2009

Una nozione alternativa di terrorismo

Danilo Zolo

Il mio intento è di proporre qui una nozione di "terrorismo" che vada oltre gli stereotipi oggi in uso in Occidente. La nozione a cui penso dovrebbe rovesciare la strategia intellettuale di chi applica l'attributo "terrorista" soltanto ai nemici dell'Occidente con riferimento quasi esclusivo alla tragedia dell'11 settembre 2001 e al mondo islamico. Nel mio lessico teorico "terrorismo" assume un significato per molti aspetti diverso e più ampio, come cercherò di chiarire più avanti. Anticipo qui che dal mio punto di vista "terrorista" è anzitutto, anche se certo non esclusivamente, chi scatena guerre di aggressione usando armi di distruzione di massa e fa strage in modo inevitabile, e quindi consapevolmente - spesso di proposito -, di migliaia di persone innocenti, terrorizzando e devastando interi paesi. In questo senso il terrorismo contemporaneo, nelle sue modalità principali, si è sviluppato all'ombra delle "guerre umanitarie" volute dagli Stati Uniti e dai loro alleati a partire dalla guerra del Golfo del 1991 e dalle guerre balcaniche in Bosnia-Erzegovina e in Serbia.

Molto probabilmente questa strategia terroristica sta raggiungendo il suo culmine con l'imponente operazione militare "Colpo di spada", che sta impegnando 4.000 marines nel profondo sud-ovest dell'Afghanistan con l'obiettivo di annientare il movimento Taliban. L'operazione, che si è aggiunta al recente invio di oltre 10.000 soldati statunitensi, è stata decisa e realizzata con eccezionale tempestività ai primi di luglio del 2009 dal nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. La sua linea di politica estera non sembra per ora allontanarsi da quella del suo predecessore, George Bush. Nonostante il nuovo stile comunicativo e le molte speranze che la sua apertura al mondo islamico ha suscitato, resta il fatto che Barack Obama si dichiara convinto che sarà la forza delle armi a riportare la pace in Afghanistan e nell'intera area mediorientale. Forse è più realistico pensare che questa sia la strada che porta verso nuovi conflitti di ampie proporzioni, destinati a coinvolgere le potenze regionali emergenti nel mondo asiatico.

Il terrorismo di matrice islamica ha ferocemente e tragicamente risposto alle "guerre umanitarie" con l'arma nichilista e disperata del martirio suicida e omicida, cosicché si può sostenere che oggi il terrorismo è di fatto il nuovo tipo di guerra, è il cuore della "guerra globale" che è stata scatenata dal mondo occidentale e ha provocato la replica dei militanti islamici. E il terrorismo che viene dall'est è una delle ragioni profonde del diffondersi nel mondo occidentale dell'insicurezza e della paura, mentre una deriva di frustrazione e di solitudine alimenta una crescente richiesta di protezione e di incolumità individuale, con conseguenze politiche tutt'altro che positive.

A partire dall'ultimo decennio del secolo scorso si è affermato in Occidente un processo di normalizzazione delle nuove guerre. L'industria della morte collettiva si è fatta più che mai fiorente e redditizia. La produzione e il traffico delle armi da guerra è del tutto sottratto al controllo della cosiddetta "comunità internazionale". E l'uso delle armi dipende sempre più dalla decisioni che le grandi potenze prendono ad libitum, secondo le proprie convenienze strategiche. Sentenze di morte collettiva vengono emesse nella più assoluta impunità contro migliaia di persone non responsabili di alcun illecito penale, né di alcuna colpa morale. E nel mercato della morte il valore di scambio della vita umana è sempre più diversificato fra le persone ricche e civilizzate, è cioè in massima parte occidentali, e le persone povere e non civilizzate che vivono nel sottosuolo del mondo (1).

