2007

Per una filosofia moderna e realista del diritto internazionale (*)

Danilo Zolo

1. Una dottrina vetero-europea

Sarebbe un errore sottovalutare l'importanza che la dottrina occidentale del 'globalismo giuridico' ha assunto nel corso di quest'ultimo quindicennio, dopo il crollo dell'impero sovietico e la fine del bipolarismo. Il suo rilievo internazionale dipende sicuramente dall'egemonia economico-militare dell'occidente, oltre che dall'influenza dei processi di globalizzazione, che sembrano richiedere l'unificazione su scala planetaria anche delle strutture normative e giurisdizionali. Ma dipende inoltre dalla circostanza che si tratta di una filosofia del diritto orientata a legittimare le istituzioni internazionali oggi esistenti e in modo particolare i loro più recenti sviluppi 'umanitari' e giudiziari.

Ma questo innegabile successo non attenua, a mio parere, la debolezza di una teoria che nonostante le sue aspirazioni cosmopolitiche rimane ancorata alla cultura delle vecchia Europa, e cioè al giusnaturalismo classico-cristiano. L'idea di diritto internazionale che essa propone è indissociabile da una visione teologico-metafisica - riflessa nella nozione di civitas maxima - che pone a fondamento della comunità giuridica internazionale la duplice credenza nella natura morale dell'uomo e nell'unità morale del genere umano.

Questa filosofia del diritto è dominata dall'idea, kantiana e neokantiana, che il progresso dell'umanità sia possibile solo a condizione che alcuni principi etici vengano condivisi da tutti gli uomini e siano fatti valere da poteri sovranazionali che trascendano il 'politeismo' delle convinzioni etiche e degli ordinamenti normativi oggi esistenti. Non a caso la dottrina individualistico-liberale dei diritti dell'uomo - anch'essa, come Kelsen ha riconosciuto, di impronta giusnaturalistica - viene oggi presentata in modo ossessivo alle culture non occidentali come il paradigma della costituzione politica del mondo. E persino il fenomeno della guerra viene imputato alla situazione di 'anarchia' che secondo questa filosofia monistica caratterizza da almeno tre secoli le relazioni fra gli Stati. Un giusto ordine mondiale e una pace stabile ed universale potranno essere garantiti, non cessano di ripetere i giusglobalisti, soltanto da una gerarchia di potere sovranazionale, da una legislazione universale (ispirata all'etica ebraico-cristiana) e da una giuridizione penale obbligatoria.

2. Una filosofia moderna e realista

Se tutto questo ha qualche fondamento e rilievo, allora si può sostenere, riecheggiando un giudizio di Martin Wight, che la cultura occidentale manca di una filosofia moderna del diritto internazionale. Non nego, ovviamente, che ci siano teorie dei rapporti internazionali diverse e anche molto lontane dalla linea kantiano-kelseniana. Basterebbe pensare alla tradizione del realismo politico internazionale, risalente a Hans Morgenthau, e ai suoi più recenti sviluppi neo-realistici, da Kenneth Waltz a Robert Gilpin, a Robert Keohane. E un certo rilievo va riconosciuto anche alla corrente groziana - così l'ha chiamata Martin Wight - che rifiuta l'idea di una comunità internazionale che includa tutti gli uomini in quanto soggetti morali. Questa corrente propone, in alternativa, il modello di una società giuridica fra Stati sovrani o comunque fra organizzazioni politiche e sociali, non fra i singoli membri della specie umana.

Ciò che intendo affermare è qualcosa di più limitato ma anche di più specifico: sostengo che manca una filosofia del diritto internazionale che sia capace di contrastare l'egemonia della tradizione di pensiero che risale all'etica metafisica di Kant e alle interpretazioni in senso cosmopolitico di Zum ewigen Frieden. Una moderna filosofia del diritto dovrebbe essere in grado, in altre parole, di proporre schemi di organizzazione giuridica ed istituzionale diversi e alternativi rispetto al 'modello della Santa Alleanza' che ha trovato la sua espressione più compiuta nella Carta delle Nazioni Unite (1).

Una teoria moderna del diritto internazionale dovrebbe costruire le proprie categorie con metodo induttivo, partendo da un'analisi dei problemi politici, economici e militari che sono all'ordine del giorno dell'agenda internazionale. E dovrebbe tener conto delle aspettative normative emergenti dalle diverse civiltà del pianeta - Samuel Huntington ne ha individuate quasi una decina - che sono in larga parte in conflitto con le ambizioni 'universalmente legislatrici' dell'occidente. Questa teoria non dovrebbe, come fa invece il normativismo kelseniano, prendere le mosse da un'idea della ragione, platonicamente assunta come condizione di pensabilità scientifica del diritto. Dovrebbe piuttosto rinunciare a qualsiasi prerogativa di oggettività cognitiva e di universalità deontologica dei propri enunciati e non tentare quindi di ancorare la validità del diritto internazionale ad una 'verità' presupposta né, tanto meno, ad un'etica universalistica.

