2015

La rinascita della guerra dallo spirito della rivoluzione

Una lettura introduttiva del volume Die Wiedergeburt des Krieges aus dem Geist der Revolution, a cura di Johannes Kunisch e Herfried Münkler  

Giovanni Gerardi




Nel volume curato da Johannes Kunisch e Herfried Münkler Die Wiedergeburt des Krieges aus dem Geist der Revolution1 viene esaminato il discorso bellico elaborato in Germania tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. La Rivoluzione francese e l’esperienza napoleonica determinarono un radicale mutamento intorno a questo tema e nel giro di pochi decenni i progetti illuministici di pace furono sostituiti da un atteggiamento giustificatorio, quando non di esaltazione nei confronti della guerra. Sul piano della prassi, a questa trasformazione corrispose il passaggio da un modello di guerra, quello di Antico regime, regolato da norme condivise, a uno, quello postrivoluzionario, privo di vincoli normativi e aperto a qualsiasi modalità di combattimento. Sebbene necessaria, i curatori del volume ritengono che la storia europea a cavallo tra i due secoli non sia sufficiente a spiegare la rapidità di questo passaggio. Uno sguardo complessivo sulla cultura del Settecento mostra che già prima della Rivoluzione francese, dentro e fuori i confini tedeschi, avevano trovato spazio posizioni distanti dal pacifismo illuministico e favorevoli a una valutazione positiva della guerra; inoltre, queste posizioni erano state elaborate da pensatori ancora impregnati dell’ideale umanistico proprio dell’Illuminismo e del razionalismo settecenteschi. È allora apparso legittimo domandarsi se il discorso bellicista postrivoluzionario non trovi le proprie radici nella cultura politica precedente la Rivoluzione. Domanda a cui i curatori del volume danno una risposta positiva: non solo la concezione della guerra che prese piede in Germania tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento è debitrice nei confronti della cultura di Antico regime, ma le sue tesi fondamentali nascono dallo sviluppo di alcune convinzioni elaborate per la prima volta all’interno del pensiero illuminista. Ne consegue – questa la tesi principale del volume – che il passaggio dal pacifismo illuministico al bellicismo postrivoluzionario deve essere interpretato come un caso particolare di «dialettica della Aufklärung» (p. III), dunque nei termini di un movimento determinato anzitutto dall’interno, come svolgimento coerente di alcuni presupposti già dati in nuce, e solo secondariamente da fattori storici esteriori. A sostegno di questa tesi, i curatori hanno ritenuto di adottare un approccio interdisciplinare e, insieme a interventi di rilievo storico-filosofico, hanno proposto contributi relativi alla letteratura e alle arti figurative, oltre che alla pubblicistica e alla discussione militare.

La ricerca di posizioni prerivoluzionarie orientate all’attribuzione di un valore positivo alla guerra giustificano due interventi sulla storia e sulla cultura politica anglosassoni nel XVIII secolo. Il primo è quello di M. Bohlender, Die Poetik der Schlacht und die Prosa des Krieges, il quale, prendendo spunto dalla discussione avvenuta in Regno Unito sull’opportunità o meno di istituire in Scozia una milizia cittadina, esamina la posizione di Adam Ferguson intorno al rapporto tra guerra e società civile. Respingendo il modello hobbesiano, dominante nella discussione politica della sua epoca e fondato sull’idea di una loro reciproca esclusione, Ferguson afferma che guerra e società non solo non sono separate, ma risultano legate tra loro da un nesso strutturale: è nella guerra che ogni società trova la propria origine ed è sempre la guerra, o quantomeno la conflittualità verso l’esterno, a garantirne l’unità e la coesione interna. Questa tesi porta a sostenere l’opportunità di una milizia-cittadina e, cosa che più conta, ad assegnare alla guerra una funzione morale, quale argine contro gli effetti degenerativi della società mercantilistica settecentesca e unico modo per portare il cittadino a interessarsi del bene comune. L’intervento si conclude con un confronto tra Ferguson e Adam Smith, tra i quali viene evidenziata l’esistenza di un «dialogo silenzioso» (p. 33): a differenza di Ferguson, Smith ritiene l’esercito permanente preferibile alla milizia cittadina; ciononostante, egli non nega l’utilità di quest’ultima e, come il suo interlocutore, sostiene che possa fungere da rimedio contro il deperimento morale della popolazione. Il secondo intervento è quello di J. Heideking, „People’s War or Standing Army?“. Die Debatte über Militärwesen und Krieg in den Vereinigten Staaten von Amerika im Zeitalter der Französischen Revolution, che – come chiarisce il titolo – sposta l’analisi dal Regno Unito agli Stati Uniti e si concentra sulle conseguenze della guerra di indipendenza sulla politica e sul dibattito pubblico americani. Heideking sostiene tre tesi. La prima è che la guerra di indipendenza ebbe un carattere rivoluzionario, sia perché la politica e l’ideologia svolsero un ruolo cruciale, sia perché, con il coinvolgimento attivo della cittadinanza nelle operazioni di guerra, fu fatta cadere la tradizionale distinzione tra sfera militare e sfera civile. La seconda tesi è che, come esito della discussione sul tipo di difesa militare di cui la repubblica appena sorta avrebbe avuto bisogno, si delineò un modello di difesa alternativo a quello degli Stati europei, fondato, anziché su un esercito permanente di grosse dimensioni, su un piccolo esercito regolare, funzionale all’esigenza di preservare il confine occidentale contro le tribù indiane e rafforzabile all’occorrenza su base volontaria. Infine, viene evidenziato come la vittoria nella seconda guerra di indipendenza (1812-14) avesse rafforzato la coscienza di una distanza tra Europei e Americani, oltre alla diffusione tra questi ultimi di un sentimento di invincibilità.