In questi anni le stragi hanno colpito soprattutto civili inermi e indifesi, come è ormai la caratteristica delle nuove guerre, ma hanno anche spento la vita di migliaia di giovani in divisa, impegnati a difendere il proprio paese dall'aggressione straniera. Si è trattato di guerre di aggressione "ineguali", per usare l'espressione proposta da Alessandro Colombo (2), nelle quali l'uso di armi di distruzione di massa sempre più sofisticate e potenti ha reso soverchiante il potere distruttivo degli aggressori e senza speranza la difesa degli aggrediti. L'aggressione ha comportato la devastazione terroristica della vita, dei beni e dell'ambiente di interi paesi, mentre gli aggressori hanno subito un numero molto limitato di vittime, a volte addirittura nessuna. Questo è accaduto nell'arco di un ventennio in paesi come l'Iraq (1991), la Serbia, l'Afghanistan, di nuovo l'Iraq (2003), il Libano, i territori palestinesi, solo per citare gli eventi bellici più rilevanti. In queste guerre, condotte in nome di valori universali, nessuna limitazione 'umanitaria' degli strumenti bellici è stata praticata. Anzi, è vero il contrario: le "guerre umanitarie" sono servite, soprattutto agli Stati Uniti, per sperimentare nuovi sistemi d'arma, sempre più sofisticati e devastanti.

In tutti questi casi il terrorismo degli aggressori si è autogiustificato - ed è stato giustificato - in nome della pace globale, della lotta al global terrorism e soprattutto della tutela dei diritti umani. La guerra è stata esaltata come l'impresa di benefattori umanitari impegnati a proteggere e promuovere i diritti fondamentali delle persone in tutti gli angoli della terra. In realtà, la difesa dei diritti umani - finalità in teoria di grande rilievo - è stata mistificata e tradita dalla violenza omicida. E agli aggressori è stata riservata la più assoluta impunità. Questo vale anche per le aggressioni, le stragi, gli "omicidi mirati" compiuti dallo Stato di Israele contro il popolo palestinese, in particolare contro la popolazione di Gaza e il movimento Hamas, accusati di essere la culla del terrorismo globale. In Palestina le aggressioni e le stragi hanno usufruito del diretto sostegno militare degli Stati Uniti, oltre che della complicità politica dei paesi europei. Nonostante il subdolo riconoscimento umanitario del diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente, proclamato dalla Road Map, l'etnocidio del popolo palestinese continua. Uno Stato palestinese non ci sarà mai, perché l'intera Palestina è ormai una ferrea colonia israeliana (3). E altrettanto può dirsi per le aggressioni dello Stato di Israele nei confronti del Libano, specialmente per la guerra scatenata nell'estate del 2006.

Per "guerra di aggressione" intendo qui, in termini molto generali, un attacco militare unilaterale deciso da uno Stato (o da una alleanza fra Stati) contro la sovranità, l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di un altro Stato o di una nazione che aspira legittimamente a diventare Stato. L'uso della forza militare non legittimato da una esplicita decisione del Consiglio di Sicurezza, e non sottoposto al suo superiore controllo, integra gli estremi di quello che il Tribunale di Norimberga ha definito e sanzionato come "crimine internazionale supremo". Si tratta di un crimine contro la pace che le grandi potenze hanno finora evitato di definire in termini rigorosi. Sia come illecito internazionale a carico degli Stati, sia come crimine da imputare ai singoli cittadini nell'ambito del diritto penale internazionale, la nozione di "aggressione" è ancora sub judice. Lo prova in termini definitivi la circostanza che i 120 Stati che nel 1998 hanno sottoscritto e poi ratificato lo Statuto della Corte penale internazionale, hanno escluso il crimine di aggressione dalla competenza della Corte, in attesa di raggiungere un accordo in un lontano futuro. E si tratta di un crimine che non è stato più sanzionato dopo la conclusione del processo di Norimberga.

