2010

Luci ed ombre del pacifismo giuridico di Norberto Bobbio

intervista di Giulia Beninati a Danilo Zolo

Giulia Beninati. Tra le pagine degli ultimi interventi di Bobbio, quindi i saggi e le interviste degli anni '90, troviamo un filosofo sicuramente più realista e pessimista. Dal punto di vista filosofico fa esplicito riferimento a Hegel per il quale in ogni periodo della storia vi è uno Stato dominante (herrschend), cui è attribuito una sorta di diritto assoluto. È un realismo brutale lontano dall'ideale kantiano dei primi scritti del filosofo torinese. Personalmente devo fare uno sforzo enorme per ritrovare tra queste parole il Norberto Bobbio delle mie prime letture, de Il problema della guerra e le vie della pace, de Il terzo assente o ancora de L'età dei diritti, dove invece è fondamentale la «concezione illuminista e contrattualistica» secondo cui la legge serve a proteggere «il debole dalle prevaricazioni del più forte» come lei e Luigi Ferrajoli avete evidenziato nella vostra Lettera aperta a Bobbio del 27 aprile 1999. Perché questa incoerenza? Apparente o giustificata? È con stupore che ho letto che Bobbio parla dell'esistenza «della parte giusta» in una guerra.

Danilo Zolo. Senza dubbio ci sono due fasi nel pacifismo di Bobbio. La prima può essere datata attorno agli anni sessanta del Novecento, quando Bobbio scrive e pubblica la raccolta di saggi Il problema della guerra e le vie della pace. La seconda fase inizia più o meno con la guerra del Golfo, nel 1991, quando Bobbio dichiara che l'imponente attacco militare degli Stati Uniti contro l'Iraq è "una guerra giusta". Dopo la polemica mia e di Luigi Ferrajoli, Bobbio cerca di attenuare il significato di "guerra giusta" riducendolo all'idea aristotelica di guerra "conforme alla legge" o legale, ovvero "uso legittimo della forza". Nella prima fase la riflessione di Bobbio si concentra sulla critica della teoria della "guerra giusta". Successivamente Bobbio sviluppa l'idea del suo "pacifismo giuridico" o "pacifismo istituzionale". Questa dottrina porta Bobbio ad attenuare notevolmente la sua critica della dottrina della "guerra giusta". Personalmente ho parlato di luci e ombre del pacifismo di Bobbio. Ho sempre condiviso la sua critica della dottrina teologica della "guerra giusta" mentre non ho mai condiviso il suo "pacifismo giuridico" che alla fine lo ha portato, incoerentemente, alla valutazione positiva della Guerra del Golfo. La riflessione di Bobbio sul tema della guerra e della pace muove dal tentativo di definire la nozione stessa di guerra. Bobbio si sforza in particolare di cogliere le novità che il fenomeno della guerra presenta in epoca nucleare, nel contesto della "guerra fredda" e dell'equilibrio del terrore. Si può dire, anzi, che a sollecitare la sua riflessione - e a renderla drammatica - è il tema della valutazione etica e giuridica della guerra moderna di fronte alla permanente minaccia dell'esplosione di un conflitto nucleare. Quanto alla Guerra del Golfo, Bobbio dà il massimo rilievo al fatto che la risposta militare alla violazione del diritto internazionale era stata "autorizzata" dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e cioè da un'autorità superiore ai singoli Stati e conforme al diritto internazionale. Anche se la guerra del Golfo non corrispondeva "al modello ideale del pacifismo istituzionale", l'autorizzazione data dal Consiglio di Sicurezza all'uso della forza poteva essere considerata come una "tappa della tappa" verso la costituzione di uno Stato mondiale al di sopra degli Stati nazionali e quindi in grado, a suo parere, di garantire la pace. Si è trattato di una giustificazione etica e giuridica di una missione militare fra le più imponenti della storia - oltre 500mila soldati statunitensi - che ha fatto strage di centinaia di migliaia di vittime innocenti. Ciò che inoltre è sfuggito a Bobbio è che la spedizione militare era stata decisa dal presidente degli Stati Uniti George Bush Senior molto prima che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite esprimesse un parere favorevole, e inoltre che la guerra era stata appaltata agli Stati Uniti in violazione degli articoli 45, 46 e 47 della Carta delle Nazioni Unite. È tuttavia doveroso riconoscere che Bobbio non ha mai sottaciuto le sue perplessità sull'efficacia della guerra. Di fronte ai lutti, alle distruzioni e ai rischi di escalation che il perdurare del conflitto andava sempre più comportando, egli alla fine ha espresso gravi dubbi anche sulla sua opportunità e inevitabilità.

