2005

La società anarchica tra continuità e crisi
La scuola inglese e le istituzioni internazionali (*)

Alessandro Colombo

1. Introduzione

Il tema delle istituzioni occupa un posto centrale nella riflessione della cosiddetta "scuola inglese" delle Relazioni Internazionali, e proprio in virtù di due delle sue principali peculiarità. La prima è la sensibilità per la storia, che deriva in parte dal dialogo ininterrotto che ha luogo, all'interno del British Committee, fra teorici che storici delle Relazioni Internazionali e, in parte, dalla percezione stessa del declino di un ordine "secolare" - quello centrato sull'Europa e, dal XIX secolo, sulla flotta e sulla finanza inglesi. Invece di cadere vittima della stessa "tirannia del presente" che induce la maggior parte della riflessione contemporanea delle Relazioni Internazionali a concentrarsi sulla realtà attuale, partendo dal "dato di fatto" della politica internazionale contemporanea come politica interstatale su scala planetaria, la riflessione inglese fa proprio del sistema di stati (states system) e della globalità i suoi principali oggetti di indagine e, con questo, i suoi principali problemi.

L'altra peculiarità, strettamente collegata alla prima, è il ripensamento del rapporto tra ordine e anarchia, che passa attraverso l'introduzione, a fianco del concetto di "sistema", di quello di "società internazionale". Il primo, almeno nell'accezione che prevale nella riflessione contemporanea, non denota altro che una rete di interdipendenze politiche, economiche e strategiche: per appartenere allo stesso sistema internazionale è sufficiente che le azioni di ciascuno abbiano conseguenze sulla posizione degli altri. Il sistema si dirada a mano a mano che questa rete si dirada e viene meno del tutto là dove l'interdipendenza si interrompe. La società internazionale, come è facile intuire, è qualcosa di più. Essa sta a indicare un insieme di Stati (o, più generalmente, un insieme di comunità politiche indipendenti) che, "consapevoli di certi interessi e valori comuni, (...) si considerano legati da un insieme comune di regole nelle loro relazioni reciproche" (Bull 1977, 13). Il rapporto tra sistema e società è storicamente variabile. Se, infatti, la società internazionale non può mai cessare di essere anche un sistema, un sistema anarchico può non avere ancora e, in seguito, può perdere in tutto o in parte i propri elementi societari.

Sebbene rimanga sfumata, controversa, a tratti persino ambigua (1), la tensione tra sistema e società è alla radice di quella che gli studiosi inglesi riconoscono come la costitutiva e insopprimibile ambivalenza dell'ordine internazionale. Ancorati come sono alla tradizione realista della power politics, essi non hanno alcuna difficoltà a riconoscere che "il mantenimento dell'ordine nella politica internazionale dipende, in prima istanza, da fatti contingenti che produrrebbero ordine anche se gli stati fossero privi di qualunque concezione di un interesse comune, di regole e di istituzioni comuni - anche se, in altre parole, essi formassero soltanto un sistema, e non una società internazionale" (Bull 1977, 65). Ma, questo è il punto, ogni volta che il sistema si evolve in società internazionale, anche l'ordine internazionale diviene qualcosa di più del prodotto (sempre mutevole) dei rapporti di forza; invece di dipendere soltanto da fatti contingenti come quelli che portano alla formazione casuale di equilibri, esso dipende anche, a un livello più profondo, da un insieme (più persistente) di vincoli politici, giuridici e culturali; mentre proprio a questi si deve il fatto che, negli ultimi secoli, la competizione internazionale abbia potuto svolgersi secondo certe regole e, soprattutto, nel rispetto di certi limiti - vale a dire, proprio di quelle regole e di quei limiti che fanno di una società internazionale qualcosa di diverso dal semplice campo di forze di un sistema. "Le potenze" scrive Wight (1978, 66) "continueranno a cercare la sicurezza senza riguardo alla giustizia, e a perseguire i propri interessi vitali indifferenti agli interessi comuni, ma nella frazione in cui deviano da ciò sta la differenza tra la giungla e le tradizioni dell'Europa".

2. Le istituzioni della società internazionale

Ed è proprio qui che le peculiarità della "via inglese" si incrociano con il tema delle istituzioni. Lungo il percorso a ritroso che li conduce alla genesi e all'espansione della società internazionale moderna, Butterfield, Wight, Bull e Watson si imbattono in un tipo di istituzioni completamente diverso da quello che ha dominato e continua a dominare le cosiddette teorie istituzionaliste delle relazioni internazionali: non quelle sorte nel corso del Novecento, in polemica più o meno aperta con la politica internazionale del passato, ma istituzioni che proprio in questo passato affondano le loro radici, come contrappunto istituzionale della politica di potenza; non istituzioni fondate su un progetto (anche ideologico) dichiarato di trasformazione, come la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite, ma istituzioni di così lunga durata da accompagnare l'intero corso della politica internazionale moderna e, per questo, capaci di imporsi tanto naturalmente agli attori da non essere più neppure riconoscibili come istituzioni; non istituzioni specifiche come i regimi internazionali o le organizzazioni formali, ma quelle pratiche più fondamentali nelle quali anche queste sono inserite e dalle quali dipende la natura stessa della convivenza internazionale come la si conosce da Westphalia in poi. "Per cercare le cause fondamentali dell'ordine così come esiste nella politica mondiale" scrive Hedley Bull (1977, XIV) "non si deve guardare alla Società delle Nazioni, alle Nazioni Unite o a organismi simili, ma alle istituzioni della società internazionale che nacquero prima che queste organizzazioni fossero costituite, e che continuerebbero a operare (sebbene in maniera diversa) anche se queste organizzazioni cessassero di esistere".