Come vedremo, qualcosa di analogo è accaduto per la nozione di "terrorismo", anch'essa esclusa dallo Statuto della Corte penale internazionale. "Terrorismo" è tuttora un semantema giuridicamente incerto, nonostante la smisurata letteratura che ha tentato di proporne una definizione. Nello stesso tempo il termine è ampiamente sfruttato sul piano politico, sia per giustificare le guerre di aggressione, sia per legittimare metodi terroristici nella repressione dei militanti islamici: Guantánamo docet. Oltre a questo, le grandi potenze sono riuscite a neutralizzare la nozione di "aggressione" attraverso riformulazioni interpretative ad hoc, fondate su una deliberata alterazione della nozione di "difesa" prevista dall'art. 51 della Carta della Nazioni Unite. Nella maggioranza dei casi il concetto di aggressione è stato stravolto e convertito nell'idea opposta di una guerra condotta a difesa dell'umanità contro la minaccia del "terrorismo globale".

Sulla base di queste premesse empiriche intendo sostenere, come ho accennato, che è urgente attribuire al termine "terrorismo" un valore semantico alquanto differente rispetto a quello che gli viene attribuito nella letteratura politica e giuridica occidentale. E ciò con riferimento sia alle relazioni internazionali, sia, come vedremo, alle prescrizioni legislative e alle pratiche giudiziarie interne ai singoli paesi. È dunque necessario che io tenti di mostrare l'insufficienza semantica dei termini "terrorismo" e "terrorista" se usati nel significato prevalente nel mondo occidentale. Ed è altrettanto necessario che io mi spinga sino a proporre un'alternativa che tenga conto dei punti di vista delle culture diverse da quella occidentale, quella islamica in particolare, e che io mostri soprattutto le notevoli implicazioni teoriche e politiche di un uso del termine non solo non conformistico, ma anche meno confuso e generico, e quindi in ipotesi meno controverso.

Si tratta di implicazioni che a mio parere fanno della questione semantica relativa al termine "terrorismo" un tema di grande attualità teorica e di estrema drammaticità politica, niente affatto formalistico o puramente linguistico. Si può sostenere che non c'è oggi, a livello globale, un concetto più carico di implicazioni strategiche, specialmente dopo l'attentato dell'11 settembre 2001. Una conferma molto concreta viene dalle dichiarazioni del nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che ha posto al centro delle sue ambizioni internazionali la sconfitta militare del movimento Taliban, operante nell'area afghano-pakistana, un movimento che egli ritiene la culla del terrorismo "islamico" e quindi del più feroce e pericoloso nemico degli Stati Uniti d'America.

A mio parere soltanto una diversa nozione di terrorismo può consentire un'indagine sulle vere "cause" del diffondersi anche nel mondo islamico di questo grave fenomeno e, forse, indicare le vie per tentare di vincerlo senza ricorrere alle prestazioni di migliaia di marines. Non si tratta di minimizzare il terrorismo di radice islamica. L'11 settembre non può essere dimenticato. Ma per vincere il terrorismo occorrerebbe anzitutto indagare sulle "buone ragioni" che negli anni ottanta del secolo scorso sono state il nucleo generatore del terrorismo suicida in paesi come il Libano e la Palestina e che poi hanno alimentato la sua rapida diffusione in gran parte del mondo islamico, inclusi l'Afghanistan e l'Iraq, dove il terrorismo suicida era sconosciuto prima dell'intervento delle milizie occidentali nei primi anni 2000.