Alla luce di una epistemologia di bounded rationality (Herbert Simon) una teoria giuridica di questo tipo dovrebbe limitarsi a proporre determinati strumenti normativi come funzionali rispetto a determinati scopi, assunti in ipotesi come degni di essere perseguiti. E dovrebbe, nel definire scopi e strumenti, tener conto delle variabili storico-sociali che limitano l'effettività delle norme giuridiche, in modo particolare del diritto internazionale. Quest'ultimo, come ammoniva Hersch Lauterpacht, è così esposto alla contingenza degli equilibri politico-militari e alle turbolenze dei mercati da rischiare più di ogni altro l'evanescenza normativa. Questa teoria dovrebbe inoltre definire in termini espliciti il rapporto che intende stabilire fra le funzioni dell'ordinamento internazionale e quelle degli ordinamenti statali. E nel compiere questa scelta dovrebbe, almeno implicitamente, riferirsi ad una filosofia del diritto che definisca le funzioni che intende attribuire al diritto come specifica tecnica normativa: una tecnica che contribuisce, interagendo con altre modalità normative, alla stabilizzazione di organizzazioni politiche e sociali le piu' diverse.

Non è certo questo il luogo per tentare operazioni teoriche così impegnative e complesse. Mi limito qui a segnalarne l'esigenza e a sostenere che una concezione del diritto internazionale alternativa a quella che ho definito 'globalista' potrebbe essere sviluppata assumendo come punto di riferimento la linea di pensiero, neo-groziana e realistica, che va da Martin Wight a Hedley Bull e, almeno in parte, a Andrew Hurrell. Questa linea si è espressa nella sua formulazione più autorevole in un'opera di grande valore teorico come The Anarchical Society di Hedley Bull, pubblicata a Londra nel 1977 (e mai apparsa in traduzione italiana). Si tratterebbe, questa è la mia proposta 'ricostruttiva', di sviluppare nei termini specifici di una filosofia realistica del diritto internazionale quanto è stato proposto, talora solo a livello di intuizioni o di enunciazioni generali, da questa corrente oxoniense di pensiero non globalista.

3. Alcuni 'punti di partenza' teorici

Sulla base di queste premesse proverò a indicare qui di seguito, senza la minima pretesa di sistematicità, alcuni 'punti di partenza' che a mio parere potrebbero essere utili per l'elaborazione di una teoria del diritto internazionale alternativa alla metafisica kantiano-kelseniana.

Si potrà obbiettare che i miei 'punti di partenza' non sono neutrali, ma sono anzi carichi di assunzioni filosofiche e di premesse di valore. Non ho alcuna intenzione di negarlo. I miei 'punti di partenza' suppongono, per dir così, l'esistenza di un luogo da cui partire. E il luogo - per parafrasare un famoso aneddoto di Hedley Bull (2) - è esattamente quello in cui io mi trovo in questo momento (e altri vi si trovano assieme a me). Non può essere scelto a piacere.

Nella formulazione dei miei 'punti' ci sono impliciti rinvii ad una epistemologia generale, ad una antropologia e ad una teoria politico-giuridica abbastanza definite. Sono questi i luoghi - le tabulae inscriptae - da cui prende avvio la mia riflessione e che condizionano il mio tentativo di muovere i primi passi. Ciò che tuttavia rivendico, rispetto alla tradizione kantiano-kelseniana che ho criticato in queste pagine, è il carattere non speculativo delle mie premesse filosofiche e la natura non dogmatica del mio approccio ai problemi della politica e del diritto. Intendo semplicemente proporre uno schema di interpretazione - non di 'spiegazione' - dei fenomeni normativi a livello internazionale: uno schema che, grazie a una sua qualche coerenza e plausibilità, consenta una comprensione dei problemi più rilevanti e una minima capacità di previsione dei loro sviluppi.

Rispetto all'assunzione teologico-metafisica della qualità morale della specie umana tendo a preferire i risultati della ricerca etologica e antropologica (pur senza accordare loro alcun valore assoluto). Questi studi ci presentano l'homo sapiens come un 'animale superiore' molto esposto ai rischi all'ambiente e quindi profondamente insicuro e alla costante ricerca di rassicurazioni, di protezione e di potere. E 'produrre sicurezza' è appunto, secondo una concezione realistica, la funzione specifica del sistema politico e, in esso, dell'ordinamento giuridico. Queste strutture sociali garantiscono agli individui un livello minimo di controllabilità e di prevedibilità dell'ambiente sociale in cui vivono, li proteggono selettivamente dai rischi, e, alla fine, 'riducono la paura' (3). Secondo questa visione, alla politica e al diritto non spetta dunque - come invece pensano i contrattualisti neokantiani, a cominciare da John Rawls - il compito di realizzare obbiettivi ideali come la giustizia o il 'bene comune', o, persino, la 'fraternità' universale. Si tratta di aspirazioni, rebus sic stantibus, per la cui realizzazione sembra mancare ogni premessa di fatto: mancano, si potrebbe dire, i luoghi da cui partire.

