2005

Sostenere la legalità internazionale contro la jihad americana ed islamica

Abdullahi Ahmed An-Na'im

Se da un lato condanno gli attacchi terroristici del 11 settembre nei termini più categorici, dall'altro sostengo anche che il fallimento (failure) della comunità internazionale nel controllare o regolare in qualche modo la massiccia e indefinita risposta unilaterale degli Stati Uniti rappresenti una sfida (challenge) fondamentale alla legalità internazionale. Con la spedizione punitiva (retaliation) iniziata il 7 Ottobre, gli Stati Uniti hanno fondato la loro azione militare su scala globale esclusivamente sulla propria percezione dell'immediato o anticipato pericolo per se stessi, senza alcuna valutazione di quella percezione attraverso le regole e i processi istituzionali previsti dal diritto internazionale vigente.

Per semplificare e illustrare la gravità di questa operazione in termini di diritto interno (domestic law), è come se la casa di qualcuno fosse stata attaccata e l'aggressore fosse rimasto ucciso nel corso dell'attacco, ma la vittima prendesse in seguito la sua pistola e andasse in città uccidendo coloro che ritiene direttamente o indirettamente responsabili dell'attacco. Questo fallimento della legalità internazionale costituisce un incentivo per la causa del fondamentalismo islamico e mina le possibilità sia di sostegno della pace internazionale sia di protezione dei diritti umani universali all'interno delle società islamiche.

Lo spazio di questo articolo non permette una discussione e una valutazione della legalità di tutti le azioni intraprese dagli Stati Uniti a partire dal 7 Ottobre, e forse oggi è ancora troppo prematuro per farlo. Ad ogni modo, il mio argomento principale consiste nel denunciare il fallimento istituzionale e procedurale della legalità internazionale, anche se le azioni degli Stati Uniti si rivelassero essere legali e opportune in seguito ad una meticolosa valutazione. L'essenza del principio di legalità, a livello nazionale come a livello internazionale, è rappresentata soprattutto da una serie di standards e di processi di investigazione e valutazione imparziali e indipendenti delle dispute, come alternativa alla determinazione soggettiva di 'titolarità' (entitlement) ad agire arbitrariamente in un certo modo. In altri termini, la legalità fallisce ogni volta che gli attori ricorrono all'autodifesa (self-help) e alla 'giustizia privata' (vigilante justice), ricorso che risulta ancora più grave quando è perpetrato dalla sola superpotenza mondiale, per di più membro permanente del Consiglio di Sicurezza, che è supposto essere il guardiano della pace e della legalità internazionale.

Le allarmanti implicazioni di questo fallimento possono essere meglio apprezzate quando questo viene proiettato sullo sfondo dell'egemonia e dell'aggressione coloniale e post-coloniale occidentale nella maggior parte del mondo.

L'Afghanistan stesso è stato prima l'obiettivo di ripetuti tentativi di conquista da parte della Gran Bretagna e della Russia, poi luogo di confronto, durante la guerra fredda, tra Unione Sovietica e Stati Uniti negli anni 80' e oggi teatro di continui conflitti civili. Questo contesto include anche l'uso e la sponsorizzazione del terrorismo da parte degli Stati Uniti sul territorio di altri paesi, specialmente nel Centro e Sud America, e soprattutto il lungo supporto alle stesse forze che ora essi hanno intenzione di distruggere in Afghanistan. Per quanto riguarda la legalità internazionale, si dovrebbe richiamare l'attenzione sul fatto che gli Stati Uniti hanno ignorato la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sulle loro attività illegali in Nicaragua nei primi anni 80', e invasero Panama al fine di sequestrare il presidente panamense e portarlo con la forza di fronte ad un tribunale degli Stati Uniti, dove sta scontando ancora la sua condanna in carcere.

