2005

La visione orientalistica "classica" dell'India:
origini, caratteristiche e persistenza di un'ideologia eurocentrica (*)

Michelguglielmo Torri

Le origini della visione orientalistica

A partire almeno dalla seconda metà del '700, le realtà diverse da quella occidentale sono state sussunte sotto un'unica categoria - l'"Oriente" - ed analizzate in base ad un ben definito insieme di presupposti ideologici e di strumenti scientifici. Queste conoscenze ed i presupposti ideologici e metodologici che le informano hanno costituito una branca del sapere scientifico nota, in genere, con il termine di "Orientalismo". L'Orientalismo ha prodotto un numero imponente di opere di natura scientifica e ha esercitato un'enorme influenza sia sul modo in cui gli occidentali vedevano - e tuttora vedono - i non occidentali, sia sul modo in cui i non occidentali interpretano e, di conseguenza, costruiscono la propria identità ed il proprio passato (1).

L'Orientalismo occidentale è nato in India nella seconda metà del '700, e non per caso, dato che l'India nord-orientale è stata - appunto nella seconda metà del '700 - il primo vasto territorio del continente asiatico ad essere conquistato ed amministrato da europei. L'Orientalismo, quindi, ha storicamente avuto origine come il tentativo di arrivare ad una comprensione non superficiale di parti sempre più vaste del subcontinente indiano, in modo da poterle amministrare - e sfruttare - in maniera efficiente ed economica (2). Inizialmente articolato a proposito dell'India, il discorso orientalista è stato poi gradualmente esteso, con le modifiche del caso, alle altre grandi aree geopolitiche e culturali che, nel corso dell'800, passarono sotto il dominio diretto o indiretto dell'Occidente.

Il discorso orientalista, quindi, appare sostanzialmente diviso in due parti: un nucleo valido per l'"Oriente" in generale ed una parte specifica, applicabile, a seconda dei casi, all'India, all'"Islam" (3), alla Cina, o a qualsiasi altra "civiltà" o cultura non occidentale. Il nucleo generale del discorso orientalista parte dalla divisione del mondo in due parti: Occidente e "Oriente" (dove, sotto l'etichetta "Oriente", vengono raccolte aree geopolitiche e culturali che, fra loro, non hanno in comune più di quanto ognuna di esse abbia con l'Occidente (4)). Occidente e "Oriente" sono poi definiti in termini fra di loro antitetici: l'Occidente, come si è già ricordato, è il regno della storia e della razionalità (o, se vogliamo, dell'emergere della razionalità nella storia); l'"Oriente", invece, è un'area senza storia, nel senso che è dominato da tradizioni presenti da tempo immemorabile, tradizioni che poco o nulla hanno a che vedere con la ragione. In altre parole, l'Occidente è il regno della libertà e non è limitato e coartato nel suo sviluppo da una qualche "essenza" profonda (o, se vogliamo, l'"essenza" profonda dell'Occidente è appunto rappresentata dalla sua capacità di cambiare e svilupparsi lungo parametri razionali); viceversa, l'"Oriente" ha un'"essenza" profonda, rappresentata dal fatto che, al posto della razionalità, esiste la tirannide del costume e l'irrazionalità della religione.

Naturalmente, più che della divisione del mondo, si tratta della divisione dell'umanità in due parti. Da un lato vi sono gli "Occidentali" razionali e dinamici, impegnati a modificare il mondo in modo da ampliarne gli spazi di libertà e di ricchezza, dall'altro vi sono gli "Orientali", irrazionali o quanto meno a-razionali, stolidamente prigionieri della tradizione, incapaci di ogni dinamismo ma proni ad occasionali, imprevedibili e, soprattutto, irrazionali scoppi di violenza. Scoppi di violenza che si verificano in particolare come reazione nei confronti dell'inarrestabile e benefica marcia civilizzatrice dell'Occidente (5).

Quella appena riportata nei suoi tratti più generali è una visione dicotomica dell'umanità, perfezionata e completata nel corso dell'800, cioè in un periodo in cui la cultura occidentale stava impregnandosi in profondità di elementi di carattere razzistico (6). Quindi, e non a caso, quella orientalistica è una visione intrinsecamente e profondamente razzista, predicata sulla convinzione dell'irrimediabile non perfezionabilità culturale e umana di quella maggioranza della popolazione mondiale che non ha la fortuna di essere di razza bianca. Si tratta di una visione che, nell'800 (anche se non nel '700) e nella prima metà del '900, è stata francamente articolata in termini razziali, cioè razzistici (7).

Dopo, però, la straordinariamente sanguinaria ed orrendamente devastatrice parabola del nazismo, cioè di una dottrina quintessenzialmente razzista, qualsiasi ideologia articolata in termini razzisti è diventata sospetta e ha perso di rispettabilità politica, ideologica e culturale. Da quel momento, il lato razzista della visione orientalistica è stato abbandonato, o quanto meno nascosto, e vi è stato il ritorno ad una spiegazione "culturale". In un certo senso si è trattato di un "ritorno alle origini", dato che, al momento della sua formazione da parte di studiosi inglesi residenti in India, nella seconda metà del '700, l'Orientalismo era articolato in termini culturali e, più che sulla dicotomia inferiore/superiore, si basava sull'idea di differenza. Inoltre, ancora all'inizio dell'800, quando l'idea della superiorità della cultura europea rispetto a quella indiana (e, più in generale, rispetto a quella "orientale") venne articolata in maniera non ambigua, negli europei che si occupavano di India (sia come studiosi, sia come governanti, sia come governanti e studiosi) rimase forte l'idea che la superiorità dell'Occidente sull'"Oriente" fosse un fatto contingente, rimediabile da parte dell'"Oriente" nel medio termine, grazie a cospicue iniezioni di cultura occidentale e di moralità cristiana (in particolare protestante). Rispetto ad allora, però, il ritorno alla dimensione culturale del discorso orientalista presenta una differenza di fondo. Negli ultimi decenni, infatti, è diventato sempre più influente a livello scientifico, e sempre più diffusa nell'opinione pubblica occidentale, l'idea che la "cultura" sia qualcosa caratterizzato da un'"essenza" profonda, sostanzialmente immutabile. Di conseguenza, chi fa parte di una certa cultura non se ne può liberare ma, al limite, può semplicemente arrivare a realizzare cambiamenti cosmetici che, come tali, sono assolutamente superficiali, necessariamente temporanei e, in ogni caso, non in grado di cambiare l'essenza profonda di quella determinata cultura (8).

In sostanza, quindi, come ogni osservatore spassionato può facilmente comprendere, il passaggio dal concetto di razza a quello di cultura, realizzato al fine di mantenere una gerarchia fra le varie civiltà e di spiegare l'irrimediabile immutabilità di tale gerarchia, è un'operazione di carattere mimetico. Così come definire i ciechi "non vedenti" non cambia la sostanza della realtà descritta, la spiegazione "culturale" dell'Orientalismo, oggi così in voga, non ne cambia la sostanza discriminatoria e razzista.

La visione orientalistica dell'India: le tre componenti fondamentali

Quelle fin qui descritte sono le caratteristiche generali dell'Orientalismo. Ma, come si è ricordato, accanto a questo nucleo fondamentale, ogni diversa branca dell'Orientalismo ha costruito una precisa visione del suo specifico oggetto di ricerca: l'islàm, l'India, la Cina, il Giappone, e così via. A questo punto è quindi necessario ricapitolare i tratti essenziali della visione orientalistica dell'India.

I tratti essenziali di questa visione sono riconducibili all'idea che l'"essenza" della società indiana è data, storicamente, da tre istituzioni sociali fondamentali: il sistema castale, un'economia di sussistenza basata su villaggi autosufficienti e, per finire, l'induismo (come religione e come modo di vita). Si tratta, inoltre, di tre istituzioni fra loro strettamente interconnesse: l'una giustifica e rende possibile le altre. Fra queste, il prius è rappresentato dal sistema delle caste (9).

Le caste sono gruppi sociali caratterizzati da endogamia e commensalità, disposti secondo un preciso ordine gerarchico, legato a criteri di purezza e di mancanza di purezza. Il principio endogamico fa sì che qualsiasi individuo nasca e viva all'interno di una determinata casta che, a sua volta, ha una precisa collocazione nella scala sociale. L'appartenenza di un individuo ad una determinata casta non può essere mutata; o, per meglio dire, l'abbandono della propria casta d'appartenenza (o l'espulsione da essa) comporta il passaggio allo status di fuoricasta, cioè la posizione più bassa e più discriminata della società indiana. Ciascuna casta ha un proprio dharma: i suoi membri, cioè, hanno il dovere di seguire una certa attività sociale, tipica appunto di quella determinata casta. D'altra parte, ciascun individuo nasce in una casta pura o impura, alta o bassa, come effetto della legge del karma. Secondo tale legge, le anime individuali passano attraverso una serie potenzialmente infinita di nascite e di morti e la posizione sociale del singolo (cioè la collocazione castale) in ogni successiva rinascita è determinata dal karma positivo o negativo accumulato nelle vite precedenti. A sua volta, il karma è positivo o negativo nella misura in cui, nella vita precedente, si è seguito, correttamente o meno, il proprio dharma (in altre parole, ci si è attenuti ai doveri sociali imposti dall'appartenenza ad un certo gruppo castale).

