontefice è tutta rivolta verso l'osservanza del diritto internazionale umanitario, ovvero al rispetto di alcune regole di condotta durante lo svolgimento dei conflitti, e verso la riduzione dei danni prodotti dagli scontri bellici più che verso la condanna assoluta della guerra. Una prudenza che stride con il rinnovarsi, in quel medesimo testo, del rigido giudizio nei confronti dell'aborto e della procreazione, crimini assoluti che non conoscono eccezioni o comprensione. Secondo Benedetto XVI "la pace ha bisogno che si stabilisca un chiaro confine tra ciò è disponibile e ciò che non lo è", ma si consolida l'amara impressione che tra ciò che rientra nella categoria del disponibile vi sia proprio, e paradossalmente, la stessa pace.

In ogni caso, quel che mi sembra accertato è che l'apparizione e la successiva utilizzazione del concetto di ingerenza umanitaria abbiano riaperto la porta del paradiso alla guerra, posto che il consolidarsi della suddetta nozione in definitiva restituisce all'uso delle armi quella legittimità, e ancora di più quella eticità, che la guerra, a prescindere dal contesto che la originava, sembrava aver definitivamente perduto. Dimenticata ogni preoccupazione per il potenziale distruttivo delle armi moderne, accantonata la speranza di poter bandire la violenza dai rapporti tra gli Stati, la guerra riacquista il suo posto nella teoria politica della Santa Sede, configurandosi nuovamente come una possibilità: tragica, certo, ma pur sempre lecita, se non doverosa, al ricorrere di determinate condizioni

E, dunque, il giudizio delle gerarchie ecclesiastiche su ogni singolo conflitto bellico torna a doversi orientare in base alla risoluzione di delicate questioni giuridiche (è possibile l'ingerenza umanitaria senza il consenso delle popolazioni nel cui nome si predispone l'intervento?), ovvero a dipendere dall'accertamento della sussistenza dei requisiti richiesti dal magistero per dichiararne la liceità (in cosa consiste l'ingiustizia dell'aggressione che legittima la reazione?), o ancora a modularsi in ragione della diversa estensione che si riconosce all'intervento armato riparatore. La grande frattura con la tradizione aperta dalla Pacem in terris sembra definitivamente ricomposta e l'unica innovazione rilevante rispetto al passato consiste nella circostanza che la definizione e l'interpretazione delle condizioni che rendono lecita l'ingerenza umanitaria non spetta più alla Chiesa cattolica né sono da essa rivendicate. Il tempo ha cancellato l'ambizione (che, anche in tempi non troppo lontani, aveva condotto la dottrina cattolica ad attribuire al Papa le vesti di un vero e proprio arbitro della pace e della guerra (46)) di ricondurre all'interno delle prerogative dell'autorità ecclesiastica il potere supremo di regolare le controversie internazionali e l'insegnamento degli ultimi Pontefici è perfettamente concorde nell'invocare che questo ruolo sia assunto e sia svolto da una autorità internazionale (47).

Ma forse nemmeno questo approdo è quello definitivo. La perdurante difficoltà di procedere ad una elaborazione condivisa e praticabile dei requisiti che permettano di distinguere tra una guerra umanitaria "genuina" da una guerra umanitaria "falsa" indebolisce l'azione delle istituzioni internazionali e inevitabilmente comporta che tale compito venga arbitrariamente esercitato dalle grandi potenze (48); la Chiesa registra questa perdita di autorevolezza dell'Onu e adegua prontamente la sua visione. Così, il 1° dicembre del 2007, incontrando i rappresentanti delle organizzazioni non governative di ispirazione cattolica, Benedetto XVI non ha esitato a mettere in discussione l'operato dell'Onu e a legare le debolezze di questo organismo ad un eccesso di relativismo che da tempo ne pregiudicherebbe l'azione, quasi che l'inefficacia degli strumenti predisposti dalla comunità internazionale per garantire la convivenza pacifica tra i popoli dipenda da una mancanza di eticità nelle politiche dell'Onu, troppo condizionate da interessi temporali e poco attente agli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa. Papa Ratzinger si ferma qui, ma tra le righe del suo discorso non può non scorgersi anche l'indicazione della medicina con cui curare le debolezze della comunità internazionale, cui servirebbero robuste iniezioni di verità e un pronto recupero della legge morale naturale. All'orizzonte compare già l'idea di una Chiesa a cui venga restituito dagli Stati il compito di fungere da guida illuminata per tutti gli uomini di buona volontà e il potere di fornire valori condivisi, ovvero di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa è morale e cosa invece non lo è.

4. L'Islam e la guerra tra contraddizioni secolari e nuove frammentazioni

Più che un termine, jihad è un puzzle di impossibile soluzione, composto com'è da pezzi strenuamente refrattari ad ogni tentativo di incastro o conciliazione. Questa semplice parola, evocata ormai da qualche anno in ogni angolo del mondo, indica, come è noto, un fenomeno altamente complesso e già di ardua definizione, posto che il suo contenuto dipende dalla relazione intercorrente tra le molteplici disposizioni (singolarmente ambigue e complessivamente contraddittorie) contenute nel Corano e le risultanze ascrivibili ad una tradizione spesso piegata a finalità strumentali e contingenti. Una tensione che si protrae da secoli e che consegna all'attualità un termine facilmente modulabile a seconda delle esigenze, buono per ogni uso, anche il più efferato e crudele.

Senza dubbio la meccanica identificazione tra jihad e guerra santa è fuorviante (49) e polarizza su un unico versante un termine che invece viene utilizzato dal Corano per indicare una sorprendente vastità di comportamenti. Secondo una parte consistente della dottrina, il significato originario di jihad è quello di sforzo, designando l'impegno spirituale cui è tenuto ciascun credente nella realizzazione e nel rafforzamento del comando religioso (50). Ciò nondimeno, il Corano - e ancor più la Sunnah, ovvero l'insieme dei racconti (hadith) della vita del Profeta - dedica una speciale attenzione al tema della guerra contro i miscredenti, disciplinando puntigliosamente la condotta militare che i musulmani devono osservare, le motivazioni che giustificano l'evento bellico, i soggetti chiamati a combattere e quelli legittimamente esentati, la spartizione del bottino e via dicendo.

