2007

Il Nomos della terra e la polemica con il positivismo giuridico

Giulio Itzcovich

Uno dei motivi del fascino del Nomos della terra (1) è che esso sembra gettare uno sguardo anticipatore su alcune trasformazioni del diritto e dell'ordine internazionale contemporanei. Tre esempi mi sembrano importanti, e mi limito a un cenno:

1) La consapevolezza di una crisi del diritto internazionale classico, interstatuale, che nel Nomos e già negli scritti giuridici degli anni '30 apre un confronto con i fenomeni di internazionalizzazione non riportabili alla volontà degli Stati: Großräume, ma anche formazione di un "diritto economico comune" e di un "diritto privato internazionale", cioè di una lex mercatoria transnazionale, e affermazione di uno "standard costituzionale comune" di impronta liberale. Nel XIX secolo questo standard liberale e la correlativa distinzione fra una sfera pubblica, soggetta alle vicende e alle incertezze della politica internazionale, e una sfera privata, tendenzialmente sottratta a tali vicende e preservata in uno spazio di autonomia, assumono agli occhi di Schmitt un'importanza ben maggiore della distinzione giuspositivistica fra interno/esterno della sovranità statuale (2).

2) Il tema dell'extraterritorialità e del "vuoto giuridico", inteso come libero spazio di conquista e di scatenamento della forza pura, ma anche come vero e proprio istituto giuridico, interno e coessenziale ad un determinato "nomos" (3). Il tema del vuoto giuridico ha trovato applicazioni sia in ambito sociologico (4) che giuridico (5), applicazioni che forse non sono riportabili all'opera di Schmitt, ma di cui il Nomos sembra un'anticipazione interessante.

3) Il tema della guerra giusta: in mancanza di un nuovo nomos globale, di una nuova unità di ordinamento e localizzazione, la dottrina della giusta causa di guerra (tipicamente, la violazione dei diritti fondamentali) non può che condurre ad una guerra civile permanente e ad operazioni di polizia internazionale condotte da poliziotti globali autoproclamatisi tali. Schmitt si esprime proprio in questi termini, parla di police bombing (6) e, già nel saggio del 1938 Die Wendung zum diskriminierenden Kriegsbegriff, di "Stato canaglia" (Räuberstaat) (7).

Questi esempi valgono da soli a dimostrare punti di persistente attualità dell'opera internazionalistica schmittiana. Nondimeno, questa relazione vuole introdurre alcune osservazioni critiche all'impianto del Nomos. Due punti mi interessano, uno relativo al concetto di "nomos" e al suo svolgimento nell'ambito di una storia universale del diritto internazionale: qui il Nomos sarà considerato come proposta di una fondazione "concreta" della positività del diritto, opposta e speculare al tentativo di Kelsen; l'altro relativo alla, per così dire, "collocazione concreta" di Schmitt nel contesto della cultura giuridica tedesca: qui il Nomos verrà considerato soprattutto come documento o testimonianza di un percorso dottrinale negli anni della Repubblica di Weimar e del nazionalsocialismo. In breve: 1) Un pensiero incentrato sul problema dell'origine, dell'archetipo, della radice, e solo in questo senso sviato e sviante un pensiero "radicale"; l'idea di un nesso inscindibile fra ordinamento e localizzazione spaziale, in particolare, sembra oggi del tutto inadeguata per pensare le trasformazioni giuridiche della globalizzazione. 2) Per contro, questo fuoco tematico esprime bene un percorso della dottrina giuridica tedesca nella Repubblica di Weimar e nel nazionalsocialismo: una tensione o torsione verso la "concretezza" del dato giuridico che, in ambito internazionalistico, si traduce in un approccio prevalentemente geopolitico, quando non smaccatamente propagandistico, alle tematiche dell'ordine internazionale; di qui l'aspra polemica nei confronti delle "astrattezze" del positivismo giuridico e un isolamento pressoché totale della cultura giuridica tedesca dal resto della dottrina internazionalistica (8).

