2010

Può esistere un ordinamento giuridico universale?
Epistemologia, filosofia, diritto (*)

Danilo Zolo

1. Che significa fare filosofia?

Il primo passo che dobbiamo fare è domandarci quale significato e quale funzione possiamo oggi attribuire a quella particolare attività intellettuale che viene praticata in Occidente da oltre due millenni e che continuiamo a chiamare 'filosofia'. Una volta convenuta una risposta a questo interrogativo generalissimo ci sarà possibile impostare una seconda questione generale: che significa fare 'filosofia del diritto'.

Ovviamente, quale significato dare alla parola 'filosofia' dipenderà in larga parte dal punto di vista filosofico preferito da ciascun interlocutore o interlocutrice di una possibile discussione sull'argomento. Senza risalire alle grandi dispute del passato e per restare alla contemporaneità e al mondo occidentale, ci sarà facile accertare che filosofi neopositivisti come, ad esempio, Rudolf Carnap o Karl Popper danno una risposta molto diversa rispetto a pensatori come Paul Feyerabend, Michel Foucault o Richard Rorty. Per i primi fare filosofia significa essenzialmente sostenere con argomenti generali che la ragione e l'esperienza ci consentono di conoscere il mondo nella sua oggettiva realtà, essendo esso costruito secondo leggi universali e regolarità probabilistiche. Per i secondi fare filosofia sarà piuttosto riflettere sulle ragioni soggettive - storicamente relative e sempre opinabili - che ci inducono a costruirci certe immagini del mondo, ad usare un determinato linguaggio, a credere nel valore di certe regole socialmente convenute e ad ispirare ad esse la nostra vita.

Filosofi post-moderni come Jean François Lyotard, Jean Baudrillard o Gianni Vattimo daranno una risposta molto lontana da quella di un neoilluminista come Jürgen Habermas. Per i primi il compito della filosofia è essenzialmente 'decostruttivo': si tratta di mostrare il carattere ingannevole delle visioni generali del mondo - le 'grandi narrazioni' o, come un tempo si diceva, le Weltanschauungen -, in particolare di quelle ispirate all'idea progressista e storicista dell'emancipazione dell'uomo. Archiviata l'euforia illuministica per l'unità e l'universalità del pensiero (occidentale) occorre passare, essi sostengono, a filosofie meno ambiziose che accettino senza scandalo la frammentazione dei saperi, le differenze culturali e le discontinuità storiche. Per Habermas, al contrario, la filosofia ha una spiccata vocazione universalistica e normativa: deve chiarire le condizioni e mostrare la possibilità di un dialogo razionale fra tutti i soggetti dotati di competenza comunicativa in modo da generare consenso morale, collaborazione civile, democrazia.

E tuttavia, nonostante ogni possibile divergenza metodologica o propriamente filosofica, penso che si possano indicare alcune costanti che caratterizzano l'atteggiamento intellettuale di chi fa filosofia. Non pretendo di escogitare una nozione asettica o residuale di filosofia che sia condivisibile da chiunque, ma intendo semplicemente indicare ciò che nel nostro contesto culturale oggi si intende per lo più denotare con termini come 'filosofia', filosofico', 'filosofo'.

Penso di non ingannarmi nel sostenere che chi fa filosofia, e non la fa in modo accademico o banalmente giornalistico, assume di solito un atteggiamento radicale sia dal punto di vista cognitivo che da quello morale. Il filosofo pone interrogativi su alcuni problemi generali e fondamentali e non si accontenta delle risposte che la cultura della società cui appartiene dà per scontate o diffonde attraverso i mezzi di comunicazione di massa o addirittura impone con misure amministrative. Correndo spesso il rischio di apparire paradossale, eccentrico o astruso, e comunque di restare isolato rispetto alle grandi correnti ideologiche e politiche, il filosofo continua a dubitare anche quando tutti gli altri esibiscono certezze. O, per lo meno, va alla ricerca di argomenti più forti, più generali, più 'profondi' per accettare o respingere le evidenze del senso comune e le credenze dominanti. Di lui gli uomini del potere normalmente non si interessano e comunque, salvo eccezioni non edificanti, non possono mai fidarsi sino in fondo.

Il filosofo è sempre pronto a discutere e ridiscutere tutto: l'ipotesi dell'esistenza di Dio o quella dell'immortalità dell'anima, l'oggettività del mondo e la nostra capacità di conoscerlo, il significato e il fine della storia, il senso della nostra esistenza, il valore dei nostri sentimenti, delle nostre paure e sofferenze, la morte individuale e l'estinzione della specie, la possibilità di fondare razionalmente i principi morali, il significato della scienza e della tecnica, le ragioni personali per obbedire ad una autorità, i motivi per preferire un regime politico ad un altro, l'utilità del diritto e dei suoi formalismi, le radici dell'aggressività e della guerra.

Si tratta, come è evidente, di una serie di problemi molto generali, che la cultura moderna eredita in parte dalla tradizione classico-cristiana e in parte dalla filosofia illuministica. Oggi nessuna disciplina 'scientifica' - né la fisica, né la biologia, né la sociologia, né la scienza politica - assumerebbe questi problemi come oggetto specifico della propria indagine. La ragione di questo sta proprio nella generalità e radicalità di questi problemi: la grande deriva evolutiva verso la differenziazione e la specializzazione delle conoscenze che ha dato origine alla cultura moderna sospinge ai margini dei saperi professionali questioni per le quali non sembrano esistere risposte tecniche o soluzioni operative, o almeno, ipotesi attendibili e verificabili. E tuttavia la filosofia continua a rispondere ad una esigenza di orientamento, di attribuzione di senso e di motivazione delle esperienze che sembra diventare sempre più acuta entro società altamente differenziate e complesse.

Potremmo dire che, come il poeta o il grande romanziere o il grande fisico teorico, il filosofo guarda al mondo senza mai accettarlo sino in fondo, ponendosi costantemente la domanda se è o potrebbe essere diverso da come gli appare, se ci sono alternative. Il suo è un comportamento molto più 'esplorativo' che non adattivo: la sua curiosità intellettuale è inappagabile. Anche quando raggiunge persuasioni profonde, il filosofo ammette che può ingannarsi, e rimane, almeno potenzialmente, sempre aperto alla revisione e al dubbio. La sua indagine, per usare il titolo della autobiografia intellettuale di Popper, è una unended quest, una ricerca senza fine. Per questo la prima qualità del filosofo è l'atteggiamento non dogmatico, anche se, egli lo deve riconoscere, è impossibile avviare una riflessione qualsiasi senza partire da un inizio che non sia in qualche modo pregiudicato. È impossibile per chiunque avanzare una proposta teorica senza muovere da qualche assunzione che gli interlocutori sono invitati ad accettare senza discuterla sino in fondo. L'alternativa è l'assenza di ogni comunicazione e di ogni teoria, letteralmente il silenzio.

Se tutto questo è plausibile, allora ne deriva che la riflessione filosofica è un'attività intellettualmente libera, almeno nel senso che tende a sottrarsi a qualsiasi autorità o magistero tradizionale - a cominciare dal classico ipse dixit -, da ogni rivelazione e da ogni profezia oracolare. Da questo punto di vista il filosofo è esattamente l'opposto del visionario, del mistico o del contemplativo. Nonostante tutti i vincoli culturali ai quali, come ogni altro soggetto pensante, deve sottostare a causa della sua stessa contestualità ad una civiltà e ad una cultura, il filosofo tenta la difficile strada della libertà di pensiero. Si tratta di una libertà non soltanto 'negativa', nel classico senso liberale dell'assenza di impedimenti, ma anche di una libertà 'positiva': la ricerca filosofica è una parodia farsesca se non è un autonomo tentativo di riflessione sul mondo che esprima con pienezza l'integrità morale e intellettuale di un pensatore. In questo senso si può sostenere, sia pure con estrema prudenza, che il modello politico e giuridico dello Stato di diritto, nella misura in cui tutela le libertà soggettive, è quello che dovrebbe assicurare le condizioni migliori per lo sviluppo della riflessione filosofica.

Se si accetta questa impostazione generale, allora diviene chiaro perché la filosofia si distingue nettamente per un verso dalla teologia e per un altro dalla scienza. La teologia è un esercizio intellettuale che muove da un presupposto, di carattere non metodologico ma pienamente teorico, che si sottrae ad ogni possibile discussione: l'esistenza di Dio. Dio è normalmente rappresentato come un essere trascendente, creatore dell'universo, onnisciente, onnipotente, provvidente, giudice delle nostre intenzioni e delle nostre opere. Secondo le più importanti religioni monoteistiche - in particolare quelle abramitiche - Dio è oggetto di fede, di culto, di adorazione, non di discussione e neppure, a rigore, di conoscenza razionale e di esperienza diretta. È Dio che si rivela agli uomini proprio perché gli uomini non potrebbero mai arrivare a lui facendo leva sulle proprie capacità cognitive. Discuterlo e pretendere di conoscerlo significa dunque negarne la trascendenza e sfidarne l'autorità.

