2006

Ius post bellum:
dal Regno del diritto internazionale al Regno dell'ethos liberale globale

Alessandro Calbucci

"nelle azioni di tutti li uomini e massime de' principi, dove non è iudizio da reclamare si guarda al fine"
(Machiavelli, Il Principe)

Lo ius post bellum è la novità che contraddistingue la più recente teoria della guerra giusta. L'analisi che seguirà si prefigge, soprattutto, di mettere in evidenza le conseguenze sovversive per il paradigma della legalità internazionale di questo nuovo criterio di giustizia elaborato da Michael Walzer per allineare la sua teoria della guerra giusta al «rapido ritmo dei cambiamenti politici» che è in corso a livello mondiale. (1)

Più in particolare, l'ipotesi che guida le considerazioni che seguono considera lo ius post bellum come un esempio emblematico di giustificazione di quel disegno sovversivo -noto come unilateralismo interventista- che intende affondare la caravella del diritto internazionale, con le sue fragili istituzioni multilaterali e procedure super partes, per affermare un nuovo ordinamento mondiale fondato su un «ethos liberale globale».

In anni recenti, si è assistito ad un progressivo spostamento dei principali dilemmi morali, politici e giuridici dal prima al dopo guerra. Pertanto, non deve stupire se anche il dibattito politico e intellettuale sulla decisione di intervenire o meno sia stato affiancato da altrettanto intensi dibattiti sulle politiche da attuare dopo l'intervento. (2)

Gli interventi umanitari e le operazioni militari finalizzate alla «lotta al terrorismo» hanno di fatto cambiato significativamente il problema della fine della guerra. L'idea di «ripristino» è stata soppiantata da quella di trasformazione: se la fine di una guerra moderna classica poteva essere definita 'giusta' qualora fosse riuscita a ristabilire lo status quo ante, l'intervento umanitario implica invece una trasformazione post-bellica dello stato precedente l'inizio del conflitto. Si spiega così perchè negli ultimi anni lo scopo dichiarato di 'liberare', 'democratizzare' e 'liberalizzare' sia stato sistematicamente perseguito cercando di «demolire qualcosa d'esistente, per instaurare qualcosa di nuovo».

Dal momento che, dopo la caduta del muro di Berlino, le ragioni e gli interessi delle «nuove guerre» sono diventati sempre più legati ai dopoguerra, la maggior parte dei conflitti armati che hanno registrato un'ingerenza delle potenze internazionali sollevano a fortiori il problema dello ius post bellum, i cui criteri di giustizia si prestano particolarmente a giustificare quella forma di proseguimento dell'intervento umanitario nota come State-building.

In Kosovo, a Timor-Est, e, adesso, in Afghanistan e in Iraq, l'intervento militare, al di là delle differenze significative che si riscontrano tra questi casi, è stato motivato principalmente da preoccupazioni collegate alle conseguenze destabilizzanti per l'ordine internazionale del disordine politico interno che imperava in questi paesi, piuttosto che alle violazioni più o meno massive dei diritti umani delle popolazioni civili. (3) Di conseguenza, dopo una più o meno rapida vittoria militare in virtù di un'evidente asimmetria tra le forze in campo, la vera sfida delle diverse coalizioni che di volta in volta sono intervenute (ONU, NATO, o Stati Uniti e Willing States) è diventata la creazione di forme di governo relativamente stabili in grado di garantire ai rispettivi cittadini i servizi e la sicurezza minimi nel rispetto del rule of law, e di prevenire la propagazione della violenza e la creazione di «cattivi vicinati». Oggi, quindi, valutare l'esito degli interventi militari significa in primo luogo esaminare i risultati della trasformazione raggiunta attraverso la cosiddetta «ricostruzione materiale ed istituzionale» (State-building).

All'interno di questo nuovo scenario internazionale, la teoria dello ius post bellum («giustizia nella fase post-bellica»), termine coniato da Walzer, svolge anzitutto la funzione di una giustificazione di 'salvataggio' volta a legittimare retrospettivamente anche le guerre 'ingiuste', evocando esplicitamente il principio machiavelliano secondo cui «conviene bene, che, accusandolo il fatto, lo effetto lo salvi» (4). La teoria politica democratica, poco rilevante nella discussione sullo ius ad bellum e lo ius in bello, fornisce invece, secondo il filosofo statunitense, i principi fondamentali per la discussione dei risultati e la definizione della giustizia postbellica. Di conseguenza, così come i criteri di giustizia classici della teoria della guerra giusta, anche i criteri dello ius post bellum non appartengono alla sfera del diritto, ma sono di natura esclusivamente etico-politica. In sintesi, «legittimità del governo instaurato» e «conclusione del conflitto» sono i due criteri centrali dello ius post bellum che a posteriori possono consentire di rivedere il bilancio morale della giustizia complessiva di un intervento armato.