GB. Per Kelsen, come per Hobbes, il diritto è lo strumento per stabilire rapporti pacifici tra gli uomini e gli Stati. Bobbio rileva la convergenza tra Hobbes e Kelsen: per Hobbes la legge naturale fondamentale, la norma fondamentale è pax querenda est che in Kelsen diviene Peace through law. Ritiene che il problema della relazione tra diritto e potere sia stato superato e risolto da Bobbio? E con quali presupposti filosofici ed effetti giuridici? (Non mi convince la schematizzazione per la quale Bobbio afferma che «di fatto» il diritto attribuisce il potere, dunque lex facit regem, ma per un verso contrario è sempre il potere che istituisce l'ordinamento giuridico e ne garantisce l'effettività, dunque rex facit legem. Questo «di fatto», la realtà effettuale, sono concetti che si sono rivelati fondamentali nel suo giudizio sulla guerra del 1999.

DZ. Ho discusso più volte, personalmente, con Bobbio sul tema del rapporto fra diritto e potere, citando Schmitt e la sua posizione opposta a quella di Kelsen, che invece Bobbio seguiva fedelmente, o almeno lo ha fatto per una lunga parte della sua vita di studioso. Criticando il formalismo di Kelsen e sostenendo la nullità teorica della sua dottrina della "norma fondamentale", io ho sostenuto che per Hobbes, se c'è qualcosa di "fondamentale" alla base del diritto, questo non è certo una norma astratta o formale che "chiude" l'ordinamento giuridico. È piuttosto una condizione di fatto, antropologica e sociologica, molto esterna alle forme giuridiche e che, anzi, per così dire, impedisce all'ordinamento giuridico di chiudersi in se stesso: è l'insicurezza radicale della condizione umana dalla quale derivano l'aggressività, la violenza, la paura, il bisogno di sicurezza e la richiesta di protezione politica. Se è così, il realismo di Hobbes è l'opposto della metafisica normativa di Kelsen. Forse Hobbes, per questo aspetto, è più plausibilmente avvicinabile a un critico spietato dello Stato di diritto e del normativismo kelseniano come Carl Schmitt. Se si ammette, come Bobbio ha fatto, che la Grundnorm è in Kelsen una "soluzione di comodo", allora si apre il varco ad una fondazione non formalistica della forma giuridica. Si profila così sullo sfondo l'idea schmittiana dello "stato di eccezione" o, se si preferisce, l'idea che la forza del diritto è indissociabile dal diritto della forza. Bobbio ha riconosciuto, tardivamente, di non aver mai preso una posizione abbastanza netta sul tema del rapporto fra diritto e potere, problema delicatissimo e di una ambiguità per lui insopprimibile. Per un verso è il diritto che attribuisce potere - lex facit regem -, ma per un altro verso è sempre il potere che istituisce l'ordinamento giuridico e ne garantisce l'effettività: rex facit legem. Discutendo con me, Bobbio ha riconosciuto che non si può negare che questa ambiguità è presente anche nel Kelsen teorico del diritto e dello Stato, o per lo meno non è stata da lui superata. Bobbio ha riconosciuto che anche per Kelsen, a causa dell'incerta dialettica che egli stabilisce fra validità ed effettività delle norme, si può dire che al vertice del suo sistema normativo lex et potestas convertuntur.