Iniziamo da quest'ultimo punto, la vocazione per la "concretezza" nella dottrina giuridica tedesca nella Repubblica di Weimar e nel nazionalsocialismo. Si tratta di un tema che emerge con insistenza nell'opera di Schmitt. Un filo rosso nella produzione schmittiana - uno dei principali elementi di continuità in un'opera per il resto accentuatamente asistematica - è appunto la polemica contro il formalismo giuridico, contro le «astratte definizioni concettuali, conformate a cosiddette norme, che si trovano nei moderni manuali» (9), il rifiuto delle vuote astrazioni del liberalismo, dell'utilitarismo, del positivismo giuridico. Nel Nomos ci sono tracce consistenti di questa polemica. Lo stesso concetto di "nomos" rappresenta la più importante applicazione agli studi di diritto internazionale della categoria di "ordinamento concreto", a favore della quale, nel 1934, Schmitt aveva ripudiato il proprio originario "decisionismo" (10).

Alcuni passi del Nomos possono essere avvicinati per formare un percorso di rilettura critica del concretismo della dottrina schmittiana. Ad esempio, è significativo il modo in cui è valutato lo stile di argomentazione giuridica di Vitoria: «un'argomentazione accuratamente ponderata per essere astrattamente generalizzante in principi» potrebbe a prima vista ricordare lo «stile del pensiero moderno, del tutto secolarizzato e neutralizzato» (11). Ma per Schmitt in realtà Vitoria deve essere considerato «nella sua situazione storica e nella sua intera esistenza, nel suo pensiero tutto concreto quale organo della Chiesa»; in questa prospettiva storicizzante, «l'argomentazione sulla guerra giusta, in apparenza così generale e neutrale, riceve solo dall'incarico di missione il suo indirizzo concreto e decisivo, e la astratta generalità dell'argomentazione non elimina in alcun modo la realtà esistenziale di una posizione concreta» (12).

Al di là dell'interpretazione del pensiero di Vitoria, qui si vede bene come Schmitt apprezzi non la generalità e astrattezza dell'argomentazione, ma la concretezza di un giurista che opera quale organo della Chiesa. Il valore a cui si orienta l'attività del giurista non è la capacità generalizzante del ragionamento giuridico, il fatto di essere universalizzabile e non immediatamente calato in un'urgenza politica o onere istituzionale: al contrario, il valore positivo che la teoria dell'ordinamento concreto porta in chiaro è la necessaria aderenza alla realtà politica e istituzionale in cui opera il giurista.

Oppure si consideri a questo proposito il passo in cui Schmitt parla di «una forma di pensiero e di linguaggio che fa ricordare la mancanza di collocazione concreta di alcuni apologeti del diritto puro durante la seconda guerra mondiale. Il vero compito della scienza giuridica in tali epoche consiste nel riconoscere la realtà di un nomos che svanisce e di un nomos che sorge, dissolvendo il velo delle derivazioni» (13). Qui una verità politica o sociologica (la dissoluzione del nomos dello ius publicum Europaeum) dovrebbe valere come argomento immediatamente utilizzabile dalla giurisprudenza, il cui «vero compito» consisterebbe appunto nel riconoscere la nuova realtà. E' respinta l'ipotesi che il compito della scienza giuridica sia proprio quello di mascherare, o tradurre, dietro «il velo delle derivazioni», la trasformazione politica e costituzionale, stabilendo fili di continuità, ricostruendo una percezione di legittimità, codificando parametri in base ai quali indirizzare il cambiamento.

O ancora, a proposito della successione fra Stati, Schmitt afferma che «il metodo delle vuote generalizzazioni normativiste si mostra proprio qui nella sua ingannevole astrattezza, perché di fronte al tipico problema spaziale come quello del mutamento territoriale trascura completamente ogni concreto punto di vista spaziale [...] Questo normativismo oscuro e contraddittorio ha naturalmente, sul piano pratico, il significato di fornire - un un'epoca di dissoluzione - un argomento di cui potevano servirsi tutti gli interessati» (14). Il punto è importante, perché una caratteristica dell'argomentazione giuridica e delle norme giuridiche è proprio di poter servire, almeno potenzialmente, a tutti gli interessati. Argomenti "concreti", immediatamente legati alla specificità del contesto o alla assoluta novità della situazione, non sono chiaramente distinguibili da motivi politici: ma poiché in politica ci si divide, la prestazione del formalismo giuridico è nell'elaborazione di una serie di protocolli di discussione liberamente disponibili ai più diversi fini pratici, e proprio per questo riconoscibili come "validi" a prescindere dalle preferenze politiche contingenti del singolo interprete o decisore.