Accanto a questa principale bipartizione, che permette di attribuire al termine jihad il duplice significato di sforzo di perfezionamento spirituale e di guerra santa contro l'infedele (51), si colloca un'articolata catalogazione delle forme con cui lo jihad può essere realizzato. Nel pensiero islamico classico si distinguono quattro tipi di jihad, da compiere rispettivamente con l'animo, con la parola, con le mani e con la spada (52). I primi tre casi rientrano nel cosiddetto grande jihad, ovvero un impegno di carattere etico che deve essere finalizzato al perseguimento del bene e alla sconfitta del male, l'ultima ipotesi invece esaurisce il piccolo jihad, ovvero il jihad militare, la guerra santa. E preme subito precisare che non ogni azione bellica intrapresa dai musulmani può essere considerata tale, richiedendo il diritto islamico che essa venga indirizzata al perseguimento di precisi obiettivi: la difesa contro un'aggressione o la propaganda della fede (53). Ancora più precisamente, secondo David Cook il jihad richiede che la guerra sia autorizzata da un rappresentante legittimo della comunità musulmana per una questione di capitale importanza per l'intera comunità islamica e contro un nemico dichiarato dei musulmani (54).

L'introduzione dei suddetti requisiti ripropone nell'Islam il medesimo schema già visto all'opera nel diritto canonico, sancendo una divisione tra guerra lecita e illecita che apparentemente restringe lo spazio riservato allo scontro militare ma che di fatto apre la questione dell'interpretazione delle condizioni richieste, con la possibilità che l'applicazione pratica svuoti la delimitazione apposta in via teorica e che il mandato religioso renda più aspro il ricorso alla guerra.

Ma prima di approfondire questo tema dobbiamo notare come la distinzione cui abbiamo appena fatto riferimento tra grande e piccolo jihad produca delle ricadute di non poco conto. Difatti, solo nella prima ipotesi saremmo di fronte ad un obbligo che riguarda tutti i musulmani e che chiama ogni fedele, in qualsiasi luogo e condizione venga a trovarsi, all'impegno spirituale, alla dedizione religiosa, al combattimento etico. Quando, invece, il combattimento sulla via di Dio assume le vesti dell'impegno militare, allora a essere obbligata sarebbe l'intera comunità e non il singolo fedele, così che non ogni credente è chiamato a impugnare le armi e a scendere sul campo di battaglia. Tale costruzione teorica, benché saldamente consolidata nella tradizione islamica, è seccamente rifiutata da alcuni tra i movimenti islamisti attualmente più noti. In particolare, elemento centrale della propaganda di Al-Qaeda è proprio la chiamata alle armi di tutti i veri credenti, ritenendosi che il jihad debba considerarsi come un obbligo individuale almeno fino a quando l'esercito musulmano non abbia raggiunto il numero di combattenti necessari a sconfiggere il nemico (55).

Quest'ultima considerazione ci chiama a fare i conti con le tante sfaccettature del pensiero islamico in ordine all'uso della forza. Come c'è una teologia canonica della guerra giusta c'è una teologia islamica della guerra santa e quindi una progressiva elaborazione di regole, limiti e divieti. Ma in questo caso le ambiguità e le oscillazioni affondano le proprie radici in una disciplina coranica quanto mai contraddittoria. E le contraddizioni tra le disposizioni religiose si ripercuotono lungo tutto l'arco della storia, trasformandosi in accesi contrasti tra opposte visioni della politica e inconciliabili letture dei rapporti tra gli esseri umani. Se i movimenti fondamentalisti selezionano tra i tanti passi che si occupano di jihad il famoso versetto che dispone di uccidere gli idolatri dovunque si trovino (56) e ritengono che esso annulli ogni altra disposizione in materia, non mancano le tesi che utilizzando la stessa metodologia, ma privilegiando altri versetti, ribaltano gli approdi conclusivi di questa impostazione.

Questa seconda strada, che potremmo definire come una lettura buonista, o comunque riduttiva, della disciplina islamica della guerra, non convince del tutto. Essa, pur sostenuta da autorevoli studiosi del mondo islamico (57) e spesso argomentata con straordinaria finezza teorica e stilistica (58), sembra perdere il necessario rigore logico-giuridico per piegarsi al desiderio di raggiungere una conclusione che possa essere facilmente accettata da tutti. Così, gli autori in questione insistono nel distinguere tra guerra di difesa e guerra di aggressione - sostenendo che solo la seconda sarebbe legittima per l'Islam - o tra politeisti e Gente del libro (cristiani ed ebrei) - ricordando come il Corano riconosca ai secondi la facoltà di stipulare un patto di protezione che toglierebbe ogni liceità allo scontro armato -, per dimostrare che il testo sacro restringerebbe in maniera significativa la possibilità di far ricorso alla guerra.

Ma tali precisazioni, pur corrette di per sé, non possono essere estrapolate da un contesto che presenta altrettante previsioni di segno inverso e che, ad esempio, chiamano i musulmani a combattere contro la Gente del libro finché non vi sia più scandalo e non trionfi la vera religione (59). Né si può tacere la circostanza che i motivi che giustificano la proclamazione della guerra santa sono talmente vaghi da permettere in ipotesi un ricorso illimitato alle armi. Se si deve combattere e morire per la propaganda della fede è agevole poter sostenere che non dovrà esserci pace fintanto che vi saranno luoghi che non soggiacciono all'applicazione della sharî'a.

Mi pare più opportuno, allora, fermarsi sulla soglia di questa intricato dedalo normativo e semplicemente prendere atto dell'esistenza di comandi contradditori e regole di segno opposto (60). La questione, in fondo, è ancora aperta. La guerra santa sta nell'Islam: nella sua storia, nel suo apparato giuridico-religioso. Ma i modi di questa presenza non sono definiti per sempre, dipendendo in ultima analisi dal prevalere di una o dell'altra delle tante anime che compongono il mondo islamico.