Diversamente dal mondo anglosassone, dove il dibattito si concentra sull’alternativa tra esercito permanente e milizia cittadina, nel mondo tedesco la storia prerivoluzionaria del discorso bellico assume, in casi significativi, i contorni più netti dell’apologia della guerra. Dopo un breve intervento di Rolf Sprandel, Die Rechtfertigung des Krieges durch die Hofchronisten im spätmittelalterlichen Deutschland, in cui si spiega l’importanza della concezione tardomedievale della guerra come «vertenza» (Rechtsstreit) rispetto alla successiva riflessione intorno allo ius in bello (p. 7), vengono proposti due contributi riguardanti la cultura del XVIII secolo: il primo è quello di W. Janssen, Johann Valentin Embser und der vorrevolutionäre Bellizismus in Deutschland, il secondo quello di J. Kunisch, Die Denunzierung des Ewigen Friedens. Der Krieg als moralische Anstalt in der Literatur und Publizistik der Spätaufklärung. L’importanza di Johann Valentin Embser viene indicata da Janssen nell’aver avanzato una posizione critica verso ogni forma di pacifismo, ed esplicitamente favorevole alla guerra, non solo in un momento in cui la cultura della Aufklärung era ancora dominante (la sua opera principale risale al 1779), ma anche all’interno di un quadro concettuale in parte ancora di matrice illuministica. Alla tesi secondo cui la pace perpetua sarebbe, oltre che irrealizzabile, anche non auspicabile, Embser giunge guidato da motivi che anticipano alcuni orientamenti culturali successivi e che diventeranno tipici del pensiero ottocentesco (come il culto della forza e dell’individualità creativa oppure la natura oppositiva del rapporto tra nazioni); tuttavia – sottolinea Janssen – l’impianto teorico della sua argomentazione risulta legato alla cultura della Aufklärung nella misura in cui l’esaltazione dello spirito guerriero viene vista come rimedio contro il dispotismo tirannico e quale modello politico de perseguire viene indicato una forma di assolutismo illuminato. Nella stessa direzione va il contributo di Kunisch, il quale prende in esame la cultura tedesca del tardo Illuminismo, con particolare riferimento allo scrittore Wilhelm Friedrich von Meyern e al suo romanzo Dya-Na-Sore (pubblicato la prima volta in tre volumi fra il 1787 e il 1791). Influenzato contemporaneamente dall’Illuminismo e da motivi provenienti dallo Sturm und Drang, Meyern svolge una critica dello Stato assolutistico di Antico regime che lo porta ad auspicare un completo ripensamento dell’esercito: in anticipo sul corso politico avviato dalla Rivoluzione francese, immagina l’attività militare come determinata dalla volontà del soldato, che combatte, anziché per guadagno, per amore del proprio paese e che a questo fine è disposto a sacrificare la propria vita. Inoltre, auspica il superamento della divisione tra soldati e cittadini: attraverso il loro reciproco incontro, i primi smetterebbero di essere schiavi nelle mani delle corti, mentre i secondi guadagnerebbero l’esperienza di chi, con coraggio e fermezza, combatte contro il nemico. Ne emerge una concezione della guerra in controtendenza rispetto al pacifismo dell’epoca: non come male da evitare, ma come catalizzatore in grado di favorire una trasformazione morale della società, ovvero di sviluppare nei cittadini le fondamentali virtù della disponibilità al sacrificio e dell’amor di patria. Secondo Kunisch, non si tratta però di una semplice voce fuori dal coro, che va ad aggiungersi a poche altre simili (come quella di Embser), ma di uno sviluppo, anticipatorio e visionario, di premesse che a ben guardare affondano nella cultura dell’Illuminismo; è infatti la necessità di andare oltre lo Stato dispotico, in cui non ci sono cittadini ma sudditi, a rendere urgente una trasformazione politica e sociale, e dunque a chiamare in causa lo strumento che meglio di tutti è in grado di condurre a questo risultato: la guerra.