In sostanza, quindi, non solo l'ordinamento sociale è immutabile e la collocazione in esso degli individui prefissata al momento della nascita, ma sia l'ordinamento sociale nel suo complesso, sia il suo funzionamento, sia il ruolo dei singoli individui hanno precise giustificazioni e sanzioni di ordine religioso. A sua volta, questo sistema sociale può essere mantenuto con facilità proprio perché la popolazione è, in misura preponderante, distribuita in villaggi economicamente autosufficienti. Non solo, quindi, l'unità sociale di base - cioè il villaggio - è sufficientemente piccola perché la comunità nel suo complesso possa controllare da vicino il comportamento dei singoli, ma l'infrazione dei costumi castali comporta sanzioni irresistibili. In un contesto dove la collaborazione socio-economica fra i gruppi castali del villaggio è indispensabile alla sopravvivenza dei singoli, infatti, la possibilità di sfidare i costumi sociali prevalenti è di fatto nulla: la struttura sociale, quindi, è in effetti immutabile.

L'insieme sociale risultante dall'interrelazione fra sistema castale, induismo e villaggi autosufficienti ha, poi, due caratteristiche di fondo. La prima è che si tratta di un organismo politicamente fragile, data la suddivisione del corpo sociale in caste. Ma, l'altra faccia della stessa medaglia è che, per quanto fragile a livello politico, tale organismo è sostanzialmente immutabile a livello socio-economico. L'India, storicamente, è diventata preda di invasori stranieri; monarchie e imperi si sono succeduti o hanno convissuto in modo convulso, precario e caleidoscopico. Ma si è trattato di processi di mutamento che hanno coinvolto solo gli strati superficiali della società indiana. A livello profondo, cioè a livello delle piccole comunità autosufficienti di villaggio - il cui unico rapporto con il mondo esterno è dato dal pagamento delle imposte richieste dal potere politico - nulla o pochissimo è mutato da tempo immemorabile. O, quanto meno, quei mutamenti che si sono verificati hanno incominciato a manifestarsi in seguito all'impatto della dominazione europea o, addirittura, dopo il raggiungimento dell'indipendenza. Secondo una bella e fuorviante metafora, la storia indiana, quindi, è simile ad un oceano in tempesta: mentre la superficie (cioè le istituzioni politiche) sono sconvolte dai venti e dai marosi (le invasioni straniere, il succedersi di regni e di imperi), le acque a pochi metri sotto la superficie (cioé la società indiana nel suo complesso) rimangono immote.

Si tratta di una visione che comporta un corollario. Questo è che, se la società indiana è sempre uguale a se stessa, è possibile fotografarla e, a qualsiasi epoca risalga la fotografia, essa rimane sostanzialmente identica alla fotografia presa in un'epoca diversa. Di fatto, secondo gli orientalisti, questa fotografia è rappresentata dai Dharma Shastra, un insieme di raccolte di leggi, poste per iscritto nel III e nel IV secolo d.C. Ciò che è mirabile - e che rappresenta la controprova della correttezza della visione orientalistica - è il fatto che, come afferma un illustre antropologo francese, Louis Dumont, qualora si osservi la realtà dei villaggi indiani di oggi (dove, dopo tutto, vive ancora la maggioranza assoluta della popolazione indiana), vi è una chiara corrispondenza fra le pratiche sociali individuate dalla moderna ricerca antropologica e quelle codificate nei testi canonici della tradizione sanscrita (10). Come spiegheremo qui di seguito, però, a differenza di ciò che pensano Dumont e coloro che condividono le sue idee, questa corrispondenza non è frutto del permanere attraverso i secoli di una società immutabile, bensì una delle conseguenze di un insieme di politiche messe in atto dallo stato coloniale, soprattutto nel periodo fra la fine del '700 e la prima metà dell'800 (11).

Al di là della visione orientalistica della storia indiana

La visione orientalistica è stata e continua spesso ad essere enormemente influente. Ma, negli ultimi decenni, la ricerca storica, valendosi anche degli apporti di una serie di altre discipline, in particolare dell'archeologia, ha demolito o radicalmente messo in discussione tutti gli elementi fondanti della visione orientalistica (12). Qui di seguito circoscriveremo il nostro discorso all'Asia Meridionale, ma molto di quanto diremo è riferibile, mutatis mutandis, agli altri "Orienti", in particolare a quello formato dal mondo islamico (se non altro, per il semplice fatto che mondo islamico e Asia Meridionale sono due insiemi che, in parte, si sovrappongono).

In primo luogo, l'idea stessa che è alla base della visione orientalistica dell'India, cioè che la società indiana - almeno fino alla conquista coloniale - sia stata una società immobile, è dimostrabilmente falsa. Allo stesso modo è dimostrabilmente falsa l'idea che questa società immobile fosse basata su un sistema di villaggi autosufficienti.

Una serie di fonti - fra cui, per i periodi più antichi, rivestono particolare importanza quelle di tipo archeologico - ha dimostrato che, storicamente, la civiltà indiana, lungi dall'essere caratterizzata dalla presenza pressoché esclusiva di villaggi autosufficienti e dalla virtuale assenza di città (almeno di città che fossero qualcosa di diverso da centri religiosi o sedi di corti), ha visto lo sviluppo, il declino e la ripresa di fiorenti civiltà urbane.

Con "civiltà urbana" intendiamo società che, pur essendo preindustriali, erano caratterizzate dalla presenza di un consistente ed esteso tessuto di centri urbani di varia grandezza. Tali centri urbani, lungi dall'essere esclusivamente luoghi di culto o sedi di corti (cioè, di fatto, accampamenti militari permanenti), erano centri di varia grandezza, sede di una serie complessa di attività economiche ed amministrative. Di conseguenza, tali centri urbani erano caratterizzati dalla presenza di demograficamente consistenti e socialmente importanti strati sociali intermedi, impegnati nella gestione di tali attività.

A livello economico avevano particolare importanza i commerci. Questi erano non erano solo commerci locali, ma di media distanza (estesi cioè all'hinterland della città, hinterland che, in certi casi, comprendeva parti piuttosto estese del subcontinente (13)) e di lunga distanza (cioè estesi al di fuori del subcontinente, e non solo nel resto dell'Asia). Un'importanza analoga aveva la produzione di beni destinati ad alimentare tali commerci. Infine vi era la gestione di una serie di pratiche amministrative, volte non solo a drenare il surplus agricolo prodotto nel settore rurale, ma a commercializzarlo, trasformandolo in metallo prezioso. Questo metallo prezioso, oltre ad alimentare il "consumo vistoso" delle classi dirigenti (il cui strato superiore viveva nelle città), era destinato ad alimentare il commercio di media e di lunga distanza e le attività produttive ad esso legate.

I commerci di media e di lunga distanza - e la produzione delle merci che andavano ad alimentarli - sembrano essere stati trainati dalla necessità di procurarsi due beni "strategici", non disponibili nel subcontinente. Il primo (cioè quello la cui richiesta risale più indietro nel tempo, essendo ben visibile già in era antica) è il metallo prezioso. Quest'ultimo era necessario per rendere possibile la circolazione monetaria (attestata da fonti sia amministrative, sia archeologiche). Il secondo, la cui richiesta è documentata quanto meno dalla metà del XIII secolo, è rappresentato dai cavalli da guerra.

L'importazione di metallo prezioso presupponeva una rete complessa di interscambi economici a livello intercontinentale. Infatti, i metalli preziosi circolanti in India non erano prodotti localmente ma avevano la loro sorgente in aree geografiche al di fuori dell'Asia. Ad esempio, nell'era antica l'oro circolante in India proveniva dall'impero romano; nell'era moderna (cioè a partire dal '500), gran parte dell'argento circolante in India aveva la sua fonte originaria nelle miniere sudamericane). L'immissione di questi metalli preziosi nel subcontinente presupponeva, ovviamente, un flusso in senso contrario di merci prodotte in India, da scambiare con tali metalli preziosi.