È chiaro che da un punto di vista filosofico l'assunzione dell'esistenza di Dio è troppo impegnativa e ingombrante per essere accettata come un utile inizio di discussione. È una proposta troppo dogmatica perché raccomanda l'accettazione iniziale di un presupposto che, se accolto, fornisce eo ipso una soluzione ad una grande quantità di problemi filosofici, sottraendoli così ad una discussione esplicita ed aperta. Anche l'ipotesi dell'esistenza di Dio dovrebbe dunque essere sottoposta ai rischi di un dibattito filosofico radicale. Ma è noto che se vi è sottoposta essa risulta difficilmente sostenibile.

Tutto ciò non toglie che il fenomeno religioso - il fatto cioè che la maggioranza degli uomini aderisce ad un credo religioso e pratica certi principi religiosi, sia pure in forme e con intensità molto diverse - sia uno degli aspetti più interessanti dell'esperienza umana e che merita perciò di essere considerato anche dal punto di vista filosofico. Né si può negare che gran parte dei problemi ai quali le religioni pensano di poter dare una risposta - anche se si tratta spesso di risposte molto ingenue, quasi infantili - sono in gran parte gli stessi problemi che la filosofia pone al centro delle sue riflessioni: si tratta infatti di problemi generali e fondamentali che richiedono indagini radicali.

La filosofia si distingue nettamente anche dalla scienza, nonostante che nel nostro secolo ci siano state importanti scuole di pensiero, come il Circolo di Vienna, che si sono proposte di elaborare una 'filosofia scientifica'. La scienza moderna - la scienza galileiano-newtoniana - non è impegnata a riflettere sul senso dell'esperienza individuale, della storia o del mondo. Ritiene, forse non a torto, che non ci sono risposte sicure a queste domande. Poiché la loro massima aspirazione è la certezza, le scienze empiriche moderne si interessano soltanto dei problemi per i quali ritengono di poter arrivare a spiegazioni sicure, e per questo si sforzano di apprestare strumenti linguistici e sperimentali il più possibile rigorosi ed affidabili. Il resto, ritengono per lo più gli scienziati e i tecnici, è pura metafisica, e cioè un pensiero speculativo che non produce risultati pratici perché non accresce la capacità dell'homo sapiens di fare previsioni e costruire utensili.

Dal punto di vista di una cultura 'fabbrile' ciò che conta non è la saggezza o la felicità o la comprensione della nostra condizione umana: è piuttosto la capacità di costruire 'protesi' tecnologiche che aumentino il nostro potere di controllo sull'ambiente naturale e umano. La scienza è in grado di fornire criteri pratici di natura ipotetica per la comprensione e la riduzione della complessità dell'ambiente, e cioè per la selezione ponderata dei rischi connessi ad ogni decisione presa in condizioni di incertezza. E non si può negare, come sostiene ad esempio un'autorevole filosofa della scienza come Mary Hesse, che nel corso del nostro secolo la scienza abbia ottenuto da questo punto di vista 'pragmatico' risultati imponenti. Ed è innegabile che questi risultati non sono indifferenti dal punto di vista della complessità della vita di cui ciascuno di noi può godere e cioè della ricchezza di possibilità di esperienza che essi rendono, almeno potenzialmente, praticabili.

Ciò che può essere ovviamente discusso - ed è oggi largamente discusso - è se lo sviluppo e i successi della scienza galileiana abbiano in assoluto ridotto la nostra situazione di incertezza e di ignoranza e, soprattutto, se abbiano migliorato la qualità della nostra vita. È stato osservato che se è vero che la crescita delle conoscenze scientifiche dilata lo spazio e aumenta la complessità del nostro orizzonte vitale, è anche vero che proprio per questo le variabili teoriche e pratiche dell'esperienza umana diventano sempre più complesse, incerte e rischiose. Si può essere disperati o morire di Aids o morire di fame anche accanto ad un computer.

2. Quale filosofia preferire?

Quale filosofia preferire? La domanda, posta in questi termini generalissimi, non può avere alcuna risposta, o avere risposte ridicolmente ingenue come in certi manuali pratici che ai giovani in cerca di successo raccomandano scelte filosofiche come fossero ricette per la salute o ricette della buona cucina. L'adesione ad una particolare prospettiva filosofica non può che essere il frutto di una lunga, faticosa, personalissima ricerca, una ricerca che, fra l'altro, non sarà mai di ordine soltanto intellettuale.

La sola domanda alla quale in questa sede è possibile rispondere sensatamente è: quali sono le filosofie generali che oggi, in Occidente, fanno da sfondo alle principali filosofie o teorie del diritto? E potremmo tentare di rispondere elencando ed impegnandoci ad illustrare, ad esempio, il giusnaturalismo, lo spiritualismo, il neopositivismo, il marxismo, l'esistenzialismo, l'ermeneutica, etc. Ma non è di questo che ritengo opportuno occuparmi qui, anche perché avremo modo di parlarne estesamente più avanti.

Qui desidero soltanto dichiarare in modo molto succinto quali sono le assunzioni filosofiche generali che fanno da sfondo al mio personale punto di vista teorico-giuridico e che quindi influenzano le tesi, la struttura e persino il lessico di queste pagine. Dichiarerò, in altre parole, quali dei miei pregiudizi filosofici (di cui sono consapevole) sono i più radicati e, per così dire, i più ostinati, poiché sono quelli dai quali almeno per ora non intendo separarmi, posto comunque che ne fossi capace. È una dichiarazione che ritengo utile da un punto di vista sia epistemologico che didattico.

La ritengo epistemologicamente utile perché impegnarsi a dichiarare i propri 'pregiudizi' è anzitutto un'impresa autoriflessiva che può contribuire non solo ad una maggiore consapevolezza dei limiti e della contingenza delle proprie tesi, ma anche, per sottrazione, della loro plausibilità. So bene che questa impresa di introspezione critica non può essere esaustiva, che non potrà mai attingere ad un'ideale posizione 'originaria'. E so bene che ci sono pregiudizi di cui ci è impossibile renderci conto perché sono quelli che condividiamo con l'universo culturale al quale aderiamo e che neppure i nostri critici più severi sono in grado di individuare: sono le tabulae inscriptae del nostro tempo e della nostra civiltà, che appariranno tali soltanto a chi le esaminerà, per così dire, dall'interno di una diversa e lontana galassia culturale, usando gli strumenti cognitivi di un nuovo 'paradigma', per usare il lessico di Thomas Kuhn. Soltanto oggi, dopo Galileo, Newton ed Einstein, ci è possibile vedere senza fatica i pregiudizi della fisica aristotelica o, più in generale, l'ingenuità di chi non dubitava minimamente che la Terra fosse al centro dell'universo, o fosse piatta. (Ma è proprio vero - assolutamente vero - che non si possa legittimamente porre la Terra al centro del 'nostro' universo? E siamo proprio sicuri che essa sia sferica?).

In secondo luogo, una dichiarazione scrupolosa dei pregiudizi - o, se si preferisce un linguaggio più benevolo, delle convinzioni profonde - da cui uno studioso procede per elaborare le proprie teorie, offre all'interlocutore strumenti di controllo più agevoli, anche se non lo dispensa certo dal compito di ricercare proprio i pregiudizi che l'autore non è stato in grado di individuare e dichiarare per primo. Dal punto di vista didattico penso che la comunicazione esplicita dei propri pregiudizi da parte di un docente è l'altra faccia di una medaglia alla quale continuo ad attribuire un grande valore: una medaglia che da una parte presenta l'immagine dello scrupolo scientifico, del rigore autocritico, del distacco e, soprattutto, dell'ironia; dall'altra offre la testimonianza di una passione intellettuale e di una partecipazione civile che considero infinitamente più educative del formalismo esangue e del tecnicismo di cui è prodiga la cultura accademica. A certe condizioni - ha scritto paradossalmente Otto Neurath, uno degli esponenti più autorevoli del Circolo di Vienna - l'amore e l'odio possono essere 'ottimi maestri' persino di chi si occupa professionalmente di questioni scientifiche: almeno nel senso che possono alimentare la passione per la ricerca e attivare punti di vista del tutto inediti. E Joseph Schumpeter ha scritto che ciò che caratterizza l'uomo civile è proprio il fatto che egli riconosce la validità relativa delle proprie convinzioni senza tuttavia rinunciare a combattere per esse. Del resto, mai il pensiero accademico si rivela più fanaticamente partigiano di quando pretende di collocarsi in una 'posizione originaria' super partes.

Detto questo, dichiaro che i miei pregiudizi filosofici - o, se si vuole, le mie assunzioni metafisiche - mi inducono a prediligere una filosofia che sia 'riflessiva', convezionalistica e soggettivistica.

1. Riflessività. Per atteggiamento filosofico 'riflessivo' intendo una propensione a considerare le proprie convinzioni teoriche come qualcosa che non potrà mai identificarsi con la 'verità' e neppure 'avvicinarsi' ad essa, se per verità si intende, assieme ad Aristotele, Tommaso d'Aquino, Russell o Popper, la corrispondenza del nostro pensiero ad una realtà 'oggettiva'. Penso che la parola stessa 'verità' andrebbe espunta dal linguaggio quotidiano e riservata all'ambito strettamente formale della logica simbolica. Al suo posto dovremmo usare un lessico che alluda in modo trasparente al carattere soggettivo e opinabile - alla sua natura di semplice 'interpretazione', ipotesi o punto di vista - di qualsiasi dottrina filosofica o scientifica.