Questi e altri passi del Nomos suggeriscono un'interpretazione critica della dottrina dell'ordinamento concreto. E' chiaro che la polemica antinormativista e antipositivista non equivale, di per sé, a fascismo giuridico. Ma è importante rilevare come nell'opera di Schmitt lo stesso positivismo giuridico emerga a volte non come una dottrina e una scuola storicamente situata, ma come una categoria meta-storica, quasi un orientamento spirituale. Ecco così che la polemica antinormativista lo porta a volte a sostenere tesi chiaramente pretestuose sul piano storiografico: il mutamento del significato del termine "nomos" in "norma" già in epoca classica dipenderebbe dalla «dissoluzione della polis che culmina nel culto ellenistico e cesaristico del detentore del potere politico» (15); più irritante ancora, l'idea di un nesso fra positivismo giuridico (legalismo etico) e acquiescenza dei giuristi tedeschi nei confronti del nazionalsocialismo - la tesi di Radbruch, che qui viene però da ben altro pulpito (16). Insomma, nella lotta di Schmitt contro il positivismo giuridico non sembra esserci tanto una polemica con una scuola o approccio allo studio del diritto, ma il rifiuto del formalismo giuridico tout court; il rifiuto delle generalizzazioni e dei concetti astratti, utilizzabili per qualsiasi impiego politico; il rifiuto della "autonomia del giuridico", intesa come "sradicamento" della scienza giuridica dalla particolarità della situazione storico-sociale, o dalla tradizione giurisprudenziale sedimentata storicamente (17), a favore di una presa di posizione etico-politica concretamente situata. Questa vocazione alla concretezza della scienza giuridica schmittiana può essere, a sua volta, collocata nella situazione storica concreta: del resto, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, è un motivo che attraversa la produzione di numerosi autori (18).

In Hanna Arendt c'è un'immagine della società totalitaria che sembra interessante per fissare anche questa complessiva ristrutturazione del discorso giuridico in connessione con straordinarie sollecitazione ambientali (la guerra, un movimento operaio rivoluzionario) e con l'emergenza del fascismo. Arendt parla dello Stato totale come di una "cipolla", in cui i vari strati si dispongono in relazione alla maggiore o minore vicinanza rispetto ad un centro ideologico, la volontà del Führer (19). L'immagine della cipolla esprime bene l'idea di una distruzione dell'autonomia reciproca dei vari sottosistemi funzionali, che vengono ad essere surcodificati da una verità politica alla quale tutte le loro operazioni devono essere immediatamente riportate. Sul piano giuridico, questo significa che un'ingiunzione politica può valere immediatamente (senza mediazioni formali e procedurali) come norma giuridica, che si impone ai consociati e viene sanzionata con la forza. Ovviamente la polemica contro il normativismo e il positivismo giuridico non è, di per sé, espressione di totalitarismo, ma la teoria dell'ordinamento concreto sembra essere obiettivamente solidale con questo progetto, con questa immediata traduzione di verità politiche in proposizioni giuridiche utilizzabili ai fini dell'applicazione del diritto.