Più di tutte le altre, due questioni condizionano l'estensione della nozione di guerra santa e le sue potenziali applicazioni pratiche nella attuale situazione (61). Su di esse, dunque, concentreremo la nostra attenzione.

In primo luogo, occorre fare i conti con quello che potremmo presentare come il problema dell'autorità e che contiene a sua volta almeno due profili di cruciale rilevanza. Punto nodale del concetto di guerra santa è la sua proclamazione da parte di un'autorità legittima dell'Islam, ciò comporta secondo il pensiero islamico classico che solo il capo della comunità possa dichiarare validamente il jihad (62). Un assetto apparentemente lineare che però entra in crisi già nel momento in cui finisce la secolare esperienza storica del califfato, per poi implodere completamente quando segmenti consistenti delle società islamiche smetteranno di riconoscere la legittimità delle autorità che detengono il potere, tanto spirituale quanto temporale. Evidentemente, i movimenti islamisti agiscono sulla scia di questa critica e si appropriano di un potere che non spetterebbe loro per reagire a quello che ritengono un vero e proprio tradimento dell'Islam da parte dei soggetti che occupano i vertici delle rispettive società.

Ancor più in generale, la questione si ripropone quando si passa a individuare il soggetto che deve risolvere questa controversia o comunque valutare la ricorrenza di tutti gli altri requisiti richiesti per la proclamazione della guerra santa. E' che tra le principali caratteristiche dell'Islam vi è quella di essere una religione senza centro, senza dogma e senza neppure una lettura ortodossa e ufficiale dei comandi e dei divieti spirituali, così che la forza di una qualsiasi interpretazione sta tutta nel prestigio di chi la propone o nel numero di coloro che si sentono ad essa vincolati (63). Se l'assenza di un autorità centrale ha garantito per molti secoli alle società islamiche la difesa di una vitale flessibilità del suo diritto e la permanenza di un prezioso pluralismo (64), la crisi in cui esse versano da molti decenni ha trasformato questa caratteristica in un fattore di frammentazione e confusione. L'Islam attuale, in questo come in altri settori, si spezzetta continuamente in tante piccole minoranze, si frantuma in una molteplicità di distinguo che rendono plausibile le più ardite interpretazioni e agevolano la diffusione di correnti dottrinali di ogni tipo.

Ovviamente, in un contesto del genere, le pronunce divergenti da parte degli esperti giuridico-religiosi, tutti legittimati peraltro ad emanare una fatwa che regoli la vicenda sottoposta alla loro attenzione, sono destinate a riprodursi all'infinito. Così è accaduto, ad esempio, in occasione della prima guerra del Golfo, quando alcuni autorevoli imam ritennero legittima la presenza delle truppe americane nei pressi dei luoghi santi dell'Islam nello stesso momento in cui altri prestigiosi esponenti del mondo islamico la ritenevano gravemente offensiva e chiamavano di conseguenza l'intera umma alla guerra santa (65). E' fin troppo scontato osservare che indicazioni così divergenti non possono coesistere e sono destinate a creare solchi difficilmente colmabili. D'altra parte, l'assordante retorica jihadista di alcune correnti islamiste, come vedremo, intende portare la guerra dentro le società islamiche prima ancora che mobilitare le masse per difendere la fede aggredita dai miscredenti (66).

La proclamazione del jihad presuppone che il combattimento venga indirizzato contro gli infedeli e per il trionfo dell'Islam. Ciò, e siamo al secondo punto, ci conduce verso la tradizionale divisione del mondo in un territorio dell'Islam - in cui è applicata la sharî'a e il governo è musulmano - e in un territorio della guerra - in cui l'Islam è sottomesso e in cui il diritto religioso non informa la legge dello Stato. Quest'ultima situazione dovrebbe cessare, secondo gran parte della dottrina classica, attraverso la conversione dei non credenti, la loro sottomissione oppure, per l'appunto, mediante la conquista del territorio e l'esportazione della sharî'a. La crudezza di questa ricostruzione è temperata dal riconoscimento di una terza posizione, quella della tregua, che permetterebbe alle società islamiche e a quelle non islamiche di poter convivere pacificamente, sia pure in maniera non definitiva.

Precisato che non mancano serrate contestazioni alla correttezza e alla perdurante vigenza dell'insegnamento tradizionale (67), si tratta ora di comprendere quale sia la classificazione attribuita alle odierne società occidentali. Invero, anche sotto questo profilo si ripropongono le profonde fratture che segnano la vita dell'Islam ma, nell'impossibilità di richiamare tutte le principali correnti, ritengo utile accennare ad alcune posizioni contrapposte che sono andate maturando nella medesima area ideologica. Per i Fratelli musulmani, che pure fanno parte della galassia dell'Islam radicale, gli Stati europei, concedendo ai musulmani la libertà di culto e la libertà di agire secondo le proprie convinzioni, non possono essere considerati uno spazio ostile (68); per i salafisti l'Europa è terra della tregua, per cui pur differendo dall'idea dei Fratelli musulmani che gli immigrati di fede islamica possano partecipare alla vita pubblica e anzi invitandoli a conservare una rigida separazione con il resto della società, entrambe le correnti ritengono del tutto illegittimo qualsiasi atto violento contro questi Paesi e condannano fermamente gli attentati terroristici compiuti in nome dell'Islam (69). Al contrario, per i gruppi jihadisti, l'Occidente, luogo della miscredenza, non può che rappresentare la terra della guerra: il combattimento non riconosce alcun confine e l'Europa è coinvolta a pieno titolo in questa lotta globale.

