2008

Il doppio binario della giustizia penale internazionale (*)

Danilo Zolo

Abstract

Dal 1946 ad oggi non è stato mai celebrato alcun processo per presunti crimini di aggressione, e ciò malgrado il fatto che siano numerosi i casi in cui gli Stati hanno compiuto atti di aggressione, talvolta giudicati tali anche dal Consiglio di Sicurezza. Sì è andato così affermando un sistema dualistico di giustizia penale internazionale. I crimini di jus in bello, normalmente meno gravi del crimine di aggressione, sono stati perseguiti e puniti con severità, in particolare dall'ICTY. Invece "il crimine internazionale supremo" - la guerra di aggressione -, per lo più commesso da autorità politiche e militari di grandi potenze, è stato ignorato e i suoi responsabili restano indisturbati al vertice del potere internazionale.

1. La guerra di aggressione come "crimine internazionale supremo"

Come è noto, l'inizio effettivo della giurisdizione penale internazionale coincide con l'istituzione, rispettivamente nel 1945 e nel 1946, dei Tribunali di Norimberga e di Tokyo. La creazione delle due assise penali era stata anticipata, sul piano teorico, dal saggio di Hans Kelsen, Peace through Law, del 1944. Kelsen aveva concepito una strategia istituzionale per il raggiungimento della pace, mutuando da Kant - dalle celebri pagine di Zum ewigen Frieden - sia l'ideale della pace perpetua, sia il modello federalistico, sia infine l'idea di attribuire la soggettività di diritto internazionale anche agli individui e non solo agli Stati (1). Egli riteneva che nella situazione del secondo dopoguerra il suo progetto di una "Lega permanente per il mantenimento della pace" avesse buone probabilità di essere accettato dalle grandi potenze uscite vincitrici del conflitto. Il progetto innestava sul vecchio modello della Società delle Nazioni un'importante novità: attribuiva un ruolo centrale alle funzioni giudiziarie rispetto a quelle normative ed esecutive. La ragione principale del fallimento della Società delle Nazioni stava, secondo Kelsen, nel fatto che al vertice dei suoi poteri era stato posto un Consiglio, e cioè una sorta di governo politico mondiale, e non una Corte di giustizia. Nella prospettiva del normativismo kelseniano, questo era stato un grave "errore di costruzione" perché la principale lacuna dell'ordinamento internazionale era proprio l'assenza di un'autorità giudiziaria, neutrale e imparziale. La pace sarebbe stata assicurata soltanto da una Corte di giustizia che dirimesse le controversie internazionali applicando oggettivamente il diritto internazionale e quindi prescindendo da ogni condizionamento politico (2). Un secondo punto premeva a Kelsen, in linea con la concezione kantiana del diritto internazionale come "diritto cosmopolitico" (Weltbürgerrecht): era necessario stabilire la responsabilità penale individuale di chi, avendo svolto attività di governo o diretto operazioni militari, avesse violato il diritto internazionale. La Corte avrebbe dovuto sottoporre a processo i singoli cittadini responsabili di crimini di guerra e gli Stati avrebbero dovuto metterli a sua disposizione (3).

Questo internazionalismo giudiziario, sia pure in forme molto diverse da quelle concepite da Kelsen, ispirò le quattro potenze uscite vittoriose dalla guerra mondiale - Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Francia - nell'istituire il Tribunale internazionale militare di Norimberga. Per la prima volta nella storia dell'umanità la guerra di aggressione veniva concepita non come un generico illecito internazionale, comportante la responsabilità dello Stato come tale, ma come un vero e proprio "crimine internazionale" del quale avrebbero dovuto essere ritenuti penalmente responsabili singoli individui (4). L'articolo 6(a) dello Statuto del Tribunale definiva in modo esplicito i crimes against peace, sottoponendoli alla giurisdizione della corte accanto ai "crimini di guerra" e ai "crimini contro l'umanità". Essi consistevano in atti come

Planning, preparation, initiation, or waging of a war of aggression, or a war in violation of international treaties, agreements, or assurances, or participation in a common plan or conspiracy for the accomplishment of any of the foregoing (5).