Nel 1940 Josef Kunz scriveva sull'"American Journal of International Law" che «Carl Schmitt, professor of law, has, of course, never been a jurist, but a politician; and, from his point of view, this is by no means a reproach but a compliment». Non era vero, Carl Schmitt si è sempre considerato un giurista. Se questo giudizio da parte di un esponente della Scuola di Vienna può sembrare scontato, più interessante è però l'opinione tutto sommato simile espressa, nello stesso anno, da uno degli allievi più brillanti di Schmitt, Ernst Rudolf Huber. Questo passo di Huber chiarisce ulteriormente in che cosa consista la prestazione fondamentale del "realismo giuridico" schmittiano: «La dottrina schmittiana del Großraumordnung ha il significato di riconoscere la realtà politica dell'imperialismo come fattispecie giuridica e di farne il fondamento di un nuovo sistema di diritto internazionale. Qui si mostra che cosa sia il "metodo conforme alla situazione" e che cosa sia la formazione concreta dei concetti. Al posto di un principio astratto è la stessa realtà politica concreta a venire innalzata a posizione giuridica e a concetto giuridico» (20).

Carl Schmitt ha sempre rivendicato con orgoglio il suo essere un giurista al cento per cento (21). Anche nella Prefazione del Nomos: «depongo questo libro, frutto inerme di dure esperienze, sull'altare della scienza giuridica, una scienza che ho servito per oltre quarant'anni» (22). Ma queste dichiarazioni ricorrenti sembrano più che altro un sintomo: la costante polemica con il formalismo giuridico, il rifiuto di lavorare sul piano "basso" della precisazione dei concetti e delle micro-mediazioni istituzionali a favore di una riflessione che si confronti a tutto tondo con le grandi trasformazioni epocali del diritto e del potere, sembra piuttosto disegnare l'immagine di un giurista in fuga dal diritto - e forse proprio per questo interessante. La traduzione immediata di concetti e categorie politici in norme giuridiche infrange il formalismo di una scienza giuridica autocentrata, ma compromette definitivamente la possibilità di un suo funzionamento autonomo. Insomma, sembra coretto rivolgere a Schmitt quello stesso rimprovero che egli ha più volte mosso, in modo secondo me strumentale, contro il "positivismo legislativo": il fatto cioè di ridurre la giurisprudenza ad una mera cinghia di trasmissione delle volontà particolari selezionate dal sistema dei partiti.

A questo proposito può essere interessante un confronto fra Schmitt e Kelsen sul punto dell'autonomia del giuridico e della fondazione della validità del diritto. Vengo così al secondo punto di critica, la valutazione del concetto di "nomos". Schmitt e Kelsen riprendono esplicitamente, o mostrano di condividere, un'analisi della modernità come differenziazione sociale, che essi riprendono da Weber. In breve, secondo questa analisi il dispiegamento del processo generale di razionalizzazione significa nella modernità la costruzione di sfere dell'agire sociale compiutamente separate, ordinate attorno ad un principio auto-legittimante, dotate di una propria interna legalità autonoma. Fra queste sfere strutturali dell'agire (religione, economia, politica, arte, ecc.), il diritto in particolare non cerca più un fondamento trascendente, ma diventa tanto più calcolabile dall'esterno per gli attori sociali, quanto più si sviluppa come un interno "calcolante" iuxta propria principia, secondo una razionalità puramente formale e intellettualistica: il diritto diventa un dominio in cui si calcola con i concetti (Savigny), in cui la correttezza della procedura diventa più importante della correttezza morale o accettabilità politica della decisione (23).

Di fronte a questo processo della modernità, l'atteggiamento di Kelsen e di Schmitt è profondamente diverso. In Kelsen c'è la radicalizzazione dell'esclusività della sovranità giuridica e la dissoluzione normativista del concetto di Stato nel concetto di ordinamento. La dottrina pura espelle dal giuridico tutti quei concetti che sembrano avere una dimensione sostanziale, psicologica, politica. Anche se si può convenire che alla base della dottrina pura c'è una comprensione liberal-democratica o social-democratica della politica, questo liberalismo si esprime appunto, per dirla in termini schmittiani, nella più radicale neutralizzazione di ogni elemento esterno al discorso giuridico. In Kelsen c'è una consapevole assunzione della secolarizzazione e della compita automatizzazione/autonomizzazione degli ambiti di agire sociale.