Alle istituzioni di lungo periodo si deve, tanto per cominciare, la capacità della società internazionale moderna di promuovere gli obiettivi che Bull (1977, 4-5) individua come elementari e primari per qualunque convivenza sociale: la limitazione della violenza, il mantenimento delle promesse e la stabilizzazione del possesso. Il primo obiettivo è perseguito, nella società internazionale, attraverso il ferreo monopolio degli stati sulla guerra legittima (jus ad bellum), oltre che attraverso i limiti imposti nella sua conduzione (jus in bello) dalla faticosa e sempre reversibile opera di "razionalizzazione e umanizzazione della guerra" (Schmitt 1991). Il secondo, simboleggiato dalla regola pacta sunt servanda, muove dal riconoscimento che "tra gli stati così come tra gli individui, la cooperazione può avere luogo soltanto sulla base di accordi, e gli accordi possono svolgere pienamente la propria funzione nella vita sociale solo sulla base della presunzione che, una volta stretti, saranno rispettati" (Bull 1977, 19). Il terzo obiettivo, la stabilizzazione del possesso, si esprime nel riconoscimento reciproco della sovranità, in virtù del quale ciascuno stato accetta la sfera di giurisdizione degli altri.

Nella sua opera più ambiziosa, The Anarchical Society, Bull etichetta le regole preordinate al raggiungimento di questi obiettivi come "regole di coesistenza" (Bull 1977, 69-70). Nell'architettura della società internazionale, quello che spetta loro è un posto mediano. Al di sopra di esse sta quello che Bull (1977, 67) definisce "il principio normativo fondamentale o costituzionale della politica mondiale nella nostra era", quello che stabilisce chi sono i soggetti politici e giuridici della coesistenza: "l'idea della società di stati come principio normativo supremo dell'organizzazione politica dell'umanità, al posto di idee alternative quali quella di un impero universale, o di una comunità cosmopolitica di singoli esseri umani, o di uno stato di natura e di guerra hobbesiano" (Bull 1977, 67-68).

Al di sotto, invece, sta ciò che ha monopolizzato l'interesse della maggior parte delle teorie istituzionalistiche contemporanee: il "complesso di regole preordinate a regolare la cooperazione tra gli stati - tanto su scala universale quanto su scala più limitata - oltre ciò che è necessario per la mera coesistenza" (Bull 1977, 70). Tali regole, cresciute nell'ultimo secolo fino ad abbracciare la dimensione economica, sociale, ambientale e delle comunicazioni, sono sì rivolte a "obiettivi più avanzati o secondari, propri di una società internazionale nella quale si è raggiunto il consenso su obiettivi più ampi di quelli della mera coesistenza"; ma, questo è il punto, il perseguimento di questi obiettivi dipende ancora dal soddisfacimento di quelli più elementari, anzi va valutato sulla base della capacità di contribuire o facilitare il loro raggiungimento.

Le istituzioni, scrive ancora Bull (1977, 53-57), sono ciò che consente di rendere effettive tutte queste regole, creandole, amministrandole, interpretandole, legittimandole, adattandole al mutamento e imponendole con la minaccia o l'uso della forza. In una società anarchica come quella internazionale, la responsabilità di questi compiti non può che cadere sugli stati stessi i quali, non a caso, sono indicati da Bull (1977, 71) - in forma scopertamente paradossale - come "le principali istituzioni della società di stati". Sennonché, a fianco della gerarchia delle regole, Bull sembra porre una analoga gerarchia di istituzioni. Al di sotto degli stati, infatti, egli colloca quelle altre istituzioni di cui gli stati si servono per svolgere, in collaborazione tra loro, i propri compiti. "Tali istituzioni" chiarisce Bull (1977, 74) "non privano gli stati del loro ruolo centrale nello svolgere le funzioni politiche della società internazionale, né servono da surrogato della mancanza di una autorità centrale nel sistema internazionale. Piuttosto, esse sono espressione dell'elemento di collaborazione tra gli stati nello svolgimento delle loro funzioni - e allo stesso tempo un mezzo per sostenere questa collaborazione. Queste istituzioni servono a simboleggiare l'esistenza di una società internazionale che è più della somma dei suoi membri, a dare sostanza e permanenza alla loro collaborazione nello svolgimento delle funzioni politiche della società internazionale e a moderare la loro tendenza a perdere di vista gli interessi comuni".