Il nostro pensiero si identifica con il nostro linguaggio e il nostro linguaggio è l'orizzonte delle nostre conoscenze ed esperienze: non possiamo oltrepassare questo orizzonte mettendo a confronto il linguaggio con una oggettiva realtà in sé, di natura extra-linguistica. Possiamo soltanto 'riflettere' sul nostro linguaggio senza uscire dal linguaggio stesso, possiamo farlo oggetto di analisi per tentare di arricchirlo e raffinarlo, o di renderlo meno ambiguo e confuso, senza tuttavia sterilizzarlo nel vano tentativo di farne uno strumento di comunicazione assolutamente preciso e indipendente dalle nostre valutazioni personali.

La posizione filosofica (più propriamente: epistemologica) alla quale alludo è limpidamente suggerita dalla metafora nautica che Otto Neurath proponeva oltre ottant'anni fa per esprimere la condizione degli scienziati nell'era post-einsteiniana:

Siamo come dei marinai che debbano ricostruire la loro nave in mare aperto [...]. Essi possono usare il legname della vecchia struttura per modificare lo scheletro e il fasciame dell'imbarcazione, ma non possono riportarla in bacino per ricostruirla da capo. Durante il loro lavoro essi si sostengono sulla vecchia struttura e lottano contro violenti fortunali e onde tempestose (O. Neurath, Anti-Spengler, 1921).

La metafora neurathiana, che è stata particolarmente utilizzata da Willard Van Orman Quine, suggerisce l'idea di una generale e insuperabile situazione di circolarità che frustra ogni tentativo di auto-fondazione della conoscenza. Noi possiamo modificare gradualmente la nostra struttura concettuale, la nostra filosofia, continuando tuttavia a dipendere e a farci sostenere da essa (così come la vecchia struttura della nave sostiene i marinai mentre lavorano per rinnovarla). Non possiamo invece staccarci da essa compiendo una sorta di radicale rivoluzione linguistica e concettuale, né confrontarla con una realtà non concettualizzata.

La sola risposta possibile a questa situazione di circolarità è la consapevolezza riflessiva della circolarità e della mancanza di fondamento delle nostre conoscenze. Possiamo, al più, tentare di includerci riflessivamente nell'orizzonte della conoscenza facendoci oggetto della nostra auto-analisi, ma non potremo mai riuscire a tracciare il circolo perfetto dell'autotrasparenza cognitiva, neutralizzando, per così dire, le precondizioni antropologiche, semantiche, storiche, sociologiche del nostro punto di partenza. Per quanto dotata di un elevato grado di riflessività e di capacità autocritica la nostra ricerca non è in grado di recuperare una posizione di impregiudicata tabula rasa da cui ripartire cartesianamente per l'edificazione di una conoscenza certa e oggettiva.

2. Convenzionalismo. Per filosofia convenzionalistica intendo una filosofia non fondativa, ma comunicativa e 'negoziale'. Riconoscere riflessivamente la situazione di circolarità cognitiva in cui ci troviamo comporta una permanente disponibilità alla rinegoziazione convenzionale delle assunzioni di partenza e, assieme, l'ammissione che ogni convenzione teorica, anche la più analitica, formalmente raffinata e riflessiva, contiene elementi non analizzabili e irrazionali. Sono gli elementi dipendenti da quelle "tendenze, aspirazioni e intuizioni" che secondo Pierre Duhem - l'esponente più autorevole, assieme a Henri Poincaré, del convenzionalismo classico francese - fanno parte del 'folclore' di ciascuna epoca storica, cultura e gruppo sociale, dal quale nessun filosofo e nessuno scienziato è in grado di affrancarsi. È impossibile separare i nostri strumenti concettuali dal mondo 'folcloristico' delle emozioni, delle paure, delle speranze, dei pregiudizi collettivi, delle tradizioni e del potere. Il linguaggio teorico, incluso il linguaggio delle scienze più 'sicure', conserva dunque le caratteristiche essenziali di ogni linguaggio: l'imprecisione, l'ambiguità, la contingenza psicologica, il condizionamento sociologico. Di più, il linguaggio teorico, come ogni altro linguaggio, cambia incessantemente nel tempo: nel corso di pochi millenni termini fondamentali per la rappresentazione concettuale dell'ambiente in cui viviamo, come materia, spazio, tempo, energia, causa, etc., hanno assunto via via valori semantici profondamente diversi.

Ma il linguaggio si differenzia anche sul piano sincronico: a culture e civiltà diverse corrispondono linguaggi diversi e, quindi, diverse rappresentazioni del mondo. Basti pensare a come siano lontane da quella occidentale le concezioni del tempo e dello spazio proprie della tradizione islamica o di quella induista. Ogni attività filosofica o scientifica è inserita entro circuiti semantici ove la contestualità dei significati è condizione decisiva della possibilità di comunicare. E ogni campo del sapere si autofonda all'interno di strutture linguistiche, culturali e filosofiche più generali, per delimitazione convenzionale del suo oggetto e delle sue procedure, e per assunzione stipulativa della 'conoscenza di sfondo' come non problematica. Per valutare il significato conoscitivo di una tesi filosofica o scientifica è dunque decisivo il riferimento alla specifica comunità culturale entro la quale è stata prodotta. E decisiva diviene l'indagine socio-antropologica sui contesti generali che condizionano la prassi delle comunità cognitive e contribuiscono a modellare i loro valori, interessi, miti, rituali semantici e 'stili di pensiero'. Quando una prospettiva filosofica o una teoria scientifica sono sottoposte a critica è sempre in gioco in ultima istanza - è la tesi 'olistica', tipica del convenzionalismo contemporaneo, da Otto Neurath a Ludwig Fleck, a Thomas Kuhn - l'intero apparato delle assunzioni, dei concetti e delle teorie della conoscenza umana.

3. Soggettivismo. Per filosofia soggettivistica intendo un punto di vista antropologico che privilegia la condizione esistenziale del soggetto umano rispetto all'esperienza collettiva del gruppo, alla vicenda evolutiva della specie, all'ambiente naturale. Non uso il termine 'individualismo' perché è troppo legato all'etos razionalistico, maschilista e proprietario che ha caratterizzato il liberalismo europeo, da Locke a Kant, a Tocqueville, a Stuart Mill. Entro questa tradizione il soggetto è un individuo razionale, autonomo, responsabile, capace di conoscere sia il proprio bene che il bene degli altri. È un cittadino virtuoso - un 'padre di famiglia' - i cui comportamenti pubblici e privati sono, per così dire, allineati con la sintassi universalistica dell'etica kantiana: sincerità, lealtà, rifiuto della violenza, rispetto della proprietà, dedizione al bene comune, sentimento di giustizia.

Deposte le lenti di questo idealismo cristiano-borghese la condizione esistenziale del soggetto umano - degli uomini e delle donne - appare piuttosto come una condizione di fragilità, di esposizione ai rischi dell'ambiente e quindi di profonda insicurezza. E la radice ultima dell'insicurezza è la prospettiva della morte individuale, una prospettiva che oggi la cultura occidentale tenta di rimuovere, ma che tuttavia sentiamo irrevocabilmente presente nel nostro orizzonte quotidiano. La consapevolezza della nostra condizione mortale fa dell'identità e del destino di ciascuno di noi qualcosa di incomparabile e incommensurabile con l'identità e il destino di ogni altra persona, anche della più cara ed amica. La morte ci separa e, in un senso doloroso e inquietante, ci condanna alla solitudine. Assai prima che 'animali razionali' e cittadini virtuosi, uomini e donne sono dunque 'esseri carenti', inclini all'emotività, alla paura, alla speranza, alle illusioni. E sono esseri minacciati dalla depressione, dalla disperazione e dalla follia, quando non dalla malattia e dalla fame.

Nello stesso tempo tuttavia, come ha osservato Arnold Gehlen, proprio la fragilità e l'insicurezza sembrano aver stimolato nell'uomo un'elevata creatività e plasticità. L'indeterminatezza delle sue pulsioni, la sua mancanza di 'specializzazione istintuale' hanno sviluppato nel patrimonio culturale dell'homo sapiens una serie di capacità simboliche e manipolative molto libere, non vincolate alla concretezza di situazioni immediate. Esse possono estendersi ben oltre i comportamenti puramente adattivi, orientati verso l'ordine e la stabilizzazione, per includere comportamenti ludici ed esplorativi, orientati alla trasgressione, al rischio e all'innovazione. Sta qui probabilmente la ragione profonda che spinge l'uomo a vincere la paura e a dar prova di un particolare coraggio nell'esplorazione libera e rischiosa. E qui sta anche la radice di quell'incoercibile esigenza di libertà che caratterizza le sue esperienze sociali e politiche più evolute.