Sicuramente a partire dal '600, accanto all'argento coniato, vi erano, poi, altri strumenti di scambio, usati soprattutto per le attività economiche quotidiane. Questi strumenti includevano un particolare tipo di conchiglia proveniente dalle Maldive, un particolare tipo di mandorla non commestibile proveniente dalla Persia e, soprattutto, monetine di rame, cioè un metallo importato dal Giappone (14). Di nuovo, tutto ciò presuppone non solo una fiorente economia monetaria in India e flussi commerciali che unissero l'India al resto dell'Asia, ma l'esistenza di strati sociali specializzati nella produzione delle merci scambiate con le conchiglie maldive, le mandorle iraniane ed il rame nipponico.

Una parte maggioritaria dei beni prodotti in India, destinati non solo al consumo locale ma anche all'esportazione, consisteva in manufatti tessili di cotone o di cotone misto a seta. La produzione di questi manufatti presupponeva un'organizzazione complessa. Questa comprendeva almeno tre tipi di operatori. In primo luogo vi erano i gruppi castali specializzati in una particolare fase della lavorazione complessiva. Poi vi erano piccoli mercanti-prestatori di denaro che commissionavano e raccoglievano le merci, in genere pagando in anticipo le merci richieste. Infine vi erano gruppi ristretti di grandi mercanti e finanziari (che agivano in partnership), che erano coloro che acquistavano i beni commercializzati dai piccoli mercanti-finanziatori, in certi casi pagando almeno in parte in anticipo le merci richieste. Quest'ultimo gruppo svolgeva anche il ruolo di intermediazione nei confronti dei grandi mercanti impegnati nei commerci di lunga distanza. Ovviamente, in alcuni casi, i grandi intermediari ed i mercanti di lunga distanza erano le stesse persone. Dato che una parte consistente del commercio di lunga distanza si svolgeva via mare, i grandi mercanti erano spesso anche armatori (15).

Nel complesso, si trattava di strati sociali presenti sia nelle grandi città, sia - nel caso dei piccoli mercanti e degli artigiani - soprattutto in piccoli centri urbani o in villaggi. Questi ultimi, però, erano lungi dall'essere autosufficienti ed isolati; al contrario, non potevano non essere parte di un sistema economico di grandi dimensioni (tali, in effetti, da estendersi oltre i confini del subcontinente).

Per quanto riguarda le monte da guerra, queste furono uno degli strumenti fondamentali nel garantire la rapida conquista della Valle Gangetica da parte dei turco-afghani nel periodo a cavallo fra il XII ed il XIII secolo e la conseguente creazione del sultanato di Delhi. A partire dal XIII e dal XIV secolo, anche le monarchie del Deccan e dell'Estremo Sud, ancora indipendenti dal sultanato di Delhi, si resero conto della necessità di dotarsi di una cavalleria adeguata. Il problema era, però, che le monte da guerra allevate in India, per ragioni a quanto pare climatiche, erano di razza inferiore. Era quindi imperativo importare monte adeguate dal Medio Oriente (dove si allevavano i famosi purosangue arabi). Ma importare cavalli da guerra per equipaggiare gli eserciti di una serie di stati (alcuni dei quali, come il sultanato di Delhi o l'impero di Vijayanagara, di grandi dimensioni) comportava l'impegno di un volume di ricchezza veramente considerevole. In ogni caso, era necessario produrre ed esportare una quantità di merci in grado di controbilanciare l'importazione delle monte da guerra.

Nelle città, soprattutto in quelle di grandi dimensioni, esistevano strati sociali specializzati nel finanziare tutte le attività sopra descritte. In certi casi questi strati sociali erano formati da persone che, in contemporanea, gestivano attività commerciali; in altri casi da operatori che si erano ormai specializzati in attività finanziare e, per i quali, i rapporti commerciali, se pur venivano ancora gestiti, rivestivano un ruolo del tutto subordinato.

Al pari della civiltà occidentale, quella indiana non fu sempre caratterizzata dalla presenza di un fiorente sistema urbano. Alla graduale espansione dell'epoca antica, infatti, fece seguito un processo di contrazione che incominciò già in era tardo-antica (III secolo d.C.) e culminò nella prima fase del periodo medievale (VI-X secolo). Con il 1000 o subito dopo, tale processo subì un'inversione che vide il rifiorire della civiltà urbana nel subcontinente indiano, come, del resto, in Europa ed in altre parti del Vecchio Continente. Sappiamo, inoltre, che, fin da periodi molto antichi, le varie aree urbanizzate del mondo civile, in Asia Meridionale ed altrove, erano collegate fra di loro da fiorenti commerci di lunga distanza.

In effetti, il parallelismo dello sviluppo urbano in Asia Meridionale ed in Europa (ma anche fra l'Asia Meridionale e altre parti dell'Eurasia) fa pensare all'esistenza di un unico sistema economico che abbracciava un'area che andava dalla Cina all'Europa Occidentale. Questo sistema, come si è appena detto, era caratterizzato dall'esistenza di importanti flussi commerciali di lunga distanza e, a quanto pare, da un processo di scambio di idee filosofico-religiose (16).

Tutto questo significa, fra le altre cose, che ciò che caratterizzò l'economia di una serie di zone chiave, in Asia Meridionale come altrove, fu la stretta integrazione del settore rurale e di quello urbano e l'inserimento di entrambi i settori in un circuito commerciale che, come si è detto, abbracciava larghe parti del continente antico. In questo contesto, non è che villaggi autosufficienti o quasi non esistessero; essi, però, rappresentavano la parte meno vitale - e, soprattutto, quella meno importante - del sistema economico. Già di per sé questo pone logicamente in dubbio che il sistema castale potesse avere la capacità di controllo, teoricamente possibile in centri piccoli ed isolati, le cui componenti sociali fossero interdipendenti.

È bensì vero che le caste avevano una presenza pervasiva nella società indiana, tanto che esse si trovavano non solo fra coloro che appartenevano alla tradizione indù, ma anche fra i musulmani e i cristiani indiani. Ma non è assolutamente vero che la società indiana nella sua realtà storica sia mai stata organizzata secondo i principî gerarchici indicati nei Dharma Shastra, se non, forse, nel periodo gupta (IV-V secolo d.C.). La posizione effettiva delle caste, infatti, era legata alla ricchezza economica ed al potere politico dei loro membri. In altre parole, i brahmani formavano effettivamente il vertice della società solo in quelle zone ed in quei periodi storici in cui, per ragioni che poco o nulla avevano a che fare con la "purezza" della loro casta, controllavano la politica e/o l'economia a livello locale. Le caste stesse, poi, lungi dall'essere fisse e immutabili, continuarono a modificarsi nel corso della storia, in rapporto all'evoluzione dell'economia e della politica. In altre parole, il manifestarsi di nuove necessità economiche, politiche o militari portava al parallelo sorgere di caste prima inesistenti, che, ora, si specializzavano nelle nuove funzioni richieste dalla società. In parallelo, il venir meno di certe necessità sociali (per esempio, la scomparsa dei commerci di lunga distanza all'inizio del Medio Evo indiano) poteva comportare il cambio di funzione di una certa casta (che passava da una professione castale ad un'altra) e, se la nuova funzione era più umile di quella che era stata in passato, lo spostamento verso il basso della posizione dell'intera casta nella gerarchia castale (17).

Infine, l'endogamia, che avrebbe dovuto essere il criterio fondamentale, caratterizzante l'appartenenza castale, non era sempre rispettata. Quando le circostanze richiedevano una crescita demografica rapida della casta, i matrimoni da parte di un uomo di quella determinata casta con una donna di una casta diversa erano accettati come perfettamente legittimi ed i rampolli dell'unione in questione erano considerati come appartenenti alla casta del padre.

A parte questo, vi è un altro elemento che bisogna sottolineare. Questo è che, prima dell'era coloniale, le caste non svolgevano alcuna funzione organizzativa e di controllo né dal punto di vista economico, né da quello politico, ma, al più, dal punto di vista sociale (soprattutto in quanto reti di scambio di partner matrimoniali (18)). Si prenda ad esempio il caso delle due grandi caste guerriere per eccellenza: i rajput ed i maratha. Anche se, occasionalmente, tutti i rajput o tutti i maratha unirono le loro forze nel perseguimento di un progetto politico comune, storicamente questi momenti unitari rappresentano l'eccezione, non la regola. Lo stesso vale per le grandi caste mercantili. Nonostante il tentativo di certi storici di scoprire organizzazioni che raccogliessero e organizzassero politicamente ed economicamente i membri delle grandi caste mercantili, sembra assodato come tali organizzazioni, quando esistevano, avessero un ruolo puramente sociale (19). Diversa sembra essere la situazione nel caso delle confraternite contadine impegnate nell'opera di dissodamento di terre vergini. Qui l'interdipendenza delle caste e la capacità di regolamentazione sociale del sistema castale sembrano essere state alte. Ma si trattava pur sempre di un'area marginale della società indiana, quella, cioè, che si collocava, geograficamente e socialmente, nelle aree di frontiera.