Come si evince agevolmente da queste brevi considerazioni, la nozione classica di guerra santa è duramente messa alla prova dagli sconvolgimenti in atto negli ultimi anni. L'ultimo jihad a poter rientrare a pieno titolo nella tradizione secolare dell'Islam fu proclamato dall'impero ottomano allo scoppio della prima guerra mondiale con lo scopo di spingere tutti i musulmani a combattere contro le potenze nemiche di quello che sarebbe divenuto anche l'ultimo grande califfato della storia (70). Successivamente il jihad fu riproposto con andamento ciclico da parte dei gruppi di resistenza islamica in chiave anticolonialista o comunque panislamica (71). Ma nell'uno come nell'altro caso, le esortazioni alla guerra santa riscossero un'accoglienza fredda e ben poche adesioni.

Ben diversa sarà la reazione quando ad invocare la guerra santa saranno, a partire dalla fine degli anni '80 del secolo scorso, i gruppi radicali che già da qualche decennio si agitavano in numerosi Paesi orientali. La nascita del fondamentalismo (72) islamico, infatti, va molto retrodata nel tempo e va fatta risalire alla percezione da parte delle elité musulmane dello stato di arretratezza in cui versava l'Islam all'inizio del Novecento. La corrente principale di questo movimento è quella della salafiyya (fondata da Al-Afghani) che, partita dalla riscoperta della religione dei "pii antenati", sarebbe successivamente divenuta la base teorica del pensiero dei Fratelli Musulmani. Tale corrente raccolse ed elaborò lo scontento delle popolazioni musulmane, proponendo il ritorno alla religione delle origini come via per reagire all'umiliazione della colonizzazione e per uscire dalla decadenza. Il Corano, secondo questa visione, fornisce regole attuali, idonee ad un risveglio del mondo islamico e dunque si trattava di ricominciare ad applicarlo in maniera rigorosa e completa. Un discorso radicale dal punto di vista teologico ma moderato dal punto di vista politico, critico con l'occidentalismo ma non con l'occidente.

Questa iniziale ammirazione per l'occidente, di cui si intendeva acquisire quella modernità che ne aveva favorito la superiorità tecnologica e scientifica, non abbandonerà mai del tutto il pensiero islamista, ponendo le basi per una insanabile contraddizione che scoppierà quando ad essa si affiancherà la lotta contro gli stati occidentali (73). E' comunque in questa prima fase che, attraverso l'opera di grandi pensatori, comincerà a formarsi quel background culturale dell'islamismo che potrà essere capitalizzato una volta terminata l'egemonia culturale del socialismo/marxismo, per lungo tempo capace di incanalare in un collaudato schema ideologico i fremiti che percorrevano le società musulmane.

In una seconda fase, il pensiero islamista cesserà di essere esclusivamente religioso e assumerà precisi obiettivi politici. Sotto la spinta di personaggi altamente carismatici, come Mawdudi e Sayyd Qutb (74), o di vere e proprie avanguardie, come la jihad egiziana, verrà avviata una trasformazione ideologica che intercetterà una congiuntura storica particolarmente favorevole. E difatti è solo grazie ad alcuni avvenimenti altamente simbolici (e si fa riferimento principalmente alla rivoluzione iraniana e alla resistenza afgana) che il pensiero radicale esce dai ristretti circoli intellettuali in cui era rimasto a lungo confinato e diviene patrimonio condiviso delle grandi masse. Solo a quel punto si realizzerà l'identificazione tra ribellione e Islam, e si arriverà, come scrive Gilles Kepel, ad un contesto in cui la religione sintetizza e contiene conflitti più vasti, sì da divenire "il linguaggio in cui si esprimono, in mancanza di meglio, l'immenso malessere presente nella civiltà delle società musulmane, la relazione al tempo stessa intima e conflittuale con il mondo occidentale, con cui quelle società sono strettamente connesse" (75).

L'obiettivo di questi movimenti continua ad essere la reislamizzazione della società, ma al loro interno si fa largo la convinzione che sia necessario eliminare quelle forze che sembrano contrastare questo processo e che impedirebbero alle masse islamiche l'accesso al governo della comunità. Gradualmente, ognuna con i propri tempi, numerose organizzazioni fondamentaliste individueranno nei detentori tradizionali del potere politico e religioso degli avversari sulla strada del ritorno al Corano e intraprenderanno una lotta che inevitabilmente si trasformerà in un assalto al palazzo condotto con ogni mezzo necessario. Elemento centrale della strategia islamista è il disconoscimento degli "ulema di palazzo", ovvero del clero tradizionale che con il suo operato legittimava l'autorità politica, accusati di tradire l'Islam e soppiantati da nuovi riferimenti giuridico-religiosi riconosciuti direttamente dalla comunità dei fedeli (76).

Nella terza fase del fondamentalismo, quella attualmente in corso, le frustrazioni per le ripetute sconfitte vissute nei propri Paesi di origine conducono i leaders radicali più spregiudicati a raffinare il proprio pensiero e ad allargare a dismisura la schiera dei nemici dell'Islam. A fronte delle pressioni popolari e della diffusione tra le masse del pensiero islamista i regimi avversi a queste organizzazioni resistono al potere e reagiscono con politiche di stampo repressivo. La loro capacità di tenuta viene addebitata dalle correnti radicali al sostegno che questi regimi ricevono dal mondo occidentale, cosicché si ritiene che il sovvertimento dell'ordine vigente implichi necessariamente l'attacco a tutti coloro che ne agevolino la sopravvivenza. Il discorso islamista, pur mantenendo un lessico religioso, assume di fatto un carattere esclusivamente politico.

Il passaggio dalla seconda alla terza fase investe e condiziona l'evoluzione di Al-Qaeda o, più precisamente, l'evoluzione dei rapporti tra quelli che diverranno i due leaders dell'organizzazione: Osama Bin Laden e al-Zawahiri. Quest'ultimo, formatosi nell'ambiente egiziano plasmato dal pensiero di Faraj, per lungo tempo ha continuato a identificare il nemico dell'Islam nei governi musulmani che tradivano il messaggio religioso (è la cosiddetta teoria del nemico vicino (77)) e solo a partire dal 1998 si è avvicinato alla visione di Osama Bin Laden, maggiormente propenso a indirizzare la propria lotta contro il "nemico lontano", ovvero gli stati Uniti e i suoi alleati, ritenuti altrimenti capaci di neutralizzare ogni tentativo islamico di ribellione e di garantire senza limiti di tempo lo status quo. Le due anime del radicalismo contemporaneo cominceranno, con questa unione, a marciare congiuntamente e la nebulosa Al-Qaeda, sotto l'egida di un richiamo costante ai testi classici del pensiero islamico e dell'appello alla jihad, ingloberà movimenti dediti al terrorismo globale e gruppi a carattere locale impegnati nella lotta ai regimi islamici considerati apostati.