Nella cultura politica occidentale si è affermata l'idea che il terrorismo "islamico" esprima la volontà di annientare la civiltà occidentale assieme ai suoi valori fondamentali: la libertà, la democrazia, lo Stato di diritto, l'economia di mercato. La figura del terrorista suicida, affermatasi soprattutto in Palestina, sarebbe l'espressione emblematica dell'irrazionalità, del fanatismo e del nichilismo terrorista. Al fondo del terrorismo "islamico" ci sarebbe esclusivamente l'odio teologico dei mujahidin contro l'Occidente, diffuso dalle scuole coraniche. Si tratta di tesi molto dubbie, come risulta da analisi rigorose della tradizione coranica e in generale della cultura arabo-islamica. Queste analisi hanno mostrato che il martirio nella forma dell'attentato suicida, istishhad, non appartiene affatto alla tradizione coranica della jihad, o "guerra legale". La jihad bandisce qualsiasi vocazione sacrificale e considera la vita un valore che non deve essere inutilmente o imprudentemente esposto a rischi (4). L'istishhad è un fenomeno molto recente, come è recente la deriva del fondamentalismo politico-religioso e la nascita dei movimenti "islamisti". Il fenomeno è legato alla nakbah, la catastrofe del mondo islamico, dovuta alla conquista israeliana della Palestina e alle guerre successive in Medio Oriente che hanno provato la potenza del mondo occidentale e l'estrema fragilità di quello arabo-islamico.

Come hanno accertato le ricerche empiriche di Robert Pape, il terrorismo è un fenomeno assai meno irrazionale di quanto si pensi o si voglia far credere. La variabile determinante nella genesi del terrorismo, in primis di quello suicida, non è il fondamentalismo religioso: si tratta in realtà, nella grande maggioranza dei casi, di una risposta collettiva a ciò che viene percepito come uno stato di occupazione militare del proprio paese. Per "occupazione militare" si intende non solo e non tanto la conquista del territorio da parte di truppe nemiche, quanto la presenza invasiva e la pressione ideologica di una potenza straniera che si propone di trasformare in radice le strutture sociali, economiche e politiche del paese occupato (5).

La nozione occidentale di terrorismo, così come circola nelle accademie, nelle ambasciate, nelle corti penali, nelle caserme, nelle carceri occidentali, incluso Guantánamo, è condizionata da un pregiudizio anti-islamico e in questi termini è pedissequamente ripetuta dalla maggioranza dei giuristi, dei giudici e dei politici europei. Questa nozione standard è stata a più riprese riassunta e riformulata da Antonio Cassese, uno dei giuristi internazionalisti occidentali più autorevoli e più utilizzati dalle Nazioni Unite come giudice internazionale. A parere di Antonio Cassese oggi è disponibile una precisa nozione di "terrorismo" nell'ambito del diritto internazionale generale ed è una nozione che può e deve essere universalmente condivisa, anche se non è stata sinora tradotta in norme giuridiche rigorose, che prevedano fra l'altro specifiche sanzioni a carico degli Stati come tali o a carico dei singoli terroristi penalmente responsabili.

Secondo Cassese sono tre le componenti principali della nozione di "terrorismo", a suo parere condivise entro la "comunità internazionale" come proverebbero le leggi emanate da molti Stati occidentali oltre che numerosi trattati e risoluzioni internazionali. Gli elementi caratterizzanti sono i seguenti:

  1. gli atti commessi devono essere penalmente rilevanti per la maggior parte dei sistemi giuridici nazionali (omicidio, sequestro di persona, estorsione, tortura, ecc);
  2. gli atti criminosi devono essere finalizzati a coartare un governo, un'organizzazione internazionale o anche un ente non statale, come una corporation internazionale. La coartazione può avvenire diffondendo il terrore fra la popolazione civile, o attraverso l'uso o la minaccia di azioni violente e dirette contro uno Stato o una organizzazione internazionale o multinazionale (ad esempio facendo esplodere o minacciando di far esplodere l'edificio di un ministero, una banca nazionale, un'ambasciata o sequestrando il capo del governo o il presidente di una multinazionale);
  3. gli atti criminosi devono essere commessi per una ragione politica, religiosa o ideologica e non per fini di lucro o interessi privati (6).