Francamente, non sono in grado di rilevare nessuna differenza morale, politica o giuridica tra questa jihad degli Stati Uniti contro coloro che ritengono essere i loro nemici, e la jihad dei gruppi islamici contro coloro che a loro volta ritengono essere i loro nemici. Il termine arabo jihad semplicemente significa 'sforzo speciale' e viene usato nel linguaggio islamico per riferirsi ad una pluralità di attività intraprese allo scopo di servire la volontà di Dio. In verità, il principale significato religioso di jihad per un musulmano è quello di 'auto-controllo', che include il controllo di qualsiasi tentazione di arrecare danno ad altri. Tuttavia, il termine si può anche riferire alla guerra di aggressione religiosamente giustificata per propagare o difendere la fede. Ciò che è problematico in questo secondo significato di jihad è che implica un azione violenta non regolata pur di perseguire determinati obbiettivi politici, o di rimediare da sé ad un'ingiustizia (percepita), con un alto rischio di danneggiare spettatori innocenti. È soltanto in questo specifica accezione che ho intenzione di comparare le azioni intraprese dagli Stati Uniti a partire dal 7 Ottobre alle rivendicazioni della jihad dei terroristi islamisti.

Il fatto poi che un'azione sia razionalizzata in termini di "eccezionalismo americano" e l'altra in termini di imperativo religioso è irrilevante per la tesi che qui si cercherà di dimostrare, poiché ciò si collega solo alla motivazione degli attori e non alla loro deliberata intenzione di agire comunque in questo modo, né alle conseguenze della loro azione. Inoltre, gli eventi recenti hanno dimostrato che le motivazioni religiose non hanno aggiunto niente di rilevante rispetto al calcolo mondano dei profitti materiali.

Dal mio punto vista, le conseguenze degli attacchi del 11 Settembre provano la fallacia della tesi dello "scontro di civiltà", secondo cui la differenze fra culture avrebbe un ruolo preminente nell'instabilità delle relazioni internazionali.

La fallacia di questa tesi è resa chiara dal fatto che gli attacchi sono stati motivati da una serie di risentimenti politici contro la politica estera americana, e non da qualche irrazionale e generalizzata ostilità verso la civiltà occidentale in quanto tale. In verità, non c'è stato nessun segno di scontro di civiltà nelle posizioni assunte dalla maggior parte dei paesi islamici, i quali hanno supportato la ritorsione (retaliation) militare statunitense o comunque non l'hanno contrastata. Invece di solidarizzare con i musulmani ritenuti responsabili dell'attacco agli Usa, o con gli stati accusati di dar loro rifugio ed appoggio, come la tesi di Huntington condurrebbe ad aspettarsi, tutti i governi dei paesi a maggioranza musulmana hanno agito sulla base esclusivamente dei propri interessi politici, economici e militari. Ciò che sta succedendo nel mondo, è semplicemente il risultato della politica di potenza, come sempre, e non la manifestazione di uno scontro di civiltà. Tuttavia, la tesi di Huntigton può rivelarsi una pericolosa profezia 'auto-avverantesi'(self-fulfillling) poiché le sue premesse possono venire "ri-vendicate" se una o entrambe le parti di questo o di altri conflitti la prendono eccessivamente sul serio.

In questo senso, è abbastanza chiaro che i postumi dell'11 Settembre hanno a che fare più con la differenza di potenza tra i due protagonisti del conflitto e i loro alleati, indipendentemente dall'affiliazione culturale/religiosa, piuttosto che con il potenza della differenza tra la cosiddetta civiltà islamica e quella occidentale.

Come dimostrano i fatti, la cultura e la religione sono importanti fattori del conflitto solo in relazione a come gli eventi sono percepiti, interpretati e affrontati da tutte le parti coinvolte; in altri termini, non sono assolutamente variabili indipendenti e statiche. I recenti eventi globali fanno sorgere il rischio di un acutizzarsi della divisione culturale/religiosa che può minare l'universalità dei diritti umani; tuttavia, questa allarmante prospettiva è bene ribadire che è il prodotto di scelte politiche e morali che vengono prese da tutti le parti coinvolte in questo o altri conflitti simili, e non è assolutamente connaturata nelle differenze culturali/religiose in quanto tali.