Sono queste ultime le vere e proprie "istituzioni della società internazionale" moderna, quelle che "dal punto di vista tecnico erano necessarie (...) per poter mantenere l'ordine e - cosa particolarmente importante in una società così dinamica e in piena espansione - per riuscire a far fronte ai cambiamenti" (Bull e Watson 1994, 26). Il loro elenco e la loro articolazione variano di poco da uno studioso e all'altro. Al vertice sta ciò che consente alla società internazionale di mantenere la propria natura, vale a dire, di sopravvivere come società pluralistica. "Un sistema interstatale" scrive Martin Wight (1977, 149) "è la più debole delle organizzazioni politiche che conosciamo (...). Tuttavia, come tutte le organizzazioni politiche, anche il sistema interstatale ha i mezzi per difendere i suoi interessi comuni. (...) Il mezzo attraverso il quale il sistema interstatale ha difeso i propri interessi comuni è il sistema dell'equilibrio di potenza". È vero che l'equilibrio può sempre "sorgere in modo fortuito in un sistema internazionale, senza l'idea che esso debba servire a interessi comuni e senza alcun tentativo di regolarlo o istituzionalizzarlo" (Bull 1977, 65). Ma, come di consueto - e senza mai annullare, sia chiaro, la tensione - nel passaggio dal sistema alla società anche l'equilibrio si trasforma da risultato inintenzionale della politica degli attori a principio condiviso; da semplice prassi, appunto, a istituzione. Proprio qui sta la singolarità della convivenza internazionale degli ultimi secoli. "L'idea dell'equilibrio di potenza" scrive Butterfield (1966, 133) "non solo non esisteva nel mondo antico", anche quando una politica di equilibrio veniva di fatto (e inconsapevolmente) perseguita, "ma non sorse neppure dallo studio moderno dell'esperienza antica". Perché potesse avvenire la sua acquisizione consapevole furono necessarie, al contrario, le esperienze storiche e intellettuali dell'età moderna - quelle che consentirono di rappresentare il sistema di stati come la "controparte terrestre del sistema astronomico newtoniano".

Il secondo tipo di istituzioni è quello preordinato non a preservare la pluralità, ma a limitare la competizione. La principale di esse, nonché la "prova essenziale" dell'esistenza di una società internazionale (Wight 1978, 107), è il diritto internazionale, a cui spetta di "assicurare la prevedibilità della condotta degli stati indipendenti, in luogo dello stato di confusione e di incertezza" (Bull e Watson 1994, 26) che prevarrebbe e, storicamente, tende a prevalere in sua assenza. Ma, all'ombra del diritto internazionale, come sua costante e originaria preoccupazione, sta la trasformazione della guerra stessa in istituzione, vuoi in quanto essa è chiamata a svolgere un ruolo essenziale nel mantenimento dell'ordine internazionale (imponendo il diritto, preservando l'equilibrio di potenza, consentendo il mutamento) (Bull 1977, 188-189), vuoi in quanto, nello svolgimento di queste funzioni, è vincolata a propria volta a precisi limiti - nella legittimità, poiché non è possibile ricorrervi se non in nome di ciò che in ciascuna epoca è riconosciuto come "giusta causa"; nella conduzione, poiché l'obiettivo sociale della limitazione della violenza richiede che siano tracciati limiti spaziali e temporali allo scontro, per preservare almeno i neutrali e i non combattenti; nella titolarità, soprattutto, perché a differenza di quanto avverrebbe nello stato di natura hobbesiano l'universo della guerra non è accessibile a chiunque abbia la forza di combatterla, ma solo a chi assuma la forma politico-giuridica della Stato. "Lo sviluppo del concetto moderno della guerra come violenza organizzata fra Stati sovrani è stato il risultato di un processo di limitazione e confinamento della violenza. Noi siamo abituati, nel mondo moderno, a contrapporre la guerra fra Stati alla pace fra Stati; ma la vera alternativa storica alla guerra tra Stati è una violenza più diffusa" (Bull 1977, 185).

Un terzo gruppo è costituito dalle istituzioni necessarie ad amministrare la società internazionale e le sue norme. Fra queste, la più durevole e la meno controversa è la prassi dei congressi chiamati a dirimere o regolare i contrasti fra gli stati, oppure a porre fine alle guerre dettando i principi e le norme dell'ordine internazionale successivo. Ma, oltre che a questi congressi ai quali sono invitati (pur con ruolo e rango diversi) tutti i membri della società internazionale, la natura di istituzione è attribuita anche a ciò che il realismo ortodosso considera l'espressione per antonomasia della realpolitik: il sistema delle grandi potenze, almeno in tanto in quanto alla loro posizione si accompagni il riconoscimento di status, diritti e responsabilità particolari. "Il sistema europeo moderno" scrive Wight (1977, 42) "pur formulando il principio dell'eguaglianza degli stati, l'ha modificato stabilendo la classe delle grandi potenze. Dal 1907, se non dal 1815, le loro responsabilità e i loro privilegi sono stati riconosciuti nel diritto internazionale"; anzi non è azzardato dire che l'apogeo di questo riconoscimento sia proprio l'attribuzione del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Infine, ci sono le istituzioni necessarie ad assicurare che, anche in una società divisa come quella internazionale, gli stati possano comunicare regolarmente tra loro. La comunicazione, infatti, sarebbe superflua solo nel caso in cui non ci fossero contatti tra le unità - vale a dire, solo nel caso in cui non ci fosse un sistema internazionale. Ma non appena un sistema sorge, e fino a che non viene meno, qualche forma di comunicazione tra le unità deve essere assicurata. "Il sistema diplomatico" scrive Wight (1978, 113) "è l'istituzione fondamentale delle relazioni internazionali. (...) Probabilmente tutte le civiltà hanno conosciuto l'uso di ambasciatori tra potenze indipendenti", nella forma di messi, araldi, messaggeri inviati ad hoc presso i propri interlocutori. Sennonché, nella convivenza internazionale moderna, questo dialogo diplomatico si è progressivamente istituzionalizzato, grazie a geniali innovazioni quali l'istituzione delle ambasciate permanenti nell'Italia del XV secolo, il riconoscimento dell'extraterritorialità all'epoca di Luigi XIV, l'emergere del corpo diplomatico nel XVIII secolo (Bull 1977, 166). A questo grado di sviluppo, la diplomazia "non presuppone più soltanto l'esistenza di un sistema ma anche quella di una società internazionale" (Bull 1977, 167).