Il modo di posizionarsi di Schmitt a fronte di questo processo resta invece essenzialmente ambiguo e a volte polemico. Impossibile segnalare qui i numerosi passi della sua opera in cui questa opzione etico-politica di Schmitt emerge esplicitamente. Ma il punto si mostra già nella ricerca di una sintesi, di un pensiero "fondamentale". In Nehmen/Teilen/Weiden (1953), ad esempio, Schmitt scrive che «La considerazione scientifica dei problemi della vita associata è frammentata in molte specializzazioni, come quella giuridica, economica, sociologica, ecc. Si impone la necessità di una prospettiva globale, capace di riconoscere l'unità del contesto reale. Sorge in tal modo il problema scientifico di rintracciare categorie fondamentali...» (24).

Ma anche nel Nomos resta irrisolta questa fondamentale ambiguità. Da un lato Schmitt rivendica alla scienza giuridica dello ius publicum Europaeum il "silete theologi in munere alieno" di Alberico Gentili: la separazione della scienza giuridica dalla teologia, la creazione dello Stato moderno come luogo di neutralizzazione del conflitto religioso che aveva sconvolto l'Europa del Seicento. Tuttavia, dall'altro lato, anche nel Nomos persiste una polemica ininterrotta contro un pensiero giuridico che esclude e lascia irrisolti tutti i problemi a giudizio di Schmitt "fondamentali", considerandoli extragiuridici. Il punto è però che rivolgersi al diritto per ritrovare una risposta ai problemi "fondamentali" della propria epoca, ai problemi politici fondamentali, può essere disastroso sia per il diritto, sia per la politica. Questa ricerca di risposte ai problemi fondamentali può semplicemente significare che il discorso giuridico viene a perdere la propria capacità di essere il luogo tendenzialmente neutro e spoliticizzato in cui si svolge la discussione su questioni che si presuppone siano già state decise da altri (dal legislatore): la sua prestazione diventa invece quella, letteralmente decisiva, di offrire una fondazione etico-politica dell'ordine sociale. E' invece proprio quest'ordine di problemi che Kelsen vuole rimuovere con la propria teoria della norma fondamentale: la norma fondamentale è una mera ipotesi di cui la scienza giuridica si avvale per spiegare ciò che normalmente fa, applicare il diritto positivo; la norma fondamentale è un modo per accantonare il problema del fondamento del diritto, considerandolo come extragiuridico.

La ricerca di Schmitt, per contro, si muove ancora su questo piano problematico. Il concetto di nomos viene contrapposto a quello di legge: «Gesetz è la rigorosa "mediatezza". Il nomos invece, nel suo significato originario, indica proprio la piena "immediatezza" di una forza giuridica non mediata da leggi; è un evento storico costitutivo, un atto della legittimità che solo conferisce senso alla legalità della mera legge» (25). Questa fondazione concreta ("immediata") della legittimità del diritto espressa dal concetto di "nomos" non deve però essere confusa con una spiegazione naturalistica dell'origine dell'ordinamento giuridico: «Il concetto di legge proprio del positivismo delle scienze naturali è sotto questo profilo forse ancora più confuso di quello del positivismo delle scienze giuridiche. Proprio la "legge naturale" delle scienze naturali designa solo la funzione misurabile, non la sostanza. Il positivismo delle scienze naturali non conosce né origine né archetipi, ma solo cause. Al positivismo interessa solo la "legge dell'apparire" (Comte) e non quella dell'essere» (26).

Il Nomos, in quanto contrapposto alla Legge, vuole appunto designare la "sostanza" della giuridicità e alludere a questo radicamento originario e archetipico della positività del diritto in un atto di violenza/autorità: la presa di possesso della terra, la sua spartizione, la messa al lavoro. In ciò possiamo trovare una descrizione "realistica", che infrange il formalismo di un discorso giuridico autocentrato e svela la gorgone del potere dietro l'astratta vigenza della Legge. Ma è importante cogliere anche i limiti di questo discorso, una volta che esso sia valutato come discorso giuridico - e come tale esso si propone; limiti di carattere specifico, interni al discorso di Schmitt e al suo situarsi nel contesto della cultura giuridica, e limiti di carattere teorico, relativi all'utilizzabilità di questi strumenti per una riflessione critica sul diritto e sul potere. Salta agli occhi la connessione fra la polemica antinormativista - polemica contro l'influenza della cultura ebraica nella scienza giuridica, contro l'influenza dello sradicamento normativistico e del formalismo astratto di un popolo senza terra - e la riproposta di una concezione vetero-europea che trova la propria specificità nel radicamento originario sul suolo, omogeneità concreta di una comunità che mette al lavoro la terra contro l'omogeneizzazione astratta del dominio dei mercati e delle industrie. Qui entrano in gioco tutte quelle opposizioni binarie proprie di un pensiero völkisch, che Bourdieu ritrova alla base della "ontologia politica" di Heidegger (27).