In sintesi si può ritenere che secondo questa nozione standard una organizzazione terroristica è tale se è animata da motivazioni ideologiche, religiose o politiche ed è caratterizzata dall'uso indiscriminato della violenza contro una popolazione civile con l'intento di diffondere il panico e di coartare un governo o un'autorità politica internazionale. A mio parere, questa nozione standard, compendiata da Cassese, può essere accettata soltanto dalle potenze occidentali, impegnate assieme agli Stati Uniti nella war on terrorism. Ed è difficile ritenerla universalmente condivisibile, per alcuni motivi di notevole rilievo.

Occorre sottolineare, anzitutto, che questa definizione non può essere condivisa nel mondo arabo-islamico, come è emerso alla Conferenza euromediterranea dei ministri degli esteri tenutasi a Barcellona il 27 novembre 2005. La Conferenza ha adottato un "Codice di condotta per la lotta al terrorismo", dopo accese controversie fra le delegazioni europee e quelle arabe sulla nozione stessa di terrorismo. La definizione proposta dagli europei riproduceva la concezione standard, mentre secondo le delegazioni arabe occorreva invece tener conto della condizione in cui si trovano i popoli oppressi da potenze militari che li hanno aggrediti e ne occupano illegalmente i territori. I resistenti in lotta per la liberazione del proprio paese - il riferimento alle questioni palestinese, afghana e irachena era implicito - non dovevano in nessun caso essere considerati dei terroristi. Veniva dunque respinta la generica motivazione politico-ideologica adottata dalla definizione occidentale (il terzo "elemento caratterizzante" secondo Cassese).

Questa posizione è condivisa da molti autori islamici, fra i quali l'internazionalista tunisino Yadh Ben Achour (7). Essi sostengono che i freedom fighters che lottano per la propria liberazione e autodeterminazione contro un regime coloniale, di occupazione, o contro un regime razzista, non compiono atti terroristi, qualunque sia l'operazione militare che essi pongono in atto. In questi casi anche lo spargimento del sangue di civili non combattenti, per quanto grave e giustamente vietato dal diritto internazionale come un crimine di guerra - in particolare dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 - non può essere qualificato come un atto terroristico. L'attentato suicida è l'"ultima risorsa" a disposizione di attori molto deboli e poveri che operano in condizioni di totale asimmetria delle forze in campo. È una replica obbligata al terrorismo degli aggressori e degli occupanti che, grazie al loro soverchiante potere politico e militare, si sottraggono ad ogni intervento e sanzione internazionale, come è tipicamente il caso degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e di Israele. Ha scritto con estrema lucidità Yadh Ben Achour:

La dichotomie civilisationnelle structure encore le relations internationales. Il est donc erroné de juger le terrorisme comme l'expression du mal, d'une méchanceté cynique, abstraite et arbitraire. Le terrorisme a ses raisons et nous pouvons même aller jusqu'à dire, sans le justifier, que certaines sont bonnes. Pour aller jusqu'à l'extrémité du sacrifice pour la gloire d'une communauté de civilisation, on n'est pas forcément une âme perverse, mais une âme désespérée de la justice, qui, par ce geste sacrificiel, hautement symbolique, croit pouvoir redresser la balance (8).

Nel 1998 e nel 1999 le Convenzioni internazionali della Lega Araba e della Conferenza islamica hanno ribadito con forza questa posizione, escludendo dal concetto di terrorismo tutti gli atti commessi nel quadro di operazioni militari ispirate al principio di autodeterminazione dei popoli. In questo senso si è pronunciata anche l'Organizzazione dell'Unità Africana, sempre nel 1999.