GB. Molto importante diviene l'analisi svolta da Bobbio attorno al tema del «terzo» (1) e delle sue declinazioni, non trattandosi di un soggetto monolitico. Il passaggio dal terzo fra le parti al terzo sopra le parti segna l'orientamento verso un sistema politico pacifico e stabile. Questo passaggio non si è ancora verificato in modo definitivo (Bobbio concorda con lei per esempio sul giudizio negativo relativo all'Onu), essendo stato attuato solo in parte; affinché il sistema delle relazioni internazionali sia pacifico e realmente equilibrato il terzo deve disporre di un potere superiore agli Stati ma, allo stesso tempo, deve essere efficace senza essere oppressivo, disponendo di un potere democratico e cioè fondato sul consenso e il controllo dei soggetti di cui deve dirimere i conflitti. Ma Bobbio va oltre, sottolineando come la democrazia sia un elemento essenziale e non solo funzionale per espandere e consolidare la pace. Le due grandi dicotomie del pensiero politico, pace-guerra, democrazia-dispotismo, confluiscono l'una dall'altra, e permettono di tracciare un quadro entro cui si possono disegnare a grandi linee le diverse eventuali prospettive della storia futura. Mentre il dispotismo può essere considerato come la continuazione della guerra all'interno dello Stato, così la democrazia del sistema internazionale può essere considerata come il modo di espandere e di rendere più sicura la pace al di fuori dei confini dei singoli Stati. L'avvenire della pace è strettamente connesso con l'avvenire della democrazia.

DZ. In L'età dei diritti Bobbio ha sostenuto che per garantire la pace è necessario uno Stato mondiale e a questo fine è indispensabile una riforma del diritto e delle istituzioni internazionali che applichi ai rapporti fra gli Stati il principio della "monopolizzazione della forza". Ciò che a suo parere rendeva inevitabile l'uso della forza sul piano internazionale era la mancanza di un'autorità superiore ai singoli Stati - un "Terzo" autonomo e neutrale - che fosse in grado di decidere chi aveva ragione e chi torto e di imporre la propria decisione con la forza. Per questo l'unica via per eliminare le guerre era l'istituzione di questa autorità superiore, che non poteva essere altro che uno Stato unico e universale al di sopra di tutti gli Stati esistenti. L'argomento che egli usava un po' semplicisticamente era quello della domestic analogy, un argomento che ho più volte discusso criticamente con lui. Bobbio sosteneva che nello stesso modo in cui agli uomini nello stato di natura erano state necessarie prima la rinuncia da parte di tutti all'uso individuale della forza e poi l'attribuzione della forza ad un potere unico, detentore del monopolio della forza, così gli Stati dovevano compiere un analogo passaggio dalla situazione del pluralismo dei poteri alla fase di concentrazione del potere in un organo nuovo e supremo che avesse nei confronti dei singoli Stati lo stesso monopolio della forza che gli Stati hanno nei confronti dei singoli individui. Gli argomenti che io ho sempre opposto a questo radicale e in qualche modo elementare cosmopolitismo di Bobbio sono stati essenzialmente due. Primo, l'alto rischio di una concentrazione mondiale della forza militare che avrebbe sicuramente reso del tutto incontrollabile l'esercizio del potere centrale, violando il classico principio liberale della divisione dei poteri. In secondo luogo ho sempre sostenuto che le Nazioni Unite non sono riformabili in senso democratico. Lo impedisce il carattere gerarchico dell'istituzione, la mancanza di una sua struttura costituzionale in qualche modo comparabile con quella di uno Stato di diritto e soprattutto il principio di diseguaglianza formale che la Carta delle Nazioni Unite ha applicato ai suoi membri. Il Consiglio di Sicurezza è dominato dal potere di veto dei suoi cinque membri permanenti, in particolare degli Stati Uniti, che ne hanno sempre fatto un ampio uso. Parlare in queste circostanze di "Stato mondiale" sembra privo di senso, purché non si intenda attribuire alla grandi potenze occidentali - in primis agli Stati Uniti - un ruolo neo-imperiale di gendarmi del mondo.