Si possono a questo proposito richiamare anche le osservazioni di Deleuze e Guattari sul "pensiero arborescente", sulla logica-binaria come realtà spirituale dell'albero-radice (28). Questa procedura che isola due termini-chiave e gli organizza in un'opposizione frontale o dialettica deve per forza ipostatizzare un tronco, una radice, una realtà profonda e unitaria, compatta e molare: per lo Schmitt che nel dopoguerra si rivolge nostalgicamente a Savigny, oltre che allo ius publicum Europaeum, unità di ordinamento e localizzazione, unità di una comunità popolare governata dalla propria Sittlichkeit, normatività spontanea della coesione sociale stabilmente radicata sul suolo. Naturalmente queste sono schematizzazioni, ma è comunque attorno a queste coordinate concettuali del "nomos" che Schmitt restituisce una storia e una filosofia del diritto internazionale.

Bisognerebbe chiedersi inoltre quale sia l'utilità oggi di questo concetto così impegnativo, per un'analisi e una critica della trasformazione giuridica nell'età della globalizzazione. Contro questo immagine archetipica, figura originaria del pensiero giuridico, forse si potrebbe per provocazione intellettuale continuare a utilizzare Deleuze e Guattari e ribaltare il nomos in "nomadismo": nomadismo di un diritto che conosce territorializzazioni solo come presmessa a ulteriori deterritorializzazioni, dinamica tanto organizzata in organi quanto disorganizzata in un "corpo senza organi". Questa immagine del diritto - voglio chiarire: immagine totalmente adiafora, perché non si tratta certo di costruire una grande narrazione sulle magnifiche sorti progressive del diritto nell'epoca della globalizzazione, del "nomadismo giuridico" - quest'immagine del diritto come processo che si organizza disorganizzandosi, che non fonda un vincolo (obbligo di obbedienza) ma sfonda i vincoli (in primo luogo, i vincoli che il diritto pone a se stesso), diritto che continuamente rivede i propri codici e le proprie procedure e non garantisce nient'altro - ad es., nessuna omogeneità sociale - se non la propria riproduzione autoreferenziale, quest'immagine sembra molto più produttiva ai fini di una cattura filosofica della trasformazione giuridica nell'età della globalizzazione. Essa ci mostra i limiti teorici ma anche pratici della proposta schmittiana del nomos. A prima vista si potrebbe infatti pensare ad un uso beneficamente relativista o multiculturalista del nomos, contro le pretese ad una validità universale del nostro diritto di occidentali europei capitalisti, ecc. Ma è veramente questo il "nostro" diritto? Qual è il soggetto sostanziale cui riferire e sui cui fondare questa proliferazione di dispositivi giuridici? Una "cultura" occidentale cui riferire il nostro diritto che rispecchia i nostri valori? Qui le domande valgono come critica e segnano un limite alla possibilità di risolvere la politica in geopolitica, limite alla possibilità di utilizzare il concetto di "nomos" e di radicamento nel suolo per concettualizzare lo spazio giuridico della globalizzazione.


Note

1. C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Köln, Greven, 1950, trad. it. di E. Castrucci, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello "jus publicum europaeum", Milano, Adelphi, 1991.