3. Istituzioni e potere

L'interesse per le istituzioni costitutive della società internazionale e l'indifferenza verso le istituzioni più recenti quali la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite - "pseudo-istituzioni", come si spinge a definirle Wight - collocano la scuola inglese in una posizione defilata rispetto al dibattito attuale sulle istituzioni. Ma neppure questo è sufficiente a sottrarre il British Committee al problema centrale di questo dibattito: quello del rapporto tra istituzioni e potere. Proprio qui sta, anzi, il punto più critico della riflessione inglese. Sebbene, a differenza che nel realismo ortodosso e nel neorealismo la power politics venga immersa e, in qualche misura, trattenuta in una rete di istituzioni, a differenza che in altre teorie istituzionalistiche questa rete viene riconosciuta come fragile, vulnerabile, sempre aperta dal lato del potere. Il sistema interstatale, ammette Wight (1978 149), ha sì i propri mezzi per difendere i suoi interessi comuni; "sennonché, a causa della sua debolezza e incoerenza, questi mezzi hanno buone possibilità di essere solo imperfettamente efficienti e di esistere più nel regno delle aspirazioni che nella realtà".

Su questo punto, la riflessione di Martin Wight, Hedley Bull e Adam Watson si fa sfuggente, ambigua, a volte persino contorta. Gli studiosi inglesi, infatti, hanno buon gioco a celebrare nella diplomazia una istituzione capace di vincolare anche i Paesi forti - tanto che, a minacciarla, non vedono tanto le diseguaglianze di potere quanto l'emergere di soggetti che, in nome di un credo rivoluzionario, la rifiutano in quanto simbolo e strumento della normalità politica internazionale (Wight 1978, 115-119) (2). Anzi la stessa capacità di porre un freno alla Realpolitik, indipendentemente dalle differenze di potere fra gli attori, la rintracciano nella più paradossale e apparentemente problematica istituzione della società internazionale, la guerra, almeno in tanto in quanto questa resti - come era prima del Covenantdella Società delle Nazioni, ma come tende a non essere più - una "relazione legittima tra gli stati, indifferentemente dalla giustizia della sua origine" (Wight 1978, 109-110).

Ma le cose si complicano, e di molto, quando si passa alle altre istituzioni della società internazionale. Così, trattando dell'equilibrio di potenza, sia Butterfield che Bull sembrano vedere nella reciprocità il punto di passaggio da regola di saggezza politica a istituzione. Il principio dell'equilibrio, scrive il primo (Butterfield 1966, 140-141), "ha prescritto dei limiti all'egoismo e all'ambizione, e il freno ha effettivamente funzionato. (...) Naturalmente, anche all'interno di questo sistema era possibile essere egoisti, ma persino l'egoista era costretto a fingere di seguire il principio dell'equilibrio di potenza, a dimostrazione che quello era, in ogni caso, lo standard condiviso". Bull sembra ancora più deciso: il principio dell'equilibrio, scrive (Bull 1977, 106), "implica che ciascuno stato non debba operare soltanto per frustrare la minaccia della preponderanza di qualcun altro, ma debba riconoscere anche la responsabilità di non pregiudicare l'equilibrio come tale; esso implica una autolimitazione tanto quanto una limitazione degli altri". Ma subito dopo è costretto ad ammettere che, se questo è vero per i rapporti delle grandi potenze fra loro, questo non vale per i loro rapporti con le potenze minori. "Il principio del mantenimento dell'equilibrio di potenza ha avuto indubitabilmente la tendenza a operare a favore delle grandi potenze e a spese delle piccole. (...) Quando uno stato è preponderante, può avere l'opportunità di violare i diritti degli altri stati, senza timore che questi possano replicare violando i suoi" (Bull 1977, 107-108). L'autolimitazione rimane, per così dire, un freno a metà, capace di trattenere in una direzione ma a prezzo di svincolare nelle altre. Neppure come istituzione l'equilibrio può sostituire le diseguaglianze di potere, anzi è solo grazie a esse che esso può essere creato, amministrato, difeso.