È inoltre importante sottolineare che il fallimento della legalità non può mai essere giustificato dalle sue conseguenze. A questo proposito, la destituzione del regime violento e oppressivo dei Talebani in Afghanistan può essere giustificata come una "giusta" vendetta (vindication) da parte dei sostenitori della campagna militare americana, da cui è derivata un notevole miglioramento della tutela diritti umani per la maggioranza della popolazione afgana, come pure la creazione di condizioni favorevoli per la pace, la stabilità politica e lo sviluppo economico per l'intero paese.

Anche se questo può essere un esito vero e dimostrabile nel caso dell'Afghanistan, tuttavia lontano dall'essere immune da critiche, una tale 'razionalizzazione retroattiva' viola l'essenza del principio di legalità che esige che i risultati legittimi siano raggiunti in accordo con principi e i processi stabiliti. Altrimenti, altri attori internazionali potrebbero usare questo pericoloso precedente come giustificazione per una vasta serie di avventure militari, molte delle quali sono condannate inevitabilmente ad avere conseguenze disastrose.

Questa analisi è secondo me indispensabile per rimarcare l'importanza cruciale del rule of law come unica condizione imprescindibile capace di far fronte a questa sfida generale alla legalità.

A questo proposito, è bene precisare che in questo caso il rule of law designa una sistema di diritto 'sostanzialmente' coerente con il diritto internazionale dei diritti umani, e non semplicemente una serie di regole formali. Secondo la mia opinione, questa è la sola risposta efficace e sostenibile alla realtà della nostra condivisa vulnerabilità in quanto essere umani residenti in qualsiasi parte del mondo- anche nelle parti apparentemente più sicure, come drammaticamente hanno dimostrato gli attacchi del 11 Settembre.

La sfida del terrorismo per le società islamiche

Uno dei problemi principali che devono affrontare oggi le società islamiche è rappresentato indubbiamente dal ruolo che assume l'Islam nella loro politica nazionale e nelle loro relazioni internazionale; in particolare, se, e fino a che punto, l'interpretazione tradizionale della sharia si debba applicare nella sfera pubblica. Duranti i numorosi dibattiti tra pensatori musulmani che si sono organizzati dopo l'11 Settembre, sono emerse differenti posizioni su questo tema cruciale: da una parte vi è chi sostiene una categorica separazione tra Islam e attacchi terroristici, e dall'altra vi è chi sostiene con forza che gli attacchi erano giustificati, se non addirittura dettati, dalla sharia. In verità, la relazione tra sharia e terrorismo è stata sempre una materia che ha suscitato controversie tra i musulmani, a partire dalla prima guerra civile (al-fitnah al-Kubra) in seguito alla ribellione contro il terzo califfo Uthman e al suo assassinio nel 35 dopo l'Egira (656 a.C.). Poiché le fonti 'testuali' (il Corano, la Sunna e le hadits) così come i precedenti nella storia islamica possono essere citati per sostenere entrambe le posizioni, suggerisco che la soluzione del problema dovrebbe essere cercata in una mediazione 'contestuale' (contextual mediation) tra i diversi punti di vista. Detto in altri termini, le fonti testuali tra loro in conflitto possono essere comprese e riconciliate facendo riferimento ad una framework che le contestualizzi aiutando in questo modo ad individuare il loro significato e la loro applicazione pratica più adatta per i nostri giorni.