2. Vedi C. Schmitt, Il Nomos, cit., pp. 260 ss., pp. 297 ss. Per la critica al dualismo e alla distinzione fra interno/esterno alla sovranità statale, vedi anche Id., Über die zwei großen "Dualismen" des heutigen Rechtssystems (1939), in Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar-Genf-Versailles 1923-1939, III ed., Berlino, Duncker & Humblot, 1994, pp. 297-308; Id., Über das Verhältnis von Völkerrecht und Landesrecht, in "Zeitschrift der Akademie für deutscher Recht", 1940, p. 4.

3. Vedi in generale Cap. II, sulla conquista dell'America centro-meridionale da parte delle potenze europee e sulla divisione dello spazio "in grandi linee".

4. J. Carbonnier, Flessibile diritto. Per una sociologia del diritto senza rigore (1a ed., 1969), a cura di A. De Vita, Milano, Giuffrè, 1997.

5. Nel dibattito della dottrina italiana sulle Comunità europee il concetto ha ricevuto un'applicazione interessante da parte di G. Barile, Limiti all'attuazione dei diritti europei e stranieri nell'ambito delle comunità statali, in "Comunicazioni e studi", XII, 1966, pp. 91-113, anche se il punto di riferimento diretto qui non è Schmitt ma Santi Romano e il suo concetto di "giuridicamente irrilevante": vedi ad es. S. Romano, Osservazioni sulla completezza dell'ordinamento statale (1925), in Scritti minori, Vol I, Diritto costituzionale, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 449 ss., p. 453. Schmitt ha comunque avuto anche un'influenza diretta sul dibattito giuridico sull'Europa. Oltre alle indicazioni ricavabili in generale da Joerges, N. Singh Ghaleigh, a cura di, The Shadow of National Socialism and Fascism over Europe and its Legal Tradition. Darker Legacies of Law in Europe, Hart, Oxford-Portland (Oregon), 2003 (spec. i saggi di C. Joerges e J. McCormick), vedi C. Joerges, Continuities and Discontinuities in German Legal Thought: The Darker Side of a Pluralist Heritage. Anti-Liberal Traditions in European Social Theory and Legal Thought, in "Law and Critique", 14/3, 2003, pp. 297-308; I. Pernice, Carl Schmitt, Rudolf Smend und die europäische Integration, in "Archiv des öffentlichen Rechts", 1995, pp. 100-120, sul "Maastricht-Urteil" del Bundesverfassungsgericht. Vedi inoltre un intervento di Emilio Betti, Möglichkeit und Grenzen eines europäischen Zwischenrecht, in "Archiv des Völkerrechts", IV, 1954, p. 300-306, trad. it. in "Il Foro italiano", 1953, IV, p. 177-182, con il titolo Possibilità e limiti di un diritto di convivenza europea; F. Rosenstiel, Le principe de supranationalité. Essai sur les rapports de la politique et du droit, Paris, Pedone, 1962, con prefazione di J. Freund. Il libro di Rosenstiel è citato dallo stesso Schmitt a proposito del «tentativo di realizzare l'unità politica dell'Europa attraverso neutralizzazioni (la così detta integrazione)», in una nota aggiunta nel 1963 a L'epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni (1929), in Id., Le categorie del "politico", Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 177 s.

6. C. Schmitt, Il Nomos, cit., p. 138.

7. C. Schmitt, Die Wendung zum diskriminierenden Kriegsbegriff (1938), III ed., Berlin, Duncker & Humblot, 2003, p. 46.

8. Sulla dottrina di diritto internazionale negli anni del nazionalsocialismo, vedi D. Vagts, International Law in the Third Reich, in "American Journal of International Law", 84, 1990, pp. 661-701; I. Hueck, Die deutsche Völkerrechtswissenschaft im Nationalsozialismus, in D. Kaufmann, a cura di, Geschichte der Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft im Nationalsozialismus. Bestandsaufnahme und Perspektiven der Forschung, Vol. II, Göttingem, 2000, pp. 490-527; M. Stolleis, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland, Vol. III, Weimarer Republik und Nationalsozialismus, München, Beck, 1999, pp. 381 ss.

9. C. Schmitt, Il Nomos, cit., p. 23.

10. C. Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico (1934), in Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, il Mulino, 1972, pp. 247 ss.