Lo stesso vale, più sorprendentemente, per il diritto internazionale. Il rapporto essenziale tra questo e la società fa sì che vengano rigettate a proposito del primo le stesse due posizioni estreme che erano già state rigettate a proposito dell'altra: quella di coloro che negano che sia vero diritto e quella di coloro che ritengono che sia solo il primo stadio di un diritto che diventerà simile a quello interno. "Il diritto internazionale è un tipo particolare di diritto, il diritto di una società politicamente divisa in una molteplicità di stati sovrani" (Wight 1978, 107-108). Ma qui sta anche la sua permeabilità ai rapporti di potere, ciò che non soltanto lo priva di autosufficienza nella produzione di pace e ordine ma, soprattutto, lo condanna all'irrilevanza ogni volta che pretenda di entrare in conflitto, invece di assecondarli, con gli interessi e gli obiettivi degli stati più forti (Bull 1977, 141). Qui l'intonazione di Bull si ricongiunge quasi del tutto con quella realista, sebbene con l'intenzione non di liquidare il diritto internazionale, ma di salvarlo: " (...) contrariamente a molte riflessioni superficiali su questo tema, questa tendenza del diritto internazionale a conformarsi alla power politics non è uno sfortunato e rimediabile difetto che sarebbe il caso di rimuovere grazie al prezioso lavoro di qualche illuminato professore di diritto internazionale o a qualche ingegnoso rapporto della Commissione di Diritto Internazionale. Ci sono buone ragioni per ritenere che questa caratteristica del diritto internazionale, che lo mette in disaccordo con la giustizia elementare, sia tuttavia vitale per il suo funzionamento; e che, se cessasse di avere questa caratteristica, il diritto internazionale perderebbe contatto con la realtà internazionale al punto da non essere più in grado di svolgervi alcun ruolo" (Bull 1977, 92).

Ma il rapporto tra istituzione di potere si stringe ancora, fino quasi all'equivalenza, nel caso di quella strana ma vitale istituzione che è il sistema delle grandi potenze. Qui la diseguaglianza non è più soltanto una forza che non può essere trattenuta, ma è la sostanza stessa dell'istituzione. Come sarebbe possibile, d'altra parte, garantire l'ordine della società internazionale senza riservare a qualcuno il compito di dichiarare, amministrare e difendere gli interessi "sociali"? E chi altri potrebbe svolgere questo compito se non le potenze che possiedono le maggiori risorse? Esse, scrive Bull (1977, 206-207) "contribuiscono, semplicemente in virtù della loro maggiore forza, a semplificare le relazioni internazionali. (...) Le grandi potenze contribuiscono all'ordine internazionale in due modi principali: gestendo le relazioni fra di loro e sfruttando la propria preponderanza in modo da dare un certo grado di direzione centrale agli affari della società internazionale come insieme". Ma Bull non si nasconde che, nello svolgimento di questo compito, le grandi potenze tendano a piegare gli interessi "sociali" ai propri, violando gli interessi e qualche volta persino i diritti dei più deboli (Bull 1977, 92-93), ignorando le loro richieste, inserendo nell'agenda internazionale solo i temi e i conflitti che riguardano i più forti e i loro alleati (tanto che proprio in questo sembra consistere, alla fine, la loro opera di semplificazione); non si nasconde, in altre parole, che nello svolgimento dei compiti sociali le grandi potenze fanno le stesse cose che farebbero anche qualora la società internazionale non esistesse.

Il ruolo delle istituzioni rimane ambiguo, fragile, quasi imprendibile. Sarà pur vero che esse consentono di "mettere in forma" - per impiegare una espressione che non è di Martin Wight, ma di Carl Schmitt (1991) - le diseguaglianze di potere e il loro "scatenamento" senza freni - in ultima istanza (storicamente: in prima), la guerra civile. Ma è sufficiente questo a dire che le istituzioni si frappongono "tra i fattori causali fondamentali da un lato e i risultati e i comportamenti dall'altro" (Krasner 1986, 131)? In che cosa si differenzia l'ordine prodotto dalle istituzioni internazionali da quello che sarebbe comunque prodotto dalla diversa "distribuzione delle potenzialità" (Waltz 1987)? Le istituzioni internazionali, come si richiede normalmente alle istituzioni (Lanzalaco 1996), sono in grado di ridefinire la gerarchia di potenza tra gli attori? Oppure ciò che si può chiedere loro sono altre cose, non necessariamente poco importanti, ma comunque lontane dall'obiettivo - irraggiungibile, pare di capire, anzi controproducente - di disattivare il gioco "realistico" delle diseguaglianze di potere?

Sebbene con differenze crescenti fra di loro e nello stesso percorso intellettuale di ciascuno, i membri del British Committee sembrano propendere per una risposta più prudente di quella di altre, più recenti teorie istituzionalistiche. Le istituzioni sono sì chiamate a simboleggiare e a perpetuare il senso di un interesse "comune" della società internazionale - ma non al punto di subordinare o addirittura annullare i diversi interessi "nazionali"; trasformano sì la competizione internazionale in qualcosa di diverso da come sarebbe e da come torna a essere ogniqualvolta venga smarrito (proprio come nell'Europa della Guerra Fredda) il senso di una società internazionale comune - ma non al punto di impedire che i forti, quando lo vogliono, prevarichino sui deboli; assicurano, insieme alla sopravvivenza della società internazionale, anche quella della pluralità degli stati che la compongono - ma non al punto di evitare che alcuni di essi (come la Polonia all'epoca delle spartizioni settecentesche) siano sacrificati in nome dell'interesse, o dell'equilibrio, "comune".

Rispetto alla posizione dei critici realisti delle istituzioni internazionali, da una parte, e a quella delle teorie istituzionalistiche dell'ultimo decennio, dall'altra, quella inglese rimane davvero una via media (Wight 1966, 89-131; 1994) - più elegante, forse, lontana dalle petizioni di principio delle vie estreme, ma sdrucciolevole quel tanto che basta per rischiare sempre di franare su una delle due.