5. Le declinazioni della guerra nel tempo dello scontro di civiltà: guerra santa, guerra giusta, guerra globale

E' emerso chiaramente, nei paragrafi precedenti, come il rapporto tra guerra e religione non si sia mai del tutto interrotto, pur scemando d'intensità e di rilevanza mano a mano che la modernità e la secolarizzazione andavano guadagnando spazio e fascino. E dunque se è vero che il ventesimo secolo consegna alla storia qualche ulteriore caso di guerra giusta (nel mondo occidentale) o di guerra santa (nel mondo islamico), è vero anche che in quel medesimo contesto temporale si consolidava la convinzione di essere di fronte ad autorità religiose che emettevano giudizi deboli, invocazioni quasi di routine, appelli scarsamente incisivi, se non del tutto ininfluenti.

Ma, come ben sappiamo, la situazione risulta sensibilmente modificata dagli avvenimenti più recenti: il legame tra motivazioni culturali-religiose e uso delle armi ha riconquistato un ruolo centrale nello scacchiere mondiale, al punto che alcune scelte (o almeno le argomentazioni con cui si intende giustificarle) possono essere efficacemente analizzate solo se collocate all'interno di quello schema tradizionale che pareva prossimo ad essere definitivamente abbandonato. Penso in special modo alla guerra preventiva teorizzata e praticata dall'amministrazione Bush, del tutto eversiva del sistema delineato dalla Carta delle nazioni unite (78), ma al contrario del tutto coerente nella logica pura delle guerre religiose, ontologicamente finalizzate all'esportazione del bene e della vera religione in ogni ambito spaziale e alla lotta senza quartiere contro gli infedeli che rappresentano il male, a prescindere dalla ricorrenza di ulteriori, e inutili, presupposti.

D'altra parte, gli eventi che hanno preceduto e seguito l'11 settembre del 2001 hanno indubbiamente prodotto una rottura traumatica con il più recente passato e hanno aperto scenari assolutamente inediti. C'è chi, come Danilo Zolo, ritiene che nel periodo indicato si sia prodotto il passaggio dalla guerra moderna alla guerra globale, avente caratteristiche, obiettivi e finalità originali e innovative, attraverso lo scardinamento di tutti gli equilibri (politici, militari e giuridici) che erano andati maturando nel ventesimo secolo. Più precisamente, la nuova guerra globale sarebbe caratterizzata da una de-territorializzazione del conflitto e dall'assenza di un nemico in senso tradizionale, così da essere destinata a essere combattuta in ogni luogo del globo terrestre e senza limiti di tempo contro ogni rappresentante del male (79).

Si voglia o meno condividere questa aspra ma lucida valutazione dei processi in corso, certo deve osservarsi come essa, espressamente destinata all'analisi critica delle scelte strategiche compiute dalle potenze occidentali, introduca una griglia di lettura agevolmente applicabile a quello che oggi si propone come il contraltare dell'amministrazione americana, ovvero quell'Al-Qaeda altrettanto dedita all'applicazione in chiave globale delle teorie classiche della guerra santa (80). La strategia qaedista mira proprio a condurre una guerra permanente (81) che non abbia un territorio né uno stato nemico di riferimento (82), utilizzando strumenti straordinariamente efferati, sfruttando al massimo le potenzialità dell'informazione e della disinformazione e ponendo al centro di tutta la propria elaborazione teorica il dovere religioso di combattere.

Si delinea in tutta la sua portata l'intreccio che pervade la strategia militare degli schieramenti contrapposti e orienta parte dei loro comportamenti. La nuova guerra globale non è altro che il risultato di un'imprevedibile combinazione tra la straordinaria modernità dei suoi strumenti e la sostanziale riesumazione delle logiche arcaiche dei suoi presupposti teorici (83), sviluppandosi per l'appunto attraverso l'impiego di nuove armi di distruzione ma fondandosi su quella visione sacra della guerra che era stata tipica dei secoli scorsi. E, sia detto per inciso, matura l'impressione che l'Islam si muova in questo inedito scenario globale, che potremmo definire post-moderno, con molta più disinvoltura di quanto non accadesse quando aveva da rapportarsi con il moderno e con le sue categorie (nazionalismo, secolarizzazione, democrazia (84)), mai del tutto accettate e metabolizzate (85).

E' quello descritto un intreccio che non si può ignorare, né sottovalutare. E' anzi doveroso sottolineare la profonda consapevolezza del peso esercitato dalla religione negli attuali conflitti che, nell'un campo come nell'altro, permea il pensiero dei sostenitori (più o meno entusiasti, più o meno rassegnati) della guerra o dello scontro di civiltà. Come lucidamente afferma un autore che si iscrive esplicitamente in questa schiera, il problema della legittimazione morale della guerra assume un ruolo cruciale nel conflitto globale "in cui le operazioni belliche si subordinano a quelle psicologiche e mediatiche e il combattente per eccellenza, più che il soldato di mestiere, diviene l'opinion maker, l'analista informatico, il leader religioso ... il "riarmo morale" presuppone per contro che il combattente sia convinto di militare per una causa giusta e, prima ancora, sia convinto dell'esistenza, a determinate condizioni, di "guerre giuste" che valga la pena di combattere" (86).

Testi sacri e muraglie chilometriche, kamikaze e versetti coranici, bombe al fosforo e nuove crociate. In ogni angolo del mondo la guerra viene condotta con l'ausilio di forme e di mezzi drammaticamente originali e con il ricorso ad armamenti altamente tecnologici, ma come mille e mille anni prima si avverte il bisogno di esorcizzare il tabù della morte di altri uomini adducendo che è Dio che lo vuole. Come se uccidere in nome di Dio fosse diverso da uccidere.