Se l'antropologia razionalistica non mi sembra accettabile, non intendo per questo raccomandare le tesi estreme dell'antropologia negativa' proposte da autori come, ad esempio, Bataille e Klossowski. Essi concepiscono il soggetto individuale come un groviglio di pulsioni irrazionali e distruttive e lo dipingono sadianamente come un 'abisso senza fondo', fatto di menzogna, di violenza e di crudeltà. Senza negare la 'parte notturna' e 'maledetta' dell'esperienza umana, ma anzi tenendola ben presente sullo sfondo - i campi di sterminio, la tortura, le guerre di aggressione, il terrorismo - un soggettivismo realistico dovrebbe puntare, io penso, sulle ragioni che rendono gli uomini e le donne se non certo creature solari, almeno soggetti comunicativi: nel senso (hobbesiano) che l'insicurezza, il bisogno, la sofferenza, la sua stessa ambiguità psicologica inducono l'individuo al riconoscimento dell'altro, a stringere con lui certi patti e, a determinate condizioni, a rispettarli. Questo riconoscimento può persino spingersi fino al tentativo di comprendere empaticamente l'altro, di essergli amico e di 'amarlo'. Riferirsi all'altro senza attribuirgli aspettative in qualche modo simmetriche alle proprie è causa per chiunque di gravi frustrazioni, persino nei settori di esperienza più competitivi e conflittuali, come l'economia e la politica.

Assunto questo punto di vista antropologico, ne segue necessariamente il rifiuto di qualsiasi metafisica armonistica che concepisca il soggetto umano come parte di un universo ordinato, razionale, provvisto di significati e di finalità oggettive, in una parola 'provvidenziale'. La contingenza e la complessità sembrano piuttosto le caratteristiche del mondo in cui viviamo. Ed è altrettanto naturale il rifiuto di qualsiasi etica deontologica di tipo kantiano, che pretenda di sottoporre la coscienza individuale agli imperativi categorici di un codice universale, sia esso ancorato nell'ordine della natura o nella razionalità della storia o nella supposta 'qualità morale' della specie umana.

Questo non significa, ovviamente, negare la funzione politica e sociale delle credenze morali, né optare, tout court, per una qualche forma di nichilismo morale. Significa piuttosto sostenere che i sistemi etici si iscrivono entro il complesso delle abitudini, delle regole pratiche e dei codici simbolici che i gruppi sociali pongono a base della loro esperienza collettiva per rafforzarla e stabilizzarla. E significa che questi sistemi non possono invocare alcuna ragione per essere obbediti che non sia la disposizione, più o meno libera e consapevole, dei soggetti individuali a conformare la propria condotta a certe regole generali.

E significa infine che dal punto di vista filosofico che ho sinora esposto l'esperienza morale non può che essere il frutto di una libera scelta individuale: non può che essere una morale 'vocazionale', soggettiva e non universalistica, teleologica e non deontologica. Così concepita la morale non è che la scelta individuale di impostare il proprio progetto di vita secondo certi criteri e in vista di determinati valori, preferenze ed obiettivi particolari, al di fuori di qualsiasi ossequio verso autorità politiche o religiose che pretendano di collocarsi ad un livello di eticità superiore rispetto all'assise della coscienza.

3. Che cos'è il diritto?

Per delineare il profilo teorico della filosofia del diritto dobbiamo a questo punto tentare di definire la nozione di diritto. Si tratta, per ora, di accennare in termini molto generali ad una possibile identificazione del fenomeno giuridico, riservando ad una fase successiva una discussione più approfondita delle varie teorie che tentano di rispondere alla domanda: "che cos'è il diritto?". Filosofie del diritto molto diverse fra loro, come il giusnaturalismo, il normativismo, il giusrealismo, il funzionalismo giuridico, si differenziano le une dalle altre proprio a partire dalla divergenti definizioni che propongono per l'oggetto che studiano. E la divergenza diviene più profonda se si prendono in considerazione anche discipline come la 'teoria generale del diritto' o come la 'sociologia del diritto' che si propongono di studiare il fenomeno giuridico sotto profili diversi da quello strettamente filosofico.

Il diritto può essere inteso, in una prima, elementare approssimazione, come un fenomeno normativo. Come tale si colloca accanto ad altri fenomeni normativi, quali la morale, la consuetudine, le regole di comportamento pratico (come quelle seguite dalle comunità monastiche), i cerimoniali e le 'etichette', incluso il celebre Galateo di monsignor Della Casa.

Che cosa accomuna il diritto agli altri fenomeni normativi? E quali caratteristiche lo distinguono da essi, in particolare dalla morale, che è un'esperienza normativa altrettanto diffusa e importante? Possiamo tentare di rispondere nel modo seguente:

1. Alla pari degli altri fenomeni normativi il diritto è costituito da sistemi di regole, per lo più scritte, che prescrivono certi comportamenti, ne vietano altri e ne permettono altri ancora. Come tutti i codici normativi i sistemi di regole giuridiche si propongono di conseguire certi effetti o almeno di esercitare una certa influenza sui comportamenti individuali e sulle relazioni sociali. A questo scopo normalmente i codici normativi contengono, accanto alle cosiddette 'norme primarie', che tipizzano i comportamenti da disciplinare, anche delle norme 'secondarie', che prevedono certe conseguenze, sgradevoli o gradevoli, a carico di coloro cui sono indirizzate le norme primarie. L'obbiettivo è quello di dissuadere i soggetti dal violare le prescrizioni o, simmetricamente, di incentivarli ad ottemperarle sanzionando la disobbedienza e/o premiando l'obbedienza. In termini appena diversi potremmo dire che i fenomeni normativi sono l'espressione di aspettative sociali, più o meno autorevoli, che vengono comunicate e rese pubbliche o, nel caso della consuetudine, si affermano nel tempo come espressione di un consenso tacito e diffuso. In questo modo i destinatari dell'aspettativa non possono compiere determinate scelte o prendere determinate decisioni senza tener conto, in un senso o nell'altro, dell'aspettativa che viene loro comunicata.

2. Rispetto agli altri fenomeno normativi, in particolare rispetto alla morale, il diritto (statale moderno) si distingue almeno per le tre seguenti caratteristiche.

2.1. Il diritto si riferisce a comportamenti 'esterni' (inclusi i comportamenti verbali) e non prende in considerazione le semplici intenzioni o le intenzioni cui non corrispondano dei comportamenti congruenti. "Non desiderare la donna d'altri" è un caratteristico comandamento dell'etica ebraico-cristiana (veterotestamentario) che nessun codice giuridico moderno potrebbe recepire. Anche il deliberato intento di uccidere una persona non accompagnato da un comportamento 'ragionevolmente' efficace al fine di ucciderla non integra gli estremi dell'omicidio (non è sufficiente, ad esempio, il ricorso a rituali magici o a strumenti, come ad esempio una pistola ad acqua, del tutto inidonei a provocare la morte di una persona). Mentre la morale si esprime largamente nella qualificazione positiva o negativa dei pensieri, dei desideri e delle intenzioni - riguarda la sfera dell'esperienza più intima e delicata della persona - il diritto non prende in considerazione gli 'stati interiori', se non al fine di qualificare comportamenti esterni effettivamente posti in essere (ad es. la qualificazione di un omicidio come doloso, colposo o preterintenzionale al fine della determinazione della sanzione).

2.2. Le norme giuridiche non disciplinano comportamenti individuali che, per quanto 'esterni', non abbiamo effetti o comunque non influiscano sulle aspettative di altri individui. I comportamenti puramente soggettivi o riflessivi - poniamo, i comportamenti autosessuali, come la masturbazione, che sono spesso oggetto di disciplina morale - non ricadono nell'ambito del diritto. Anche l'autolesionismo o il suicidio, salvo rare eccezioni, non rientrano entro lo spettro normativo degli ordinamenti giuridici moderni, mentre, come è noto, sono vietati dall'etica cattolica. Anche l'obbligo giuridico di tutelare la propria incolumità fisica - si pensi ai codici stradali che in numerosi paesi europei impongono l'uso del casco o della cintura di sicurezza - o il divieto penale di assumere droghe o allucinogeni sono motivati non in funzione del possibile danno personale ma delle conseguenze che il ferimento o l'intossicazione di un numero elevato di soggetti ha sulle strutture sanitarie e pensionistiche di uno Stato moderno. (Si tratta comunque di un caso-limite piuttosto controverso, poiché qui siamo in presenza di indirette conseguenze negative a carico del gruppo sociale, non di un danno inflitto direttamente da un individuo ad altri individui).

2.3. L'ordinamento giuridico, a differenza dei codici morali, non tende a regolare la totalità dell'esperienza individuale e sociale, ma opera secondo uno specifico filtro selettivo. Indirizza la propria attenzione normativa soltanto verso quei comportamenti che non solo si ripercuotono su altri soggetti, ma lo fanno incidendo su aspettative giudicate rilevanti ai fini della tutela di interessi e valori condivisi dal gruppo sociale, in particolare dell'ordine pubblico e della stabilità istituzionale. Ad esempio, la pratica di rapporti sessuali extramatrimoniali od omosessuali, ed anche l'uso di contraccettivi, che sono ancora oggi vietati dell'etica cattolica, sono normalmente considerati adiafori da un ordinamento giuridico moderno e non sono quindi fatti oggetto di obblighi o di divieti. Ed altrettanto vale per una grande varietà di comportamenti che la morale, la consuetudine o il costume considerano deontologicamente rilevanti: la rottura di un fidanzamento o di una amicizia, l''infedeltà' matrimoniale, l'ostilità o la 'maldicenza' nei confronti di consanguinei e parenti, la violazione delle regole dell'ospitalità, la 'decenza' dell'abbigliamento personale o il rispetto dei tabù sociali che riguardano l'uso o l'esibizione di quelle parti del nostro corpo che i teologi medievali chiamavano inhonestae o minus honestae.