Se questi sono alcuni dei miei 'pregiudizi' filosofici, è naturale che io guardi con diffidenza, assieme a Hedley Bull e a Stephen Toulmin, al traguardo di una Cosmopolis politico-giuridica. Ed è altrettanto naturale che diffidi dell'idea kelseniana di civitas maxima: un luogo ideale della ragione (occidentale) nel quale dovrebbero convergere una morale universale, un diritto universale e uno Stato universale; un luogo, in altre parole, nel quale realizzare quell''ordine politico ottimo' che Bull critica in The Anarchical Society e al quale dichiara di preferire il progetto piu' realistico di un 'ordine politico minimo'.

A questo modello, come si vedrà, anch'io accordo una netta preferenza, in nome del pluralismo, della complessità e della differenziazione culturale, concepiti non come un ostacolo al progresso della razionalità giuridica e politica, ma al contrario come un patrimonio antropologico evolutivamente prezioso. E' una preferenza che mi viene suggerita, fra l'altro, dalla teoria generale dei sistemi: in situazioni di elevata complessità e di turbolenza delle variabili ambientali è più prudente convivere con un grado anche molto elevato di disordine, piuttosto che tentare di imporre un ordine perfetto.

Ed ecco qui di seguito i miei 'punti di partenza'.

3.1. Una teoria 'impura' del diritto internazionale

Un primo punto è l'idea (giusrealistica) che una teoria del diritto internazionale non può che essere una 'teoria impura' del diritto. Non intendo affrontare qui il tema generale dell'autonomia del metodo giuridico, né tanto meno attardarmi in un critica ulteriore della 'teoria pura del diritto' proposta da Kelsen. Intendo affermare che l'ambito internazionale è quello nel quale l'impurità della teoria giuridica sembra più che mai imposta dalle caratteristiche del suo oggetto. Nell'arena internazionale il rapporto fra diritto e potere è così stretto e così ambiguo che una filosofia del diritto internazionale si ridurrebbe a pura speculazione normativa se non ponesse al centro della sua teoria le molte variabili che rendono problematico il rapporto fra il diritto in books e il diritto in action: se non studiasse cioè, come oggetto specifico della 'scienza giuridica', il reticolo di transazioni politiche, economiche e sociali attraverso le quali i principi e le regole del diritto divengono disciplina effettiva di singoli casi concreti. Basti pensare ai complessi rapporti di intersezione tematica e di interdipendenza normativa che connettono fra loro le prescrizioni giuridiche, da una parte, e, dall'altra, le tradizioni religiose e culturali dei vari continenti, le ideologie politiche, l'attività delle grandi concentrazioni di potere economico e finanziario, le strategie politico-militari delle superpotenze, il terrorismo politico e la criminalità internazionale.

Una teoria del diritto come scienza di pure proposizioni normative - e perciò separata da una teoria politica e da una sociologia degli attori e dei comportamenti normativi - è, se è possibile, ancora meno proponibile nell'ambito internazionale di quanto non lo sia nell'ambito interno. Una teoria moderna e realistica del diritto internazionale dovrebbe quindi tematizzare anzitutto il rapporto che esiste fra le forme del diritto e, per così dire, le deformità o l'assenza di forme degli arcana imperii. E dovrebbe tradurre questo rapporto in una sistematica contaminazione teorica fra diritto e potere e fra potere e violenza. Si tratterebbe di riconoscere, in altre parole, l'impossibilità di 'purificare' il diritto (internazionale) separandolo dalla politica (internazionale) e l'impossibilità parallela di sterilizzare la politica, in tutte le sue forme, dal particolarismo degli interessi e dal conflitto fra gli universi simbolici reciprocamente ostili entro i quali i particolarismi si annidano e si giustificano.

3.2. La differenziazione strutturale degli ordinamenti giuridici

Un secondo punto di particolare rilievo metodologico è la tesi della pluralità e della differenziazione strutturale degli ordinamenti giuridici. Ordinamenti pur molto diversi fra loro dal punto di vista morfologico - poniamo: il diritto canonico, da una parte, e, dall'altra, la Federazione internazionale del tennis - meritano di essere chiamati, senza eccezioni e a eguale titolo, 'giuridici'. Ciò è legittimo alla sola condizione che tali ordinamenti concorrano, sia pure con gradi diversi di effettività, a regolare singole controversie o singole fattispecie concrete. E dunque va rifiutata l'idea monistica e normativistica per la quale non puo' esistere, per una supposta necessità logica, che un solo, onnicomprensivo ordinamento giuridico. E va in particolare criticata la tendenza, che abbiamo visto operare in profondità negli scritti di Kelsen, a misurare l'evoluzione storica del diritto internazionale secondo le 'tappe evolutive' del diritto degli Stati. A parte ogni possibile dubbio circa l'esistenza di leggi evolutive che riguardino la struttura dei sistemi giuridici, l'idea kelseniana che il diritto internazionale sia un 'ordinamento primitivo' a causa del carattere decentrato delle sue funzioni coercitive è priva di interesse da un punto di vista giusrealistico.