Anche la realtà castale, quindi, come quella rappresentata dai villaggi autosufficienti, sembra avere avuto caratteristiche completamente diverse da quelle imputatele dall'Orientalismo (20). Lo stesso vale per il terzo degli elementi chiave della visione orientalistica, cioè l'idea che esistesse una singola e ben determinata religione, chiamata "induismo". La ricerca storica degli ultimi decenni ha ormai dimostrato che l'induismo non era (e non è) un'unica religione, bensì una tradizione religiosa o, se vogliamo, un insieme di religioni che condividono una serie di elementi comuni più o meno importanti (21). Insomma, dire che l'induismo è una religione - come fecero gli Orientalisti e come, sulla loro scia, fa una corrente di pensiero indiana che ha incominciato a diventare influente a partire dagli anni '20 del secolo appena concluso - è come affermare che esiste una religione "abramica", formata dall'ebraismo, dal cristianesimo e dall'islàm. Ebraismo, cristianesimo ed islàm, infatti, sono tutte religioni monoteistiche che condividono la tradizione profetica del vecchio testamento. In realtà, quindi, le religioni semitiche hanno, fra di loro, almeno altrettanti elementi comuni quanto quelli esistenti fra le varie forme di induismo (alcune delle quali, in definitiva, non sono, a differenza di altre, strettamente monoteistiche; così come alcune delle quali non hanno, a differenza di altre, una visione gerarchica dell'umanità).

Storicamente, quindi, la tradizione induista è stata percorsa da una serie di correnti, anche considerevolmente diverse fra di loro. Alcune di queste correnti ipotizzavano l'esistenza di una società castale gerarchica, in cui le caste più alte (in quanto ritualmente più pure) erano le caste brahmaniche. Ma altre correnti svalutavano completamente l'importanza della gerarchia castale, arrivando in certi casi a negare completamente lo stesso ordinamento castale. Quindi, le idee che oggi ci appaiono come tipiche dell'induismo (cioè la visione dell'umanità come articolata in un ordine castale gerarchico, sanzionato da criteri religiosi) sono, in realtà, tipiche di un certo tipo di induismo. Si tratta anche di un certo tipo di induismo che, per le ragioni che indicheremo fra poco, diventò particolarmente influente in epoca coloniale. Esso faceva riferimento soprattutto ai Dharma Shastra, cioè - come si è già ricordato - a raccolte di leggi codificate e messe per iscritto presumibilmente fra il III ed il V secolo d.C. (il periodo coincidente con quello che in Europa aveva visto l'ultima fase dell'impero romano). Questi codici - che registravano l'ideale brahmanico di come la società indiana avrebbe dovuto essere organizzata, ma, con ogni probabilità, non l'effettivo funzionamento di leggi concretamente applicate - descrivevano un sistema sociale rigidamente organizzato in caste, disposte secondo un preciso ordine gerarchico di natura rituale, santificato e reso immutabile dai precetti dell'induismo. In altre parole, i Dharma Shastra non solo davano l'impressione che in India esistesse e fosse sempre esistita una società gerarchica, ma che questa fosse giustificata da una religione, che, molto tempo dopo, gli europei avrebbero chiamato "induismo".

Il fatto che l'induismo gerarchico dei brahmani fosse accolto nel periodo coloniale come il "vero" induismo - e tale, da allora, abbia finito per essere considerato anche dalla maggioranza di coloro che si riconoscono nella tradizione religiosa indù - non dovrebbe, però, oscurare il fatto che, storicamente, esso fu tutt'altro che l'unica forma di induismo (e tale, nonostante tutto, rimane la situazione ancora oggi). Senza soffermarci su un tema assai complicato, vale tuttavia la pena di ricordare, quanto meno, che, in era medievale, l'induismo fu attraversato da importanti movimenti mistici che, a livello teorico e nella prassi, svalutarono in maniera radicale l'importanza delle caste o, addirittura, la legittimità della divisione degli esseri umani secondo regole castali (22). Inoltre, anche in periodo coloniale, nonostante l'appoggio dato dallo stato alla visione gerarchica dell'induismo, questo vide il sorgere di importanti movimenti di riforma che negavano ogni validità alle divisioni castali (23).

Infine, l'enfasi sull'induismo come la religione dell'India - un'enfasi così tipica dell'Orientalismo (anche se poi accettata da molti indù) - oscura un'altra realtà storica della massima importanza. Questa è che, in India, con l'induismo hanno convissuto - e tuttora convivono - altre tradizioni filosofico-religiose che sono tanto indiane quanto l'induismo. Questo vale in particolare (anche se non esclusivamente) per l'islàm e per il cristianesimo. L'islàm e il cristianesimo, infatti, arrivarono in India praticamente in contemporanea alla creazione delle due rispettive religioni (24).

In conclusione, quindi, differentemente da quanto argomentato dall'Orientalismo:

  • la società indiana non è mai stata una società immobile;
  • il sistema dei villaggi autosufficienti era una parte - e, per lunghi periodi storici, la parte meno importante - dell'economia indiana;
  • il sistema castale aveva caratteristiche completamente diverse da quelle che gli sono state attribuite e, in molti casi, sembra essere stato assai meno importante di quanto sostenuto dall'Orientalismo;
  • l'induismo non è, in primis, una religione unificata, con le caratteristiche attribuitegli dall'Orientalismo, bensì un fascio di religioni anche considerevolmente diverse; e, per finire,
  • l'induismo, per quanto la tradizione religiosa maggioritaria, è ben lungi dall'essere l'unica tradizione religiosa presente in India.

Quando si tiene presente tutto quanto è stato fin qui detto, la conclusione a cui non si può fare a meno di arrivare è che i modelli interpretativi basati sull'Orientalismo hanno un rapporto con la realtà effettuale decisamente tenue. Un rapporto così tenue, in effetti, che un uso acritico dei modelli orientalisti, come unico strumento - o anche solo come strumento privilegiato - attraverso il quale interpretare la realtà indiana non può che essere fuorviante.

La visione orientalistica dell'India: da chi è stata creata e come

Se, quindi, l'Orientalismo ha un così scarso rapporto con la realtà effettuale, diviene imperativo chiedersi per quale ragione e come esso venne elaborato, perché divenne così influente e perché, nonostante tutto, continui a rimanere tale. La visione orientalistica dell'India, mirabile nella sua armonia, eleganza ed onnicomprensività, venne formulata nella seconda metà del '700 e nel corso dell'800. I suoi creatori furono essenzialmente funzionari britannici della Compagnia inglese delle Indie Orientali e missionari europei. Entrambi questi gruppi - divisi in certi periodi da reciproche tensioni, ma uniti in altri da rapporti di collaborazione - ebbero come fine quello di cercare di comprendere una realtà immensa, multiforme, rutilante e complessa. Gli amministratori perseguirono questa conoscenza per poter governare in maniera più efficiente; i missionari, al fine di portare la luce della Cristianità a popolazioni "barbare e ottenebrate". Gli uni e gli altri, per realizzare questo loro progetto di comprensione della società indiana, non poterono fare a meno di ricorrere alla collaborazione di dotti indigeni. Da questo punto di vista, il tipo di collaboratori scelti da amministratori e missionari fu cruciale nella creazione della visione orientalistica dell'India. Tali collaboratori, infatti, appartenevano in misura dominante alle caste brahminiche indù e, in proporzione minore, erano dottori della legge musulmani. Nell'uno e nell'altro caso si trattava di specialisti nelle scienze religiose "alte", profondi conoscitori dei rispettivi testi canonici (25). Nell'uno e nell'altro caso, poi, si trattava di persone appartenenti a categorie che non erano state intimamente legate alle classi dirigenti degli stati precoloniali (occupando, se mai, i gradini subordinati della burocrazia).

