2009

Dibattito: l'India è davvero la più grande democrazia del mondo?

a cura di Clelia Bartoli

Uno dei pregi del progetto culturale di Jura Gentium è l'interesse che ha sempre dimostrato per questioni politiche e giuridiche non esclusivamente occidentali e inoltre per la volontà di trattare idee e concetti in una prospettiva non eurocentrica. Il tema delle democrazie non occidentali, costituisce pertanto un banco di prova privilegiato, non solo per chi voglia approfondire realtà politico-giuridiche altre, ma soprattutto per quegli studiosi che intendano cimentarsi in un'analisi transculturale che sappia produrre un decentramento cognitivo dell'usuale punto di osservazione della realtà.

Tra le democrazie non occidentali poi, quella indiana, per mole, durata e complessità è certamente una delle più interessanti. Una delle questioni che ha animato i dibattiti riguardo alla democrazia nel subcontinente indiano riguarda la sua matrice culturale: molti hanno sostenuto che si tratti di un innesto prettamente europeo, esito di un'imperialistica imposizione di modelli politici. Altri invece asseriscono, in prima battuta A. Sen, che la cultura democratica in India vi sia sempre stata, nel senso che i valori dell'uguaglianza e della libertà sono stati coltivati in esperienze politiche e sociali dell'intero globo e quindi anche in India, sebbene la storiografia figlia del colonialismo non abbia saputo dargli la dovuta importanza.

Io preferisco pensare alla democrazia in India come un'appropriazione creativa di un costrutto politico nato altrove, sebbene non del tutto estraneo per valori e concetti a certi movimenti autoctoni. La democrazia nel Sud Asia, ma come dappertutto, è stata rivisitata e reinterpretata aderendo maggiormente al contesto in cui si è innestata. La versione indiana della democrazia pertanto è profondamente indiana non solo perché modificata per funzionare meglio su suolo indiano, ma anche i suoi peggiori vizi e limiti attengono alla storia e alla realtà del luogo.

Il dibattito che riportiamo parte proprio dalla constatazione dei difetti della democrazia indiana, ma il dibattito si amplia immediatamente ponendo in questione il concetto stesso di democrazia, le condizioni minime per poter dare ad un paese il titolo di democratico, i parametri di valutazione di un'esperienza democratica, ecc.

Tale discussione risulta pertanto di particolare interesse poiché pone in questione la nozione di democrazia - valore massimo dell'identità politica, giuridica ed etica dell'Occidente - a partire da un'esperienza democratica non occidentale: insomma si tratta di un esempio di 'provincializzazione dell'Europa", funzionale anche ad una più articolata comprensione della rappresentazione di sé costruita dall'Occidente.

Tale discussione si è svolta all'interno della mailing-list di Italindia (*) tra il 20 maggio al 13 giugno 2009, nel momento immediatamente successivo alla chiusura delle elezioni in India. In quel periodo la stampa aveva seguito la lunga maratona elettorale che si è conclusa con la vittoria della coalizione di sinistra dell'UPA (United Progressive Alliance), il cui maggior partito è il Congresso capeggiato da Sonia Gandhi.

La discussione viene aperta da Elisabetta Basile, la quale si chiede se sia davvero indicata l'espressione "la più grande democrazia del mondo" che i media usavano sovente per indicare lo Stato indiano, evidentemente riferendosi al fatto che sia il più popoloso a regime democratico, ma che pare alludere ad un certo successo della democrazia indiana. In accordo alla studiosa i tragici problemi e fallimenti del governo dell'India: dalla povertà al diffuso analfabetismo, dall'endemica corruzione all'inquinamento, dal castismo al fondamentalismo religioso e nazionalista, ecc. potrebbero non far meritare al sub continente indiano il pregevole nome di "stato democratico".

I partecipanti al dibattito sono indologi, giuristi, politologi, storici, giornalisti e viaggiatori accomunati da uno spiccato interesse verso l'attualità e le sorti dell'India.

Il dibattito, nei suoi quindici interventi, prenderà molte diramazioni, talvolta concentrandosi sulla questione indiana, talaltra soffermandosi sul significato del termine 'democrazia' e sulla valutazione delle sue diverse incarnazioni nella storia e nel presente.

L'intervento di Michelgugliemo Torri, ricostruendo sinteticamente la querelle, ne tirerà le fila. Le sue conclusioni sono in realtà un invito al proseguo e all'approfondimento del delicato tema della democrazia in paesi non occidentali.

Indice

  1. Elisabetta Basile, Si può davvero parlare di democrazia in India?
  2. Nello Del Gatto, In India non si vota per "opinione" ma per "appartenenza"
  3. Marzia Casolari, Una democrazia impiantata su una struttura sociale profondamente iniqua
  4. Alessandro Cisilin, A conti fatti l'India è tra le più avanzate democrazie del mondo
  5. Giuseppe Carità, La seconda democrazia del mondo
  6. Alessandra Consolaro, Forma e sostanza della democrazia
  7. Nello Del Gatto, Non è utile fare la gara delle democrazie
  8. Marzia Casolari, Democrazia si associa ad equità sociale ed economica
  9. Elisabetta Basile, In India le disuguaglianze agevolano la rapidissima crescita economica
  10. Alessandro Cisilin, La democrazia non risolve il problema dell'uguaglianza
  11. Rosita Di Peri, Precisazioni politologiche sul concetto di "democrazia"
  12. Domenico Amirante, La democrazia partitica non ha qualità salvifiche ma va riempita di contenuti
  13. Enrica Garzilli, La storia di Meira Kumar e l'ongoing process della democrazia indiana
  14. Elisabetta Basile, Puntualizzazioni
  15. Michelgugliemo Torri, Sintesi e conclusioni

Si può davvero parlare di democrazia in India?