2.4. infine, a differenza della morale, il diritto prevede che la violazione delle norme venga sanzionata, ove necessario, con l'uso della forza fisica e configura a questo scopo funzioni e organi specializzati. Ovviamente, tutti i sistemi normativi, e non solo il diritto, prevedono delle sanzioni (per lo più negative) a tutela delle norme 'primarie'. E tutte le sanzioni negative, anche quelle di carattere morale, mirano a colpire il responsabile della violazione con trattamenti sgradevoli e ostili. Il rimprovero, la riprovazione pubblica, la sospensione o l'esclusione dal gruppo, la 'scomunica' sono sanzioni molto frequenti entro movimenti o associazioni spontanee, gruppi di amicizia ed organizzazioni informali o, ancora più tipicamente, all'interno di comunità religiose. Se si escludono le pratiche crudeli e violente che ancora oggi sono in uso all'interno di gruppi religiosi fondamentalisti e integralisti - e che sono state per secoli in uso nell'Europa cristiana - le sanzioni 'morali' non implicano né direttamente né indirettamente l'uso della forza: non comportano normalmente pene di carattere corporale, né l'esercizio della coercizione fisica sulle persone, né il ricorso a organi esterni al gruppo autorizzati ad esercitarla. Tipicamente, in una delle sue lettere apostoliche, San Paolo raccomandava ai membri delle comunità cristiane di non rivolgersi alle autorità pubbliche (romane) per dirimere le loro controversie, ma di risolverle all'interno del gruppo con saggezza e spirito fraterno.

Al contrario, le prescrizioni di un ordinamento giuridico moderno - nel modo più caratteristico le prescrizioni di un ordinamento giuridico statale - sono 'presidiate' dall'uso della forza. 'Presidiate' significa che non tutte le sanzioni comportano in prima istanza l'uso della forza - ad esempio le sanzioni amministrative, in particolare quelle pecuniarie - ma che tutte, alla fine, se il soggetto colpito dalla sanzione non ottempera 'spontaneamente', possono essere applicate attraverso l'uso della forza (enforced, dice in modo trasparente la lingua inglese). E si tratta dell'uso di una forza 'legittima': nel senso che la maggioranza dei membri del gruppo politicamente organizzato e giuridicamente disciplinato delegano a determinati organi pubblici la funzione di esercitare la forza fisica. Potremmo dire, richiamando Max Weber, che i cittadini rinunciano a farsi giustizia da sé e accordano 'l'esercizio monopolistico della forza legittima' alle autorità giudiziarie e di pubblica sicurezza dello Stato.

4. Che significa fare filosofia del diritto?

Possiamo ora avviarci verso la conclusione di queste pagine introduttive tentando di rispondere alla domanda: che significa fare filosofia del diritto? Quali sono i fenomeni sociali su cui si esercita la riflessione filosofico-giuridica? Da quale punto di vista li considera? E in che senso, nel riflettere su di essi, la filosofia del diritto si distingue da altre discipline affini o contigue? In che modo si differenzia da approcci teorici che comunque hanno a che fare con la filosofia e/o con il diritto, come, ad esempio, i trattati generali di diritto positivo, la 'teoria generale del diritto' (che taluni enfaticamente chiamano 'scienza del diritto'), la sociologia del diritto, la storia del diritto? E, su un altro versante, che cosa distingue la filosofia del diritto dalla filosofia morale, dalla filosofia politica o dalla filosofia pratica tout court? Qual è, insomma, l'identità teorica e, posto che ne abbia una, la funzione pratica della filosofia del diritto?

Sul tema dell'identità e dei confini disciplinari della filosofia del diritto è stata prodotta in Italia un'ampia letteratura specialistica, a partire dai saggi di Norberto Bobbio degli anni sessanta, recentemente rivisitati da Riccardo Guastini. Bobbio proponeva anzitutto di distinguere fra la 'filosofia del diritto dei filosofi' e la 'filosofia del diritto dei giuristi'. La prima intende la filosofia del diritto come un'applicazione particolare di una concezione filosofica molto più ampia che resta preminente e pregiudiziale rispetto all'analisi delle questioni propriamente giuridiche. La seconda muove dai problemi specifici con i quali si misurano quotidianamente gli attori giuridici professionali e si propone di chiarirli e razionalizzarli in una prospettiva teorica 'generale'. Dichiarando la sua predilezione per il secondo orientamento, Bobbio delineava un progetto di ricerca e di riflessione articolato essenzialmente in tre registri tematici: la teoria del diritto, la teoria della giustizia e la teoria della scienza giuridica. La prima avrebbe dovuto impegnarsi a definire le categorie fondamentali della disciplina, a partire dalle nozioni di 'diritto' e di 'ordinamento giuridico'; la seconda avrebbe dovuto discutere il concetto di giustizia, da intendere come l'insieme dei valori e degli interessi per la cui protezione gli uomini fanno ricorso alla 'tecnica di convivenza' del diritto; la terza avrebbe dovuto studiare i procedimenti argomentativi che i giuristi usano per accertare e interpretare le regole del sistema giuridico e avrebbe dovuto studiarli con il proposito di conferire loro il massimo rigore scientifico.

Mi limito a questi cenni sommari, che ho presentato solo per dar conto della distinzione, già presente in Bobbio ma che verrà esasperata dai suoi discepoli, fra due diversi approcci al diritto e quindi fra due concezioni della filosofia del diritto molto diverse fra loro. La prima, di tipo analitico e formalistico (concettualistico, logicistico, etc.) aspira ad attribuire alla teoria del diritto lo statuto di una vera e propria 'scienza'. Più precisamente essa tenta, sulle orme di Kelsen, di costruire la scienza del diritto come scienza del linguaggio giuridico e si propone di metterla a disposizione dei giuristi come uno strumento utile per il loro lavoro professionale. La seconda è invece più attenta a collegare il diritto alle grandi questioni filosofiche e filosofico-politiche che non possono avere risposte 'scientifiche' e studia i fenomeni giuridici nella loro stretta connessione con i valori e gli interessi sociali di cui i singoli ordinamenti o i singoli istituti sono espressione. Mi fermo qui, perché riprendere le fila di questa discussione ci costringerebbe a introdurre argomenti molto astratti e formali, a mio parere scarsamente rilevanti ai nostri fini.

Anziché tentare una messa a punto analitica che tracci con rigore le linee di demarcazione fra le molte aree disciplinari che ho sopra ricordato, preferisco accennare a quelli che, secondo il mio personale punto di vista, dovrebbero essere i compiti essenziali della riflessione filosofico-giuridica: una riflessione che non cessi di essere, nel significato più ampio e radicale, 'filosofica' per il fatto di esercitarsi sui temi concreti della produzione, dell'interpretazione e dell'applicazione del diritto. La caratterizzazione della filosofia del diritto rispetto alle altre discipline ne seguirà, io spero, in modo sufficientemente chiaro, anche se non pretendo - sarebbe una pretesa goffamente accademica - di provarne l''autonomia scientifica'. Del resto condivido l'opinione di Bobbio circa l'estrema, irriducibile varietà dei temi e degli approcci che convivono sotto l'etichetta della filosofia del diritto e l'impossibilità di fissare contenuti, metodi e confini secondo criteri che abbiano un fondamento sicuro.

Dirò semplicemente che compito della filosofia del diritto è, secondo me, quello di porre 'domande radicali' almeno su tre temi fondamentali:

1. Esistenza e diritto. La prima serie di domande radicali dovrebbe riguardare il significato del diritto per la nostra esistenza: il significato, cioè, che noi attribuiamo (o possiamo attribuire) al complesso delle norme giuridiche che tendono a disciplinare i nostri comportamenti individuali e, sia pure con livelli diversi di efficacia, regolano l'ambito di esperienza sociale al quale normalmente accediamo. Che senso ha per noi, per la nostra duplice aspettativa di sicurezza e di libertà, il sistema di regole che la maggioranza del gruppo al quale apparteniamo condivide (o per lo meno, salvo situazioni eccezionali, accetta) e che le sue istituzioni ci impongono come obbligatorie e sono pronte a sanzionare nei nostri confronti anche con l'uso della forza?

Una prima questione: dobbiamo sentirci vincolati 'in coscienza' dalle regole giuridiche? Dobbiamo osservarle sempre e comunque perché l'obbedienza agli imperativi del diritto è richiesta sia dal nostro 'bene' individuale che dal 'bene comune' della comunità politica alla quale apparteniamo? Dobbiamo osservarle anche se si oppongono a nostre aspettative e interessi, così come faremmo nei confronti di norme morali che ritenessimo obbligatorie? O dobbiamo sottostare agli imperativi del diritto solo 'opportunisticamente', attenti ad evitare il danno di possibili sanzioni, ma sempre pronti alla disobbedienza se ciò è suggerito dalle nostre convenienze in base ad un calcolo realistico dei costi e dei benefici? Ad esempio: non dobbiamo rubare (poniamo, un libro che desideriamo intensamente, in libreria o in biblioteca) perché così facendo violeremmo un dovere di lealtà nei confronti del gruppo al quale apparteniamo - e lederemmo interessi altrui - o non dobbiamo rubare solo perché rubare è rischioso? In una situazione in cui non ci fosse alcun rischio di essere identificati e puniti come ladri - ad esempio, un prolungato black out, come talora capita nelle città nordamericane - quali ragioni 'giuridiche' rimarrebbero per non rubare? Ragioni 'giuridiche', sottolineo, non etiche, religiose, psicologiche, etc. Insomma: ci sono ragioni generali, ragioni profonde, propriamente 'filosofiche', che fondano il nostro dovere di ubbidire alle regole giuridiche del gruppo al quale apparteniamo e che giustificano, simmetricamente, il diritto delle autorità politiche ad ottenere obbedienza da noi e di imporcela con la forza, al limite privandoci per sempre della libertà personale e persino della vita?