Tre contributi si soffermano sulla percezione della guerra e sulla sua rappresentazione, anche iconografica, durante il periodo rivoluzionario e napoleonico. Quello di H-U. Thamer, „Freiheit oder Tod“. Zur Heroisierung und Ästhetisierung von Krieg und Gewalt in der Ikonographie der Französischen Revolution, muove dalla negazione dell’esistenza di un nesso causale fra guerra e Terrore (la violenza è presente nella Rivoluzione fin dall’inizio) e indica nell’iconografia rivoluzionaria successiva al 1792 la rappresentazione di motivi finalizzati a giustificare la guerra contro le potenze europee, quali l’addio dei soldati, la gloria guadagnata attraverso i combattimenti e la morte per la patria. Quello di P. Paret, Die Darstellung des Krieges in der Kunst, considera le rappresentazioni belliche nella pittura e, in corrispondenza con l’andamento della Rivoluzione e l’affermarsi della dominazione napoleonica, registra un loro incremento, significativo di un’attenzione verso la guerra incomparabilmente maggiore rispetto alla fase storica antecedente. Infine, quello di W. von Bredow, Goethe in Valmy, si concentra sulla celebre rappresentazione data da Goethe della battaglia combattuta il 20 settembre 1792 tra Francesi e Prussiani, ridimensionandone il carattere profetico e riducendola a un giudizio retrospettivo influenzato da quanto accaduto in Europa durante i trent’anni successivi.