In altre parole, gli intellettuali indiani con cui collaborarono gli amministratori britannici e i missionari cristiani, soprattutto nel periodo sotteso fra la metà del '700 e la metà dell'800, rappresentavano solo una parte dell'intellettualità indigena dell'epoca e, senza alcun dubbio, la parte culturalmente e socialmente più conservatrice. La sezione culturalmente più vivace e socialmente progressista dell'intellettualità indigena, infatti, era rappresentata soprattutto dai circoli dirigenti delle corti degli stati successori dell'impero moghul. Si trattava, cioè, di persone appartenenti ad un ambiente sociale caratterizzato da un clima che oggi si definirebbe multiculturale, i cui membri appartenevano a religioni diverse, erano di regola poliglotti e, come formazione, erano, in linea di massima, non teologi o giuristi, ma amministratori e storici. Come tali, essi erano perfettamente coscienti sia della varietà, dell'indeterminatezza e della porosità delle differenti tradizioni culturali e costumi sociali che caratterizzavano l'India, sia dei processi di mutamento che ne attraversavano la società (26).

Per ovvie ragioni, la collaborazione con questo tipo di intellettuali venne evitata sia dagli amministratori della nuova potenza imperiale - la Compagnia inglese delle Indie Orientali - sia dai missionari cristiani. Gli uni e gli altri preferirono stabilire un rapporto con quegli intellettuali che non erano parte delle vecchie classi dirigenti e che vedevano il proprio mondo articolato secondo criteri religiosi rigidi ed immutabili. Ovviamente, gli amministratori della nuova potenza imperiale trovarono politicamente più opportuno marginalizzare gli strati sociali che avevano detenuto il potere nel periodo precoloniale, promuovendone altri, che, per ciò stesso, risultassero legati al nuovo sistema di potere. D'altro canto, i missionari, per la loro formazione religiosa, trovarono più facile confrontarsi con altri religiosi, legati ad un'interpretazione "ortodossa" della religione di appartenenza, piuttosto che con intellettuali che sembravano muoversi con estrema facilità fra "religioni" che, dal punto di vista dell'alta teologia, erano radicalmente differenti (come appunto induismo ed islàm). Certamente, il fatto che un indù potesse avere un maestro spirituale musulmano, o che un musulmano potesse avere un maestro spirituale indù, o che indù e musulmani venerassero le tombe degli stessi sant'uomini, o che monarchi indù facessero da patroni a istituzioni religiose musulmane e, viceversa, monarchi musulmani facessero da patroni a istituzioni religiose indù erano cose profondamente sconcertanti per i buoni missionari cristiani (in genere protestanti) che operarono in India fra la metà del '700 e la metà dell'800 (cioè il periodo formativo dell'Orientalismo). Non stupisce più di tanto, quindi, che questi ultimi cercassero un rapporto intellettuale con seri e dotti teologi - fossero essi musulmani o indù - che, se non altro, avessero le idee chiare sul fatto che, in questo mondo, vi sono religioni diverse e che ognuna di esse è rigorosamente separata dalle altre da una serie di dogmi fondanti.

La costruzione di una certa visione dell'India - una costruzione che divenne paradigmatica non solo per l'Indologia ma per l'Orientalismo nel suo complesso - non fu quindi (solo) l'imposizione da parte degli Europei di una certa visione dell'India - e dell'"Oriente" - nei confronti delle popolazioni indigene, ma fu frutto di un rapporto dialogico con certi settori della società indigena (27). Naturalmente, questi settori della società indigena operarono attivamente per rimodellare la società indiana secondo le proprie idee, modificando in maniera radicale la realtà effettuale fin lì esistente. Furono soprattutto i pandit (esperti nei testi canonici sanscriti) ad ottenere un immenso successo, convincendo amministratori e missionari che la "vera" India, l'India autentica e immutabile, era quella rappresentata in testi come i Dharma Shastra.

Come il regime coloniale diede sostanza ai fantasmi dell'Orientalismo

Il successo di questo particolare processo dialogico - che vide impegnati, da un lato, amministratori e missionari europei e, dall'altro, intellettuali indiani (sia indù, sia musulmani), che erano teologi e, spesso, anche giuristi - ebbe poi uno sbocco politico di cruciale importanza nell'opera legislativa da parte della nuova potenza imperiale. Il potere coloniale britannico, infatti, realizzò codici legislativi che recepivano le direttive fondamentali di leggi religiose, sia indù sia musulmane. Si trattava di direttive religiose che raramente o mai erano state parte della prassi giuridica degli stati precoloniali, in particolare nei due secoli e mezzo precedenti la conquista europea (28).

In sostanza, in India, il risultato socialmente più rilevante del processo di modernizzazione rappresentato dall'introduzione - a partire dalla fine del '700 - di codici legislativi di tipo europeo fu, quindi, quello di dare l'appoggio della legge a ideologie religiose conservatrici (indù e musulmane) che, fino a quel momento, non avevano potuto contare, se non raramente, sul sostegno del potere statale. Una delle conseguenze di questa decisione politica fu la "brahmanizzazione" della società indiana: i fantasmi ideologici dei teologi, con l'appoggio potente delle leggi coloniali, assunsero una sempre maggior concretezza. Se il diritto coloniale distribuiva le ricchezze guadagnate dal singolo secondo il "tradizionale" diritto di famiglia indù (per cui la ricchezza guadagnata dal singolo era in effetti proprietà della famiglia estesa ed era amministrata dal patriarca che ne era a capo), è chiaro che l'evoluzione verso la famiglia nucleare non poteva che essere bloccata o rovesciata. Di nuovo, se il diritto coloniale limitava la possibilità di svolgere certe attività economiche in base all'appartenenza castale, è chiaro che la casta assumeva un'importanza che prima non aveva mai avuto (29).

Ma né la creazione di un'ideologia, né l'introduzione di nuove leggi basate su tale ideologia sono di per sé sufficienti ad imbrigliare lo sviluppo di una società, in particolare in un'area geograficamente estesa e demograficamente densa come il subcontinente indiano. Il problema fu che, mentre amministratori e missionari europei, in collaborazione con teologi e giuristi indiani, elaborarono la visione "orientalistica" dell'India, e mentre quegli stessi amministratori idearono quei codici legislativi in cui si rispecchiava tale visione dell'India, il concreto funzionamento del sistema coloniale creò - soprattutto nella prima metà dell'800 - quella stessa realtà sociale che gli orientalisti andavano descrivendo.

Ancora alla vigilia della conquista coloniale, infatti, la società indiana era politicamente, economicamente e socialmente dinamica. La disgregazione dell'impero moghul aveva portato all'emergere di una serie di stati, molti dei quali apparivano più centralizzati - e più efficienti - di quanto fosse stato l'impero che li aveva preceduti. Questi stati, per quanto in guerra perenne fra di loro - come, del resto, i contemporanei stati europei - sembravano evolversi - di nuovo come gli stati europei - verso un sistema di equilibrio politico a livello continentale. Nonostante una crisi commerciale di grandi proporzioni (che, nel '700, coinvolse tutta la parte occidentale dell'Oceano Indiano e che non mancò, nella seconda metà del secolo, di influire negativamente sulle stesse fortune economiche della Compagnia inglese delle Indie Orientali), e nonostante le distruzioni legate alla guerra nell'alta vallata gangetica, nel XVIII secolo l'economia indiana attraversò, nella maggior parte del subcontinente, una fase di crescita. Ancora nella seconda metà del '700, i tessuti di cotone o di cotone misto a seta prodotti in India erano concorrenziali sul mercato mondiale. A parte questo - e a parte alcune zone geografiche, sfavorite dalle vicende politico-militari - il settore agricolo continuò a crescere, in genere sia sotto la spinta delle esigenze di consumo degli stati indigeni, sia sotto quella della domanda internazionale di prodotti quali i tessili e la seta grezza (quest'ultima prodotta in Bengala) (30). A livello sociale, nonostante la persistenza o il riemergere di correnti intellettuali che dividevano gli esseri umani in base alla loro appartenenza religiosa, la cultura egemonica era chiaramente basata sulla convivenza e sulla ricerca degli elementi comuni fra le varie tradizioni religiose. Il sistema castale, infine, appariva fluido e aperto. Alcune delle caste più importanti (ad esempio i maratha) si erano formate in tempi relativamente recenti, attraverso il confluire in un unico gruppo sociale di appartenenti a caste diverse, uniti dal fatto di aver acquisito, attraverso il mestiere delle armi, rispettabilità sociale e agiatezza economica (l'una e l'altra esemplificate dalla concessione del godimento di terre esentasse). Inoltre, in particolare le caste più importanti ricorrevano normalmente alla cooptazione di individui che tecnicamente, secondo le regole dei Dharma Shastra, avrebbero dovuto essere considerati fuoricasta. In altre parole, come si è già ricordato, i rampolli di unioni con donne appartenenti a caste diverse e ritualmente inferiori rispetto a quella del padre, venivano considerati membri a tutti gli effetti della casta di quest'ultimo. Inoltre - come del resto era stato spesso il caso nella storia indiana fin dai tempi più antichi - l'appartenenza ad una determinata casta non preveniva l'ascesa ai pinnacoli del potere politico ed economico (31).

