2006

Kosovo, anno zero

Francesca Borri

"Nel corso del mio mandato come mediatore delle Nazioni Unite, una delle domande fondamentali che mi ponevo ogni giorno era la seguente: con la presenza internazionale militare e civile istituita dopo l'intervento della Nato, gli albanesi hanno cambiato comportamento nei confronti degli altri, e in particolare dei serbi?".

Così si apre l'ultimo libro (Kosovo. Année zéro, Paris, Méditerranée, 2006) di Jean-Arnault Dérens, redattore in capo del 'Courrier des Balkans'. Ma la guerra in Kosovo non era quella dei profughi albanesi accartocciati alle frontiere? La guerra della coscienza occidentale che non avrebbe consentito una seconda Srebrenica in orario di cena e telegiornale - e che dunque dopo una Bosnia segnata a infamia dall'inerzia della neutralità, fu la cronaca di un sostegno immediato e granitico agli albanesi, e al loro ambiguo Uck. La guerra giusta - la guerra 'umanitaria', la guerra espressione di una nuova consuetudine in formazione che avremmo prontamente sguainato ovunque in futuro nel mondo, armati di missili e illuminismo a generosa difesa dei diritti umani, indipendentemente da sempre più inaffidabili Nazioni Unite. Perché il Kosovo in effetti è diventato un 'precedente' - ma nel senso che è stato dimenticato. Eppure questo suo dopoguerra non è adesso meno significativo - proprio perché è vero, è la domanda di Dérens oggi a essere fondamentale, ed è la domanda opposta: come salvare i serbi?

La comunità internazionale misura per la prima volta nell'Unmik le sue capacità kantiane di governo diretto del mondo. Ma la sua architettura del potere tra Nazioni Unite Nato, Osce e Unione Europea non solo si è tradotta nella ruspa del pensiero unico, perché l'accesso al dibattito sullo status finale (ovvero al diritto di autodeterminazione dei popoli, per dirla un po' vintage) è stato vincolato al raggiungimento di 117 standard che significano previa abdicazione al vangelo economico e sociale occidentale, quasi il futuro fosse un manuale di istruzioni - ma ha prodotto soprattutto un Kosovo non multi-etnico, ma multi-monoetnico, uno stare accanto ma mai insieme. L'espropriazione delle scelte amministrative infatti, nella più totale amnesia della lezione monnetiana, ha lasciato i partiti a duellare su indipendenza e alte filosofie, congelati sulle contrapposizioni etniche invece che intersecati sulle concrete opzioni di governo. Il dato più allarmante, e ovunque nei Balcani, è che le guerre non hanno sradicato l'idea che un territorio appartiene a chi è arrivato prima: le elezioni, periodiche e regolari come raccomandato dai Sartori, non riconducono ogni volta che sul solco della politica nazionalista. Perché il sovraccarico di retorica per una Jugoslavia plurale è un incentivo a costruire carriere proprio sulle rivendicazioni etniche - senza l'odio in fondo, gli Haradinaj sarebbero ancora buttafuori nelle discoteche svizzere. Ma è solo retorica dice Dérens, e nessun impegno: perché poi è sufficiente guardare le aree che gli internazionali classificano strategiche: l'energia per esempio, ma non l'istruzione (dove dunque vincoli e controlli sono minori), mentre uno dei principali problemi è oggi il monolinguismo delle nuove generazioni e lo studio di una storia xenofoba. Solo la mafia rimane come sempre saldamente, pacificamente multietnica.

Ancora più significativo però è che i Balcani sono l'unica regione in cui la vecchia Europa fa esercizio di politica estera e diversità a fronte dell'egemonia statunitense. Ed è allora in Kosovo non solo la responsabile del pilastro ricostruzione, cioè di una povertà drammatica - ma non ha mezza idea su come reincollare i cocci, e prende tempo. Anche perché, nel tempo, si cementano le omogeneità etniche, dal momento che in assenza ancora di sicurezza non si hanno che ritorni 'maggioritari' - il tempo, nei Balcani, non è neutro, scalpella via le minoranze: scolpisce il paradigma tutto occidentale dello stato nazionale. Non a caso la salvezza si dice, sarà l'europeizzazione, qualcosa cioè che renda, ancora una volta, i Balcani altro rispetto a questo loro preteso istinto oscuro, arretrato violento, un intero, indomato 'continente fuorilegge' - Balcani che sono invece, paradossalmente, proprio quell'incrocio di unità e diversità su cui tanto pascola la mitologia comunitaria. Prévélakis li racconta come un mosaico fisico prima ancora che etnico, un inesauribile contrappuntarsi di piccole entità, zone separate ma poi vicine nella complementarietà di attività, nelle contaminazioni di culture, mondi in cui ognuno ha da sempre molteplici identità, come era tipico dell'Impero ottomano, appartenenze diasporiche incentrate sulla lingua e sulla religione invece che sul territorio, in spazi-reti capaci così di compenetrarsi, invece che di escludersi - quasi una metafora appunto di quello che l'Europa si propone di essere, un insieme di minoranze, un'idea oltre che una geografia. Ma gli europei non esportano per ora che modelli adatti ai libri di scienza politica: la Bosnia, 4 milioni di perplessi abitanti, si srotola in 1 entità centrale divisa in 2 entità, di cui una è una federazione di 10 cantoni e l'altra una giustapposizione di 8 regioni, e dunque 13 parlamenti, 13 governi 180 ministri, 3 eserciti - e in tutto questo regna l'Alto rappresentante dell'Unione Europea, che ha un potere generale e senza possibilità di appello di intervenire in tutto quello che ostacola o consente un avanzamento di Dayton: e che consiglia il coinvolgimento dei bosniaci non in nome di una cosa eccentrica chiamata democrazia, ma per evitare resistenze. Formule come il partenariato e la condizionalità, bibbia del metodo europeo, non si rivelano che una forma sofisticata di colonialismo.