Non si tratta, occorre sottolinearlo, di una questione formale, poiché la qualificazione di un'organizzazione come terroristica - si pensi alle liste arbitrariamente predisposte dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e dall'Unione europea - ha conseguenze penali rilevanti dal punto di vista degli ordinamenti giuridici interni. È il caso, in particolare, delle norme specifiche contro il terrorismo emanate in Gran Bretagna dal governo Blair e in Italia dal governo Berlusconi, per non parlare del Patriot Act e del diffondersi negli Stati Uniti di una prassi di spionaggio illegale che l'esecutivo ha sinora giustificato come lotta contro il terrorismo e che il nuovo Presidente ha solo in parte vietato. In Italia, dove da anni è apertamente violato l'art. 11 della Costituzione che vieta il ricorso alla guerra di aggressione, l'art. 270 bis del Codice Penale ha introdotto il reato di "terrorismo internazionale", assumendo come un presupposto dogmatico la nozione standard occidentale, che ovviamente prescinde dal terrorismo delle guerre di aggressione e si concentra sulle organizzazioni del terrorismo "islamico" (9). Da questo punto di vista terroristi sono sempre e soltanto i membri di organizzazioni che operano clandestinamente, non i militari inquadrati negli eserciti nazionali e i loro superiori. Gli Stati e i loro apparati militari non vengono mai equiparati a delle organizzazioni terroristiche.

Un secondo argomento di rilievo è l'assenza di convenzioni o di trattati internazionali che definiscano con rigore la nozione del crimine di terrorismo e prevedano le relative sanzioni. Il primo tentativo di stipulare un trattato globale sulla repressione del terrorismo lo si deve alla Società delle Nazioni che elaborò due progetti, poi adottati dalla Conferenza intergovernativa di Ginevra del 1937. Un progetto riguardava la prevenzione e la repressione del terrorismo, l'altro si riferiva alla istituzione di una Corte penale internazionale per giudicare gli atti di terrorismo. I due progetti non sono mai entrati in vigore e la discussione sulla questione della punibilità degli atti di terrorismo è proseguita per decenni senza risultati di rilievo. I riferimenti al terrorismo presenti in vari trattati internazionali - ad esempio la quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e il secondo Protocollo addizionale del 1977 - si limitano a proibirlo senza proporne una definizione. Per queste ragioni, una larga parte della dottrina internazionalistica oggi sostiene che la commissione di atti di terrorismo può essere considerato un crimine internazionale soltanto se tali atti rientrano fra quelli vietati e sanzionati da alcuni trattati internazionali, come il dirottamento di un aereo o il sabotaggio della navigazione marittima.

Altrettanto dubbio è se si possa considerare il terrorismo come un crimine autonomo previsto e sanzionato dal diritto internazionale consuetudinario. In presenza del radicato dissenso degli Stati arabi e degli Stati africani non può certo ritenersi che la risoluzione della Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 9 dicembre 1994 sia la prova di un consenso universale, come ha invece sostenuto Antonio Cassese. A parte il carattere giuridicamente non vincolante delle delibere dell'Assemblea Generale, quella risoluzione sostiene molto genericamente che "atti criminali finalizzati a provocare uno stato di terrore tra la popolazione, all'interno di un gruppo di persone o tra determinate persone per fini politici sono, in ogni circostanza, ingiustificabili". Si tratta di una ripetizione piuttosto vaga della convenzione, mai ratificata, del 1937, nella quale si sosteneva che il terrorismo comprende "atti criminali diretti a creare uno stato di terrore nelle menti di determinate persone, o di un gruppo di persone o della popolazione" (10).

Ma l'argomento decisivo per sostenere la mancanza nel diritto internazionale consuetudinario di un consenso sulla definizione di terrorismo è la circostanza, cui ho già accennato, che il centinaio di Stati che nel luglio del 1998 hanno sottoscritto il testo dello Statuto della Corte penale internazionale, dopo lunghi lavori preparatori e un'ampia discussione al summit di Roma, hanno deciso di escludere il crimine di terrorismo dall'ambito della giurisdizione materiale della Corte. Ciò è stato deciso sulla base della convinzione che mancava la possibilità di formulare una definizione di terrorismo che venisse sottoscritta da tutti gli Stati aderenti allo Statuto della Corte, anzitutto dagli Stati non occidentali. E non è certo un caso che nel progetto di riforma delle Nazioni Unite - elaborato senza successo nel 2004 dallo High-Level Panel nominato dal Segretario generale Kofi Annan - l'esigenza di una definizione rigorosa del terrorismo fosse uno dei punti centrali (11).