Tutto ciò cambiò in maniera drammatica nella prima metà dell'800, in coincidenza con l'estensione dell'egemonia inglese a tutto il subcontinente e con l'aumento di efficienza e di onestà della macchina statale creata dalla Compagnia inglese delle Indie Orientali. Questo aumento di efficienza e di onestà, avviato dalle riforme di Lord Cornwallis alla fine del '700, è in genere visto come il momento in cui si concluse la fase in cui il governo della Compagnia era stato poco più di una maschera legale per le attività predatorie dei suoi funzionari (che, valendosi del potere politico della Compagnia, avevano, fino a quel momento, perseguito come loro fine primario il proprio arricchimento personale).

Questo tipo di analisi ha però sempre trascurato il fatto che il tanto lodato aumento di efficienza e di onestà avviato dalle riforme di Cornwallis era finalizzato al perseguimento di obiettivi che nulla avevano a che vedere con il benessere dell'India. La Compagnia delle Indie rimaneva una gigantesca società per azioni, il cui obiettivo ultimo era quello di pagare dividendi ai suoi azionisti in Gran Bretagna, non certo quello di aumentare il benessere collettivo dei suoi sudditi indiani. Direttamente legato a questo obiettivo primario, ve ne erano poi altri due, di uguale importanza: mantenere alto il livello del proprio apparato militare in India, in modo da proteggere e da espandere i propri dominî in loco; attuare una politica economica che proteggesse la Compagnia dalle gelosie di quella parte maggioritaria della borghesia britannica che non aveva la fortuna di far parte del circolo di azionisti della Compagnia (e che, di conseguenza, era esclusa dal godimento dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento dell'India).

Soprattutto il primo e l'ultimo di questi obiettivi (il pagamento dei dividendi agli azionisti, cioè il trasferimento di ricchezza dall'India all'Inghilterra, e il perseguimento di politiche economiche che non entrassero in competizione con gli interessi della borghesia britannica) si tradussero in una politica di spietato sfruttamento dell'economia indiana. Questa politica comportò, fra l'altro, la ristrutturazione dei traffici internazionali dell'India e la contrazione della spesa pubblica (una spesa pubblica che era stata parte integrante degli obblighi dei prìncipi indiani e che, ora, venne radicalmente ridimensionata al fine di realizzare economie che, a loro volta, permettessero l'accumulo di ricchezza da trasferire in Inghilterra). Il risultato ultimo di queste politiche - che, nei loro effetti negativi, furono rafforzate da un'avversa congiuntura internazionale - fu una catastrofica depressione che portò alla contrazione ed alla dislocazione delle attività artigianali, alla scomparsa di una serie di attività commerciali di lunga distanza, al venir meno dell'economia monetaria in ampie zone del subcontinente ed al declino economico di un numero considerevole di città (anche se quest'ultimo processo fu in parte controbilanciato dalla crescita dei tre centri di irradiazione del nuovo potere coloniale: Calcutta, Bombay e Madras) (32). In sostanza, quindi, in vaste parti dell'India - precedentemente caratterizzate da una fiorente economia mercantile - vi fu l'emergere di un'economia dominata dalla presenza di villaggi con scarsi contatti con il mondo esterno, che, al loro interno, funzionavano in base all'interscambio - non mediato dal nesso monetario - di attività lavorative (33). Questa stessa realtà, descritta dagli studiosi dell'epoca coloniale, venne vista non come il prodotto di una congiuntura recente, in misura dominante determinata dall'azione del governo coloniale, ma come la manifestazione delle caratteristiche di fondo di una società ristagnante e senza storia.

La diffusione e la persistenza dell'Orientalismo nel pensiero occidentale

Si è già accennato al fatto che l'Orientalismo, nel periodo della sua prima elaborazione, cioè nella seconda metà del '700, era una visione che, più che sul criterio di inferiorità/superiorità, si basava sul criterio di diversità. L'"Oriente", cioè, era visto come diverso dall'Occidente, non necessariamente come inferiore. Anzi, in molti dei pensatori illuministi contemporanei dei primi orientalisti vi era stato un considerevole rispetto verso le civiltà orientali; un rispetto che, nel caso particolare della Cina, era spesso sfociato in esplicita ammirazione (34).

Tutto ciò cambiò all'inizio dell'800. Sintomaticamente, questo mutamento si verificò nel momento in cui divenne chiaro che il rapporto di forza militare fra Occidente e "Oriente" si era ormai radicalmente spostato a favore del primo. In effetti, i nuovi rapporti di forza erano tali da far ritenere ormai imminente la rapida conquista di tutto l'"Oriente" da parte dell'Occidente (una conquista presagita da quella inglese di gran parte del subcontinente indiano, negli anni a cavallo fra '700 e '800). Dall'inizio dell'800, l'"Oriente" venne categorizzato non solo come diverso, ma anche come "barbaro" ed "irrimediabilmente inferiore". Fu una copernicana rivoluzione intellettuale esemplificata - e, al medesimo tempo, incoraggiata - da un'opera storica destinata a diventare enormemente influente. Intendiamo parlare della History of British India di James Mill, pubblicata nel 1817 a Londra, e destinata a diventare, nei centocinquant'anni circa successivi alla sua pubblicazione, in assoluto il più influente libro sull'India in circolazione.

Ma, in definitiva, la visione orientalistica dell'India in particolare e dell'"Oriente" in generale rimaneva una branca specializzata, per definizione "esotica", del pensiero europeo. Tuttavia, nel corso dell'800, l'Orientalismo divenne parte integrante della Weltanschauung europea, permeando di sé anche elaborazioni intellettuali che, a prima vista, poco o nulla avevano a che vedere con la tradizione intellettuale orientalistica. Questo filtrare dell'Orientalismo nel senso comune occidentale fu dovuto alla mediazione di una serie di grandi maître à penser, impegnati, in prima istanza nel costruire una visione nuova del mondo in cui vivevano. Pensatori come Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Karl Marx e Max Weber (solo per ricordare alcuni dei più influenti fra di loro) sono giustamente ricordati come giganti intellettuali. Ma, nelle loro elaborazioni, Hegel, Marx e Weber (e non solo loro) - parlando dell'"Asia", o dell'"Oriente", o dell'"India" - si servirono delle conoscenze del loro tempo, irrimediabilmente inficiate dall'Orientalismo (35). Nel far ciò, questi pensatori spesso usarono l'esotico mondo orientale costruito dagli Orientalisti come il contraltare in base al quale definire tutto ciò che - a parer loro - vi era di buono e di valido in Occidente. L'utilizzo dei loro schemi interpretativi, per quanto innovativi fossero, portò all'accettazione, in genere inavvertita (ciò che, di fatto, rese la cosa più grave), della dimensione orientalista del pensiero di questi autori. In questo modo l'Orientalismo "filtrò" nel senso comune degli europei, in particolare degli europei colti e, spesso, progressisti.

Oggi, i lavori di Hegel, Marx e Weber continuano ad essere assai più ampiamente e diffusamente letti - come è giusto che sia - che non quelli degli storici all'avanguardia nello studio delle varie realtà in cui si articola l'"Oriente". Ne consegue che la visione che gli occidentali hanno del "non Occidente" continua ad essere profondamente permeata di idee che, come è stato dimostrato dalla ricerca storica degli ultimi quarant'anni, hanno una corrispondenza scarsa o nulla con la realtà.

Ma la persistente vitalità della visione orientalistica non è solo un caso di "blocco intellettuale" spontaneo e di mancata diffusione dei risultati della ricerca più recente. Dopo tutto, l'Orientalismo nacque per controllare politicamente e per sfruttare economicamente il mondo non occidentale, giustificando e legittimando intellettualmente questo stato di cose. Oggi, anche se il vecchio mondo coloniale è ormai tramontato, il "valoroso nuovo mondo" in cui viviamo continua ad essere caratterizzato da un ordine internazionale gerarchico ed ingiusto. Si tratta di un ordine che, per mantenersi, non può basarsi esclusivamente sull'uso della forza, ma deve ricorrere a varie forme di legittimazione. E, ovviamente, l'Orientalismo, sia nella sua versione "classica", sia in versioni nuove, ha continuato ad essere una delle più influenti fra queste forme di legittimazione.


Note

*. Il presente scritto è apparso in Elisabetta Basile e Michelguglielmo Torri (a cura di), Il subcontinente indiano verso il terzo millennio. Tensioni politiche, trasformazioni sociali ed economiche, mutamento culturale, Centro Studi per i popoli extraeuropei Cesare Bonacossa dell'Università di Pavia/Franco Angeli, Milano 2002. Ringraziamo l'autore e l'editore per la gentile concessione.