Robert Jackson, procuratore generale degli Stati Uniti presso il Tribunale di Norimberga, ebbe a dichiarare nel suo nel suo opening statement (on 21 November 1945) che:

Any resort to war - to any kind of a war - is a resort to means that are inherently criminal. War inevitably is a course of killings, assaults, deprivations of liberty, and destruction of property. An honestly defensive war is, of course, legal and saves those lawfully conducting it from criminality. But inherently criminal acts cannot be defended by showing that those who committed them were engaged in a war, when war itself is illegal. The very minimum legal consequence of the treaties making aggressive wars illegal is to strip those who incite or wage them of every defense the law ever gave, and to leave war-makers subject to judgment by the usually accepted principles of the law of crimes. (6)

In uno dei passi più noti della sentenza conclusiva del processo, la guerra di aggressione viene qualificata come "essenzialmente un male" perché le sue conseguenze non si limitano a colpire i soli Stati belligeranti, ma si estendono negativamente al mondo intero. Pertanto

to initiate a war of aggression is not only an international crime; it is the supreme international crime, differing from other war crimes only in that it contains within itself the accumulated evil of the whole. (7)

Nel testo della sentenza di Norimberga e nelle intenzioni dei giudici del Tribunale la "guerra di aggressione', come fattispecie principale della categoria dei "crimini contro la pace", sembra dunque chiaramente concettualizzata, anche se enunciata in termini molto generali e senza una specificazione degli elementi soggettivi della condotta criminale (8). La guerra di aggressione - una guerra che non sia dunque puramente difensiva - è non solo un crimine internazionale, ma, come abbiamo visto, è "il crimine internazionale supremo" in quanto concentra in sé tutte le conseguenze negative della guerra. Penalmente responsabili di questo "crimine supremo" sono tutti coloro che incitano alla guerra e tutti coloro che la decidono o la combattono in quanto personalmente responsabili.

Siamo dunque di fronte ad una nozione di guerra toto coelo opposta a quella della guerra europea "messa in forma" dallo jus publicum europaeum: una guerra come diritto sovrano degli Stati e come rapporto conflittuale fra Stati regolato e limitato dal diritto e quindi legale. E questa nuova nozione, grazie alla risoluzione dell'11 dicembre 1946 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che ha fatto propri i principi enunciati nello statuto e nella sentenza del Tribunale di Norimberga, può essere considerata oggetto di una norma consuetudinaria. E' un principio valido erga omnes come ogni altro principio che nel 1950 la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite ha estratto dallo statuto e dalla sentenza del Tribunale (9). Fra questi principi, come è noto, ci sono la responsabilità individuale per la violazione di norme penali del diritto internazionale, la non discriminante dell'aver operato in esecuzione di ordini superiori, i concetti di crimes against peace, war crimes e crimes against humanity.

2. Il "sistema dualistico" della giustizia penale internazionale.

Per decenni i principi del Tribunale di Norimberga e di quello di Tokyo sono rimasti disapplicati. Il solo tentativo di assumere il processo di Norimberga come un precedente giudiziario internazionale fu esperito nell'agosto 1949 dall'Etiopia, che chiese all'Italia di estradare i marescialli Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani come criminali di guerra. L'Etiopia intendeva sottoporli al giudizio di un Tribunale internazionale, composto in maggioranza da giudici non etiopici, che avrebbe seguito i principi e le procedure previste nello Statuto del Tribunale di Norimberga. Ovviamente, la richiesta non ebbe alcun esito (10).

Come è noto, critiche molto severe hanno investito i due Tribunali internazionali: fra le più note sono quelle espresse da Hannah Arendt, B.V.A. Röling, Hedley Bull e Hans Kelsen (11). Di tutte la più severa, e ormai universalmente condivisa, è quella formulata da Kelsen. La punizione dei criminali di guerra - non solo nazisti - avrebbe dovuto essere un atto di giustizia e non la prosecuzione delle ostilità in forme apparentemente giudiziarie, in realtà ispirate da un desiderio di vendetta. Per Kelsen era un fatto incompatibile con la funzione giudiziaria che solo gli Stati sconfitti fossero stati obbligati a sottoporre i propri cittadini alla giurisdizione di una corte penale. Anche gli Stati vittoriosi avrebbero dovuto accettare che i propri cittadini, responsabili di crimini di guerra, venissero processati da una corte internazionale. E questa avrebbe dovuto essere una vera corte internazionale e cioè un'assise indipendente, imparziale e con una giurisdizione ampia e non un tribunale di occupazione militare con una competenza fortemente selettiva. E non c'erano dubbi per Kelsen che anche le potenze alleate avessero violato il diritto internazionale (12). Per questo Kelsen sostenne con forza, in un saggio famoso, che il Tribunale di Norimberga non doveva essere assunto come un precedente giudiziario, che non era un modello da seguire (13).