Tuttavia, se da un lato è più che mai auspicabile che la politica riconquisti un ruolo significativo nella fase di ricostruzione post-bellica (5); dall'altro è contestabile che all'alba del ventunesimo secolo si intenda ancora ricorrere esclusivamente a criteri morali e ad obiettivi politici per giustificare l'uso della forza armata, senza alcun riferimento al diritto internazionale.

Il conflitto in corso in Iraq è il caso paradigmatico per valutare le potenzialità sovversive di questo nuovo criterio della teoria della guerra giusta. La guerra «preventiva» contro lo Stato iracheno si presenta non solamente illegale secondo gli standard del diritto internazionale in vigore, ma anche ingiusta secondo i criteri classici della teoria della guerra giusta. Tuttavia, Walzer - facendo ricorso proprio ai princìpi dello ius post bellum- non esita a concludere che potrebbe trasformarsi in una guerra giusta, o per lo meno accettabile e «giustificabile», qualora l'occupazione della Coalizione guidata dagli Stati Uniti si risolvesse in un governo (formalmente) eletto dal popolo iracheno e che agisca per il suo bene. Secondo la logica dello ius post bellum, infatti, se il governo imposto nella fase postbellica è «minimamente» democratico e procede con rapidità ad aprire l'arena politica e ad organizzare elezioni libere, esso può far facilmente dimenticare come è stato imposto (6).

Alla luce delle sue implicazioni, lo ius post bellum, in particolare se concepito separatamente dallo ius ad bellum, si profila in ultima istanza come una risorsa ulteriore a disposizione della teoria walzeriana della guerra giusta per giustificare oltre alle guerre ingiuste secondo i due parametri standard dello ius ad bellum e dello ius in bello, anche le occupazioni militari post-intervento, in forma di protettorati o amministrazioni fiduciarie. In definitiva, l'introduzione dei princìpi dello ius post bellum conferma la tendenza insita nella teoria della guerra giusta a trasformarsi da discorso critico sulla guerra in una sua legittimazione in termini di guerra «umanitaria», e, nel caso dei conflitti in Afghanistan e in Iraq, di guerra «libertaria» combattuta in nome di un Enduring (American) Freedom, contro i suoi presunti «nemici».

A questo riguardo, Habermas ha osservato proprio come l'attuale politica internazionale degli Stati Uniti e dei suoi volenterosi alleati si fondi su una forma di «liberalismo egemonico» che sembra perseguire la creazione di un «nuovo ordine mondiale» di Stati liberali formalmente indipendenti, in cui la società mondiale viene integrata mediante il mercato e la pace viene garantita non dal diritto internazionale, ma dal superpotere statunitense. (7) All'interno di questo disegno politico, lo ius post bellum svolge la funzione decisiva di riabilitazione dell'uso politico della forza armata. Del resto, definitivamente messa al bando come «flagello» dall'ordinamento internazionale fondato sulla Carta delle Nazioni Unite, la guerra ridiventa 'possibile' solo all'interno di un nuovo ordine mondiale «confessionale», in cui la nuova confessione è il mercato e i nuovi criteri di legittimità sono dettati non dal diritto vigente, bensì da una vera e propria «morale di grande potenza liberale».

Quanto anacronistico sia questo progetto politico, lo conferma il fatto che la ratio soggiacente allo ius post bellum richiama direttamente il senso letterale delle parole scritte circa cinque secoli fa da Machiavelli: «dove non vi è iudizio [ovvero, diritto] da reclamare, si guarda al fine» (8).

Se poi si passa a considerare la realtà internazionale, e si pensa alla posizione che ha assunto il Consiglio di Sicurezza in merito alla guerra in Iraq, evitando, nonostante l'ambiguità della Risoluzione 1441, di autorizzare esplicitamente un'azione militare contraria al diritto internazionale, e rifiutandosi poi di legittimare a posteriori l'intervento, si può cogliere bene il carattere radicalmente sovversivo della teoria dello ius post bellum. Un breve riepilogo delle decisioni e dei comportamenti adottati dalle Nazioni Unite rispetto agli ultimi conflitti armati internazionali può contribuire a chiarire ulteriormente questa radicalità.