11. C. Schmitt, Il Nomos, cit., p. 110.

12. Ivi, p. 118.

13. Ivi, p. 221.

14. Ivi, pp. 238 s.

15. Ivi, p. 66.

16. La tesi, legata al nome di Gustav Radbruch (Ingiustizia legale e diritto sovralegale (1946), in P. Di Lucia, a cura di, Filosofia del diritto, Cortina, Milano 2002, p. 152-163), ampiamente circolante nel dopoguerra e negli anni Cinquanta, secondo la quale il positivismo giuridico, in qualsiasi suo significato (compreso quello di legalismo etico), sarebbe corresponsabile dell'avvento del nazismo, o comunque compromesso con il regime, è totalmente insostenibile sul piano storiografico. Da ultimo, vedi T. Mertens, Nazism, Legal Positivism and Radbruch's Thesis on Statutory Injustice, in "Law and Critique", 2003, 14, pp. 277-295, pp. 282 ss.; M.G. Losano, Sistema e struttura nel diritto, Vol. II, Il Novecento, Milano, Giuffrè, 2002, pp. 194-201.

17. Come noto, negli ultimi anni del regime nazionalsocialista e nel secondo dopoguerra, Schmitt si rivolse nostalgicamente alla Scuola storica di Savigny, concepita come spazio di autonomia del ceto dei giuristi dalla "macchina" del positivismo legislativo. Vedi ad es. C. Schmitt, La condizione della scienza giuridica europea (1943-1944), Roma, Pellicani, 1996.

18. In generale sul diritto nazionalsocialista, vedi B. Rüthers, Die unbegrenzte Auslegung. Zum Wandel der Privatrechtsordung im Nazionalsozialismus, 4a ed., Heidelberg, Müller, 1991; Id., Entartetes Recht. Rechtslehren und Kronjuristen im Dritten Reich, München, Beck, 1988; F.-J. Säcker, a cura di, Recht und Rechtslehre im Nationalsozialismus, Baden-Baden, Nomos, 1992; E.-W. Böckenförde, a cura di, Staatsrecht und Staatsrechtslehre im Dritten Reich, Heidelberg, Müller, 1985; M. Stolleis, Studien zur Rechtsgeschichte des Nationalsozialismus, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1994, trad. ing. The Law Under the Swastika. Studies on Legal History in Nazi Germany, Chicago-London, Chicago UP, 1998.

19. H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951), Milano, Comunità, 1996, pp. 502 ss., pp. 535 ss., ad es. p. 566.

20. E.R. Huber, "Positionen und Begriffe". Eine Auseinandersetzung mit Carl Schmitt, in "Zeitschrift für die gesamten Staatswissenschaften", 101, 1941, pp. 1 ss., p. 39 (brano citato anche da H. Hofmann, Legittimità contro legalità. La filosofia politica di Carl Schmitt (1964), a cura di R. Miccù, Napoli, ESI, 1999, p. 249).

21. F. Lanchester, a cura di, Un giurista davanti a se stesso. Intervista a Carl Schmitt, in "Quaderni costituzionali", 1983, pp. 5-34.

22. C. Schmitt, Il Nomos, cit., p. 13.

23. Rinvio, anche per riferimenti bibliografici alla letteratura sul processo di razionalizzazione e differenziazione sociale in Max Weber, al mio Il diritto come macchina. Razionalizzazione del diritto e forma giuridica in Max Weber, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", 31/2, 2001, pp. 365-393.

24. C. Schmitt, Appropriazione / divisione / produzione (1953), in Le categorie del politico, cit., p. 295.

25. C. Schmitt, Il Nomos, cit., p. 63.

26. Ivi, p. 61.

27. P. Bourdieu, Führer della filosofia. L'ontologia politica di Martin Heidegger (1988), Bologna, Il Mulino, 1989.

28. G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, sez. I, Rizoma (1980), Roma, Castelvecchi, 1997. Vedi anche M. Foucault, L'archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura (1969), Milano, Rizzoli, 1999; Id., Nietzsche, la genealogia, la storia (1971), in Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, pp.29-53.