Nonostante queste critiche, dopo quasi mezzo secolo dall'esperienza dei tribunali di Norimberga e di Tokyo, la giurisdizione penale internazionale è stata rilanciata nella forma dei Tribunali penali internazionali ad hoc: l' ICTY (1993) e l'ICTR (1994). Questi tribunali sono stati istituiti dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con una decisione controversa (14). Ma - ecco un tema di grande rilievo - gli Statuti di questi tribunali, che pure si ispirano al precedente di Norimberga e ai suoi principi, assegnano ai procuratori e ai giudici una competenza limitata a crimini di jus in bello, e cioè ai crimini di guerra, ai crimini contro l'umanità e al crimine di genocidio. Mentre, come abbiamo visto, il Tribunale di Norimberga aveva incluso entro la propria competenza anzitutto i "crimini contro la pace" e aveva qualificato la guerra di aggressione come "il crimine internazionale supremo", tale da giustificare la condanna a morte dei suoi responsabili, questa fattispecie non compare negli statuti dell'ICTY e dell'ICTR (15) e, come vedremo, manca sostanzialmente anche in quello della International Criminal Court.

Inoltre, per quanto riguarda i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità, le Convenzioni di Ginevra del 1949 hanno creato un sistema repressivo particolarmente ambizioso: ogni Stato che abbia ratificato le convenzioni è tenuto a ricercare, arrestare e processare le persone accusate di gravi violazioni del diritto internazionale, oppure a consegnarle ad un altro Stato che ne reclami l'estradizione, in base al principio aut dedere aut judicare. Per di più, le Convenzioni di Ginevra hanno introdotto un istituto fortemente innovativo: quello della "giurisdizione universale", che consente a qualsiasi Stato contraente di processare un soggetto indipendentemente dalla nazionalità della vittima o del reo, e dal luogo dove sia stato commesso il crimine (16). Infine, con la Convenzione sulla Non-Applicability of Statutory Limitations to War Crimes and Crimes Against Humanity dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, entrata in vigore nel novembre del 1970, i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità sono stati dichiarati imprescrittibili (17). Nulla di tutto questo è mai stato previsto per il crimine di aggressione (18).

Si è così andato affermando di fatto un sistema dualistico di giustizia penale internazionale, una sorta di doppio binario per cui ad una "giustizia su misura" per le grandi potenze del pianeta e i loro leaders vittoriosi (19) si affianca una giustizia per gli sconfitti e per i popoli oppressi. E' accaduto in particolare che crimini internazionali di jus in bello, normalmente meno gravi del crimine di aggressione armata, siano stati sinora perseguiti e puniti con grande severità, in particolare dall'ICTY, mentre "il crimine internazionale supremo" - la guerra di aggressione - per lo più commesso da autorità politiche e militari di grandi potenze, viene ignorato e i suoi responsabili restano impuniti ai vertici della piramide del potere internazionale. A questo proposito Antonio Cassese ha sottolineato che

Not surprisingly, since 1946 there have been no national or international trials for alleged crimes of aggression, although undisputedly in many instances States have engaged in acts of aggression, and in few cases the Security Council has determined that such acts were committed by State (20).

3. L'" incompetenza" dei Tribunali penali ad hoc

Questa patologia normativa e giudiziaria, per lo più sottovalutata dalla dottrina internazionalistica, presenta alcune fattispecie principali. La prima riguarda i nuovi Tribunali penali ad hoc. Il comportamento del Tribunale dell'Aja - in particolare della sua Procura generale - nel corso della guerra per il Kosovo, iniziata dalla NATO nel marzo 1999 contro la Repubblica Federale Jugoslava, offre una esemplificazione eloquente.

L'attacco della NATO, deciso senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza e trascurando qualsiasi riferimento al diritto internazionale, è stato considerato dai più autorevoli internazionalisti occidentali come gravemente lesivo della Carta delle Nazioni Unite (21). Oltre a ciò, l'intervento militare è stato condannato da grandi potenze come la Federazione Russa, l'India e la Cina, poco propense a dar credito alle motivazioni "umanitarie" addotte dagli aggressori. Mentre il Consiglio di Sicurezza non ha inteso e comunque non sarebbe stato in grado, a causa dell'inevitabile veto degli Stati Uniti, oltre che della Gran Bretagna e probabilmente anche della Francia, di dichiarare e di sanzionare l'illegalità dell'attacco militare, il Tribunale per la ex Jugoslavia, grazie alla sua natura "speciale" e alla sua competenza selettiva, ha posto sullo stesso piano giuridico gli aggressori (le autorità politiche e militari della NATO) e gli aggrediti (i cittadini della Repubblica jugoslava).