Note

*. Il presente contributo è destinato alla pubblicazione nel volume "Il diritto di ingerenza umanitaria" a cura di M. Bilotta, F.A. Cappelletti, A. Scerbo.

**. Università di Firenze.

1. Per un ampio ed efficace inquadramento della situazione birmana si consiglia il reportage di C. BRIGHI, Il pavone e i generali, Garzanti, Milano, 2006.

2. Su quest'ultimo profilo si appunta l'attenzione di J. CASANOVA, Oltre la secolarizzazione, Il Mulino, Bologna, 2000. Di particolare interesse si rivelano gli approfondimenti, contenuti nel volume, sul ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nei momenti che hanno preceduto il sofferto approdo alla democrazia in Polonia ed in Brasile.

3. P. PARTNER, Il Dio degli eserciti, Einaudi, Torino, 2002, p. XXIV.

4. Il nesso strettissimo tra cristianesimo e nazionalismo che caratterizza la visione del Presidente Bush e del suo entourage è ben indagato da E. GENTILE, La democrazia di Dio, Laterza, Roma- Bari, 2006. Per due giudizi opposti, il primo favorevole e il secondo critico, su questa svolta si vedano rispettivamente S. HUNTIGTON, La nuova america, Garzanti, Milano, 2005 e K. PHILIPS, La teocrazia americana, Garzanti, Milano, 2007.

5. Mi riferisco alla frase ("Gli islamici vogliono cacciar fuori cristiani ed ebrei da vaste regioni dell'Africa e dell'Asia") pronunciata dal Presidente Bush il 20 settembre del 2001.

6. Per alcuni cenni a questo conflitto, ma anche ad altri eventi bellici che coinvolgono le confessioni religiose più diverse, si veda E. PACE, Perché le religioni scendono in guerra?, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 3 ss.

7. Ragioni di spazio impediscono, in realtà, di procedere ad un'analisi completa che tenga conto di quanto accade nella terza grande religione monoteista, ovvero l'ebraismo. Per un primo approccio al rapporto tra questa confessione e la guerra si rimanda alle considerazioni di J. ASSMAN, Non avrai altro Dio, Il Mulino, Bologna, 2007.

8. Nessun dubbio, infatti, che nei testi sacri dei monoteismi ricorra con una certa frequenza il richiamo della forza, della violenza e della guerra. Anzi, come è stato messo in evidenza, i riferimenti alla guerra sono ben più consistenti di quelli alla pace. Cfr. P. STEFANI, Presentazione, in P. STEFANI - G. MINESTRINA (a cura di), Pace e guerra nella Bibbia e nel Corano, Morcelliana, Brescia, 2002, p. 11.

9. Sul rapporto tra violenza e confessioni religiose rimando a L. ZANNOTTI, La sana democrazia, Giappichelli, Torino, 2005, p. 241 ss.

10. Come sembra ritenere J. ASSMAN, op.cit., 2007.

11. Cfr. G. TOSI, La teoria della guerra giusta in Francisco de Vitoria e il dibattito sulla conquista, p. 1 ss.

12. Né manca chi sottolinea come questa opera di individuazione dei presupposti che "sanavano" il ricorso alle armi abbia prodotto un sostanziale svuotamento della condanna della guerra. Così secondo P. BELLINI, Il gladio bellico, Giappichelli, Torino, 1989, p. 22, "ci si rifaceva a criteri giustificativi tanto larghi (e tanto genericamente formulati) da togliere alla regola gran parte del suo contenuto interdittivo: imprimendo - per giunta - su tutta la materia un tono di diffusa opinabilità. Di qui - però - un sistema sostanzialmente equivoco; non scevro di accenti farisaici".

13. Cfr. G. TOSI, op. loc. cit..

14. Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, Cristiani in armi, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 24.

15. Sul contributo di Graziano, di Tommaso d'Aquino e di Francisco de Vitoria, oltre alle già citate opere di BELLINI, FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI e TOSI, si veda anche P. CONSORTI, L'avventura senza ritorno, Edizioni Plus, Università di Pisa, 2004, p. 24.

16. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 38.

17. In questo senso D. ZOLO, Una 'guerra globale' monoteistica, p. 1.

18. P. BELLINI, op. cit., p. 115 ss.

19. Guerra che Pio XI definirà una giusta e necessaria guerra di difesa, imposta dalle necessità demografiche del popolo italiano. Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 121. Peraltro non mancano interpretazioni contrapposte in merito all'atteggiamento assunto dal Pontefice su questo conflitto; per un'accurata ricostruzione del dibattito si rimanda a L. CECI, Santa Sede e guerra d'Etiopia: a proposito di un discorso di Pio XI, in Studi storici, 2003/2, p. 511 ss.

20. Vedi A. BOTTI, "Guerre di religioni" e "crociata" nella Spagna del 1936-39, in M- FRANZINELLI - R. BOTTONI (a cura di), Chiesa e guerra. Dalla "benedizione delle armi" alla "Pacem in terris", Il Mulino, Bologna, 2005, p. 357 ss.

21. Ancora nel 1955, Pio XII ammetteva, in occasione del suo messaggio natalizio, che in casi straordinari si potesse far ricorso all'arma atomica. Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 143.

22. D. MENOZZI, Ideologia di cristianità e pratica della guerra giusta, in M- FRANZINELLI - R. BOTTONI (a cura di), Chiesa e guerra. Dalla "benedizione delle armi" alla "Pacem in terris", cit., p. 115 ss.

23. Faccio mia e ripropongo la traduzione dal testo latino di G. VERUCCI, Pace e guerra nelle linee dei pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, in M- FRANZINELLI - R. BOTTONI (a cura di), Chiesa e guerra. Dalla "benedizione delle armi" alla "Pacem in terris, p. 685 ss.