4. Conclusioni. Scomposizione e crisi della società internazionale

L'esperienza del British Committee si chiude pochi anni prima della fine della Guerra Fredda e, quindi, dell'ancora indecifrabile contesto internazionale che gli è succeduto. Ma questo non significa che le sue riflessioni non possano aiutare altri a comprendere la crisi attuale della società internazionale, a partire proprio dalla pressione irresistibile che sul suo fragile tessuto istituzionale esercita l'inedita distribuzione del potere del sistema internazionale post-bipolare: la supremazia politica e militare di una sola potenza. Investite sul fianco sul quale sono sempre state più esposte, le istituzioni internazionali sperimentano una volta ancora la propria impossibilità di entrare in conflitto, invece di assecondarla, con la distribuzione esistente del potere; sennonché, in una condizione storica nella quale questa distribuzione è la più ineguale possibile, persino i principi fondamentali della società internazionale (la sovranità, l'eguaglianza, la non ingerenza) tendono a cadere nelle mani del più forte.

Ma l'impatto di questa concentrazione di potere senza precedenti non sarebbe altrettanto profondo se l'architettura istituzionale chiamata a reggerne il peso non avesse già perso, nel frattempo, la propria coesione e la propria coerenza. Di questa scomposizione, che costituisce il nucleo della loro riflessione, gli studiosi inglesi intravedono le tracce ben prima del collasso dell'ordine bipolare, tanto da farne il contrassegno vero e proprio delle relazioni internazionali del Novecento. La storia internazionale del Novecento, scrive Bull (1977, 258), "può essere concepita come il tentativo prolungato di affrontare il drastico declino dell'elemento societario delle relazioni internazionali causato dall'unico, catastrofico "incidente" della Prima Guerra Mondiale".

Da questa prospettiva storica, la fine del bipolarismo appare, più che come la fonte del nuovo disordine internazionale, come una semplice (sebbene distruttiva) condizione permissiva. Il suo principale effetto è, infatti, quello di liberare le correnti di decomposizione che la Guerra Fredda aveva fortunosamente trattenuto, ma senza potere evitare che esse continuassero a scavare sotto le fondamenta della società internazionale moderna fino a fare scricchiolare, uno dietro l'altro, i suoi basamenti: la vocazione scettica nei confronti dei richiami all'unità e alla giustizia (regrediti, da ideale dell'ordine medievale, a equivalente internazionale del "dispotismo" interno, la prima, e addirittura a terreno di coltura della guerra civile, la seconda); la centralità (non soltanto politica, economica e militare ma, per effetto di ciò, anche istituzionale) dell'Europa e dell'Occidente; la capacità dello stato e delle istituzioni dello states system di continuare a svolgere le proprie funzioni "sociali".

La prima di queste correnti di decomposizione e, per molti versi, la più controversa, è l'affermazione e lo sviluppo di una visione alternativa e inconciliabile dell'ordine internazionale, fondata non più sul particolarismo della società degli stati ma sull'universalismo della cosiddetta società globale. Né Wight, alle origini dell'esperienza del Committee, né Bull verso la sua fine sembrano nutrire troppa fiducia in questo processo: in parte perché non ne riconoscono la novità, né sul piano dei principi né, tanto meno, su quello dell'esperienza storica; in parte perché non sembrano disposti a riconoscere nella cosiddetta "società globale" qualcosa di simile a una società; in parte perché, attenti come sono al riemergere delle differenze culturali, riconoscono nell'universalismo di tanti radicalismi intellettuali un riflesso anacronistico e, suo malgrado, nostalgico della centralità europea.

Ma quello che li allarma più di tutto è che, nella diffusione di principi e di norme universalistiche, essi intravedono un pericolo mortale per la società degli stati. Una volta riconosciuto che le nuove norme non sorgono da un deserto istituzionale, bensì da una architettura secolare di istituzioni e che, pertanto, quella che è in gioco non è l'opposizione un po' millenaristica tra ordine e anarchia ma, se mai, la transizione - o la ricerca di un nuovo equilibrio - fra due diversi assetti istituzionali, l'interrogativo centrale diventa quello della loro compatibilità: che cosa comporta il progresso del nuovo assetto istituzionale sulla tenuta del vecchio? Il riemergere di una visione universalistica dell'ordine e del diritto aumenta davvero il grado di istituzionalizzazione della vita internazionale oppure, nello stesso momento in cui lo aumenta in certe dimensioni, lo diminuisce proprio in quelle più fondamentali? Richiamandosi esplicitamente al suo maestro, Bull (1977, 151) riconosce proprio in questo l'aspetto più problematico dell'evoluzione attuale del diritto e della società internazionale: "questo «progresso» del diritto internazionale si è davvero riflesso in un rafforzamento del ruolo svolto dal diritto in rapporto all'ordine internazionale? Martin Wight ha sottolineato come i periodi nei quali le pretese del diritto internazionali sono più esorbitanti e altisonanti siano anche i periodi nei quali le relazioni internazionali effettive risultano più disordinate, mentre nei periodi nei quali le relazioni internazionali effettive sono relativamente ordinate, le pretese del diritto internazionale sono più modeste. (...) Non è che il «progresso» del diritto internazionale attuale, così come viene percepito dai giuristi internazionalisti, non sia niente di più che la sua protesta montante contro la realtà della politica internazionale"?