Un secondo problema: oggi, anche nei paesi occidentali di tradizione liberale, il diritto non si limita a regolare i comportamenti pubblici, ma tende - secondo alcuni osservatori tenderà sempre di più - a interferire con la nostra vita privata. Il diritto statale disciplina i rapporti matrimoniali, la vita familiare e l'adozione; obbliga i giovani a frequentare la scuola per un numero crescente di anni; in molti paesi impone tuttora il servizio militare e quindi, se necessario, costringe a usare le armi e a uccidere; regola e limita la possibilità delle donne di abortire e si dispone a regolare imperativamente i delicati problemi della riproduzione umana artificiale, oggi discussi dalla cosiddetta 'bioetica'; limita e talora vieta e punisce penalmente l'uso di droghe, come l'alcool, il tabacco o l'eroina; impone norme di sicurezza sanitaria o personale come la vaccinazione, l'uso della cintura e del casco; penalizza chi è 'senza fissa dimora'; impone a tutti i cittadini di rendersi in qualsiasi momento identificabili da parte delle forze di pubblica sicurezza e li costringe a fornire alle burocrazie pubbliche una crescente quantità di informazioni sulla loro privacy, la loro salute, le loro preferenze, e così via.

Ebbene, possiamo domandarci: il fitto reticolo normativo del diritto non rischia di soffocare la nostra libertà individuale nella sua dimensione più profonda e delicata, là dove si esprime come autonomia, spontaneità e creatività? Il diritto non è una strumento attraverso il quale la collettività, e le autorità pubbliche in suo nome, ci impongono standards di conformismo sociale che si sovrappongono ai nostri processi 'identitari'? Il diritto, in definitiva, non è un meccanismo di 'normalizzazione' sociale che non solo etichetta e reprime come 'devianti' comportamenti sicuramente incompatibili con la convivenza civile, come l'omicidio o lo stupro, ma tende a emarginare anche ciò che è semplicemente nuovo e diverso, come ad esempio il matrimonio di coppie omosessuali? E ciò non è tanto più grave in un contesto sociale - le società informatiche, postindustriali, etc. - nel quale aumenta, per usare il lessico di Michel Foucault, l'efficacia del 'potere disciplinare', cresce cioè la capacità delle istituzioni sociali di 'mettere in forma' il nostro corpo e la nostra mente? Foucault pensava ai vari tipi di scuole pubbliche e private, ai collegi, agli ospedali, ai manicomi e, ovviamente, al carcere: istituzione, quest'ultima, tipicamente giuridica, emblematica dell'intera dimensione repressiva del diritto.

Questi interrogativi, potremmo continuare a domandarci, non sono tanto più cruciali in società come la nostra dove il bisogno di identità e di autonomia dei soggetti è sentito in modo acuto a causa delle crescenti pressioni simboliche - penso anzitutto al mondo delle comunicazioni di massa e dell'informazione cibernetica - verso l'omologazione e la perdita di un senso personale della vita? Si potrebbe sostenere - è stato sostenuto ad esempio da Niklas Luhmann - che entro le nostre società complesse e differenziate il diritto opera drastiche preselezioni dello spettro delle nostre esperienze possibili, riducendo la complessità della nostra vita, impoverendola e irrigidendola. Altri, in particolare Jürgen Habermas, ritiene che siamo ormai in presenza di fenomeni di vera e propria 'colonizzazione' del nostro quotidiano 'mondo vitale' (la Lebenswelt) da parte di un diritto statale che pretende ad una crescente capacità di regolazione sociale.

Se le cose stanno davvero in questi termini, allora andrebbe profondamente riconsiderata l'intera tematica della devianza sociale, inclusa la devianza che riguarda le norme giuridiche e in particolare le norme penali. Il problema della devianza, come sappiamo, è un settore importante della ricerca sociologica occidentale, da Durkheim a Merton, a Sutherland, ai teorici del labelling approach e meriterebbe probabilmente una più attenta riflessione da parte della filosofia del diritto, che in genere non se ne occupa, come non si occupa del carcere, ritenendo che si tratti di temi minori, da lasciare alla sociologia del diritto. Potremmo domandarci: in presenza di una crescente pressione sociale verso l'uniformità e la normalità la devianza non rischia di essere una via di fuga inevitabile da parte delle personalità più creative e vitali? Non finisce per svolgere, se non in tutte almeno in una parte delle sue espressioni, una funzione socialmente utile?

Ed infine una terza questione: il diritto nel regolare i rapporti fra le persone tende a formalizzarli e a schematizzarli, poiché il modello antropologico al quale implicitamente rinvia è necessariamente quello del titolare di diritti e destinatario di doveri: un soggetto pronto a far valere i primi e possibilmente a sottrarsi ai secondi, o almeno a limitarli o a ritardarne nel tempo l'adempimento.

2. Società e diritto. Quali sono le funzioni socio-politiche del diritto? L'approccio sistemico è a mio parere quello più realistico e più capace di cogliere le funzioni del diritto, ben al di là dell'idealismo e del formalismo kelseniano e della pretesa razionalistica di fare del diritto uno strumento rigoroso (logico!) capace in assoluto di garantire l'ordine, la giustizia, la libertà, il rispetto dei diritti fondamentali di tutti i cittadini del pianeta. L'approccio sistemico - penso in particolare ad alcuni aspetti della sociologia del diritto del primo Luhmann - pone la 'paura' al centro dello spazio funzionale del diritto e della politica. L'organizzazione politica - presente in forme più o meno articolate e complesse in tutti i gruppi umani in grado di stabilizzarsi e riprodursi - è la replica collettiva più efficace che l'uomo abbia escogitato per 'ridurre la paura'. Reagendo alle situazioni di rischio, il sistema politico dà vita a strutture giuridiche che si impegnano a tenere il gruppo sociale in equilibrio con l'ambiente - incluso l'ambiente umano - e ne rassicurano i membri rimuovendo o controllando o rendendo meno visibili le fonti della paura. Sotto questo profilo il diritto moderno - in particolare il diritto nell'ambito del moderno "Stato di diritto" europeo - può essere interpretato come un meccanismo omeostatico di 'alleggerimento' (Entlastung) della paura che ne attenua l'impatto potenzialmente invalidante.

Il sistema politico-giuridico opera come una struttura normativa di preselezione delle possibilità filtrando dall'insieme degli eventi possibili un campo di alternative più ristretto, rinforzandone la probabilità e rendendole oggetto di aspettativa sociale. Sulla base di decisioni vincolanti erga omnes (in casi particolari attraverso interventi diretti o misure coercitive) l'ordinamento giuridico vieta, impone, promuove o autorizza determinati comportamenti, sanzionando le condotte vietate con conseguenze sgradevoli a carico dei soggetti responsabili. Il diritto penale, il sistema giudiziario, le istituzioni penitenziarie, la pena di morte sono gli strumenti essenziali finalizzati al contenimento della paura. Alcuni eventi vengono percepiti dai membri del gruppo come poco probabili e vengono proiettati in un orizzonte più lontano o totalmente rimossi. Viene così attenuato il timore di improvvise alterazioni ambientali, di dissoluzione violenta del gruppo, di catastrofi, di carneficine, di malattie incontrollabili, della povertà, della morte violenta, della rapina e così via.

La dialettica fra paura e sicurezza caratterizza senza eccezioni le formazioni politiche complesse: dalle organizzazioni internazionali agli Stati nazionali, ai partiti politici, ai movimenti eversivi, alla grande criminalità organizzata. Qui si afferma immancabilmente una logica particolaristica che tende a rendere il gruppo tanto più coeso, e quindi discriminante verso l'esterno e repressivo al proprio interno, quanto più alta è la percezione dei rischi presenti nell'ambiente, fino al paradosso funzionale che spinge il gruppo a 'produrre' i propri nemici, interni od esterni, proprio per esigenze di auto-identificazione e di rassicurazione. La richiesta di sicurezza, esattamente come l'offerta di protezione, include sempre la designazione di soggetti o gruppi 'contro' i quali si chiede o si offre la prestazione di 'riduzione della paura': essa ha quindi sempre, necessariamente, una valenza parzialmente esclusiva e discriminante. Il diritto opera dunque in un ambito nel quale interessi particolaristici si intrecciano costantemente fra di loro, norme convenzionali si oppongono ad altre norme puramente convenzionali e dove la dimensione pragmatica della riduzione dei rischi e della paura prevale inevitabilmente sulle ambizioni razionalistiche e formalistiche della "teorie pure" del diritto. Il diritto è dunque un ordinamento convenzionale di un determinato, particolare gruppo politico, ben al di fuori dell'armonismo potestativo, del giusnaturalismo e del sostanzialismo giuridico.