24. Cfr. G. GRAMPA, Sei vie per una religione non fanatica, in Pace diritti umani, 2006/1, p. 22 ss.

25. Visto che, come sottolinea G. VERUCCI, op.cit., p. 686, la Gaudium et Spes, adottata a distanza di appena due anni dalla Pacem in Terris, accompagna la condanna alla guerra con il riconoscimento del diritto dei governi ad intraprendere azioni di legittima difesa.

26. Così A. PAPISCA, C'è un diritto superiore al diritto umanitario, in Pace diritti umani, 2005/3, p. 7 ss.

27. Molto opportunamente un autore (P. CONSORTI, La rivincita della guerra, Edizioni Plus, Pisa, 2003, p. 82, nota 14) segnala come altre traduzioni, nella specie quelle in tedesco e in francese, siano ben più rispondenti di quella italiana al testo latino.

28. Si sofferma molto ampiamente sul punto, e con affermazioni interamente condivisibili, G. ZIZOLA, L'ultimo trono, p. 59

29. Sul punto si veda E. CHIAVACCI, Guerra ingiusta, in Rivista di teologia morale, 1991, p. 159 ss.

30. P. CONSORTI, La rivincita della guerra, cit., p. 72.

31. Cfr., per tutti, G. VERUCCI, op. cit., p. 699 ss.

32. A. PROSPERI, "Guerra giusta" e cristianità divisa tra cinquecento e seicento, in M- FRANZINELLI - R. BOTTONI (a cura di), Chiesa e guerra. Dalla "benedizione delle armi" alla "Pacem in terris", cit., p. 44-45.

33. Sul fenomeno del fondamentalismo islamico ritornerò ampiamente nei prossimi paragrafi. Per un primo riferimento agli avvenimenti degli anni '60 e all'influenza che essi hanno prodotto sugli sviluppi successivi del radicalismo islamico rimando a G. KEPEL, Il profeta e il faraone, Laterza, Roma-Bari, 2006.

34. Sebbene non siano mancati i tentativi di precisare le condizioni che rendono legittimi questi interventi. Tra gli interventi più interessanti della dottrina va segnalato quello di A. CASSESE, Le cinque regole per la guerra giusta, in AA. VV., L'ultima crociata? Ragioni e torti di una guerra giusta, I libri di Reset, Roma, 1999, p. 28.

35. P CONSORTI, L'avventura senza ritorno, cit., p. 21

36. Risulta illuminante da questo punta di vista la lettura del report su "democrazia e mondo arabo" redatto da una task force indipendente nel 2005 (ora in M. ALBRIGHT - V. WEBER - S. COOK, La democrazia nel mondo arabo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006) in cui senza molti giri di parole si riconosce che la scelta di promuovere la democrazia in questa area del mondo risponde, prima ancora che a motivazioni etiche, alla convinzione che in tal modo meglio si garantirebbero gli interessi economici degli Stati Uniti.

37. Il riaffacciarsi della teoria della guerra giusta in alcune importanti dichiarazioni delle gerarchie ecclesiastiche durante gli anni '80 è puntualmente rilevato da G. ZIZOLA, op. cit., p. 62 ss.

38. Così, per tutti, R. DE MATTEI, Guerra santa, guerra giusta, Piemme, Casale Monferrato, 2002, p. 26 ss.. Non a caso nella ricostruzione operata da questo autore la Pacem in terris, e più in generale il Pontificato di Giovanni XXIII, viene saltato a piè pari.

39. G. ZIZOLA, op. cit., p. 67.

40. La contraddizione insanabile che corre tra le due dichiarazioni è colta da F. MARGIOTTA BROGLIO, Il Papa e la guerra. Nuovi orientamenti dottrinali sul diritto di intervento umanitario, in Rivista di studi politici e internazionali, 1992, p. 500 ss.. Nello stesso senso si esprime anche G. VERUCCI, op.cit., p. 711 ss.

41. P. CONSORTI, L'avventura senza ritorno, cit., p. 137 ss.. Nello stesso senso, ma con diversità di argomentazioni, A. CANAVERO, I Papi e la pace nel XX secolo, in A. GIOVAGNOLI (a cura di), Pacem in Terris. Tra azione diplomatica e guerra globale, Guerini e associati, Milano, 2003, p. 60 ss.

42. P. CONSORTI, L'avventura senza ritorno, cit., p. 146 ss.

43. Del tutto opposto il giudizio di D. ZOLO, Una guerra globale monoteistica, cit., p. 1, secondo cui proprio in occasione dell'intervento militare della Nato contro la Repubblica federale jugoslava il magistero della Chiesa cattolica avrebbe confermato e rivitalizzato la teoria della guerra giusta.

44. Su questi, ma anche su altri passaggi del messaggio di Benedetto XVI, si appuntano le perplessità manifestate da A. PAPISCA, op. cit., p. 7 ss.

45. Penso in particolar modo al messaggio per la giornata mondiale della pace del 2005. Il testo di questo messaggio, così come quello di tutti gli altri interventi papali citati, può essere letto sul sito del Vaticano.

46. Rivendicazione, invero, costantemente presente nel magistero dei pontefici almeno fino al Concilio Vaticano II, come sottolinea ripetutamente D. MENOZZI,op. cit., p. 110 ss.

47. P. CONSORTI, La rivincita della guerra?, cit., p. 77.

48. D. ZOLO, L'intervento umanitario armato fra etica e diritto internazionale, p. 8.

49. Così M. RUTHVEN, Islām, Einaudi, Torino, 1999, p. 115.

50. Cfr. G. KEPEL, Fitna, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 273; G. VERCELLIN, Jihad, Giunti, Firenze, 1997, p. 24; W.M. WATT, Breve storia dell'Islam, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 71; H. KUNG, Islam. Passato, presente, futuro, Rizzoli, Milano, 2005, p. 711 ss.

51. Duplicità di significato che non è del tutto estranea alla tradizione cattolica, come opportunamente evidenzia M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op. cit., p. 10.