Sebbene con diversi accenti, Wight e Bull non sembrano nutrire dubbi sulla risposta. Da un lato, in quanto sia l'uno che l'altro restano convinti della sostanziale "incompatibilità dell'ideale cosmopolita con l'esistenza di un sistema interstatale" (Wight 1977, 88). "Le idee di una giustizia mondiale o cosmopolita sono pienamente realizzabili, ammesso che lo siano, solo nel contesto di una società mondiale o cosmopolita. (...) Ma promuovere l'idea di una giustizia mondiale nel contesto del sistema e della società di stati significa entrare in conflitto con gli strumenti attraverso i quali l'ordine è attualmente mantenuto" (Bull 1977, 88).

Dall'altro lato, ciò che li preoccupa è la capacità della società internazionale di reggere il peso di richieste sempre più ambiziose senza smarrirsi in un labirinto di legittimità - tanto più insidioso in un contesto, come l'attuale, nel quale l'incertezza sui principi si traduce in un aumento della discrezionalità del più forte. Per la stessa ragione per la quale le dà una forma caratteristica, infatti, la dimensione istituzionale impone alla società internazionale moderna anche una soglia massima di mutamento, oltre la quale non le è possibile andare (neppure volendolo) senza diminuire la propria coerenza, indebolirsi e, alla fine, perdere la capacità di dare ordine e forma alla convivenza. Come ammonisce Bull (1977, 140-141), "nella grande società dell'umanità l'ordine potrebbe, in linea di principio, essere ottenuto in molti altri modi oltre che attraverso una società di stati sovrani, la quale non è storicamente inevitabile né moralmente sacrosanta. Se l'umanità fosse organizzata come uno stato cosmopolita, o come un impero universale, o secondo qualche altro principio, il diritto farebbe la sua parte nell'identificare questo altro principio come quello fondamentale o originario. Ma ciò che è incompatibile con l'ordine su scala globale è un intrico di principi alternativi di organizzazione politica universale, come quello che esisteva in Europa all'epoca delle guerre di religione".

A rendere ancora più insidioso questo conflitto di legittimità contribuisce la seconda corrente di decomposizione, che investe la società internazionale non nel suo principio pluralistico ma nel suo (comune) basamento culturale (Colombo 1999). La società attuale è ancora oppure no fondata su una cultura comune e, in caso contrario, ha qualche prospettiva di sopravvivere? E' davvero in corso di disintegrazione, per il solo fatto di essersi allargata oltre la sua base europea originaria? Oppure sta trovando una nuova base nella cultura cosmopolita della cosiddetta modernità, qualunque sia, poi, il rapporto tra quest'ultima e l'esperienza occidentale?

La questione dei rapporti - costitutivamente ambigui (James 1993) - tra cultura mondiale e società internazionale diventa, col tempo, il principale argomento di discussione e, perché no, di divisione nel British Committee. Se, infatti, non manca chi riconosce che la percezione di interessi comuni può portare all'invenzione di regole "anche in assenza di una cultura comune che le contenga già" (Bull e Watson 1994, 454), né chi si spinge ad affermare che una cultura globale si è già formata, grazie alla costante crescita della "simpatia" fra le élite (Dore 1994, 427-444), il pessimismo di Wight trova persino nuovo vigore nell'immagine che Adda Bozeman (1994, 405-426) offre di un contesto internazionale irrimediabilmente diviso in "una pluralità di quadri di riferimento" (Bozeman 1994, 409), all'interno del quale sarebbe ormai impossibile trovare terreni (anche istituzionali) comuni.

Rispetto alla tesi più recente dei "conflitti di civiltà" (Huntington 1993; 1996), qui il riemergere dell'eterogeneità culturale (Aron 1970) si precisa, viene messo in relazione con la tenuta dell'ossatura istituzionale della società internazionale invece che, direttamente, con il futuro del conflitto e della guerra ma, soprattutto, viene strappato dall'empireo dei destini geo-storici di ostilità (come in tante profezie correnti sui rapporti fra Occidente e Islam) per essere ricollocato in una vicenda storica specifica, che altro non è poi che il riflusso e l'immagine capovolta dell'espansione europea: la "rivolta contro l'Occidente" (Bull 1994). Di questa vicenda, che ha accompagnato l'intero Novecento, l'affermazione delle identità culturali e la liberazione dall'influenza intellettuale o culturale del mondo occidentale costituiscono la fase terminale, non solo perché estranea alle idee e ai valori di per sé occidentali in nome dei quali erano ancora state condotte le fasi precedenti (Bull 1994, 230-234), ma perché direttamente rivolta contro la vocazione universale della società internazionale di matrice europea.

La reviviscenza dei principi universalistici contro cui era sorta, da un lato, e la lenta erosione del fondamento occidentale che ne aveva accompagnato e consolidato l'espansione, dall'altro, restringono l'area di consenso di cui la società internazionale ha bisogno, fino a rimettere in discussione la sua legittimità. Ma una corrente persino più dirompente di crisi è quella che la scuote nella sua stessa effettività - vale a dire, nella sua capacità di soddisfare gli obiettivi elementari e primari dell'ordine nella convivenza internazionale. Nel corso del Novecento, nessuna delle principali istituzioni della società internazionale ha potuto sfuggire a questa corrente: non la diplomazia, i cui standard tradizionali, scrive Wight (1978, 120), "hanno probabilmente raggiunto il loro livello più alto durante il secolo prima del 1914", mentre "da allora sono nettamente declinati"; non il diritto internazionale che, a mano a mano che ha preteso di riorganizzarsi attorno a una idea sostantiva di giustizia, è caduto vittima della mancanza di consenso sui suoi contenuti (Bull 1977); non la guerra, soprattutto, che ha patito per tutto il corso del secolo un impressionante processo di de-istituzionalizzazione, tanto sul versante della titolarità - per l'irruzione di una pletora di soggetti diversi dagli stati - quanto su quello della conduzione - per la continua erosione del confine tra combattenti e non combattenti e di quello ancora più comprensivo tra pace e guerra.