Sul piano storico-evolutivo, sostiene Kelsen, un sistema giuridico è tanto più perfetto quanto più l'esercizio della forza è sottratto all'iniziativa individuale ed è centralizzato in organi specializzati, come i governi e i tribunali. In questo senso il moderno Stato nazionale è per Kelsen, come abbiamo visto, un sistema giuridico perfetto perché al suo interno l'ordine collettivo è garantito attraverso un'elevata centralizzazione dell'uso della forza. Ma in una prospettiva realistica la qualità giuridica dell'ordinamento internazionale dovrebbe essere valutata non dal punto di vista della sua 'struttura' ma da quello delle sue 'funzioni': e cioè della sua capacità di rendere effettiva la sua pretesa normativa in relazione agli scopi che gli sono socialmente assegnati.

Posto in ipotesi che si attribuisca al diritto internazionale il compito di garantire la 'sicurezza collettiva' a livello mondiale - è il compito che il Kelsen maturo gli attribuisce, rinunciando al precedente riferimento alla pace - è in relazione alla sua capacità di realizzare tale compito che va misurata la sua giuridicità, o, che è lo stesso, il suo grado di effettività regolativa. E' dunque altrettanto poco sensato ritenere che il diritto internazionale debba tendere, per superare la sua condizione di primitività strutturale, verso un accentramento delle sue funzioni coercitive e una obbligatorietà della sua giurisdizione penale. Un ordinamento internazionale a struttura accentrata ma che non riuscisse, se non con un inferiore saggio di effettività, a regolare il conflitto internazionale - un ordinamento che in ipotesi contribuisse al diffondersi del terrorismo internazionale o alla secessione di potenti organizzazioni criminali internazionali - non meriterebbe di essere apprezzato come un ordinamento giuridico 'superiore', cosa che viceversa sarebbe comunque pretesa dal formalismo kelseniano.

Se invece si attribuisse all'ordinamento internazionale, come sarei inclinato a proporre, non solo il compito di garantire la sicurezza collettiva, ma anche e soprattutto quello di ritualizzare l'esercizio della forza, allora è in relazione a questo parametro che andrebbe misurata la sua effettività regolativa e in definitiva la sua giuridicità. Cruciale in questo caso sarebbe la sua capacità - ovviamente non assoluta - di sottoporre il potere internazionale alle forme e alle procedure del diritto, escludendo quindi l'arbitrio e il privilegio e imbrigliando in particolare la propensione delle grandi potenze ad usare comunque la forza militare per realizzare le proprie strategie geopolitiche.

Adottando questo approccio si potrebbe dubitare del carattere 'evoluto' del modello giuridico disegnato dalla Carta delle Nazioni Unite. Kelsen e Bobbio plaudono a questo modello perché lo interpretano come un sistema di sicurezza internazionale caratterizzato da un elevato grado di centralizzazione delle funzioni coercitive (che a loro parere mancava del tutto alla Società delle Nazioni). Ma, abbiamo visto, alla stregua di un parametro realistico dovrebbe essere considerato superiore non il modello giuridico-istituzionale più centralizzato, ma quello capace di maggiore effettività rispetto alle sue finalità regolative. E da questo punto di vista sarebbe arduo riconoscere alle Nazioni Unite una qualche superiorità rispetto alla Società delle Nazioni. All'accentramento nel Consiglio di Sicurezza di rilevantissime funzioni militari - cosa che distingue le Nazioni Unite da ogni altra istituzione internazionale precedente - non ha certo corrisposto in questi decenni una loro superiore capacità di sottoporre il potere degli Stati alle regole del diritto internazionale.

Da questo ipotetico punto di vista si potrebbe anzi sostenere che sia la Società delle Nazioni a dover essere considerata una forma giuridica superiore. Il suo Covenant non piegava il diritto internazionale a riconoscere la supremazia di alcune grandi potenze, attribuendo loro il 'plusvalore giuridico' del potere di veto e una serie di altri privilegi e poteri arbitrari. E non mortificava uno dei principi fondamentali del diritto moderno, e cioè l'eguaglianza formale dei soggetti di diritto. Nonostante i suoi gravi limiti, la Società delle Nazioni non si prestava quindi a fornire una legittimazione giuridica quasi automatica alle strategie politico-militari delle grandi potenze, come avrebbero ripetutamente fatto le Nazioni Unite.