52. G. VERCELLIN, op. cit., p. 20.

53. M. CAMPANINI, Islam e politica, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 128. Nello stesso senso V. FIORANI PIACENTINI - G. LIGIOS, Il pensiero militare nel mondo musulmano, Franco Angeli, Milano, 1996, p. 18.

54. D. COOK, Storia del jihad, Einaudi, Torino, 2007, p. 20.

55. Cfr. O. SAGHI, Osama Bin Laden: l'icona di un tribuno, in G. KEPEL (a cura di), Al-Qaeda. I testi, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 25.

56. Corano, IX, 5.

57. Si veda, per tutti, R. BONNEY, Jihad from Coran to Bin Laden, Palgrave Macmillan, New York, 2004.

58. Penso, in particolar modo, al prezioso lavoro di M. CAMPANINI, Islam e politica, cit., che pur non essendo interamente dedicato alla guerra santa, si attarda ripetutamente sul tema di nostro interesse.

59. Corano, III, 64.

60. Si ricordi che la presenza di norme contraddittorie all'interno del testo sacro (così come il possibile contrasto tra quanto previsto nel Corano e quanto riportato nella Sunnah), è pacificamente ammessa dai giuristi islamici e viene spiegata con il carattere progressivo della rivelazione. Sul punto, per tutti, M. CAMPANINI, Il Corano e la sua interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2004.

61. Sebbene non manchino ulteriori elementi di enorme interesse. Si pensi, con riferimento ai comportamenti da assumere durante il conflitto, al problema della legittimità religiosa degli atti di terrorismo indiscriminato in ragione del divieto religioso (cfr. AL-BUHARI, Detti e fatti del Profeta dell'Islam, Utet, Torino, 2003, p. 390) di uccidere donne e bambini; o, ancora, con riferimento ai limiti soggettivi del jihad, al recente coinvolgimento di donne musulmane in atti terroristici a fronte del chiaro divieto espresso dal diritto islamico (AL-BUHARI, op. cit., p. 388) in ordine alla possibilità di una partecipazione femminile allo scontro militare.

62. Sul punto, per tutti, G. VERCELLIN, op. cit., p. 32.

63. Cfr. M. CAMPANINI, op. cit., p. 24 ss.

64. Più in generale, sulle vie del mutamento del diritto islamico si veda S. FERRARI, Lo spirito dei diritti religiosi, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 167 ss.

65. Cfr. K. KLIENZER, Fondamentalismi religiosi, Carocci, Roma, 2003, 116 ss.

66. In questo senso, G. KEPEL, Fitna, cit., 274.

67. T. RAMADAN, L'Islam in Occidente, Rizzoli, Milano, 2006, p. 91 ss., ad esempio, segnala che essa si basa solo su alcuni hadith senza trovare nessun riscontro nel Corano e sostiene con decisione che essa avrebbe comunque perso alcun significato giuridico, in quanto strettamente legata al contesto geo-politico in cui fu elaborata.

68. T. RAMADAN, op. cit., p. 100.

69. G. KEPEL, Fitna, cit., p. 242 ss.

70. G. VERCELLIN, op. cit., p. 48.

71. M. CAMPANINI, op.cit., p. 182.

72. Il termine fondamentalismo viene utilizzato nel testo, sulla scorta di quanto accade generalmente, come sinonimo di radicalismo islamico, integralismo, islamismo, sebbene in realtà ognuno di questi termini rimandi ad una diversa accezione del fenomeno. Per maggiori approfondimenti relativamente alla nascita, al contenuto e allo sviluppo del termine in questione, si rimanda a G.A. ALMOND - R. SCOTT APPLEBY - E. SIVAN, Religioni forti, Il Mulino, Bologna, 2006.

73. G. KEPEL, Fitna, cit., p. 132.

74. Sul ruolo esercitato da questi due pensatori si veda M. CAMPANINI, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 157 ss.; D. COOK, op. cit., p. 147 ss.; G. KEPEL, Il Profeta e il faraone, Laterza, Roma- Bari, 2006, p. 13 ss.

75. G. KEPEL, L'autunno della guerra santa, Carocci, Roma, 2002, p. 13 ss.

76. Così P. MONTANARI, Semplificazione ed ecumenismo nella rappresentazione della guerra santa: Ayman al-Zawahiri e Osama Bin Laden, p. 3.

77. P. MONTANARI, op. cit., p. 2.

78. Mutuo questa definizione da D. ZOLO, Una 'guerra globale' monoteistica, cit., p. 6.

79. D. ZOLO, Una 'guerra globale' monoteistica, cit., p. 4 ss.

80. Così anche H. REDISSI, Verso un fondamentalismo del terzo tipo?, p. 3.

81. Lo esplicita chiaramente lo stesso AL-ZAWAHIRI nel suo Cavalieri sotto la bandiera del Profeta. Il testo, pubblicato per la prima volta da un quotidiano saudita nel dicembre del 2001, è ora leggibile in G. KEPEL (a cura di), Al-Qaeda, I testi, cit., p. 227 ss.

82. P. MONTANARI, op. cit., p. 4.

83. In questo senso mi pare di poter intendere le parole di A. PROSPERI, op. cit., p. 29, secondo cui "le cronache odierne del mondo occidentale ci offrono giustificazioni della guerra non troppo dissimili da quelle delle cronache orientali ai tempi del Peloponneso".

84. Come scrive V.E. PARSI, Politica internazionale e religione: mito e realtà della secolarizzazione, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2/2004, p. 302 "ancorché tutti e tre questi concetti ... abbiano affascinato, in epoche diverse, praticamente tutte le élite riformatrici musulmane, è difficile non concordare sul fallimento della loro ricezione nel mondo islamico".

85. Cfr. M. CAMPANINI, Islam e politica, cit., p. 280 ss.. Nello stesso senso, sebbene con terminologia non coincidente, pare esprimersi M. TOZY, Stato islamico, religioni islamiche e referente universale, in M. NORDIO - G. VERCELLIN (a cura di), Islam e diritti umani: un (falso) problema?, Diabasis, Reggio Emilia, 2005, p. 83 ss.

86. R. DE MATTEI, op. cit., p. 7.