Per cogliere la gravità di questa condotta, occorre tenere presente almeno due circostanze. La prima consiste nel fatto che il Tribunale dell'Aja era stato voluto, equipaggiato, assistito e ampiamente finanziato dagli Stati Uniti. La seconda è che, a partire dagli ultimi anni della guerra di Bosnia, si era instaurata una prassi di stretta collaborazione giudiziaria fra la Procura generale del Tribunale e le forze della NATO presenti nei territori della ex Jugoslavia. I militari dei contingenti Ifor e Sfor della NATO avevano ricercato le persone incriminate, procedendo al loro arresto per conto del Tribunale. Dopo che, nel marzo 1999, la NATO aveva attaccato la Repubblica jugoslava, non solo la collaborazione del Tribunale con la NATO (e con gli Stati Uniti) non è stata interrotta, ma la Procura del Tribunale ha improvvisamente deciso l'incriminazione del presidente Slobodan Milosevic e di alti esponenti del governo jugoslavo, mentre ancora infuriavano i bombardamenti della NATO.

Ma questo non è tutto. Vicenda ancora più grave è che la Procura generale del tribunale, presieduta da Carla Del Ponte, non solo ha potuto ignorare, grazie al suo Statuto, che le massime autorità politiche e militari della NATO potevano essere ritenute responsabili del crimine di "guerra di aggressione", ma ha ignorato anche le violazioni del diritto internazionale di guerra commesse dai militari della NATO durante i 78 giorni di ininterrotti bombardamenti. Missili, cluster bombs e proiettili all'uranio impoverito sono stati usati per colpire, sia intenzionalmente sia come "effetti collaterali" del tutto prevedibili, fabbriche, prigioni, ambasciate e sedi televisive. E su queste violazioni il Tribunale dell'Aja aveva piena competenza giurisdizionale e aveva quindi il dovere di sottoporre a indagine ed eventualmente incriminare i responsabili (22).

Antonio Cassese ha parlato, a proposito di questa infelice vicenda, del permanere di una "sindrome di Norimberga", e cioè della tendenza della giurisdizione penale internazionale a perpetuare il modello della "giustizia dei vincitori" (23). Ed è senza dubbio un paradosso inquietante (24) il fatto che gli sconfitti ex-presidenti della Repubblica Jugoslava e dell'Iraq siano oggi incarcerati e sottoposti a processo da parte di Tribunali speciali sostenuti dagli Stati Uniti e dai loro più stretti alleati, mentre i capi di Stato e di governo delle maggiori potenze occidentali che hanno condotto vittoriosamente guerre di aggressione, macchiandosi dell'assassinio di migliaia di persone innocenti - trentamila solo in Iraq - e di altri crimini previsti nei codici penali di tutti i paesi del mondo e puniti negli Stati Uniti con la pena di morte, non ne hanno sinora subito le conseguenze.

4. L'ambigua competenza della Corte Penale Internazionale

Una analoga fattispecie del "sistema dualistico" della giustizia internazionale che sanziona i crimini di jus in bello - i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità, oltre al genocidio - e ignora il crimine della "guerra di aggressione", riguarda lo Statuto della Corte penale internazionale, che è stato approvato a Roma nel luglio 1998 (25). Questo Statuto, a differenza degli Statuti dei tribunali ad hoc, include nel suo art. 5 il crimine di aggressione nell'elenco delle gravi fattispecie criminose - the most serious crimes of concern to the international community - sulle quali la corte ha giurisdizione. E tuttavia il medesimo articolo, al secondo comma, stabilisce che la Corte

The Court shall exercise jurisdiction over the crime of aggression once a provision is adopted in accordance with articles 121 and 123 defining the crime and setting out the conditions under which the Court shall exercise jurisdiction with respect to this crimes. (26)

In sostanza lo Statuto nega che la Corte possa esercitare la propria giurisdizione sul crimine di aggressione finché l'assemblea degli Stati che hanno ratificato lo Statuto non avrà adottato una norma che, emendando lo Statuto medesimo, definisca il crimine di aggressione. E questo non potrà accadere se non dopo almeno sette anni dall'entrata in vigore dello Statuto (27). E' evidente che questa ambigua formulazione è stata adottata per coprire l'insuperabile dissenso sulla nozione di "crimine di aggressione" che era emerso fra gli Stati nel corso dei negoziati che avrebbero portato all'approvazione dello Statuto di Roma (28). Da una parte, numerosi Stati arabi e africani erano orientati ad adottare la definizione contenuta nella Risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1974, eventualmente precisandola e ampliandola. Dall'altra parte, c'erano paesi, come gli Stati Uniti, che negavano che la Risoluzione potesse essere assunta come una base normativa per la definizione del crimine penale di aggressione. Altri paesi ancora, come la Germania, insistevano sull'esigenza di arrivare a formulazioni giuridiche tecnicamente più rigorose, soprattutto in tema di garanzie penali (29).