1. La critica dell'Orientalismo fatta da chi scrive nelle pagine che seguono è stata influenzata da due importanti lavoridi Edward W. Said, Orientalism, Vintage Books, New York 1979, e Culture and Imperialism, Vintage Books, New York 1994, nonché dalla critica in chiave marxista del primo dei due lavori citati, contenuta in Aijaz Ahmad, In theory: classes, nations, literatures, Verso, Londra e New York 1992. Tuttavia, l'influenza delle idee di Said e di Ahmad è stata soprattutto quella di aiutare chi scrive a mettere a fuoco ed a comprendere appieno la valenza delle tesi dei world historians della scuola di Chicago. Sono stati, quindi, i lavori di William H. McNeill e Marshall G.S. Hodgson (questi ultimi mediati anche dalle riflessioni di Edmund Burke III) ad avere un ruolo decisivo nella concezione critica dell'Orientalismo di chi scrive. Da questo punto di vista, ha avuto un ruolo decisivo la lettura dei seguenti lavori: William H. McNeill, The Rise of the West. A History of the Human Community, University of Chicago Press, Chicago 1990 (1ª ed. 1963); Marshall G.S. Hodgson, The Venture of Islam. Conscience and History in a World Civilization (3 voll.), The University of Chicago Press, Chicago 1974 [ed edizioni successive]; id. Rethinking World History. Essays on Europe, Islam, and World History (a cura di Edmund Burke III), Cambridge University Press, Cambridge 1993. Si vedano anche: Edmund Burke III, Islam and World History: The contribution of Marshall Hodgson, in "Radical History Review, 39, 1987, pp. 117-123, e una recente traduzione in francese di una serie di saggi di Hodgson, cioè: Marshall G.S. Hodgson, L'Islam dans l'histoire mondiale (a cura di Abdesselam Cheddadi), Sindbad/Acte Sud, Arles 1998.

2. L'opera fondamentale su questo argomento è quella di David Kopf, British Orientalism and the Bengal Renaissance. The Dynamics of Indian Modernization, 1773-1835, University of California Press, Berkeley 1969. Si veda anche, dello stesso autore, Hermeneutics versus History, in "Journal of Asian History", 39, 3, maggio 1980, pp. 495-506. Letta in controluce, l'opera di Kopf è, probabilmente, la più chiara e convincente critica fin qui comparsa del carattere ideologico dell'Orientalismo. fin qui comparsa. Un giudizio che rimane valido anche se lo steso Kopf non sempre (si veda in particolare il suo Hermeneutis versus History cit.) sembra rendersi conto delle implicazioni ultime del suo stesso lavoro di ricerca. Oltre ai contributi del Kopf, sono poi di grande interesse per l'analisi del pensiero orientalista a proposito dell'India i saggi raccolti in Carol A. Breckenridge e Peter van der Veer (a cura di), Orientalism and the Postcolonial Predicament, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1993.

3. In questo testo si usa il termine "Islam" [fra virgolette e maiuscolo] per indicare la visione orientalistica della civiltà islamica. Invece, per indicare in modo neutro la civiltà islamica, si userà il termine islàm [senza virgolette, minuscolo e con accento grafico].

4. Questa è la ragione per cui mettiamo fra virgolette il termine "Oriente", ma non il termine "Occidente". Mentre, infatti, si può legittimamente sostenere che l'Occidente sia caratterizzato da un'unità culturale di fondo, lo stesso è assolutamente falso nel caso dell'"Oriente". Questo, come si è appena detto, è articolato in una serie di civiltà diverse che, in definitiva, sono tanto lontane fra di loro, quanto lo sono dalla civiltà occidentale. Questo, ovviamente, non significa che non vi siano interrelazioni fra queste varie civiltà e fra queste e quella occidentale, significa solo che l'unico comune denominatore che distingua le civiltà orientali, ponendole a parte dalla civiltà occidentale, è quello - in definitiva taitologico - che esse non sono Occidente. Quindi, parlare dell'"Oriente" come di un'entità con caratteristiche a sé stanti significa già accettare le categorie interpretative dell'Orientalismo. Se mai, si può legittimamente parlare di una serie di Orienti diversi.

5. È una tesi, questa, che continua ad essere riproposta soprattutto per il mondo islamico. Si veda, ad es., Bernard Lewis, The Roots of Muslim Rage. Why so many Muslims deeply resent the West, and why their bitterness will not easily be mollified, in "The Atlantic Monthly", settembre 1990. Ma, mutatis mutandis, le medesime tesi sono state applicate anche ad altre civiltà non occidentali. Per una rivendicazione del dinamismo delle civiltà asiatiche si veda Kishore Mahbubani, Can Asians Think?, Key Porter Books, Toronto 2001. Mahbubani è un nativo di Singapore, la cui famiglia, come rivela il nome, è originaria del Sind.

6. Per il persistente razzismo degli inglesi in India durante il periodo coloniale è sufficiente leggere i libri di memorie da essi lasciatici o i romanzi e le novelle di argomento indiano di autori britannici, da Kipling agli ormai dimenticati autori di letteratura popolare (in proposito si veda, ad es., Allen J. Greenberger, The British Image of India. A Study in the Literature of Imperialism, Oxford University Press, Londra 1969). Per un'analisi del razzismo, spesso nascosto ma sempre presente, che caratterizzò tanta parte della cultura europea dell'800, si veda Said, Culture and Imperialism cit., passim.

7. Per una paradigmatica rivendicazione della superiorità razziale dei britannici nei confronti degli indiani si veda quella fatta da sir James Fitzjames Stephen nell'articolo The Foundations of the Government of India, in "Nineteenth Century", ottobre 1883 [ristampato in C. H. Philips (a cura di), The Evolution of India and Pakistan, 1858-1947. Selected Documents, Oxford University Press, Londra 1962, pp. 57-60]. Sir James fu Legal Member del governo dell'India (1869-72) e giudice dell'Alta Corte indiana (1879-91).

8. In proposito si veda l'importante monografia di Aziz Al-Azmeh, Islams and Modernities, Verso, Londra 1996 (1ª ed. 1993), in particolare il prologo, Muslim "Culture" and the European Tribe.

9. A parte queste tre idee fondamentali ve ne sono altre, che, anche se strategicamente meno importanti, rimangono rilevanti. In particolare vi sono l'idea di "dispotismo orientale" e quella secondo cui, in "Oriente" (almeno in India e nel mondo islamico), non esisteva la proprietà privata della terra. Ma, nel caso dell'India, esistono concezioni assolutamente contrapposte su cosa costituisse il "dispotismo orientale". Secondo alcuni autori si trattava di una sorta di regime totalitario, dove tutti i poteri erano concentrati nelle mani del monarca; ma, secondo altri, si trattava di un regime dove il monarca aveva in realtà un potere scarsissimo, dato che questo era formalmente limitato dal costume e, di fatto, parcellizzato e distribuito fra le varie componenti della classe dirigente. In altre parole, si tratta di visioni mutualmente contraddittorie, il cui unico elemento comune è dato dal giudizio di valore negativo, cioè l'insistenza sul fatto che il "dispotismo orientale", in qualsiasi cosa consistesse, fosse qualcosa di profondamente negativo ed antitetico al progresso (si noti che in Occidente, le monarchie assolute - che di fatto coincidono con una delle due versioni appena ricordate di "dispotismo orientale" - sono invece considerate dalla critica storica come la fase di congiunzione, inevitabile e storicamente benefica, fra il regime feudale e lo stato moderno). Una discussione del problema del "dispotismo orientale" in questa sede è, quindi, sembrata superflua. Chi volesse approfondire il soggetto, può consultare Ronald B. Inden, Imagining India, Indiana University Press, Bloomington 2000 (1ª ed.1990). Sulla questione della proprietà della terra in India si veda, invece, Michelguglielmo Torri, Storia dell'India, Laterza, Bari 2000, spec. pp. 365-70.

10. Louis Dumont, Homo hierarchicus. Le système des castes et ses implications, Gallimard, Parigi 1979 (1ª ed. 1966), passim.