C'è infine una terza, decisiva difficoltà che oggi investe la versione standard della nozione di terrorismo e che la rende inaccettabile per i paesi non occidentali, in particolare se siano stati oggetto di atti di aggressione e siano tuttora sottoposti a occupazione militare. Si tratta del carattere indiscutibilmente terroristico delle guerre di aggressione, come qui ho cercato di documentare. La natura terroristica di tali guerre, come abbiamo visto, è dovuta alla conclamata asimmetria del potenziale bellico fra aggressori e aggrediti, all'uso di armi di distruzione di massa che diffondono il terrore fra le popolazioni aggredite e che fanno inevitabilmente strage di civili e, in quantità inferiore, di militari.

La clausola più volte ripetuta da Cassese, secondo la quale si ha un crimine di terrorismo solo se la violenza terroristica è rivolta contro la popolazione civile (12), sembra un residuo del passato. La classica distinzione fra combattenti e non combattenti, risalente alla dottrina medievale del bellum justum, oggi è del tutto inoperante. E il criterio della "proporzionalità" fra gli obiettivi militari legittimi e la distruzione illegittima di vite umane, di beni, di strutture civili e dell'ambiente naturale è ormai al di fuori di ogni possibile valutazione. Oggi non solo è impossibile individuare e risparmiare nel corso di un conflitto la popolazione civile, ma la violenza omicida e distruttiva delle armi a disposizione delle grandi potenze è tale per cui la guerra di aggressione è puramente e semplicemente la negazione della vita. Il patibolo è gremito di civili - donne, bambini, anziani - e di una minoranza di militari. Ma, per ricorrere ad un esempio molto triste, non si vede per quale ragione le migliaia di giovani iracheni in divisa che per volontà degli Stati Uniti e della Gran Bretagna sono stati trucidati nei primi giorni dell'aggressione all'Iraq del 2003, mentre tentavano disperatamente di difendere Bagdad, non debbano essere considerati vittime di una ferocia terroristica (che è rimasta impunita e lo rimarrà per sempre).

Se, in ipotesi, questa serie di argomentazioni critiche può essere considerata ragionevole, allora si potrebbe tentare una prima, semplice definizione di terrorismo, alternativa a quella oggi prevalente in Occidente. Si potrebbe ad esempio sostenere che il crimine di terrorismo ricorre quando le autorità politiche e militari di uno Stato, usando armi di distruzione di massa, si valgono della loro supremazia militare per aggredire un altro Stato o una nazione, e per diffondere il terrore e fare strage di civili e di militari. E si potrebbe inoltre sostenere che sono altrettanto responsabili del crimine di terrorismo i membri di un movimento in lotta per ragioni politiche, religiose o ideologiche che diffondono il terrore e fanno strage di civili e militari attraverso l'uso di strumenti bellici equivalenti, per il loro potenziale distruttivo e omicida, alle armi di distruzione di massa, come è accaduto l'11 settembre 2001. E andrebbe aggiunto che i membri di un movimento in lotta per la difesa del proprio paese dall'aggressione terroristica e/o dall'occupazione di uno Stato aggressore non sono terroristi. Essi sono responsabili di crimini di guerra o di crimini contro l'umanità se usano strumenti bellici che fanno strage di civili innocenti fra la popolazione che essi considerano nemica, come è accaduto contro i cittadini israeliani, ebrei ed arabi, da parte di kamikaze palestinesi. In questo caso specifico le eventuali sanzioni dovrebbero tener conto, come di una attenuante di rilievo, della loro sostanziale qualità di freedom fighters.