Ma il dissenso più grave riguardava un altro punto, e cioè il rapporto fra i poteri della Corte e quelli del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti, opponendosi alla maggioranza degli Stati che partecipavano ai negoziati, intendevano subordinare l'attività della procura della Corte in tema di crimine di aggressione alle decisioni del Consiglio di Sicurezza. In altre parole la Corte non avrebbe dovuto svolgere indagini sulla responsabilità di singoli individui per il crimine di aggressione senza il consenso del Consiglio di Sicurezza e cioè senza che fosse quest'organo a dichiarare, con una sua risoluzione, l'esistenza dell'aggressione. E questo avrebbe di fatto subordinato le iniziative della Procura della Corte alla volontà dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Come è noto, questa posizione corrisponde al tentativo generale compiuto dagli Stati Uniti di limitare i poteri e l'autonomia della Corte, tentativo che ha generato fra l'altro la contaminazione "costituzionale" fra funzioni esecutive e funzioni giudiziarie introdotta dall'art. 16 dello Statuto. Questo articolo attribuisce al Consiglio di Sicurezza il potere di chiedere la sospensione a sua discrezione per un anno (potenzialmente di impedire, visto che la richiesta di sospensione può essere reiterata all'infinito) una iniziativa della procura della Corte se ritenuta inopportuna da una risoluzione fondata sulle norme del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Non soddisfatti di aver ottenuto questo risultato, gli Stati Uniti non hanno ratificato lo Statuto della Corte e da anni operano con notevole successo per ostacolarne l'attività, in particolare sfruttando a proprio favore sia l'art. 16 che l'art. 98 dello Statuto (30).

Il risultato finale, come ha sostenuto Giorgio Gaja, è che la qualificazione della guerra di aggressione come crimine internazionale, presente nell'art. 5 dello Statuto di Roma, è destinata a restare priva di qualsiasi rilievo pratico finché la Corte penale internazionale non sarà stata dotata di competenza giurisdizionale in materia. Secondo una concezione realistica del diritto internazionale, un comportamento per il quale non è operante alcuno strumento di repressione non può essere considerato un comportamento criminale (31). A parere di Gaja è inoltre assai probabile che anche in futuro la Corte penale internazionale resti priva, in tema di guerra di aggressione, di un potere giurisdizionale che sia autonomo rispetto alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (32).

5. L'occupazione militare: una transustanziazione normativa

Vi è infine un terzo aspetto del "sistema dualistico" della giustizia penale internazionale che riguarda il rapporto fra il crimine di aggressione e l'occupazione di un territorio come conseguenza di tale aggressione. Secondo la dottrina internazionalistica prevalente, che applica sine glossa la disciplina dell'"occupazione militare" introdotta dalla quarta Convenzione di Ginevra del 1949, l'occupazione di un territorio è una fattispecie di diritto internazionale che prescinde dal carattere legale o, invece, criminale dell'uso della forza che ha portato all'occupazione del territorio. Questa dottrina si richiama al cosiddetto "principio di effettività'. In base ad esso il diritto internazionale non può non riconoscere che la forza - non la legalità - è la sua principale fonte di legittimazione, non essendoci un'autorità "sopranazionale" in grado di far valere coercitivamente la dimensione normativa del diritto. All'ordinamento giuridico internazionale sarebbe dunque riservata, in particolare per quanto riguarda il diritto bellico, una funzione di formalizzazione giuridica - e quindi di legittimazione - dello stato di fatto, e cioè degli assetti internazionali imposti con la forza dalle potenze di volta in volta vincitrici. Da questo punto di vista è ovvio che una potenza che abbia invaso un territorio con la forza delle armi, e lo abbia posto stabilmente sotto il proprio controllo, esercita legittimamente i diritti che la quarta Convenzione di Ginevra accorda ai vincitori nei confronti dei vinti.

Altri autori, fra questi Benedetto Conforti (33), hanno sostenuto, in linea con la cosiddetta "dottrina Stimson" e una serie di pronunce della Assemblea Generale delle Nazioni Unite (34), che il principio di effettività è correttamente invocato solo se si tratta di prendere atto giuridicamente di un puro stato di fatto, come, ad esempio, l'occupazione di un territorio che non appartenga a nessuno e da nessuno sia rivendicato, che sia cioè res nullius internazionale. In questo caso lo stato di fatto può essere riconosciuto senza che la forza prevalga sulla legalità. Ma, sostiene Conforti, la massima ex facto oritur jus non dovrebbe essere acriticamente estesa, sebbene la prassi internazionale oggi vada in questa direzione, ai casi nei quali l'occupazione di un territorio è avvenuta in violazione dell'art. 2 della Carta delle Nazioni Unite che vieta l'uso della forza, oppure in violazione del principio dell'autodeterminazione dei popoli (35). Si tratta di casi come, ad esempio, l'occupazione dei territori arabi da parte dello Stato di Israele nel 1967, oppure di casi come quello della Namibia, illegalmente annessa dal governo di Pretoria dopo la seconda guerra mondiale.