3. Il migliore possibile diritto. La terza 'domanda radicale' che possiamo porci è la seguente: quale è il migliore possibile ordinamento giuridico? Esiste un ordinamento giuridico perfetto? Esiste un ordinamento politico-giuridico giusto?

3.1. Diritto e giustizia. Una filosofia riflessiva si oppone ad ogni assoluto cognitivo (la verità) e ad ogni assoluto assiologico (il bene, la giustizia). Il compito del diritto può essere quello di assicurare la giustizia? Un diritto 'giusto' a quale nozione di giustizia può riferirsi? Che significa giustizia? I significati che le sono stati attribuiti dalle filosofie del diritto, sin dai tempi del diritto romano, sono svariati. La giustizia come a) suum cuique tribuere; b) neminem ledere; c) honeste vivere; ma si tratta di nozioni sostanzialmente vuote di senso, poiché rinviano circolarmente ad altre nozioni - suum, ledere, honeste - che richiedono a loro volta una definizione. Si potrebbero analizzare numerose altre nozioni di largo uso, come: d) giustizia come conformità a un codice morale; e) giustizia come identificazione con la volontà di Dio (volontà anche immorale: Isacco e Giacobbe); f) giustizia come ideologia politica: l'emancipazione del proletariato o degli afroamericani, la non discriminazione razziale, ecc. La nozione comunque più diffusa e politicamente operativa è quella di g) giustizia come eguaglianza, sia come eguaglianza formale (di trattamento), sia come eguaglianza sostanziale: (in assoluto o secundum quid).

Una analisi dettagliata di questi enunciati richiederebbe una lunghissima e forse anche un po' noiosa trattazione. Quello che a mio parere può essere qui rilevante richiamare è la critica tagliente della nozione di giustizia come eguaglianza che Alf Ross ha sviluppato in uno dei capitoli più importanti del suo On Law and Justice ( trad. it. Einaudi, Torino 1965). Il diritto non può che essere ingiusto se la giustizia viene intesa come eguaglianza. L'ordinamento giuridico non può mai considerare i membri del gruppo che cerca di disciplinare come soggetti tutti eguali: i minori sono trattati diversamente dagli adulti, le donne sono trattate diversamente dai maschi (si pensi alla maternità); i falsari sono trattati diversamente dai cittadini onesti, e così via. Questo significa che il diritto tratta egualmente soltanto i membri interni a un insieme di soggetti che vengono trattati diversamente rispetto ai membri di un altro insieme. La giustizia giuridica è puramente formale perché tratta in modo eguale soltanto i soggetti che ha inserito in un certo insieme, differenziato rispetto ad altri insiemi. Durante il regime fascista l'ordinamento giuridico italiano rispettava attentamente il principio della giustizia come eguaglianza formale discriminando l'insieme degli ebrei (tutti gli ebrei, rigorosamente e scrupolosamente identificati come tali) da tutti gli altri cittadini. Dunque il grande tema non è l'eguaglianza formale, ma la decisione politica, di carattere valutativo, di differenziare determinati insiemi di soggetti rispetto ad altri insiemi. Quello che conta è la giustificazione della diseguaglianza come fondamento di un trattamento differenziato dei soggetti: è giusto differenziare i minori (escludendoli dal voto), non è giusto discriminare gli ebrei escludendoli dall'insegnamento nelle scuole e nelle università, come fece il fascismo italiano. Ma questa nozione di giustizia non ha il minimo fondamento giuridico. L'esigenza di eguaglianza deve essere intesa in senso relativo, cioè come esigenza che gli eguali siano trattati in modo eguale. Ciò implica che, prima dell'applicazione del criterio di eguaglianza e indipendentemente da questo, deve esistere qualche criterio per determinare chi sia da considerare eguale. In altre parole, l'esigenza di eguaglianza contenuta nell'idea di giustizia è rivolta non a tutti i cittadini ma a tutti i membri nell'ambito di una certa classe determinata da certi criteri rilevanti. Di conseguenza, le diverse formulazioni della giustizia per i diversi gruppi o per i diversi contesti contiene un metro di valutazione che deve essere applicato preliminarmente per definire la categoria ai cui membri verrà applicata l'eguaglianza.

3.2. Lo Stato sociale è un ordinamento giuridico giusto? Molti autori hanno sostenuto e sostengono tuttora che il livello più alto raggiunto in Occidente da un sistema politico nel tentativo di regolare e ridurre la paura è stato senza dubbio il Welfare state o Stato sociale. Si è trattato di uno sviluppo del cosiddetto rule of law o 'Stato di diritto': un sistema politico, tipico della modernità europea, impegnato a imporre vincoli giuridici all'esercizio del potere in modo da garantire ai cittadini una serie di diritti soggettivi da far valere sia nei confronti degli altri soggetti, sia nei confronti delle autorità statali. Le libertà fondamentali, l'habeas corpus, la proprietà privata, l'autonomia negoziale, il suffragio universale e in generale i diritti politici sono aspettative e interessi costituzionalmente garantiti che, nella misura in cui sono stati effettivamente sanzionati, hanno prodotto un livello accettabile di sicurezza individuale e collettiva, sia pure con una esplicita o latente discriminazione del genere femminile.

Lo Stato sociale, a partire dagli anni trenta del Novecento, ha tentato di andare oltre lo Stato di diritto garantendo, sia pure in forme che sono state giudicate insufficienti o distorte, i cosiddetti 'diritti sociali': il diritto al lavoro, il diritto all'istruzione e alla salute, un'ampia serie di prestazioni pubbliche di carattere assicurativo, assistenziale e previdenziale. Si può dire che lo Stato sociale si è fatto carico dei rischi - e quindi della paura - strettamente legati all'economia di mercato, fondata su una logica contrattuale e concorrenziale che suppone la diseguaglianza economico-sociale dei soggetti contraenti o concorrenti e la riproduce senza limiti. L'economia di mercato è un potente fattore di paura per i singoli soggetti nonostante il suo eccezionale potenziale produttivo, o forse proprio per questo. Lo Stato sociale, in particolare nella seconda metà del secolo scorso, ha tentato di limitare i rischi del mercato e di diffondere sicurezza con una serie di misure destinate a compensare attraverso servizi pubblici e prestazioni finanziarie i processi di discriminazione e di emarginazione inevitabilmente connessi con la logica del profitto. In questo senso lo Stato sociale è stato il più efficace tentativo di introdurre nei rapporti di produzione e di distribuzione della ricchezza elementi di giustizia e cioè di eguaglianza sostanziale (non puramente formale).

E tuttavia oggi un'opinione largamente condivisa ritiene che il Welfare state attraversi una crisi molto grave e che al fondo di questa crisi siano i processi di trasformazione economica e politica che vanno sotto il nome di globalizzazione. Autori come Ulrick Beck, David Garland, Loïc Wacquant, Zygmunt Bauman, Robert Castel, Luciano Gallino hanno sottolineato che la globalizzazione per un verso ha celebrato il trionfo planetario dell'economia di mercato, in particolare nelle sue modalità finanziarie. Per un altro verso ha eroso le strutture sociali e politiche di gran parte degli Stati nazionali degradandone la coesione identitaria e comunitaria e limitandone drasticamente la capacità di produrre sicurezza. Altri autori - e sono la maggioranza - aderiscono alla tesi del trade-off, sostenendo che gli investimenti e le politiche assistenziali dello Stato sociale ostacolano la crescita economica. L'onere di un'ampia serie di rischi deve essere perciò posto a carico non dello Stato ma dei singoli cittadini, secondo un approccio orientato a privatizzare la responsabilità del rischio e la metabolizzazione della paura. Questa translazione del rischio vale in particolare per i settori della sanità, dell'istruzione e delle pensioni, nei quali le prestazioni del bilancio pubblico tendono in molti paesi occidentali ad una progressiva restrizione. Anche le politiche di sicurezza urbana - si pensi alle guardie giurate e alle ronde di quartiere - tendono ad essere privatizzate.

Nel frattempo la crescente instabilità dei mercati, i cambiamenti demografici, le grandi migrazioni e l'evoluzione dei sistemi produttivi dei paesi più ricchi hanno contribuito a determinare una contrazione delle retribuzioni del lavoro e una diffusa incertezza e instabilità dei rapporti contrattuali, in particolare a carico delle donne lavoratrici. Per le nuove generazioni il lavoro è diventato un bene sempre più scarso, precario, segmentato, insufficientemente retribuito, 'flessibile', anche a causa della concorrenza 'globale' di paesi caratterizzati da un eccesso di forza-lavoro e da una scarsa protezione dei diritti dei lavoratori. La frammentazione del tessuto sociale che ne deriva sembra minacciare la coesione della società civile, indebolire il senso di appartenenza, indurre apatia politica, alimentare la criminalità e la corruzione, fomentare fondamentalismi e secessionismi di vario tipo, diffondere l'uso delle droghe e dell'alcol fra i giovani più fragili e insicuri. Da qui, da una marea crescente di solitudine e frustrazione, emerge una sconfinata richiesta di protezione e una febbrile esigenza di sicurezza e incolumità che investe i cittadini e le cittadine prescindendo dalla loro posizione sociale, dal loro livello culturale e dalle loro credenze religiose.