L’impostazione interdisciplinare del volume e la volontà di fornire un quadro d’insieme il più possibile esaustivo portano a dedicare ampio spazio, con tre interventi, alla letteratura militare. Il primo intervento è quello di M. Sikora, Scharnhorst und die militärische Revolution. Fermo nel rilevare la natura rivoluzionaria della riforma militare cui il generale Gerhard von Scharnhorst diede il proprio contributo, Sikora ne riconduce le ragioni a interessi prevalentemente politici e ne inserisce la genesi all’interno di un un quadro complessivo che vede rivoluzione e guerra legate in modo indissolubile. L’Autore ritiene che una comprensione adeguata della posizione di Scharnhorst non possa limitarsi alla formulazione più matura (dunque all’accentazione della motivazione soggettiva rispetto alla tattica militare e al problema di come portare la popolazione a un atteggiamento propositivo verso l’istituzione dell’esercito), ma debba prenderne in esame anche l’evoluzione: ancora nel 1792 il generale prussiano era un sostenitore degli eserciti permanenti, di cui difendeva la necessità contro le obiezioni che da più parti venivano loro rivolte, e anche quando a partire dal 1794 mutò la propria posizione in favore di una mobilitazione nazionale ispirata al modello francese non rinunciò mai all’idea di una formazione militare capace di disciplina. L’Autore, inoltre, tiene a evidenziare la distanza tra Scharnhorst e la cultura di Antico regime: fin dall’inizio, non da ultimo per ragioni biografiche, l’elaborazione scharnhorstiana prende infatti le distanze dalla rigida distinzione in ceti della vecchia società europea e sostiene la necessità che tutti, non solo i nobili, possano fare carriera nell’esercito e arrivare a ricoprire il ruolo di ufficiali. Segue l’intervento di Andreas Herberg-Rothe, Die Entgrenzung des Krieges bei Clausewitz, la cui analisi muove da alcune interpretazioni di Vom Kriege giudicate «idealtipiche» (p. 189) – da un lato quelle che vedono nel suo autore il teorico della guerra totale, combattuta con ogni mezzo e orientata all’abbattimento del nemico, dall’altro quelle che ne indicano la principale preoccupazione nella subordinazione della guerra alla politica – con l’obiettivo di spiegarle alla luce della compresenza, all’interno dell’opera principale di Clausewitz, di motivi teorici contrastanti e in tensione tra loro. Herberg-Rothe si sofferma sul mutamento della realtà politica e militare che si trovava davanti agli occhi del generale prussiano: senz’altro, l’ammirazione verso Napoleone portò a giustificare la «Entgrenzung der Gewalt» (p. 191) e, sul piano strategico, ad affermare la necessità delle grandi battaglie campali; proprio le vicende napoleoniche, segnatamente la campagna di Russia e la guerriglia spagnola, imposero tuttavia una relativizzazione di queste vedute, e misero in rilievo sia il bisogno di sottoporre il conflitto a norme sia la necessità di storicizzare ogni valutazione strategica. Secondo l’Autore, la tensione maggiore nasce dalla compresenza di una concezione esistenziale della guerra, come lotta per il riconoscimento, e una concezione strumentale, dove la guerra è un mezzo della politica. Si tratta di una compresenza resa possibile dalla complessità del rapporto tra Entgrenzung e Begrenzung: se per un verso, infatti, l’esigenza di ottenere un successo militare spinge verso l’eliminazione di limiti all’azione bellica, per l’altro impone ad essa delle restrizioni necessarie affinché l’obiettivo sia effettivamente raggiunto. L’intervento di Herberg-Rothe propone anche un confronto tra la posizione di Clausewitz e quella di Hegel, accomunati dal tentativo di spiegare il conflitto in relazione all’esigenza di riconoscimento (anziché a quella di sopravvivenza), ma distanti nell’interpretazione data della morte, per il filosofo un impedimento rispetto al risultato che si vuole ottenere, per il generale il momento più alto della lotta. Completa l’excursus sulla letteratura militare il contributo di J-J. Langendorf, Rühle von Lilienstern und seine Apologie des Krieges. Dopo una breve descrizione del suo profilo caratteriale e della rappresentazione dei contemporanei, l’Autore traccia schematicamente i princìpi essenziali della riflessione di Rühle von Lilienstern: l’impossibilità di una scienza militare slegata dall’esperienza; la guerra come arte; l’intreccio tra guerra e politica; l’equipollenza strategica tra guerra offensiva e guerra difensiva e la non identificabilità della seconda con la guerra giusta; l’indicazione dello scopo della guerra nell’abbattimento del nemico; l’impossibilità di calcolare i rapporti di forza in modo meccanico; il valore educativo della guerra; la necessità di sostituire gli eserciti permanenti tradizionali con formazioni basate sulla forza viva di tutta la popolazione. Nella produzione del generale prussiano, Langendorf assegna una posizione di rilievo a due scritti, Hieroglyphen, del 1808, e Reise mit der Armee im Jahre 1809, del 1810. Lo stesso, ai suoi occhi, non vale per la Apologie des Krieges, pubblicata nel 1813 e la cui importanza consiste nel solo tentativo di dare della guerra una spiegazione di tipo metafisico e nell’idea, con richiamo all’opera di Adam Müller, che pace e guerra siano due forze opposte e complementari, inestirpabili dalla natura umana.