Ma il vero punto cardinale della tenuta e, quindi, della possibile crisi dello states system rimane, naturalmente, lo stato - cioè l'istituzione per eccellenza della società internazionale. Come la maggior parte della riflessione contemporanea sulle relazioni internazionali, Bull (1977, 246-276) non si nasconde che anche la sua presa sulla politica internazionale è indebolita e, forse, già parzialmente sfidata da fenomeni quali i processi di integrazione regionale, le nuove ondate di disgregazione territoriale, la crescita delle organizzazioni transnazionali, la globalizzazione economica e tecnologica, l'appropriazione della guerra da parte di gruppi non statuali le cui pretese all'uso legittimo della violenza, per di più, "sono considerate legittime da una parte considerevole della società internazionale" (Bull 1977, 269).

A differenza che nell'intonazione prevalente dei discorsi sul superamento della sovranità, tuttavia, Bull non sembra nutrire troppa fiducia né nell'esistenza di principi e norme più efficaci né, tanto meno, nella possibilità di passare dall'una agli altri senza passare dalle stesse convulsioni politiche e giuridiche che hanno sempre accompagnato la transizione da un modello di convivenza internazionale a un altro - come la nascita stessa dello states system europeo. Quello che lo consola, se mai, è che i segnali di crisi dello stato gli sembrano ancora deboli e, comunque, tutt'altro che decisivi. Sarà pur vero, per esempio, che il processo di integrazione europeo sta sottraendo agli stati prerogative essenziali della sovranità: ma non è detto che l'esito del processo non somigli, a propria volta, a un super-stato, mentre è certo che niente di paragonabile sta avvenendo comunque al di fuori dell'Europa (Bull 1977, 266). E che dire della disgregazione territoriale? È fuori di dubbio che essa segni il fallimento di uno stato; sennonché, al suo posto, quelli che nascono sono pur sempre nuovi stati. (Bull 1977, 267). Per non parlare, poi, della pretesa novità delle relazioni e dei soggetti transnazionali. Le imprese multinazionali hanno un fatturato maggiore di quello di molti piccoli stati del Terzo Mondo? Ma nessuna di esse ha un peso neppure lontanamente paragonabile alla Compagna delle Indie e, comunque, esse continuano a dipendere per il loro operato da un minimo di pace e ordine che soltanto gli stati possono procurare.

E tuttavia neppure questo gli impedisce di intravedere, sullo sfondo della sempre possibile o già latente crisi dello stato, l'eventualità dell'emergere di "un sistema di autorità sovrapposte e di lealtà multiple" (Bull 1977, 254) che riporterebbe la convivenza internazionale a ciò che esisteva prima dello states system: un intreccio di poteri non esclusivi, alcuni sovranazionali e altri sub-statali, tali da privare di significato l'idea della sovranità dello stato sul proprio territorio. In questa condizione - che riecheggia certe immagini più recenti di governance multilivello o di intermestic affairs (Rosenau 1997), ma per la quale Bull preferisce non a caso l'etichetta di "neomedievalismo" (Bull 1977, 254-255; 264-276) - il sistema internazionale non perderebbe più soltanto il proprio elemento societario, come gli era già accaduto più volte in passato e come è normale che accada, periodicamente, nel ciclo ininterrotto di frizioni, ritardi e arretramenti tra sistema e società. Ad andare perduto, questa volta, sarebbe il fondamento stesso del suo modello storicamente eccezionale di convivenza internazionale. Lo states system non entrerebbe in una nuova fase ma, dopo soli tre secoli e mezzo di vita, cesserebbe di esistere.

Riferimenti bibliografici

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Note

*. Da "Rassegna Italiana di Sociologia", 44 (2003), 2, pp. 237-55.

1. Lo stesso Wight sembra a volte sfumare del tutto questa differenza, come quando afferma che "è difficile negare che esista un sistema di stati, e ammettere che c'è un sistema è già quasi ammettere che c'è una società: poiché una società è un insieme di individui uniti in un sistema di relazioni per certi obiettivi comuni" (Wight 105).

2. Dietro a questo rischio Wight vedeva, naturalmente, la "diplomazia rivoluzionaria" della sua epoca, la quale "deforma la triplice funzione della diplomazia: spionaggio al posto dell'informazione, sovversione al posto della negoziazione, propaganda al posto della comunicazione" (Wight 1978, 117). Ma una lesione ancora più clamorosa dell'istituzione diplomatica - proprio in quanto simbolo della normalità della società internazionale di ascendenza occidentale - sarebbe venuta dall'occupazione dell'Ambasciata statunitense a Teheran, nel 1980, all'indomani della rivoluzione khomeinista.