La principale ragione di questa interpretazione 'contestuale' è rappresentata dal fatto che le fonti islamiche sono ritenute capaci di fornire una guida morale e politica per comunità musulmane drasticamente diverse e viventi in condizioni radicalmente differenti - dalla piccola città di Medina nel VII sec. a.C., alle società che vivono negli attuali Stati-nazione. Il contesto storico dei primi tre secoli dell'Islam entro cui la sharia fu elaborata era caratterizzato da un ambiente estremamente difficile e violento, in cui il ricorso alla forza nelle relazione tra le varie comunità era un dato di fatto non soggetto a discussioni. In un tale contesto era semplicemente inconcepibile da un punto di vista concettuale e impossibile punto di vista pratico che la sharia che regolava le relazioni intercomunitarie (internazionali) fosse basata su principi quali la coesistenza pacifica e il rule of law nel senso moderno di questi termini. L'interpretazione tradizionale dominante è che la sharia limitava le cause dell'uso legittimo della forza finalizzato a diffondere l'Islam. La sharia regolava anche la condotta delle ostilità, prevedendo ad es. la proibizione totale di uccidere bambini, donne e non combattenti. Ma è anche evidente che c'è molto ambiguità e diversità di opinioni nella teoria della sharia su questa materia, e che la pratica è stata molto poco coerente con questa teoria durante tutta la storia islamica.

Nonostante la mia profonda preoccupazione per la serietà dell'attuale minaccia per la credibilità del legalità internazionale, sono convinto che le interpretazioni tradizionali della jihad siano oggi totalmente insostenibili.

A questo proposito, dal mio punto di vista, la grave minaccia per la legalità internazionale rappresentata dalla recente condotta adottata degli Stati Uniti con la complicità delle altre maggiori potenze del mondo, non giustifica in alcun modo una riproposizione (re-enactment) del senso originario di jihad; per di più i rapporti di potere dell'attuale realtà internazionale non consentirebbero una sua traduzione nella pratica.

La sfida che devono affrontare oggi le società islamiche è come ripudiare autorevolmente ed efficacemente quelle accezioni violente di jihad dai cuori e dalle menti dei musulmani, oltre che dalla politica e dalla pratica ufficiali degli stati.

Siccome l'Islam si rivolge direttamente all'individuo musulmano, per i musulmani esiste un forte senso di obbligo a conformarsi con ciò che essi credono che la sharia prescriva, indipendentemente dalla volontà e dalla pratica dello stato in quanto tale. Quando non si realizzano significative riparazioni a gravi ingiustizie entro il sistema del rule of law, i musulmani sono portati con molta probabilità a invocare una giustificazione religiosa per intraprendere un'azione violenta contro eventuali regimi corrotti e nemici esterni.

La trasformazione che propongo della natura e del ruolo della sharia nella vita delle società islamiche moderne presenta sia una dimensione interna sia una dimensione esterna.

La dimensione interna include una serie di dibattiti teologici e teorici sulla ratio e sulla giustificazione del cambiamento, e una serie di strategie per affrontare il presumibile impatto traumatico che questo potrà avere a livello sia personale che collettivo.

Questa dimensione interna include anche lo 'spazio' politico e sociologico per questi dibattiti e la sperimentazione di nuove idee e nuovi stili di vita. La decisa accettazione e l'effettiva implementazione dei diritti umani universali sono strettamente collegate a questa trasformazione sociale e culturale.

Rispetto alla dimensione esterna invece, se una società si sente minacciata o sotto assedio, prenderà il sopravvento una mentalità diffidente (siege mentality), in virtù della quale le persone e i gruppi tendono a diventare più conservatori e radicati nei propri modi tradizionali di vedere ed interpretare le cose. In questo senso, la politica estera americana contribuisce all'erosione dei prerequisiti interni necessari per avviare una trasformazione sociale, e allo stesso tempo rafforza un senso di minaccia estera che favorisce un trinceramento su posizioni conservative. Inoltre, sia l'appoggio a regimi oppressivi come l'Arabia Saudita sia l'opportunità offerta al regime iraqueno di legittimare il suo controllo e giustificare il proprio comportamento citando la pressione esterna delle sanzioni e la costante minaccia di attacchi aerei, favoriscono l'assunzione all'interno società islamiche di atteggiamenti scettici nei confronti della validità universale dei diritti umani. Queste conseguenze negative nel medio-lungo periodo, sono adesso drasticamente aumentate in seguito all'intervento in Afghanistan.