I casi più ricorrenti e attuali di occupazione territoriale sono del primo tipo, basti pensare all'occupazione militare che è stata subita o che è attualmente subita da paesi come l'Afghanistan, l'Iraq e soprattutto la Palestina. Gli occupanti sono grandi potenze occidentali, oppure alleanze militari, come la NATO, oppure sono potenze regionali sostenute da grandi potenze occidentali, come è il caso di Israele. In tutti questi casi l'occupazione militare è stata la conseguenza di una guerra di aggressione - il caso dell'Iraq lo è stato nel modo più clamoroso - e tuttavia questa circostanza non ha alcun rilievo nella definizione dei rapporti giuridici fra le autorità occupanti e la popolazione insediata dei territori occupati. Questa incongruenza normativa dipende da circostanze storiche che hanno lasciato un segno tanto profondo quanto giuridicamente insostenibile. Per quanto riguarda il regime dei territori occupati, la quarta Convenzione ginevrina, che lo definisce, è il risultato di un difficile equilibrio fra le aspettative dei paesi che durante la seconda guerra mondiale erano stati oggetto di occupazione militare e che quindi percepivano il problema dal punto di vista delle vittime e, dalla parte opposta, i paesi che, senza aver mai sofferto un'occupazione, erano potenze occupanti al momento della conclusione della guerra. Questi paesi erano impegnati a difendere gli interessi degli occupanti, a discapito delle popolazioni sotto occupazione.

La terza parte della quarta Convenzione di Ginevra, complessivamente dedicata alla protezione dei civili in tempo di guerra, contiene una lunga serie di articoli - dal 47 al 78 - che dettano norme non solo sui doveri della potenza occupante, ma anche, e prevalentemente, sui suoi diritti. L'art 64, ad esempio, stabilisce che le leggi penali in vigore nel territorio occupato possono essere abrogate o sospese se le autorità occupanti le ritengono pericolose per la loro sicurezza (36). Inoltre gli occupanti hanno il diritto di emanare nuove norme penali al fine di assicurare

the orderly government of the territory, and to ensure the security of the Occupying Power, of the members and property of the occupying forces or administration, and likewise of the establishments and lines of communication used by them. (37)

Altri articoli stabiliscono che gli occupanti possono istituire delle proprie corti penali per processare gli occupati, infliggere pene detentive e nel caso di crimini come lo spionaggio, il sabotaggio di installazioni militari dell'occupante, l'omicidio intenzionale, possono infliggere la pena capitale se tale pena era già prevista dalla legislazione locale.

Ci troviamo dunque di fronte a un processo giuridico nel quale, per una sorta di magica transustanziazione normativa, il fatto che l'aggressione armata abbia avuto successo, dando luogo all'occupazione militare del territorio degli aggrediti, produce una sanatoria automatica del "crimine supremo" commesso degli aggressori e ne rende legittimi i risultati. Si tratta di una incoerenza giuridica che il richiamo al 'principio di effettività' non dovrebbe minimamente sanare o attenuare, purché non si adotti la massima, improntata a un radicale realismo giuridico, ex iniuria oritur jus. Se si respinge questa massima, diviene legittimo sostenere che l'aggressione armata che ha prodotto l'occupazione è un crimine che rende illegale anche l'occupazione. E quindi illegali dovrebbero essere considerati tutti i comportamenti e gli atti compiuti dagli aggressori nel corso dell'occupazione del territorio degli aggrediti.


Note

*. Journal of International Criminal Justice, pubblicato originariamente online il 13 giugno 2007; Journal of International Criminal Justice 2007 5(4), pp. 799-807; doi: 10.1093/jicj/mqm028.

1. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1944, pp. 13-5 (seconda ed. New York: Garland Publishing, Inc., 1973).

2. Kelsen non si nasconde che la difficoltà più grave nasce dall'esigenza di dar vita a una forza di polizia internazionale, diversa e indipendente dalle forze armate degli Stati, che applichi coercitivamente le sentenze della Corte; si veda H. Kelsen, Law and Peace in International Relations, Cambridge (Mass): Harvard University Press, 1948, pp. 145-68.

3. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 87-8 e pp. 71 ss.

4. Sulla distinzione fra "delitto" (o "illecito") internazionale e "crimine" internazionale si può vedere il "Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati", approvato dalla Commissione di diritto internazionale nella sua 48ª sessione (6 maggio-26 luglio 1996). La distinzione manca comunque di riferimenti empirici (art. 19).

5. Cfr. A. Roberts, R. Guelff (a cura di), Documents on the Laws of War, Oxford, Oxford University Press, 2000, p. 177.

6. Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal Nuremberg 14 November 1945-1 October 1946, vol. II, Nuremberg, 1947, pp. 146-7. H. Kelsen, nel suo saggio Will the Judgment in the Nuremberg Trial Constitute a Precedent in International Law?, "The International Law Quarterly", 1 (1947), 2, pp. 153-171, cita questo passo e lo sottopone ad una critica formalistica in contraddizione con la sua teoria generale del primato del diritto internazionale rispetto al diritto interno (ivi, pp. 156 ss).

7. Cfr. The Avalon Project of the Yale Law School: Judgment of the International Military Tribunal. Il corsivo è mio.

8. Giorgio Gaja, in The Long Journey Towards Repressing Aggression, in A. Cassese, P. Gaeta, J.R.W.D. Jones (a cura di), The Rome Statute of the International Criminal Court: A Commentary, Oxford: Oxford University Press, 2002, p. 435, sottolinea che la specificazione degli elementi soggettivi è assente anche nella Risoluzione 3314 (XXIX) della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, del 1974: "the General Assembly resolution fails to give any indication of essential elements of the crime such as which individuals are criminally liable and what sort of mental element is required for the same purpose"; sul tema degli elementi soggettivi del crimine di aggressione e della distinzione fra "dolo diretto" e "dolo specifico" cfr. A. Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale, Bologna: il Mulino, 2005, pp. 154-6.

9. Sul tema si veda P.C. Jessup, The Crime of Aggression and the Future of International Law, "Political Science Quarterly", 62 (1947), 1. Un altro documento internazionale pertinente, sia pure privo di efficacia giuridica vincolante, è il Progetto di codice sui crimini contro la pace e la sicurezza del genere umano (Draft Code of Crimes against Peace and Security of Mankind), adottato nel 1996 dalla Commissione per il diritto internazionale delle Nazioni Unite. La definizione di "aggressione" quale crimine internazionale che questo documento contiene è giudicata deludente da Antonio Cassese, a causa della sua circolarità logica (cfr. A. Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale, cit., p. 149).

10. Cfr. C. Miglioli, La sanzione nel diritto internazionale, Milano: Giuffrè, 1951, p. 69.

11. Cfr. H. Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, London: Penguin, 1976, pp. 254-9. B.V.A. Röling ha sostenuto che i processi internazionali del dopoguerra sono stati utilizzati dai vincitori a fini propagandistici e per nascondere i misfatti da loro stessi commessi; cfr. B.V.A. Röling, The Nuremberg and the Tokyo Trials in Retrospect, in C. Bassiouni, U.P. Nanda (a cura di), A Treatise on International Criminal Law, Springfield: Charles C. Thomas, 1973. Per parte sua Hedley Bull (The Anarchical Society, London: Macmillan, 1977, p. 89) ha sostenuto che la funzione simbolica dei processi è stata offuscata dal carattere selettivo delle loro pronunce. Si veda inoltre: R. Quadri, Diritto internazionale pubblico, Napoli: Liguori, 1974.

12. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 110-15. Kelsen riteneva che l'Unione Sovietica, invadendo la Polonia e dichiarando guerra al Giappone, avesse commesso crimini di guerra punibili da un Tribunale internazionale.

13. Cfr. H. Kelsen, Will the Judgment in the Nuremberg Trial Constitute a Precedent in International Law?, cit., p. 171: "Se i principi applicati nella sentenza di Norimberga dovessero diventare un precedente, allora al termine della prossima guerra i governi degli Stati vittoriosi giudicherebbero i membri degli Stati sconfitti per aver commesso delitti definiti tali unilateralmente e con forza retroattiva dai vincitori. C'è dunque da sperare che questo non avvenga". Sul tema Kelsen ritorna in Principles of International Law, New York: Holt, Rinehart & Winston, pp. 215-20.

14. Mi permetto di rinviare al mio Invoking Humanity. War, Law and Global Order, London-New York: Continuum International, pp. 166-9.