Dopo la «guerra umanitaria» in Kosovo (1999), le Nazioni Unite avevano dato l'impressione di sposare supinamente la logica dello ius post bellum, legittimando a posteriori l'intervento militare della Nato guidato dagli Stati Uniti. Dopodichè, all'indomani dell'inizio delle azioni belliche in Afghanistan (2001), il Consiglio di Sicurezza con le risoluzioni 1368 e 1373 mancò de facto di autorizzare espressamente l'intervento armato sollevando i sospetti che fosse in atto, in particolare da parte dei cinque membri permanenti, una cospirazione per paralizzare e marginalizzare le Nazioni Unite, in nome dei propri interessi nazionali. Infine, la «guerra preventiva» ed unilaterale all'Iraq (2003) sembrava aver condannato definitivamente l'«Era delle Nazioni Unite» ad un rapido tramonto. Inoltre, la Risoluzione 1441, che aveva tutte le sembianze di un compromesso per salvare la facciata delle Nazioni Unite poteva essere interpretata come l'ennesima conferma dell'unica funzione "adattiva" e "legittimante" che le Nazioni Unite erano in grado svolgere - e per la quale erano mantenute in piedi. Tuttavia, l'Iraq rappresenta per le Nazioni Unite anche l'inizio di una (timida) svolta. In particolare, nella Risoluzione 1546 del Consiglio di Sicurezza si possono intravedere i semi di una riscossa, prudente ma 'risoluta', è proprio il caso di dire, dell'internazionalismo. Il suo contenuto normativo, infatti, si risolve nella volontà di ripristinare la centralità del diritto internazionale- ribadendo la piena e libera sovranità del popolo iracheno- e di dare vita ad una formazione multilaterale in grado di realizzare legittimamente questi obiettivi. Nella Risoluzione non mancano ovviamente numerosi punti nebulosi e contradditori, ma seppure non segni una vera e propria cesura da parte Nazioni Unite con il ruolo passivo e accondiscendente che negli ultimi anni hanno assunto, ha per lo meno tutto il sapore di una significativa delegittimazione di qualsiasi discorso ed iniziativa militare ispirata alla logica neomedievale dello ius post bellum.

A questo punto è forse opportuno ricordare che sovente i medesimi criteri possono portare a giudizi radicalmente divergenti. In questo senso, è interessante rilevare come nella riflessione del Generale italiano Fabio Mini la stessa logica dello ius post bellum finisca per stabilire l'assoluta impossibilità di ogni guerra: «Se il 'dopo' diventa misura del 'prima', i fallimenti del dopo portano alla constatazione dell'inutilità della guerra di qualsiasi tipo e quindi alla sua ingiustificazione e illegittimità» (9). Habermas, dal canto suo, è ancora più lapidario nell'affermare semplicemente che «una guerra illegale rimane una violazione del diritto internazionale, anche se porta a successi normativamente desiderabili» (10).

Se così stanno le cose, è difficile non sospettare che la versione walzeriana dello ius post bellum, coerentemente con la genesi e con gli scopi dell'intera teoria della guerra giusta, intenda porsi al «servizio dei poteri» di turno, in questo caso gli Stati Uniti, e del loro progetto d'«instaurazione egemonica di un ordinamento liberale del mondo».

La strategia argomentativa adottata dagli ideologi «neofondamentalisti» dell'Amministrazione Bush, ma riscontrabile anche nelle opere di autori liberal come Walzer e Ignatieff, è quella di rappresentare l'attuale realtà internazionale come una forma neomedievale di «feudalesimo bastardo», in modo da giustificare così l'elaborazione di teorie politiche e morali dello «stato d'emergenza» nel campo di relazioni internazionali anch'esse di sapore medievale, ovvero essenzialmente extra-giuridiche. In definitiva, la finalità di questa operazione politica oltre che intellettuale sembra essere quella di sostituire il «Regno del diritto» con il «Regno dell'Etica». A questo proposito, è emblematica la 'riscoperta' in sede prescrittiva di quegli autori che, come Euripide, Machiavelli e molti altri, hanno sviluppato una riflessione profonda sulla legittimità di ricorrere a mezzi dubbi per perseguire fini nobili.