3.3. Una generalizzazione della teoria dei 'regimi giuridici'

Un terzo punto riguarda il problema delle fonti del diritto internazionale. Il normativismo pone l'enfasi sulla necessità di affidare l'attività normativa ad organi specializzati ed accentrati. Un approccio giusrealistico, pur senza negare in assoluto l'esigenza di una esplicita produzione di norme, dovrebbe a mio parere sottolineare piuttosto la funzione che i processi consuetudinari, consensuali e pattizi svolgono nella formazione del diritto internazionale. Nei settori in cui è maggiormente effettivo - si pensi ad esempio ai protocolli diplomatici e consolari, alla mutua protezione dei cittadini all'estero o all'asilo politico - il diritto internazionale moderno si è formato molto lentamente nel corso dei secoli. Lo stesso ius gentium classico, come ha sostenuto fra gli altri, in diretta polemica con Kelsen, Friedrich von Hayek, si è formato non in forza di decretazioni legislative ma sulla base delle secolari consuetudini degli scambi commerciali, consolidatesi nei porti e nelle fiere. Secondo Hayek, fra l'altro, si dovrebbe riconoscere a queste consuetudini (e non alle rivoluzioni borghesi) il merito di aver favorito in occidente l'affermazione di società libere ed aperte.

In opposizione al volontarismo legislativo che ha origine nella cultura giuridica illuministica e nel codicismo ottocentesco, da Jeremy Bentham a John Austin e fino a Kelsen, una filosofia giusrealistica dovrebbe considerare il diritto in generale - e quello internazionale in particolare - come un fenomeno, si potrebbe dire, di natura 'sistemica'. Ciò che alla fine si afferma come disciplina effettiva di singoli casi concreti è il risultato olistico di interazioni normative fra comportamenti e aspettative di comportamenti (e aspettative di aspettative di comportamenti). Ciascun attore persegue fini particolari senza minimamente proporsi di contribuire alla stabilità di un 'ordinamento giuridico' ed anzi cercando di sottrarsi, in tutti i casi in cui lo ritenga vantaggioso, alle sue regole formali. In altre parole, la prassi effettiva che regola i rapporti sociali assimila molto selettivamente, attraverso complesse transazioni reinterpretative e distorsive, gli impulsi che la normazione formale le trasmette, e questo vale in particolare per l'ambito internazionale, che è fra i più complessi.

E dunque, piuttosto che accreditare l'idea di una lex mundialis che disciplini i rapporti internazionali dall'alto di una monolitica gerarchia normativa - di una sorta di Stufenbau planetaria - una teoria delle fonti del diritto internazionale potrebbe far propria e tentare di generalizzare, come ho già accennato, la teoria dei 'regimi internazionali' elaborata da Robert Keohane e Stephen Krasner (4). Keohane e Krasner hanno mostrato che l'assenza di una normazione e di una giurisdizione centralizzate e vincolanti non esclude che importanti questioni vengano disciplinate unitariamente dalla maggior parte degli attori internazionali. Né impedisce che comportamenti difformi dalle regole sottoscritte vengano in varie forme sanzionati, senza tuttavia far ricorso all'uso della forza militare: questo vale ad esempio in issue-areas come il commercio internazionale, il sistema dei cambi, la pesca oceanica, la ricerca spaziale, la meteorologia, la disciplina delle attività umane nell'Antartico e in molti altri settori. I 'regimi internazionali' stabiliscono frames di responsabilità giuridica consolidando apparati di norme generali, di regole specifiche e di procedure che hanno lo scopo di disciplinare l'interazione fra gli attori, di definirne i diritti e di indirizzarne in vario modo i comportamenti.

In condizioni di elevata complessità e interdipendenza dei fattori internazionali la negoziazione multilaterale è dunque una fonte decentrata di produzione e di applicazione del diritto che è efficace nonostante l'assenza di funzioni normative e giurisdizionali centralizzate. Il carattere in larga parte spontaneo del fenomeno mostra fra l'altro come la possibilità di una disciplina delle relazioni internazionali non sia condizionata dalla rimozione della sovranità degli Stati, anche se, ovviamente, essa comporta una sua autolimitazione pattizia.

3.4. La guerra moderna: legibus soluta

Il quarto punto riguarda il problema della qualificazione giuridica della guerra moderna e, per connessione tematica, quello del ruolo che in una strategia di peacemaking possono svolgere le istituzioni giudiziarie sovranazionali recentemente costituite o di prossima costituzione.

La tesi centrale che intendo proporre - in opposizione a quello che non esito a considerare un vero e proprio infortunio teorico kelseniano - è che la guerra moderna non può essere in alcun modo interpretata come una sanzione giuridica di diritto internazionale. Ho già esposto, nel corso del primo saggio, le ragioni che a mio parere corroborano questa tesi (5). Aggiungo qui soltanto un argomento generale: una filosofia moderna e realistica del diritto internazionale dovrebbe prendere le distanze da ogni versione della dottrina della 'guerra giusta', sia che si tratti di una versione etica, come è il caso della tradizione del iustum bellum, di recente riproposta da Michael Walzer (6), sia che si tratti di una versione più strettamente giuridica (e' il caso della rielaborazione kelseniana).