GB. Secondo Bobbio, il riconoscimento e la protezione dei diritti dell'uomo stanno alla base delle costituzioni democratiche moderne. La pace è, a sua volta, il presupposto necessario per il riconoscimento e l'effettiva protezione dei diritti dell'uomo nei singoli Stati e nel sistema internazionale. Bobbio sancisce la centralità della triade «democrazia, pace, diritti umani» che per essere salvaguardata nella sua totalità può anche prevedere il ricorso alla guerra, una guerra mirata, contro chi alla democrazia si oppone, contro chi viola i diritti umani e dunque la pacifica convivenza. Ma sostenere che «l'avvenire della pace è strettamente connesso con l'avvenire della democrazia», significa anche ammettere che esiste un ordine, una gerarchia rispetto a questi tre elementi e dunque una consequenzialità: prima si deve istituire un solido sistema democratico e dotarlo di strumenti d'azione efficaci, solo dopo sarà possibile la configurazione e il raggiungimento della pace. La domanda che mi sono posta a questo punto è: ma se per il raggiungimento della pace è necessario intervenire nei contesti in cui l'autarchia opprime i propri cittadini perpetrando continue violazioni dei loro diritti e inoltre minacciando l'equilibrio pacifico dello scenario internazionale, ha un senso un intervento armato contro questi paesi? Si può essere contrari alla guerra, ma favorevoli a dei conflitti?

DZ. In un mio libro recente, Terrorismo umanitario, ho escluso nel modo più assoluto che la guerra possa essere usata per la tutela dei diritti umani e, tanto meno, per diffondere la democrazia. Su questo punto era d'accordo anche Bobbio che, dandomi ragione nella mia polemica contro Antonio Cassese, ha severamente criticato la "guerra umanitaria" della NATO contro la Repubblica Federale Jugoslava del 1999 (la famigerata "guerra per il Kosovo). Senza alcuna autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, gli Stati Uniti, l'Inghilterra e l'Italia hanno bombardato la Serbia per 78 giorni di seguito, facendo strage di migliaia di serbi innocenti. La mia tesi è che la guerra moderna, con i suoi strumenti di distruzione di massa, non può essere usata per proteggere i diritti umani. Ci troviamo di fronte ad una evidente aporia: sostenere che tutti gli individui sono titolari di diritti inviolabili e inalienabili significa attribuire loro anzitutto il diritto alla vita, riconosciuto dall'articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948. In secondo luogo significa riconoscere loro, come vuole ancora la Dichiarazione universale, i diritti fondamentali di habeas corpus: nessuno può essere sottoposto a trattamenti ostili che comportino una lesione della sua integrità fisica, della sua libertà, dei suoi rapporti affettivi e dei suoi beni, se non in seguito all'accertamento di suoi comportamenti consapevolmente contrari alla legge penale. La legittimazione della "guerra umanitaria" equivale ad una contraddittoria negazione di tutti questi principi. Nel caso della guerra per il Kosovo, ad esempio, la pena di morte è stata di fatto applicata a migliaia di cittadini jugoslavi prescindendo da qualsiasi indagine sulle loro responsabilità personali. Migliaia di persone innocenti sono morte sotto i bombardamenti terroristici degli aerei statunitensi, britannici e italiani, sotto le micidiali cluster bombs. Non ci sono dubbi che oggi sia necessaria una tutela internazionale - e non solo nazionale - dei diritti soggettivi. Il problema è di rendere compatibili gli interventi transnazionali a tutela dei diritti con la diversità delle culture, con l'identità e la dignità dei popoli, con l'integrità delle strutture giuridico-politiche di cui essi si siano liberamente dotati. In questa prospettiva non può che essere fermamente respinta la pretesa di singole potenze o di alleanze militari ad erigersi, in palese violazione del diritto internazionale, a custodi dei diritti umani in quanto valori universali e quindi meritevoli di tutela al di là del rispetto della domestic jurisdiction degli Stati.