Ma la cosa che più colpisce in Kosovo, dice Dérens, è la completa assenza di una qualsiasi rielaborazione del passato. Pensiamo Milosevic, un incolore funzionario di partito che ha usato il nazionalismo per guadagnare potere nel contesto della dissoluzione jugoslava: consegnato alla memoria a sé, come sintesi di ogni male, come non sia stato anche lui un esito, forse singolare, forse anomalo ma comunque un esito del periodo titoista. E allora questo è anche un dopoguerra significativo per chi si occupa di diritto internazionale: perché la guerra giusta prima e il tribunale dell'Aja poi hanno contribuito alle semplificazioni, alle banalizzazioni storiche. Il Kosovo ha cioè non solo confermato i limiti già intravisti in Bosnia di una giustizia dualistica che non persegue i crimini dei vincitori - ma ne ha indicati di più incisivi, perché strutturali. Il tribunale dell'Aja è culturalmente legato alla guerra giusta: entrambi sviluppano una visione illuministica e cosmopolitica delle relazioni internazionali, basata sull'esistenza di valori universali e sulla priorità dell'individuo - una visione ben presidiata dalla procura Del Ponte, che ha sciabolato il diritto in una crociata della civiltà contro la barbarie. Ma quanto della situazione di oggi allora, di questo rovescio surreale per cui le strutture parallele serbe sostituiscono, specularmente, le strutture albanesi, per cui i serbi sono ora vittime e gli albanesi carnefici, arriva da quel distinguere a colpi d'ascia il torto dalla ragione? Dall'interpretazione e torsione penalistica delle relazioni internazionali che simili tribunali promuovono, in un eccesso di affidamento al diritto, alla Dworkin? Il senso della giustizia non è la vendetta, ma la riconciliazione. E possibilmente la prevenzione - ma il Kosovo, prima guerra combattuta a tribunale già esistente, ne ha mostrato tutta l'inefficacia dissuasiva: l'incapacità, concentrandosi sui singoli, di agire sulle ragioni profonde della violenza. Si perpetuano al contrario l'odio e i rancori, perché non si generano che vinti e vincitori - e l'urgenza invece non è l'algebra dei risultati, ma l'alchimia dello stare insieme.

Il libro di Dérens racconta insomma gli effetti di quella 'divisione del lavoro' tra soft power e hard power, o come si usa dire tra socialisti europei, di quella partnership transatlantica in cui coniugare virtuosamente le nostre qualità di potenza civile alla disponibilità americana al ricorso alla forza - nella piena legittimazione così dello strumento militare come strumento politico, e come se Europa e Stati Uniti fossero da soli il mondo intero. D'altra parte, come ci spiegò l'allora primo ministro D'Alema - era una guerra a cui dovevamo assolutamente partecipare: era un momento di ridefinizione degli assetti del potere, ed era fondamentale entrare "in una certa agenda di telefonate del presidente degli Stati Uniti". Una guerra giusta, che avrebbe innescato la conversione kantiana del mondo, e che invece neppure riuscì a cacciare Milosevic, come opportunamente ricorda Dérens - perché la chirurgia dei bombardamenti si limitò alle infrastrutture militari e civili, oltre che a danni collaterali vari in forma di esseri umani, mentre Milosevic fu sconfitto da un'arma rudimentale, ma ben più precisa e intelligente: le elezioni. I precedenti, nel diritto, sono importanti: ma anche le conseguenze, nella vita delle persone. Prima laboratorio della nuova Nato, adesso prova d'esame dell'Unione Europea - i Balcani ancora una volta oggetto, mai soggetto di politica. Comincia ad essere pericolosamente frequente, per quanti di noi lavorano in nome di questa imprecisata 'comunità internazionale', la sensazione di essere parte più del problema che della soluzione (1).


Note

1. Per chi desidera saperne di più segnalo Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000.