Questo recente fallimento della legalità internazionale pregiudica gravemente la possibilità di sviluppare argomenti concettuali e politici capaci di contrastare entro le società islamiche la diffusione dell'interpretazione e della pratica tradizionale della jihad. Questa sequenza di eventi è una sorta di tradimento per i difensori musulmani della legalità internazionale perché mina la base concettuale e politica dei loro argomenti entro il dibattito islamico contro la jihad e in favore dell'universalità dei diritti umani. Indubbiamente, i sostenitori della jihad come guerra aggressiva hanno molte più possibilità di ottenere il sostegno della maggioranza dei musulmani in un mondo in cui la forza militare e l'auto-difesa prevalgono sul rule of law nelle relazioni internazionali.

La sfida della jihad americana alla legalità internazionale

Non sto suggerendo che gli Stati Uniti debbano passivamente esporre i propri cittadini a ripetuti attacchi in casa o all'estero, né sto proponendo qualche conclusione circa la possibile giustificazione(i) della loro campagna militare in Afghanistan. Piuttosto, la mia opinione è semplicemente che le azioni intraprese dagli Stati Uniti a partire dal 7 Ottobre non possono essere accettate come conformi alla legalità internazionale a meno che esse non vengano esaminate ed eventualmente approvate secondo gli standards istituzionali e procedurali del sistema internazionale. Qualsiasi giustificazione(i) possano rivendicare gli Stati Uniti per motivare le proprie azioni, essi non potranno mai essere autorizzati ad agire come prosecutor, giudici e giuria in una causa che li coinvolge direttamente e continuare a pretendere la legittimità della legalità internazionale.

Se un esame dettagliato della legalità di queste azioni non è, come già detto, nelle intenzioni di questo articolo, è tuttavia importante notare che le limitate azioni del Consiglio di Sicurezza dell'Onu non costituiscono altro che una conferma ulteriore del fallimento della legalità internazionale. Il Consiglio di Sicurezza ha adottato due risoluzioni prima del 7 Ottobre: la Risoluzione 1368 del 12 settembre 2001, e la risoluzione 1373 del 28 settembre 2001. La prima semplicemente condannava gli attacchi e stabiliva di "rimanere controllati in proposito" senza prevedere nessun'altra decisione. La seconda affermava il diritto di autodifesa nel suo preambolo, ma non autorizzava nessun uso della forza in accordo con il Capitolo VII della Carta dell'Onu. Dal mio punto di vista, il fallimento della legalità internazionale risiede nel fatto che la campagna militare è iniziata quattro settimane dopo gli attacchi dell'11-09, ed è continuata per più di tre mesi (nel momento in cui sto scrivendo), e ancora il Consiglio di Sicurezza non ha né autorizzato, né adottato né condannato in alcun modo queste azioni, (auto)limitando se stesso nella prevenzione della pace e della sicurezza, come richiesto dalla Carta.

Il terrorismo è una grave minaccia per i diritti umani proprio perché genera una potente tentazione di sacrificare il proprio impegno fondamentale verso il due process of law in nome della difesa della sicurezza nazionale.

L'obbiettivo ultimo del terrorismo, in tutte le sue forme e da qualsiasi fonte provenga, è di diminuire l'umanità delle sue vittime e di ridurle al proprio livello di barbarie (barbarity). Per rispondere adeguatamente a questa minaccia, ciascuna società ha bisogno di rimanere fedele ai propri interessi più umani ed illuminati che si contrappongono ad un tale comportamento barbarico. In particolare, siccome la vendetta innescherebbe soltanto una spirale senza fine di reciproca distruzione, ciascuna società deve impegnarsi a comprendere e ad individuare le cause di quel che appare essere una strage (carnage) completamente priva di senso, e soprattutto aliena e incomprensibile al suo senso specifico di razionalità.