A tutto questo si aggiunge l'antagonismo fra le popolazioni autoctone dei paesi occidentali e le masse crescenti di migranti provenienti da aree continentali senza sviluppo e con un elevato tasso demografico. Si tratta di soggetti molto deboli ma che, a rischio della vita, esercitano una forte pressione per l'ingresso e l'accettazione nei paesi occidentali e per l'eguaglianza di trattamento. La replica da parte delle cittadinanze minacciate da questa pressione 'cosmopolitica' si esprime in termini sia di rigetto o di espulsione violenta degli immigrati, sia di negazione pratica della loro qualità di soggetti civili, sia infine di discriminazione giuridica e politica nei confronti di 'barbari invasori'. Questo conflitto sta scrivendo e sembra destinato a scrivere nei prossimi decenni alcune fra le pagine più luttuose della storia civile e politica dei paesi occidentali, a cominciare dall'Italia

Il fenomeno migratorio è una sfida radicale in tema di paura e di sicurezza perché la stessa dialettica di 'cittadino' e 'straniero' viene alterata dall'imponenza dei fenomeni migratori e dalla loro oggettiva incontrollabilità e irreversibilità. Ed è una sfida dirompente che tende a far esplodere sia gli elementi della costituzione 'prepolitica' della cittadinanza, sia i processi sociologici di formazione delle identità collettive, sia infine le stesse strutture dello Stato di diritto. A queste strutture viene rivolta la pressante, legittima richiesta di un riconoscimento 'multietnico' non solo dei diritti individuali dei cittadini immigrati, ma delle stesse identità etniche di minoranze caratterizzate da una notevole distanza culturale rispetto alle cittadinanze ospitanti. Questo scenario di crescente insicurezza, instabilità e turbolenza delle relazioni politiche interne e internazionali è allarmante soprattutto perché mostra quella 'insufficienza della polis' di cui ha parlato Daniel Bell, intendendo l'assenza di un'opinione pubblica internazionale indipendente dagli interessi e dalle strategie delle grandi potenze e perciò adeguata al livello di gravità, complessità e interdipendenza dei problemi politici e giuridici da affrontare. Siamo dunque su un terreno assolutamente estraneo all'idea del diritto come giustizia e della giustizia come eguaglianza.

3.3. Esiste un solo ordinamento giuridico - giusto e universale - o gli ordinamenti giuridici sono molti, eticamente differenziati e particolari? Secondo Kelsen il postulato dell'unità della conoscenza doveva valere senza limiti anche per il piano normativo e trovare la sua più rigorosa espressione nell'unità, coerenza, completezza ed esclusività del sistema universale delle norme giuridiche, ovvero dell''ordinamento giuridico mondiale o universale'. L'unità del diritto e il connesso primato del diritto internazionale significavano per Kelsen che l'ordinamento internazionale includeva tutti gli altri ordinamenti ed era ad essi sovra-ordinato. Le norme interne a qualsiasi ordinamento giuridico nazionale o locale dovevano perciò conformarsi a quelle internazionali e in caso di contrasto quest'ultime dovevano prevalere.

Quanto al fondamento della obbligatorietà del diritto internazionale, esso non poteva essere cercato in qualcosa di esterno all'ordinamento medesimo: la sua validità, sosteneva Kelsen, doveva essere postulata in termini logico-trascendentali come immagine giuridica del mondo e, nello stesso tempo, come riflesso dell'unità morale del genere umano. E il primato di questo ordinamento mondiale poteva essere correlato all'idea di una 'comunità giuridica universale degli uomini', che travalicava le singole comunità statali e la cui validità era direttamente ancorata nella sfera dell'etica, ovvero della giustizia. Per la teoria oggettivistica del diritto il concetto del diritto si identificava con quello del diritto internazionale e proprio per questo era in pari tempo un concetto etico. 'L'essenza imperitura del diritto' risiedeva nella oggettività della sua universale, globale validità morale, nella sua universale giustizia.

La premessa generale di questa tesi era ovviamente l'universalità della dottrina dei diritti umani. Per Habermas questa dottrina conteneva in sé un nucleo di intuizioni morali verso il quale convergevano le grandi religioni universalistiche del pianeta: un nucleo che godeva quindi di una universalità trascendentale, ben oltre le vicende storiche e culturali dell'Occidente. L'unificazione planetaria avrebbe dovuto riguardare in primo luogo la produzione del diritto, il cui compito sarebbe stato affidato ad un organismo centrale, identificabile in linea di principio in un parlamento mondiale.

A questo ottimismo etico - il diritto globale come diritto universalmente giusto - si sono opposti in particolare i teorici del new legal pluralism come Boaventura de Sousa Santos e John Griffiths. Essi hanno rivendicato anzitutto la molteplicità delle tradizioni normative e degli ordinamenti giuridici oggi in vigore a livello planetario e hanno sottolineato il loro prevalente carattere "trans-nazionale" e "trans-statale". Nel farlo essi si sono richiamati a ricerche classiche di antropologia del diritto, come quelle di Leopold Pospisil e Sally Falk Moore. Santos, ad esempio, ha parlato di interlegality, indicando con questo termine l'esistenza di "reti di legalità" parallele - sovrapposte, complementari o antagoniste - che obbligano a costanti transazioni e trasgressioni e che non sono riconducibili ad alcun unitario paradigma normativo preesistente alle controversie né ad alcun condiviso valore morale. Le norme sono in costante elaborazione e le controversie sono risolte da chi ha il potere di decidere quale è la norma da applicare al caso concreto in un contesto conflittuale che può essere chiamato the politics of definition of law. Il pluralismo giuridico è una conseguenza del pluralismo sociologico e nessuna società - tanto meno la pretesa 'società civile mondiale' - è omogenea. Il pluralismo giuridico è dunque provato empiricamente dalla pluralità dei codici normativi che coesistono entro società culturalmente, etnicamente, religiosamente segmentate. La complessità è tanto maggiore se si considera la dimensione globale: la cosiddetta società globale è una sorta di galassia giuridica nella quale il diritto statale non svolge alcun ruolo egemone. Basti pensare al ruolo normativo delle law firms nei settori del diritto commerciale, fiscale e del lavoro e dell'emergere di una nuova lex mercatoria a livello globale.

Oggi non si può trascurare - sostengono gli anti-globalisti - che il monismo giuridico è contraddetto nei fatti. Non solo le minoranze etniche applicano di fatto e sempre più un loro diritto particolare, ma lo stesso diritto positivo degli Stati moltiplica le possibili opzioni concernenti la singola situazione giuridica: regimi patrimoniali fra coniugi, pluralità delle cause del divorzio, pluralità dei regimi fiscali in sede europea, e così via. Il pluralismo giuridico si esprime attraverso dispositivi normativi diversi che si applicano a situazioni giuridiche identiche. In questo quadro è di grande rilievo l'interazione fra i modelli normativi forti (occidentali) e le tradizioni normative autoctone. Questo fenomeno è stato studiato in alcune aree continentali che hanno lungamente conosciuto la presenza coloniale, in particolare nel mondo latino-americano e in un certo numero di paesi dell'Asia centrale e meridionale. In Argentina, in Brasile, in Messico, in Perù, il diritto statale di derivazione occidentale confligge sia con le rivendicazioni normative dei movimenti politici più radicali, sia con le tradizioni giuridiche delle minoranze aborigene: basti pensare al movimento dei "Sem Terra" in Brasile, a quello zapatista in Messico, alla rivolta degli indios andini in Perù. In Asia centrale, in particolare in paesi come il Pakistan e l'India, il diritto statale ereditato dall'esperienza coloniale viene sfidato dalla pressione verso il recupero delle tradizioni normative pre-coloniali.

Per un altro aspetto, gli avversari del "globalismo giuridico" denunciano la debolezza di una dottrina che nonostante le sue aspirazioni cosmopolitiche rimane ancorata alla cultura delle vecchia Europa, e cioè al giusnaturalismo classico-cristiano. L'idea del diritto internazionale che essa propone è indissociabile da una visione teologico-metafisica - riflessa nella nozione di civitas maxima - che pone a fondamento della comunità giuridica internazionale la duplice credenza nella natura morale dell'uomo e nell'unità morale del genere umano. Questa filosofia del diritto è dominata dall'idea, kantiana e neokantiana, che il progresso dell'umanità sia possibile solo a condizione che alcuni principi etici - ritenuti 'giusti' - vengano condivisi da tutti gli uomini e siano fatti valere da poteri sovranazionali che trascendano il 'politeismo' delle convinzioni etiche e degli ordinamenti normativi oggi esistenti. Non a caso, si sostiene, la dottrina individualistico-liberale dei diritti umani viene oggi presentata alle culture non occidentali come il paradigma della costituzione politica del mondo. In sostanza si avanza la pretesa che un ordinamento giuridico particolare - quello, occidentale, dello Stato democratico di diritto - possa essere inteso come un ordinamento "giusto" da imporre al mondo intero.


*. Pubblicato in P. Giunti (a cura di), Iuris Quidditas. Liber amicorum per Bernardo Santalucia, Editoriale Scientifica, Napoli 2010.