15. Lo Statuto del Tribunale internazionale per la ex.Jugoslavia dedica quattro articoli (artt. 2-5) alla specificazione della competenza della Corte. Lo Statuto del Tribunale internazionale per il Ruanda ne dedica tre (artt.2-4). Sul Tribubale di Arusha, la cui attività si è rivelata sostanzialmente irrilevante nel quadro del processo di transizione alla vita civile, si può vedere: D. Shraga, R. Zacklin, The International Criminal Tribunal for Rwanda, 'European Journal for International Law', 7 (1996), 4, pp. 501-18; G. Cataldi, Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la questione del Ruanda, in P. Picone (a cura di), Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, Padova: Cedam, 1995, pp. 445-61; I. Bottigliero, Il rapporto della commissione di esperti sul Ruanda e l'istituzione di un tribunale internazionale penale, 'La comunità internazionale', 4 (1994), 4, pp. 760-8.

16. Questo istituto ha avuto poche ma rilevanti applicazioni, come l'incriminazione del generale cileno Augusto Pinochet da parte della magistratura spagnola e del leader israeliano Ariel Sharon da parte della magistratura belga.

17. Cfr. la Convenzione sulla Non-Applicability of Statutory Limitations to War Crimes and Crimes Against Humanity della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, entrata in vigore l'11 novembre 1970.

18. Giorgio Gaja (op. cit., p. 429) segnala nuovamente il paradosso per cui "while repression was partially provided for crimes against humanity through the adoption of the 1948 Genocide Convention and for war crimes under the 1949 Geneva Conventions, no parallel initiative was taken with regard to crimes against peace".

19. Nonché, in alcuni casi piuttosto eccezionali, per i leaders di medie potenze, come l'Iraq, o di piccole potenze, come l'Uganda.

20. Cfr. A. Cassese, International Criminal Law, Oxford: Oxford University Press, 2003, pp. 112.

21. Fra questi Michael Glennon, Bruno Simma e Antonio Cassese. Rinvio nuovamente al mio Invoking Humanity, cit., pp. 66-76.

22. Ibid., pp. 109-14.

23. Cfr. A. Cassese, Il processo a Saddam e i nobili fini della giustizia, in "la Repubblica", 19 ottobre 2005, p. 23; "quando si è posto il problema di accertare se i militari della Nato avevano commesso crimini di guerra in Serbia nel 1999, il Procuratore dell'Aja ha preferito evitare l'apertura di investigazioni".

24. Sul tema si veda M. Mandel, How America Gets Away with Murder: Illegal Wars, Collateral Damage and Crimes Against Humanity, London, Pluto Press, 2004.

25. Si veda G. Vassalli, Statuto di Roma. Note sull'istituzione di una Corte Penale Internazionale, "Rivista di studi politici internazionali", 66 (1999), 1, pp. 9-24. Per un'ampia informazione e documentazione si può consultare il sito delle Nazioni Unite.

26. Ibid.

27. Questo differimento è previsto dall'art. 121 dello Statuto di Roma.

28. Cfr. G. Gaja, op. cit., pp. 430-2.

29. Cfr. A. Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale, cit., p. 150.

30. L'art. 98 consente ad uno Stato di non consegnare alla Corte il cittadino di un altro Stato (che si trovi nel territorio del primo Stato e che la Corte intenda sottoporre a processo) se tra i due Stati esiste un trattato che vieta tale estradizione.

31. Cfr. G. Gaja, op. cit., pp. 431-2.

32. Cfr. G. Gaja, op. cit., pp. 440-1.

33. Cfr. B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 1997, pp. 199-202. Sul tema cfr. anche L. Oppenheim, L. Lauterpacht, International Law, I, London: Longmans, Green & Co, 1948, pp. 142-3.

34. La cosidetta "dottrina Stimson", dal nome del Segretario di Stato degli Stati Uniti H.L. Stimson, che la formulò nel 1932, proponeva il disconoscimento dell'espansione territoriale che fosse frutto di violenza o di gravi violazioni del diritto internazionale. Sul tema del non-riconoscimento delle acquisizioni territoriali conseguenti all'uso illegale della forza si è più volte pronunciata l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Sul tema si veda B.B. Ferencz, Defining Aggression: Where it Stands and Where it's Going, "American Journal of International Law", 66 (1972) 3, p. 502.

35. Cfr. B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli: Editoriale Scientifica, 1997, pp. 200-201.

36. L'art. 64 recita: "The penal laws of the occupied territory shall remain in force, with the exception that they may be repealed or suspended by the Occupying Power in cases where they constitute a threat to its security or an obstacle to the application of the present Convention. [...] The Occupying Power may subject the population of the occupied territory to provisions which are essential to enable the Occupying Power to fulfil its obligations under the present Convention [...]".

37. Ibid.