GB. Un ultimo quesito che desidero porle riguarda il problema della protezione dei diritti umani. Bobbio scrive nel saggio L'età dei diritti che ormai il problema concernente il fondamento dei diritti umani è superato: il problema odierno è proteggerli. Che cosa significa per Bobbio proteggere i diritti umani (oltre la loro specificizzazione)? Qual è il futuro dei diritti umani secondo il pensiero ultimo di Bobbio?

DZ. Secondo Bobbio tutti i diritti umani hanno un'origine storica e conflittuale e sono strettamente intrecciati con gli standard di razionalità della cultura occidentale. E tuttavia Bobbio riteneva che la teoria dei diritti umani mancasse sia di fondamento filosofico che di rigore analitico. Per di più, i diritti elencati nei Bills of Rights occidentali - egli sottolineava - sono esposti a continue revisioni e manipolazioni. Sono inoltre formulati in termini imprecisi e semanticamente ambigui sia nei testi costituzionali che nei documenti internazionali, e, soprattutto, sono solcati da antinomie deontiche che frustrano qualsiasi tentativo di dar loro una struttura coerente e unitaria. I diritti "acquisitivi" (la proprietà privata, anzitutto) si oppongono ai "diritti di consumo", i diritti di libertà sono largamente incompatibili con i diritti economico-sociali e con le istanze della sicurezza pubblica, i diritti individuali sono in tensione con i diritti collettivi, incluso il diritto di autodeterminazione dei popoli. Se la dottrina dei diritti umani presenta antinomie al proprio interno - osservava Bobbio - essa non può avere un fondamento assoluto: tale fondamento comporterebbe la pretesa di rendere un diritto e il suo opposto entrambi vincolanti, irreversibili e universali. Da questa analisi Bobbio aveva inferito un importante corollario pratico: ciò che è rilevante per l'attuazione concreta dei diritti umani non è la prova della loro fondatezza filosofica e validità universale. Anzi, questa dimostrazione rischierebbe di rendere intollerante e aggressiva la stessa dottrina dei diritti. Ciò che realmente contava per Bobbio era che i diritti umani godessero di un ampio consenso politico e che si diffondesse il "linguaggio dei diritti" come espressione di aspettative e di rivendicazioni sociali, incluse le nuove aspettative e le nuove rivendicazioni che intendono assurgere al ruolo di "nuovi diritti". Talora, con buone ragioni, esse tendono a prevalere sui diritti umani tradizionali, come è stato il caso, ad esempio, della lotta per i diritti delle donne che in alcuni paesi ha sconfitto una millenaria tradizione patriarcale, e come è stato il caso dei "nuovi diritti" relativi alle relazioni sessuali, matrimoniali e riproduttive. Secondo Bobbio questo processo di evoluzione ed espansione dei diritti umani poteva essere considerato, nonostante i limiti e le difficoltà che incontrava, uno dei principali indicatori del progresso storico dell'umanità.

GB. Bobbio, dopo la morte della moglie, non ha più scritto e si è chiuso in un silenzio intellettuale quasi totale. Lei ha avuto modo di parlargli durante l'autunno del 2001? Sa cosa pensava dell'attacco terroristico nel cuore di New York?

DZ. No, io non ho disturbato Bobbio negli ultimi anni della sua vita, dopo la morte di Valeria. Ci siamo scambiati dei brevi messaggi. Ho anche deciso di non insistere nell'intervista sul tema della democrazia che avevamo già impostata. Bobbio aveva risposto alle mie due prime domande - che ora ho pubblicato nel mio recente libro su Bobbio - ma io ho preferito il mio silenzio e il suo riposo.

Firenze, 8 febbraio 2010


Note

1. È questa l'espressione utilizzata da Bobbio, che dà anche il titolo al saggio; un Terzo inteso come istituzione forte e sovranazionale, per l'appunto attualmente assente.