Se la funzione primaria del diritto internazionale è, come io penso, quella di sottoporre l'esercizio del potere internazionale al rispetto di regole generali e quindi, anzitutto, di criteri di proporzione, di discriminazione e di misura nell'uso della forza, ne segue che in epoca nucleare - dopo Hiroshima e Nagasaki - la guerra debba essere considerata come un fenomeno incompatibile con il diritto, come legibus soluta. Bobbio stesso ha avanzato questa tesi, lo abbiamo visto, in polemica diretta con i moderni fautori della dottrina del iustum bellum. La guerra moderna - ha scritto Bobbio in un suo saggio degli anni sessanta - si è posta al di fuori di ogni possibile criterio di legittimazione e di legalizzazione: essa è incontrollata e incontrollabile dal diritto, come un terremoto o come una tempesta. Dopo essere stata considerata prima come un mezzo per attuare il diritto (dalla teoria della 'guerra giusta') e poi come un possibile oggetto di regolamentazione giuridica (nell'evoluzione del ius in bello) la guerra oggi è ritornata ad essere, ha sostenuto Bobbio, l'antitesi del diritto (7).

La guerra moderna, condotta con armi nucleari (o quasi-nucleari, come la Guerra del Golfo del 1991) è un evento incommensurabile sul piano etico e giuridico perché ha per sua natura la funzione di distruggere - senza proporzioni, senza discriminazione e senza misura - la vita, i beni e i diritti di (migliaia o centinaia di migliaia di) esseri umani, prescindendo da una considerazione dei loro comportamenti responsabili (8). Essa si sottrae perciò, esattamente come il terrorismo, all'applicazione di ogni possibile tecnica normativa, sia di carattere giuridico sia, e tanto più, di carattere morale, essendo in sede morale ancora meno proponibile quella teoria della 'responsabilità oggettiva', infelicemente rivalutata da Kelsen. La guerra moderna è incompatibile con il diritto internazionale così come sarebbe in contraddizione con l'ordinamento di uno Stato di diritto un'operazione di polizia che per catturare o uccidere un criminale che si fosse asserragliato nel quartiere di una città decidesse, in nome dell'ordine pubblico, di radere senz'altro al suolo con borbardamenti a tappeto l'intero quartiere, uccidendo, assieme al criminale, gli abitanti del quartiere.

Quanto alle istituzioni giudiziarie sovranazionali - dai Tribunali di Norimberga e di Tokio al più recente Tribunale penale dell'Aia per la ex Jugoslavia e a quello per il Ruanda - mi limito a rinviare alla critica che già negli anni settanta Hedley Bull aveva dedicato a questo tipo di istituzioni (9). Aggiungo qui una sola considerazione di carattere generale: ciò che oggi non può non sorprendere è l'assenza di qualsiasi riflessione in termini di filosofia della pena a proposito della attività giudiziaria di questi nuovi organi penali. Che dietro l'istituzione del Tribunale di Norimberga ci fosse una palese volontà di vendetta politica, appena rivestita con i panni della giustizia internazionale, era così palese che lo stesso Kelsen non poté evitare di denunciarlo con forza. Ma alla base dei nuovi Tribunali internazionali c'è l'idea che infliggendo severe condanne penali a qualche decina di persone - in futuro potrà trattarsi di qualche centinaio - si realizzi una sorta di 'giurisdizione penale umanitaria' per la promozione dei diritti dell'uomo e la garanzia della pace mondiale.

Uno degli slogan più ricorrenti in bocca ai fautori del nuovo Tribunale Penale Internazionale, al quale mi sono più volte riferito, è: "Non c'è pace senza giustizia!". C'è qui a mio parere, al di là dell'enfasi propagandistica, una visione molto semplificata del rapporto fra la giustizia - qui singolarmente intesa in un senso soltanto giudiziario - e la pace mondiale. Ma c'è soprattutto una sorta di feticismo penale, ingenuamente applicato ai rapporti internazionali, quasi che non ci fossero alle nostre spalle alcuni secoli di riflessione teorica sulla dubbia efficacia preventiva, sia speciale che generale, delle afflizioni penali - in modo particolare delle pene detentive - e non ci fossero perplessità crescenti sull'efficacia riabilitativa del trattamento carcerario.

I fervidi sostenitori di questo inedito internazionalismo giudiziario e penitenziario - all'Aia è stato costruito il primo carcere sovranazionale della storia - sembrano ignorare la conclusione alla quale la ricerca teorica e sociologica sulle strutture penitenziarie moderne è sostanzialmente pervenuta: e cioè che il significato profondo di queste strutture continua ad essere quello retributivo-vendicativo, secondo un'arcaica logica sacrificale e vittimaria che il razionalismo giuridico moderno ha tentato di rimuovere, ma ha in realtà riproposto sotto nuove vesti (10). I 'globalisti giudiziari' dovrebbero per lo meno tentare di argomentare che le pessimistiche conclusioni che riguardano le strutture penitenziarie degli Stati non sono pertinenti all'ambito internazionale. In assenza anche di questo minimo sforzo di riflessione, si può ritenere che la giurisdizione sovranazionale che sta per nascere non è assistita da alcuna seria filosofia della pena. E questo aggrava il timore che le nuove istituzioni non svolgeranno in sostanza altro ruolo che quello di attribuire, grazie alla loro aureola di imparzialità, un surplus di legittimazione simbolica alle attuali istituzioni internazionali.