Il mancato riconoscimento e la mancata indicazione della razionalità dei terroristi implica una negazione della loro umanità, e di conseguenza la confisca (forfeit) di qualsiasi possibilità per l'universalità dei diritti umani.

Questa è la ragione per cui da un punto di visto critico è importante comunque prendere in seria considerazione le rivendicazioni (grievances) dei terroristi, come nel caso delle numerose interviste rilasciate da Bin Laden ai media occidentali prima del 11 Settembre, senza che tale considerazione ovviamente finisca per giustificare o legittimare il terrorismo come un mezzo di riparazione delle ingiustizie. La comprensione delle motivazioni di qualunque terrorista è essenziale per individuare una risposta ragionata e sostenibile, e non dovrebbe essere vista come una sorta di condono del crimine o una responsabilizzazione (blaming) delle vittime. È precisamente in questa prospettiva che io insisto a sostenere che è rilevante, per non dire necessario, considerare seriamente la relazione che intercorre tra gli attacchi dell'11Settembre e la politica estera statunitense.

Questa prospettiva vale in modo particolare per la politica estera statunitense in specifiche regioni del mondo - il Medio Oriente, in questo caso- e per il suo impatto sovversivo sulla legalità internazionale.

Sostenere la legalità internazionale in favore dei diritti umani

Una delle conseguenze del recente fallimento della legalità internazionale è che esso pregiudica qualsiasi discussione significativa sulla giuridicità tanto degli attacchi terroristici dell'11 Settembre quanto della ritorsione (retaliation) militare degli Stati Uniti e dei loro alleati a partire dal 7 Ottobre. Piuttosto che impegnarmi in una discussione ipotetica e speculativa su questi temi, preferisco tentare di chiarire cosa intendo per fallimento della legalità internazionale, ed esporre quali sono le sue conseguenze per l'universalità dei diritti umani.

A questo proposito, il mio punto di vista è emblematicamente sintetizzato dalla massima, "la giustizia non deve essere soltanto fatto, ma deve anche essere vista per essere fatta". In questo caso, l'apparente arbitrarietà, sregolatezza e unilateralità del potere degli Stati Uniti decisi a fare qualsiasi cosa vogliano in ogni luogo del mondo, rappresenta sia un grave danno per la credibilità della legalità internazionale (e dei diritti umani) sia un arrogante affermazione del fatto che loro in questo momento hanno l'autorità per comportarsi così.

Tuttavia, è opportuno chiedersi, 'qual è l'alternativa? Come possono gli Usa proteggere i propri cittadini, salvaguardare la loro sovranità ed integrità territoriale, e anche la loro dignità nazionale e il loro orgoglio di unica superpotenza mondiale?'

La risposta è semplicemente che gli attacchi terroristici sono stati un crimine internazionale di suprema gravità, e che come tali devono essere perseguiti con lo scopo di ritenere coloro che li hanno commessi direttamente responsabili di fronte la legge. In quest'ottica, e in accordo con i fatti disponibili e verificabili, la questione giuridica tra il governo americano e il governo dei Talebani dovrebbe essere trattata come materia di estradizione, e perseguita come tale. Questo approccio può apparire irrealistico nel caso degli attacchi dell'11 Settembre, ma ad esso non è mai stata offerta nessuna chance da parte degli Stati Uniti, le cui azioni a partire dal 7 Ottobre hanno reso tale approccio ancora meno percorribile in futuri casi simili.