Una proposta teorico-politica di questo tipo forse potrebbe essere accolta sia dagli Stati africani che dagli Stati arabi. In ogni caso potrebbe suggerire una riflessione sulle ragioni del terrorismo internazionale, incluso quello "islamico", e sulle responsabilità di una civiltà occidentale che negli ultimi decenni è stata travolta dal delirio di potenza di leader politici impegnati nella guerra delle forze del bene contro l'"asse del male". In Occidente nessuno può negare che l'uccisione di un numero incalcolabile di civili e di militari, il bombardamento a tappeto di intere città, l'imprigionamento, la tortura e l'assassinio di centinaia di persone accusate senza prove di essere militanti terroristi, la devastazione della vita quotidiana di milioni di cittadini inermi sono qualcosa di infinitamente più crudele e terrorizzante di quanto il terrorismo internazionale ha fatto sinora e potrà fare in futuro. Le terroriste est en fait un terrorisé, ha scritto Yadh Ben Achour (13).


Note

1. Sul tema si veda la penetrante riflessione di Talal Asad, On Suicide Bombing, New York, Columbia University Press, 2007, trad. it. Il terrorismo suicida, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2009.

2. Si veda A. Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Bologna, il Mulino, 2006.

3. Sul tema mi permetto di rinviare al mio saggio "La questione mediterranea", in apertura del volume F. Cassano, D. Zolo (a cura di), L'alternativa mediterranea, Milano, Feltrinelli, 2007, in particolare alle pagine 52-8.

4. Cfr. A. Persichetti, A. Almarai, La caduta di Baghdad, Milano, Bruno Mondadori, 2006, in particolare alle pp. 159-242; B. Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell'Islam, Firenze, Sansoni, 1974.

5. Si veda R. Pape, Dying to Win :The Strategic Logic of Suicide Terrorism, New York, Random House, 2005, trad. it. Bologna, Il Ponte, 2007.

6. Cfr. A. Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale, Bologna, il Mulino, 2005, pp. 162-75, in particolare p. 167; A. Cassese, Il sogno dei diritti umani, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 177-84, in particolare p. 179.

7. Cfr. Y. Ben Achour, Aux fondements de l'orthodoxie sunnite, Paris, Puf, 2008, pp. 159-64 (La violence terroriste).

8. Cfr. Y. Ben Achour, Le rôle des civilisations dans le système international, Bruxelles, Bruylant, 2003, pp. 237-41.

9. La dottrina e la giurisprudenza italiana intendono per terrorismo qualsiasi condotta diretta contro la vita o l'incolumità di civili o, in contesti bellici, contro chi non prenda parte attiva alle ostilità in una situazione di conflitto armato, al fine di diffondere il terrore fra la popolazione o di costringere uno Stato o un'organizzazione internazionale a compiere o ad omettere un atto. Per essere qualificata terroristica la condotta deve presentare, sul piano psicologico, l'ulteriore requisito della motivazione politica, religiosa o ideologica. È ovviamente implicito che oggetto della repressione penale è qui essenzialmente il terrorismo "islamico"; cfr. G. Petti, "La guerra al terrorismo globale nelle pratiche giudiziarie", in S. Palidda (a cura di), Razzismo democratico, Numero speciale di Conflitti globali, 2009, pp. 214-30.

10. Non si può dire che un significativo passo avanti sia stato fatto dalla Convenzione internazionale per la soppressione delle attività di finanziamento del terrorismo, adottata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite dell'8 dicembre 1999, secondo la quale per terrorismo si deve intendere ogni atto finalizzato a causare la morte di uno o più civili quando lo scopo è di intimidire una popolazione o di costringere un governo o una organizzazione internazionale a compiere determinati atti.

11. Si veda High-Level Panel on Threats, Challenges and Change, A More Secure World: Our Shared Responsibility.

12. Cfr. A. Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale, cit., pp. 169-72.

13. Cfr. Y. Ben Achour, Le rôle des civilisations dans le système international, cit., p. 240.