3.5. Un diritto sovranazionale minimo

Il quinto punto, che potrebbe essere intitolato 'un diritto sovranazionale minimo' conclude e in qualche modo compendia questa mia breve esposizione. Come ho già ricordato, è stato Hedley Bull ad avanzare per primo l'idea che sia preferibile a livello internazionale puntare su un 'ordine politico minimo', mettendo da parte l'ideale di un 'ordine politico ottimo'. In questo modo Bull esprimeva diffidenza verso l'ipotesi di un'autorità mondiale alla quale venisse affidato, secondo l'ideologia dei Western globalists, il compito di garantire, oltre ad una pace stabile e universale, la giustizia distributiva, lo sviluppo economico, la protezione internazionale dei diritti soggettivi, l'equilibrio ecologico del pianeta, il contenimento della crescita demografica e così via (11). Un'autorità cosmopolitica di questo tipo, anche la più democratica, non avrebbe potuto che essere intensamente interventista e pervasiva e minacciare quindi l'integrità e l'autonomia delle civiltà e delle culture.

Prendendo ispirazione da questa opzione neo-groziana e realistica intendo sostenere che il diritto internazionale dovrebbe mirare alla costituzione di una 'società giuridica' che sia in grado di coordinare i soggetti della politica internazionale secondo una logica di sussidiarietà normativa rispetto alle competenze degli ordinamenti statali. E cioè concedendo una quantità minima di potere propriamente sovranazionale ad organi centralizzati e consentendo un ricorso minimo a interventi coercitivi che non siano di volta in volta autorizzati dalla comunità internazionale in base al principo della 'eguale sovranità' di tutti i suoi membri.

E' in questo senso che propongo l'espressione 'diritto sovranazionale minimo': secondo una logica federalistica applicata al rapporto fra competenze normative degli Stati nazionali e competenze normative di organi sovranazionali, questo diritto lascerebbe un ampio spazio alle funzioni della domestic jurisdiction, senza pretendere di sostituirla o di soffocarla con organismi normativi o giudiziari sovranazionali. In altre parole, l''ordine politico minimo' - proprio per restare tale, e cioè 'minimo' - dovrebbe fondarsi su una sorta di 'regionalizzazione policentrica' del diritto internazionale, anziché su una struttura gerarchica che rischierebbe di provocare la rivolta delle 'periferie'.

Questo e' secondo me un punto di grande rilievo: sia per la ragione generale del rispetto delle diverse tradizioni culturali, politiche e giuridiche, sulla quale ho più volte insistito, sia e soprattutto per quanto riguarda la protezione dei diritti soggettivi. Resta infatti ancora da provare che la tutela internazionale dei diritti di libertà - compito che nella tradizione europea, continentale e anglosassone, è gelosamente affidato alle strutture dello Stato di diritto (o rule of law) - possa essere utilmente trasferita ad organismi sovranazionali. Ciò che si oppone ad una tale prospettiva è l'assenza - sia a livello delle Nazioni Unite che a livello di istituzioni di integrazione regionale come l'Unione Europea - di un assetto costituzionale dei poteri sovranazionali minimamente assimilabile a quella di uno Stato di diritto.

Sarebbe dunque contradittorio e rischioso affidare la protezione dei diritti soggettivi alla competenza esclusiva - o anche soltanto prevalente - di organismi giudiziari diversi da quelli nazionali, persino nell'ipotesi in cui fossero gli organi politici o giudiziari di uno Stato nazionale a violare i diritti di libertà dei cittadini. E' infatti illusorio pensare che, salvo eccezioni irrilevanti, la tutela delle libertà fondamentali possa essere garantita in ambito internazionale se questa tutela non è anzitutto garantita in ambito interno, dalle istituzioni liberali e democratiche di uno Stato di diritto. E questo argomento può essere fatto valere, in particolare, anche per la giustizia esercitata dai Tribunali penali internazionali.

Un 'diritto sovranazionale minimo' non dovrebbe comunque significare una sorta di inerzia della comunità internazionale di fronte ai molti problemi che oggi hanno assunto una dimensione globale - a cominciare dal problema della pace - e di fronte ai quali i singoli Stati sono scarsamente o per nulla attrezzati. E' tuttavia a mio parere importante tenere distinta l'esigenza di un coordinamento giuridico e di una stretta collaborazione politica fra i soggetti politici internazionali dall'idea che l'accentramento del potere in organi sovranazionali sia una valida risposta ai problemi posti dai processi di globalizzazione.


Note

*. Da Danilo Zolo, I signori della pace, Roma, Carocci, 1998.