11. Su questo problema, oltre a quanto detto qui di seguito, si veda anche Peter van der Veer, The Foreign Hand, in Breckenridge e van der Veer, Orientalism and the Postcolonial Predicament cit., pp. 24-44. Come ricorda il van der Veer, Louis Dumont, ponendo in luce la correlazione esistente fra l'organizzazione dei gruppi castali da lui studiati e quelle caratteristiche sociali che sono descritte come importanti nei testi canonici sanscriti, ha osservato come ciò non potesse avvenire per "pura coincidenza". In tal modo, l'antropologo francese sottintendeva la permanenza di un ordinamento castale sostanzialmente immutato da tempo immemorabile. Ma, sempre il van der Veer sottolinea come la "configurazione sociale indiana degli anni '50 (del '900), che [Dumont] descrive come etnografo postcoloniale, non è affatto il prodotto di una semplice coincidenza ma di una specifica ideologia orientalistica [a specific orientalist discourse] all'interno della storia coloniale". E, continua, "mentre Dumont pensa di aver scoperto l''India tradizionale' attraverso il suo lavoro sul campo, egli, in realtà, ha trovato il prodotto della storia coloniale". Ibidem, pp. 27-28.

12. La critica della visione orientalistica dell'India, portata avanti nei seguenti paragrafi, può essere considerata come una sinossi delle idee alla base del volume di Michelguglielmo Torri, Storia dell'India cit. Ad esso si rimanda per ulteriori approfondimenti, anche bibliografici.

13. Per un caso particolare, quello della grande città portuale di Surat nella seconda metà del '700 (ma i dati sono validi per tutto il periodo successivo al collasso del potere moghul nel Deccan, cioè a partire dagli anni '20 di quel secolo), si rimanda a Michelguglielmo Torri, In the Deep Blue Sea: Surat and its merchant class during the dyarchic era (1759-1800), in "The Indian Economic and Social History Review", Vol. XIX, nn. 3-4, 1982, pp. 267-299; e id., The Hindu Bankers of Surat and their business world in the second half of the 18th century, in "Modern Asian Studies", 25, 2, 1991, pp. 367-401.

14. Su questo argomento, rimane di fondamentale importanza il saggio di Frank Perlin, Proto-industrialization and Pre-colonial South Asia, in "Past and Present", 83, febbraio 1983.

15. Questa descrizione è basata, fra l'altro, sull'analisi in profondità, condotta da chi scrive, dei documenti della East India Company relativi alla presidenza di Bombay e all'insediamento di Surat nel periodo dagli anni '20 del '700 fino all'anno 1800. Per una discussione del valore di questa documentazione, si rimanda a Michelguglielmo Torri, Surat, its hinterland and its trade, c. 1740-1800: The British documents, in "Moyen Orient et Océan Indien", 10, 1998, pp. 35-56.

16. Per un approfondimento di queste tesi si rimanda in particolare a McNeill, The Rise of the West cit.; Janet L. Abu-Lughod, Before European Hegemony. The World System A.D. 1250-1350, Oxford University Press, Oxford 1989; André Gunder Frank, ReOrient. Global Economy in the Asian age, University of California Press, Berkeley 1998. Si veda anche Torri, Storia dell'India cit., passim.

17. Per un'analisi di fondamentale importanza sul mutamento del sistema castale nel periodo fra la fine dell'era antica e l'inizio del Medio Evo, si veda l'articolo di R. S. Sharma, Problem of Transition from Ancient to Medieval in Indian History, in "The Indian Historical Review", I, 1, marzo 1974.

18. Ma anche questa, come si è appena ricordato, non era una funzione che venisse svolta sempre.

19. Su questo problema si veda, ad es., Michelguglielmo Torri, A Loch Ness monster? The Mahajans of Surat during the second half of the 18th century in "Studies in History", 13, 1, n.s., 1997, pp. 1-18.

20. Per un approfondimento dell'intero problema dell'evoluzione reale del sistema castale, si rimanda all'articolo di Dhirubhai L. Sheth, Caste e classi in India: realtà sociale e rappresentazioni politiche, in AA.VV. L'India contemporanea. Dinamiche culturali e politiche, trasformazioni economiche e mutamento sociale, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1998, pp. 21-48, ed alla bibliografia in esso indicata.

21. Per una discussione di questo problema si rimanda a Richard King, Orientalism and Religion. Postcolonial Theory, India and 'The Mystic East', Routledge, Londra 1999.

22. Per un approfondimento di questo tema si veda Torri, Storia dell'India cit., spec. pp. 240-246.

23. Ibidem, pp. 418-23, 451-61.

24. Secondo la tradizione, la prima moschea indiana venne fondata nel Kerala da un abitante del luogo che, durante un suo soggiorno in Arabia, era stato convertito dallo stesso profeta Muhammad. Dal canto loro, i cristiani "vecchi" del Kerala fanno risalire la propria conversione alla predicazione dell'apostolo Tommaso. Ovviamente si tratta di tradizioni il cui fondamento storico non può essere stabilito con alcuna certezza. Ma le ricerche più recenti tendono a dimostrare che il cristianesimo si insediò stabilmente in India nei primi secoli della nostra era e che l'opera di apostolato dei missionari shiiti e dei sufi sunniti si svolse indipendentemente e, in alcuni casi, precedette il processo di conquista del subcontinente da parte prima degli arabi e poi dei turco-afghani.

25. Kopf, British Orientalism cit., passim.

26. Per un'elaborazione di questi punti si veda Torri, Storia dell'India cit., pp. 377-380.

27. Il concetto di rapporto dialogico fra colonizzatori e gruppi di intellettuali indigeni nel "costruire" la visione orientalistica dell'India è mutuata da Eugene F. Irschick, Dialogue and History. Constructing South India 1795-1859, University of California, Berkeley 1994.

28. Con la parziale eccezione dell'operato del padishah moghul Aurangzeb (1658-1707).

29. David Washbrook, Law State and Agrarian Society in Colonial India, in "Modern Asian Studies", 15, 3, 1981, pp. 649-721.

30. Sull'importanza della seta grezza e dei tessili bengalesi nell'economia indiana ed internazionale fra '600 e '700 si vedano Om Prakash, The Dutch East India Company and the Economy of Bengal 1630-1720, Princeton University Press, Princeton 1985, e il dibattito fra Sushil Chaudhuri e Om Prakash in "Modern Asian Studies", 27, 2, maggio 1993, pp. 321-356. Sempre sul medesimo argomento, si veda Sushil Chaudhury, International Trade in Bengal Silk and The Comparative Role of Asians and Europeans, circa. 1700-1757, in "Modern Asian Studies", 29, 2, maggio 1995, pp. 373-386.

31. Per un approfondimento di queste tesi si rimanda a Torri, Storia dell'India cit., pp. 314-323. Si tratta di tesi che - oltre che sullo spoglio, compiuto da chi scrive, delle fonti primarie inglesi concernenti Surat ed il suo hinterland nella seconda metà del '700, ed oltre che sul saggio di Perlin, Proto-industrialization and Pre-colonial South Asia cit. - sono basate su C.A. Bayly, Rulers, Townsmen and Bazaars. North Indian society in the age of British expansion, 1770-1870, Cambridge University Press, Cambridge 1983; id., Indian Society and the Making of the British Empire, Cambridge University Press, Cambridge 1988; Stewart Gordon, The Marathas 1600-1818, Cambridge University Press, Cambridge 1993; id., Marathas, Marauders, and State Formation in Eighteenth-Century India, Oxford University Press, Delhi 1994.

32. Per un approfondimento delle argomentazioni sul collasso dell'economia indiana in corrispondenza del sorgere del colonialismo si rimanda a Torri, Storia dell'India cit., pp. 389-394, 397-408. Si tratta di tesi largamente basate sulla reinterpretazione dei dati presentati nelle due opere di C.A. Bayly citate nella nota precedente e sullo studio, condotto da chi scrive, del mutamento dei rapporti commerciali fra il Bengala e Surat nella seconda metà del '700. Su quest'ultimo punto si veda Torri, The Hindu Bankers of Surat and their business world cit., passim.

33. Solo in un secondo tempo, nel Nord dell'India questo interscambio di beni e di servizi fra i vari gruppi sociali che formavano un villaggio venne legittimato in base ad obbligazioni di carattere rituale e religioso, dando origine al cosiddetto sistema jajmani. Per quanto indicato dagli antropologi del '900 come un sistema di "grande antichità" (cioè come un'altra delle manifestazioni dell'immutabilità della società indiana), il sistema jajamani nacque, quindi, solo nel tardo '800. Sulla questione, si veda Peter Mayer, Inventing Village Tradition: The Late 19th Century Origins of the North Indian 'Jajmani System', in "Modern Asian Studies", 27, 2, maggio 1993, pp. 357-365.

34. Sulla "sinofilia" europea nel '700, si veda Giorgio Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale, Rizzoli, Milano 1977, pp. 81-99.

35. Su un caso specifico, quello rappresentato dal concetto di "modo di produzione asiatico", elaborato da Karl Marx, si veda la seconda parte di questo saggio introduttivo, scritta da Elisabetta Basile.