Due sono i contributi rivolti in modo specifico alla filosofia classica tedesca. Quello di M. Mori, Das Bild des Krieges bei den deutschen Philosophen, fornisce un quadro di insieme sulle ragioni teoriche che, a cavallo tra Sette e Ottocento, portano ad abbandonare il pacifismo illuministico in favore di una valutazione positiva della guerra. Mori individua tre elementi di crisi nella cultura del XVIII secolo. In primo luogo la crisi della filosofia illuministica della storia e il passaggio da una concezione lineare a una conflittuale del progresso. Il secondo elemento di crisi riguarda la concezione giusnaturalistica dello Stato, il cui punto di vista meccanico e statico è sostituito da uno di tipo organicistico e dinamico. Infine, ad entrare in crisi sono l’eudemonismo illuministico e l’indicazione della felicità quale fine più alto dell’esistenza, in luogo dei quale ha assunto un posto di primo piano la disponibilità al sacrificio da parte del singolo. Al cambiamento della pratica bellica seguito alla crisi dell’Antico regime fa riscontro una cambiamento nella rappresentazione teorica della guerra stessa, che ha come corollario l’assegnazione al conflitto tra Stati (o tra popoli) del ruolo di motore storico, di fonte del diritto e di momento essenziale della formazione morale dell’individuo. L’altro contributo è quello di H. Münkler, „Wer sterben kann, wer will denn den zwingen“ - Fichte als Philosoph des Krieges, che esamina la concezione fichtiana della guerra, con particolare riferimento alla lezione del 1813 Über den Begriff des wahrhaften Krieges. La posizione di Fichte, comprensibile unicamente alla luce della tesi che afferma il primato dell’azione sui fatti, muove dalla distinzione tra due modelli di vita a cui devono essere fatti corrispondere altrettanti modelli di guerra: all’interpretazione della vita come vita terrena, finalizzata al soddisfacimento dei bisogni materiali, corrisponde la concezione della guerra come strumento per la difesa della proprietà; all’interpretazione della vita come vita spirituale, finalizzata al raggiungimento di fini etici, corrisponde invece la concezione della guerra come strumento per la realizzazione della libertà. Quest’ultima, l’unica a poter essere considerata “vera”, deve essere fatta coincidere con la guerra di popolo («Volkskrieg») e non con la guerra dinastica («Fürstenkrieg») che, tipica dell’Antico regime e scomparsa attraverso le esperienze rivoluzionaria e napoleonica, aveva come fine esclusivo l’interesse dei prìncipi. Da questa impostazione – nota Münkler – Fichte ricava un corollario importante, ovvero che per essere “vera” la guerra deve anche essere priva di limitazioni ed essere condotta fino all’estremo delle sue possibilità (cosa essenziale anche per sconfiggere Napoleone).

Concludono il volume tre interventi sulla rappresentazione letteraria della guerra. Quello di Peter J. Brenner, Jean Pauls Friedens-Predigt. Die Ästhetisierung des Krieges in den „politischen Schriften“, dopo aver ricordato come il Settecento, fino a Kant compreso, fosse stato costantemente attraversato dall’idea di una potenzialità morale della guerra, esamina i testi letterari e politici di Jean Paul, da lui collocato sul punto di passaggio tra cultura illuministica e cultura romantica. Ne emerge una riflessione per nulla sistematica che, lontana dal giustificare l’idea di un pacifismo del poeta, lascia emergere un sostanziale disinteresse verso gli eventi bellici del suo tempo; secondo l’Autore, la costante ricorrenza del tema della guerra negli scritti di Jean Paul dipende non tanto da un interesse politico, quanto da un’inclinazione pedagogica ereditata dall’Illuminismo e, allo stesso tempo, dall’individuazione nella guerra di un’occasione artistica, dalla sua interpretazione come fenomeno estetico corrispondente alle esigenze dell’arte e della poesia romantiche. Segue l’intervento di Ernst Weber, Der Krieg und die Poeten. Theodor Körners Kriegsdichtung und ihre Rezeption im Kontext des reformpolitischen Bellizismus der Befreiungskriegslyrik. Weber lega la poesia di Theodor Körner alla Befreiungskriegslyrik, facendo notare i molti punti comuni e sottolineando come la ricezione dell’una sia andata di pari passo con la ricezione dell’altra; allo stesso tempo, però, viene messa in luce anche la presenza di alcuni elementi di divergenza: in particolare, mentre la Befreiungskriegslyrik aveva la funzione di sollecitare l’opinione pubblica e di spingere la popolazione ad entrare nell’esercito, la poesia di Körner manifesta un’innegabile caratterizzazione di ceto nella misura in cui ha come destinataria la parte colta della gioventù tedesca; sua peculiarità, inoltre, è l’indeterminatezza nella rappresentazione del nemico, indicato non in Napoleone o nei Francesi ma in una generica tirannia. Infine, l’intervento di Andreas Dörner, Funktionale Barbarei. Heinrich von Kleists „Kriegstheater“ und die Politik des Zivilisationsabbaus, inserisce i testi politici di Heinrich von Kleist nel processo di “decivilizzazione” che ha accompagnato la politica simbolica delle guerre di liberazione e tracciato la strada che ha condotto dalla guerra limitata a quella totale. Tra gli aspetti innovativi del Volkskrieg, soprattutto l’esigenza di una motivazione soggettiva nei combattenti ha reso necessario l’intervento della politica: solo questa poteva cancellare i freni inibitori che contribuivano a regolare le guerre tradizionali e favorire la formazione di emozioni come la crudeltà e l’odio verso il nemico. In Kleist, l’odio non rappresenta l’esplosione incontrollata delle emozioni del soldato, ma una «funktionale Barbarei» (p. 341) necessaria allo svolgimento di una guerra priva di limitazioni quale era la guerra di popolo. Sotto questo profilo, per il fatto di giustificare l’urgenza della mobilitazione e di favorire la formazione di un radicato sentimento nazionale, nell’opera di Kleist l’Autore vede il corrispettivo poetico della riforma prussiana dell’esercito, oltre alla base poetica di quella guerra totale che si dispiegherà in modo completo solo nel corso del Novecento.