1. Come è noto, è stato Hegel a sottolineare sarcasticamente la corrispondenza fra la proposta cosmopolitica contenuta in Zum ewigen Frieden e l'istituzione della Santa Alleanza: "Kant ha proposto una lega di Principi, la quale deve appianare le contese degli Stati; e la Santa Alleanza ebbe l'intento di essere, press'a poco, un siffatto istituto" (cfr. G.W.F Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821), a cura di E. Gans, Stuttgart, Friedrich Frommann Verlag, 1964, pp. 434-5, trad. it. Lineamenti di filosofia del diritto, Aggiunta al paragrafo 324, Bari, Laterza, 1954, p. 388). Ed è stato Hans Morgenthau a scivere che "Il governo internazionale delle Nazioni Unite si identifica con il governo internazionale del Consiglio di Sicurezza. Il Consiglio di Sicurezza è, per così dire, la Santa Alleanza del nostro tempo. E i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sono una Santa Alleanza entro la Santa Alleanza" (Politics Among Nations, New York, Knopf, 1960, p. 480).

2. Si racconta che uno scozzese, perdutosi nelle campagne circostanti Edimburgo, si sia rivolto a un contadino per chiedergli se poteva indicargli la strada per raggiungere la città. Il contadino gli rispose: "Signore, se io fossi in lei, non partirei da qui per andare ad Edimburgo". La teoria secondo la quale il sistema degli Stati nazionali non offre un buon punto di partenza per la costruzione dell'ordine mondiale mi ricorda da vicino questa storiella. (Hedley Bull, The Anarchical Society, London, Macmillan, 1977, p. 295)

3. Sul tema della 'riduzione della paura', che mi e' stato ispirato sia da Niklas Luhmann che da Arnold Gehlen, si possono vedere le pagine che gli ho dedicato in Il principato democratico, Milano, Feltrinelli, 1992, in particolare nel corso del terzo capitolo.

4. Come è noto la nozione di 'regimi internazionali' è stata introdotta nel 1975 da John G. Ruggie nel saggio 'International responses to technology: concepts and trends', International Organization, 29 (1975), 3, pp. 557-84. Per la sua rielaborazione neorealista si veda: R.O. Keohane, 'The demand for international regimes', ora in S.D. Krasner (a cura di), International Regimes, New York, Cornell University Press, 1983, pp. 141-71; R.O. Keohane, 'Lo studio dei regimi internazionali e la tradizione classica nelle relazioni internazionali', Rivista italiana di scienza politica, 17 (1987), 3, pp. 349-76. Così Krasner definisce la nozione di 'regime giuridico': "un insieme di principi, norme, regole e procedure decisionali, impliciti od espliciti, su cui convergono le aspettative degli attori in una data area delle relazioni internazionali. I principi sono credenze relative a fatti, a rapporti causali e a valori morali. Le norme sono standards di comportamento definiti in termini di diritti e di doveri. Le regole sono specifiche prescrizioni o specifici divieti di carattere pratico. Le procedure decisionali sono prassi consolidate per prendere ed eseguire decisioni collettive" (cfr. S.D. Krasner, 'Structural causes and regime consequences: regimes as intervening variables', ora in S.D. Krasner, a cura di, International Regimes, New York, Cornell University Press, 1983, p. 2).

5. Sul tema mi permetto di rinviare al mio saggio 'La guerra, il diritto e la pace in Hans Kelsen', Filosofia politica, 12 (1998), 2.

6. Ho dedicato alcune pagine del terzo capitolo di Cosmopolis, Milano, Feltrinelli, 2002, ad un tentativo di confutazione delle principali tesi sostenute da Michael Walzer in Just and Unjust Wars.

7. Cfr. N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, il Mulino, 1984, p. 60.

8. E dunque per 'guerra moderna' intendo qui non solo una guerra combattuta con armi nucleari o quasi-nucleari - ad esempio i fuel-air explosives usati dagli Stati Uniti nella Guerra del Golfo - ma qualsiasi azione militare, condotta con armi di distruzione di massa, che comporti necessariamente e perciò consapevolmente, l'uccisione o mutilazione di persone, la distruzione dei loro beni o la violazione dei loro diritti fondamentali, prescindendo da una considerazione della loro responsabilità individuale o delle ragioni per cui si trovano coinvolte nel conflitto. Da questo punto di vista è indifferente che si tratti di civili o di militari.

9. Cfr. H. Bull, The Anarchical Society, cit., p. 89. Bull criticava in particolare il carattere selettivo di queste sentenze e l'asimmetria di potere fra giudicati e giudicanti.

10. Sul tema mi permetto di rinviare al mio saggio 'Razionalità ed esecuzione penale: la questione carceraria', in corso pubblicazione su Micromega. Si veda inoltre il recente contributo di E. Santoro, Carcere e società liberale, Torino, Giappichelli, 1998.

11. Cfr. H. Bull, The Anarchical Society, cit., pp. 284-95, 302-5.