Di fronte a questi tentativi di smantellamento del paradigma della legalità ad opera di sedicenti paladini della libertà è forse utile ricordare, come ha recentemente fatto Todorov, che ogni qual volta s'introduce una separazione tra mezzi e fini, si abbandona la strada del liberalismo politico autentico, la cui essenza consiste nella rinuncia ad imporre ad altri la nostra verità con la forza, nonostante la riteniamo la migliore di tutte, per imboccare la rotta oscura del totalitarismo o dell'imperialismo. (11)

Per questa ragione, nel ventunesimo secolo, le società democratiche e liberali non possono accettare supinamente una totale moralizzazione dei principi che guidano la politica di sicurezza internazionale ed interna dei propri governi. Oltre due secoli di lotte per il riconoscimento dei principi della legalità e del rule of law non possono essere improvvisamente trascurati. Malgrado tutto questo, come scrive Habermas, «il governo Bush ha relegato in soffitta con frasi moralistiche il progetto kantiano, vecchio di 220 anni, di una legalizzazione delle relazioni internazionali». (12)

Alla luce di questa svolta da parte di Washington, diventa ancora più significativo il sostanziale overlapping consensus che storicamente esiste, e che è tutt'oggi riscontrabile, tra progressisti e neofondamentalisti statunitensi in materia di politica estera. (13)

In particolare, ciò che sorprende in maniera preoccupante tanto dell'americanismo 'particolarista' di destra, quanto dell'americanismo 'universalista' di sinistra, è proprio la loro comune indifferenza a qualsiasi riferimento giuridico; indifferenza che si allinea con la 'rimozione' imperiale del diritto (internazionale) dall'orizzonte della politica estera ufficiale del governo di Washington. In effetti, l'orientamento dell'Amministrazione Bush nei confronti dell'ordinamento giuridico internazionale registra una progressiva radicalizzazione. Ad una prima fase in cui il governo statunitense sembrava più interessato a realizzare una sorta di aggiornamento forzato e sovversivo del diritto internazionale, restaurando ad esempio la legittimità del first strike, è succeduta una seconda fase in cui è sembrato maggiormente orientato verso una strategia più radicale ed unilaterale intenzionata a fare del diritto non tanto una ancilla imperi in nome del tradizionale primato realista del potere sul diritto, quanto a mettere in discussione de facto l'esistenza stessa del diritto internazionale come Gentle Civilizer of Nations garante di una convivenza più o meno pacifica tra gli Stati. Di conseguenza, l'«unilateralismo interventista» e la dottrina dell'«esporting democracy», per riprendere la metafora di Otto Neurath, più che un tentativo estremo di riparare la nave in navigazione (come vorrebbero sostenere alcuni eminenti internazionalisti (14)), costituiscono piuttosto un 'attentato' ben ponderato per affondarla, e sostituire alla traballante caravella del diritto internazionale, la corazzata armata della legge del più forte e dell'ethos liberale globale.

A questo punto è forse opportuno precisare che l'ostilità verso questa moralizzazione delle relazioni internazionali non equivale né a una «difesa dogmatica del diritto internazionale», né a una apologia irresponsabile, come vorrebbe Walzer, di un certo «assolutismo dei diritti» disinteressato agli effetti che ne deriverebbero. Piuttosto, significa riconoscere che il rispetto della legalità (15) è una condizione necessaria (sebbene non sufficiente) per produrre, soprattutto a livello internazionale, una convivenza sostenibile nel tempo.

Non è un caso, allora, che nel suo ultimo libro Jürgen Habermas abbia difeso con tutta la forza della ragione proprio questa posizione, sostenendo che «la giustizia fra le nazioni può essere raggiunta non mediante una moralizzazione, bensì soltanto con la legalizzazione delle relazioni internazionali». (16) Nondimeno, la necessità di sostenere la legalità internazionale con le sue istituzioni e procedure non deriva da una visione idealistica del mondo ispirata al principio «fiat iustitia, ruat mundum», bensì è il frutto realistico della constatazione che sine iustitia, ruit mundum.

Alla luce dei risultati finora nefasti tanto della campagna militare in Iraq, quanto della precedente in Afghanistan, è più che mai importante riconoscere che «il fallimento della legalità non può mai essere giustificato dalle sue conseguenze». Infatti, la giustizia, come recita un antico adagio, per essere effettivamente tale occorre che prima di tutto sia fatta giustamente. In questo senso, ogni «razionalizzazione retroattiva» dei comportamenti degli Stati viola il principio di legalità che esige che i risultati legittimi siano raggiunti in accordo con principi e i processi stabiliti. (17)

In conclusione, il grande rischio che sembra profilarsi è il seguente: se lo ius post bellum dovesse diventare la norma, altri attori internazionali potrebbero usarla come giustificazione per una vasta serie di avventure militari, molte delle quali sono condannate inevitabilmente ad avere conseguenze disastrose, rischiando davvero in questo caso di configurare un nuovo Medioevo, ma non nel corrente senso accademico di assenza di un'autorità politica unica e riconoscibile, quanto nel classico senso di ricreazione di una situazione internazionale dominata dalla legge imperante di una potenza imperiale che si impone unilateralmente nei confronti di amici e nemici come legibus soluta.