Se esiste la volontà politica per trattare gli attacchi come una situazione da giudicare secondo la legge, e non come occasione di vendetta militare, io credo che attualmente esistano abbastanza risorse militari e istituzionali per iniziare un processo penale entro la cornice dell'ordinamento internazionale. A questo proposito, i modelli disponibili includono tanto i tribunali internazionali ad hoc istituiti dal Consiglio di Sicurezza, quanto i tribunali istituiti in seguito ai negoziati tra stati coinvolti, come nel caso dell'abbattimento dell'aereo Pan Am che volava su Lockerble. In verità, nella prima settimana di Ottobre, l'Iran fece un'offerta attraverso il segretario degli affari esteri britannico di utilizzare la mediazione dell'Organizzazione della Conferenza Islamica (che doveva riunirsi la settimana seguente nel Bahrain) come forum per trovare un accordo per portare i responsabili degli attacchi dell'11 Settembre di fronte ad un tribunale sulla base di prove giudiziarie. I Talebani stessi fecero una proposta simile attraverso la mediazione della Conferenza Internazionale Islamica e le Nazioni Unite. Tuttavia, gli Usa hanno rifiutato categoricamente entrambe le offerte pretendendo l'immediata ed incondizionata consegna di Osama Bin Laden e degli altri leader di al-Qaeda, esclusivamente sulla base della loro affermazione di colpevolezza, e senza accettare alcuna verifica indipendente ed imparziale delle prove a loro carico. Secondo alcuni giornali di allora, gli Stati Uniti hanno mostrato le prove agli alleati della Nato - ma anche se tutti quanti loro hanno trovato le prove sufficientemente convincenti, questo sarebbe tuttavia ancora insufficiente dal punto di vista del giusto processo.

Il vero problema in questa faccenda è che gli Stati Uniti sono impegnati solo nella protezione delle libertà civili dei propri cittadini, con scarsa considerazione per le altre popolazioni del mondo.

Questo è particolarmente evidente se si pensa al trattamento riservato a partire dall'11 Settembre ai non-cittadini all'interno degli Stati Uniti; per non parlare delle direttive militari adottate dal presidente Bush che autorizzano a processare i cittadini americani stranieri e i residenti regolari 'sospettati di terrorismo' di fronte a tribunali militari speciali, in totale contravvenzione dei requisiti minimi del giusto processo.

Sotto questa luce, e visto anche la forte opposizione all'istituzione di una corte penale internazionale, non ci si deve meravigliare dell'ipotesi che la corsa (rush) degli Stati Uniti all'azione militare costituisca una parte di una deliberata politica più generale tesa a sovvertire ogni possibilità di individuazione di una responsabilità penale internazionale dei responsabili degli attacchi terroristici dell'11 Settembre.

In conclusione, tuttavia, siccome era evidente che gli Stati Uniti non avessero alcuna intenzione di dare una chance al giusto processo internazionale, perché il Consiglio di Sicurezza mancò di intervenire in sostegno della Carta delle Nazioni Unite che raccomanda la risoluzione pacifica delle controversie? Perchè il Consiglio di Sicurezza mancò, nelle due risoluzioni dedicate a questo tema prima del 7 Ottobre, sia di autorizzare espressamente l'uso della forza da parte degli Stati Uniti, sia di definire chiaramente la portata e gli obbiettivi della loro operazione militare, sia di richiedere la costituzione di una forza Onu per gestire l'intera faccenda? La risposta più verosimile a queste e ad altre domande collegate è che i membri del Consiglio stesso, in particolare i cinque permanenti, hanno cospirato per paralizzare e marginalizzare il sistema delle Nazioni Unite al fine di perseguire i propri interessi nazionali. È rilevante segnalare, io credo, che nessuno dei principali attori coinvolti in questo sconvolgimento radicale della legalità internazionale si presentava con le "mani pulite". Se da una parte un gran numero di paesi, tra cui gli Stati Uniti e la Russia, hanno fatto ricorso a metodi terroristici o hanno sponsorizzato terroristi per decenni, dall'altra parte, altri paesi hanno fatto questo nel recente passato o hanno i loro buoni motivi politici per evitare di contrastare chi si comporta in questa maniera.

(Traduzione di Alessandro Calbucci)