La poesia di Kleist giunge al termine di un percorso che, iniziato con la rivalutazione di alcuni aspetti della guerra, sfocia nell’esaltazione aperta della violenza. Come mostrato, si tratta di un percorso articolato su una molteplicità di piani (filosofico, militare, artistico), in grado di mettere in luce alcuni nodi fondamentali della discussione bellica tra XVIII e XIX secolo: il valore morale della guerra, la formazione di una coscienza nazionale, la demarcazione oppositiva tra formazioni politiche, il superamento della distinzione tra guerra offensiva e guerra difensiva, l’ideale del cittadino-soldato. Sotto questo profilo, il volume si presenta estremamente ricco e fornisce strumenti utili a tracciare un quadro di insieme intorno a un passaggio cruciale del pensiero politico moderno. Ciononostante, non si possono non avere riserve riguardo alla tesi del volume, secondo cui il bellicismo caratteristico della cultura romantica del primo Ottocento, così come i suoi successivi sviluppi, rappresenterebbe lo svolgimento di alcune premesse definite per la prima volta all’interno della cultura illuministica del Settecento. I curatori fanno esplicito riferimento, considerandola un punto di partenza assodato, alla voce “Krieg” curata negli anni ’70 per i Geschichtliche Grundbegriffe da Wilhelm Janssen2, il quale aveva voluto correggere l’immagine unilaterale di un Illuminismo interamente orientato alla pace, mettendone in luce gli aspetti bellicisti e vedendo in questi il punto di partenza di un cammino che, senza mutamenti qualitativi decisivi, avrebbe condotto dalla guerra regolata a quella totale. I limiti di questa ricostruzione, di cui sono state giustamente criticate le forzature sul piano della teoria politica e la debolezza su quello della ricostruzione storica3, ricompaiono nella tesi formulata da Kunisch e da Münkler. Indubbiamente, la considerazione dell’esistenza di motivi favorevoli alla guerra già prima della Rivoluzione permette di disegnare un quadro d’insieme completo e immune da semplificazioni; nondimeno, va rimarcata la distanza tra quei motivi e il bellicismo caratteristico della cultura tedesca postrivoluzionaria: non solo i pensatori illuministi che hanno ammesso una positività della guerra, hanno assegnato a questo giudizio un valore relativo, magari distinguendo tra ragioni pragmatiche e ragioni ideali, ma – come emerge da alcuni dei contributi dello stesso volume – tra Sette e Ottocento, con il passaggio dal meccanicismo all’organicismo, ha avuto luogo un vero e proprio mutamento di paradigma, che impedisce di parlare di bellicismo con lo stesso significato prima e dopo la frattura rivoluzionaria. Quando poi, come nel caso di una pensatore come Embser, il bellicismo appare in forma chiara ed effettivamente anticipatoria degli sviluppi ottocenteschi, risulta dubbio che il suo contenuto scaturisca da premesse di stampo illuministico. Per questi motivi la tesi di una «dialettica della Aufklärung», che avrebbe portato dalla guerra limitata a quella totale e contemporaneamente da un pacifismo solo relativo all’esaltazione della violenza, non risulta fondata su argomentazioni sufficientemente solide e non può dirsi dimostrata.


1 J. Kunisch, H. Münkler (a cura di), Die Wiedergeburt des Krieges aus dem Geist der Revolution. Studien zum bellizistischen Diskurs des ausgehenden 18. und beginnenden 19. Jahrhunderts, Berlin, Duncker & Humblot, 1999.

2 Cfr. W. Janssen, “Krieg”, in O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck (a cura di), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Stuttgart, Klett-Cotta, 1972 ss., vol 3, pp. 567-615.

3 Cfr. C. De Pascale, “Guerra, dialettica, progresso fra Kant e Hegel”, in G. Rametta (a cura di), Filosofia e guerra nell’età dell’Idealismo tedesco, Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 29-33.


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