Se così stanno le cose, bisogna riconoscere che le parole con cui Blackstone si espresse oltre due secoli fa in favore della «repubblica delle regole» si rivelano più che mai valide anche nel contesto internazionale attuale:«se ai singoli [Stati] fosse permesso, anche una sola volta, di impiegare la violenza privata come rimedio per i torti subiti, ogni forma di giustizia collettiva [internazionale] svanirebbe, il forte imporrebbe la sua legge al debole, e tutti tornerebbero allo stato di natura».


Note

1. Si veda principalmente M. Walzer, Arguing about War, Yale University Press, New Haven & London 2004 (trad. it. di N. Cantatore, Sulla guerra, Laterza, Roma-Bari 2004); Per un'analisi della teorizzazione iniziale di questo principio, e della letteratura critica su questa «neglected, yet important, issue», si veda B. Orend,Michael Walzer on War and Justice, McGill-Queen's University Press, Montreal & Kingston & London & Ithaca 2000, pp. 135-152.

2. Cfr. Holzgrefe J.L, Keohane R. (eds), Humanitarian Intervention, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.

3. Si veda M. Ignatieff, State Building and Failed States, in Holzgrefe J.L, Keohane R. (eds), Humanitarian Intervention, op.cit..

4. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio [1513-1519], I, 9.

5. Negli ultimi anni la riconquista di un ruolo centrale da parte della politica nella fase post-bellica diventa ancora più urgente alla luce dei recenti tentativi di «depoliticizzare», attraverso l'attribuzione di un ruolo «etero-costituente» alla giustizia internazionale, i processi costituenti di numerosi paesi distrutti o indeboliti da conflitti violenti, endemici e/o internazionali. Su quest'ultimo tema, si veda A. Lollini,La "giustizia di transizione": il principio del duty to prosecute come una nuova variabile di eterodeterminazione dei processi costituenti?, in G. Gozzi, F. Martelli, Guerre e minoranze. Diritti delle minoranze, conflitti interetnici e giustizia internazionale nella transizione alla democrazia nell'Europa Centro-Orientale, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 323-362.

6. A proposito del giudizio di Walzer sulla guerra in Iraq, si veda Walzer, Sulla guerra, op. cit., pp.159-161; a proposito del «profilo minimale» dello ius post bellum si vedano gli argomenti esposti alle pp.163-165.

7. J. Habermas, L'Occidente diviso, Bari-Roma, Laterza, 2005.

8. N. Machiavelli, Il Principe [1513], cap. XVIII; la parte tra parentesi è di chi scrive.

9. Si veda F. Mini, La guerra dopo la guerra, Torino, Einaudi, 2003, p. 291 ss.

10. J.Habermas, L'Occidente diviso, op.cit., p. 9.

11. Questa presa di posizione in favore di un liberalismo autentico è argomentata in T. Todorov, Il nuovo disordine globale, Milano, Garzanti, 2004.

12. J. Habermas, L'Occidente diviso, op. cit, p.93.

13. Cfr. L. Baccelli, What are they fighting for?, in Il ponte, a. LXI nn. 2-3, febbraio-marzo 2005.

14. E. Ottolenghi e G. Verderame sono tra i sostenitori più illustri di un aggiornamento 'sovversivo' del diritto internazionale. Si veda in particolare il loro articolo uscito sul "Foglio" del 1° Marzo 2003, dal titolo emblematico Il diritto al primo colpo. Cambia il nemico, bisogna cambiare le regole della guerra. Per salvarle. Per una critica altrettanto autorevole di questa posizione, si veda, tra gli altri, M. Robinson,Ultimi vengono i diritti, articolo pubblicato dal quotidiano "L'Unità " in data 1 luglio 2003.

15. Si veda M. Koskenniemi, in The Gentle Civilizer of Nation: the rise and fall of international law, 1870-1960, Cambridge, Cambridge university press, 2002, p.494, utilizza l'espressione «cultura del formalismo» per indicare il ruolo svolto dalla normatività intrinseca del diritto ai fini di un addomesticamento del potere.

16. Cfr. J. Habermas, L'Occidente diviso, op.cit, p.97.

17. A.A. An-Na'im, Upholding international legality against American and Islamic jihad, in Ken Booth and Tim Dunne, editors, Worlds in Collision: Terror and the Future of Global Order, New York, Palgrave Macmillan, 2002, pp. 162-171; trad. it. Sostenere la legalità internazionale contro la jihad america ed islamica.