Elisabetta Basile

Scrivo per comunicare il mio disagio crescente che provo di fronte ai commenti sui risultati delle elezioni indiane. In particolare, sta crescendo la mia perplessità sull'uso corrente che viene fatto nella stampa e dagli specialisti dell'espressione che afferma che l'India è la democrazia più grande del mondo.

Più studio l'India, e più mi pare un paese di una estrema complessità, e forse questa complessità è all'origine dell'interesse che io personalmente provo per essa. Nel tentativo di cogliere questa complessità, gli analisti usano categorie concettuali di uso comune e diffuso, come quella di democrazia.

Affermare che l'India è una grande democrazia è vero, ma è anche banale allo stesso tempo. È certamente un paese grande, ed è certamente un paese basato su di un sistema politico che poggia su meccanismi elettorali che appaiono 'democratici'. Ma ciò basta a definire l'India un grande paese democratico?

Più osservo l'India, più mi accorgo come sia difficile applicare il concetto di democrazia, così come io lo interpreto, al caso indiano. L'India mi appare sempre più un grande e complesso paese, ma sempre meno un paese democratico

Devo dire che l'esito di queste elezioni (di cui peraltro sono contenta perché una vittoria del BJP mi sarebbe sembrata un segnale molto brutto) mi ha scosso e mi ha fatto molto riflettere. Più conosco l'India, più mi rendo conto che è una società profondamente autoritaria e antidemocratica, sia in relazione alla organizzazione economica sia con riferimento alla struttura politica.

Può essere considerato democratico un paese in cui oltre il 90% della popolazione vive e lavora in una economia informale (e il dato è in crescita dopo la liberalizzazione del 1991), in cui i diritti dei lavoratori non sono tutelati in alcun modo? dove non esiste il diritto alla pensione, all'assistenza sanitaria, dove viene evasa sistematicamente la legislazione sull'orario di lavoro e sulle condizioni di sicurezza sul posto di lavoro? dove le donne e le caste basse sono escluse a priori dalle progressioni di carriera nei posti di lavoro? dove l'appartenenza castale ed etnica influenza le remunerazioni e la collocazione professionale?

Può essere considerato democratico un paese in cui il dibattito politico viene in larga parte condizionato dall'appartenenza religiosa e castale, dove esistono partiti che sono espressione esclusivamente di tale logica? dove operano meccanismi ideologici forti, come per l'appunto l'ideologia religiosa e castale e i miti ad essa collegati (si veda il BJP e la Mayawati), che condizionano in modo forte le percezioni degli interessi individuali e di gruppo? Un paese in cui la gestione democratica stessa delle elezioni è messa in discussione dalla letteratura e dalla narrativa corrente (si veda ad esempio la descrizione che ne fa Aravind Adiga in The White Tiger), dove oltre il 40% della popolazione è analfabeta e fa fatica a capire per chi vota e come vota?

Quando penso a questo contesto, mi interrogo sul significato della parola 'democrazia? e mi chiedo se abbia ancora senso usarla in India (come peraltro in Italia) e mi chiedo anche come valutare il contrasto fra la grande libertà di stampa di cui l'India gode (ben più ampia di quella italiana) e la gestione effettiva del potere economico e politico. E mi chiedo - io che non sono una politologa, ma sono una economista che si occupa di capitalismo e povertà - con quale aggettivo si possa definire la società indiana in cui esistono alcune elite che dominano sulla base di un insieme di posizioni di potere sostenute da fattori economici, culturali e ideologici, che ricordano da vicino l'egemonia del capitale sul lavoro nell'epoca fascista in Italia, così come è stata descritta da Antonio Gramsci.

Avrei molto piacere di avere un confronto su queste questioni con gli amici di Italindia.

In India non si vota per "opinione" ma per "appartenenza"

Nello Del Gatto

Non posso che essere d'accordo con Elisabetta Basile, con la quale ho avuto il piacere di confrontarmi anche de visu. Non sono un analista, né un politologo, ma porto l'esperienza di chi, da sei anni, vive quotidianamente in India e cerca di raccontarla, cercando nel contempo di fare in modo che venga compresa.

Ho sempre avuto remore nell'utilizzo de "la più grande democrazia del mondo". Se fate un giro sul mio blog, non trovate mai, o quasi (se non perché citata da altri), l'utilizzo di questa definizione, se non per attaccarla. Io ho deciso di adottare recentemente l'espressione: "la più grossa democrazia del mondo".

Ebbi modo di discuterne con il prof. Aldo Masullo, eminente filosofo, alla presentazione del libro del prof. Domenico Amirante. Anch'egli, reduce da un viaggio in India, mi espresse le sue riserve sulla cosa, insieme ad altri campi.

Ho i miei dubbi anche sulle elezioni. Si, è vero, gli indiani numericamente rappresentano il popolo più numeroso che va a votare liberamente, ma da qui a parlare di democrazia, in senso ideale e filosofico, siamo lontani. Non sto a parlare di sperequazioni sociali, di problemi economici, dei quali tutti voi siete maestri e io un semplice osservatore. Ma è indubbio che in India non si voti per "opinione" ma per "appartenenza". Non nascondiamoci dietro ad un dito. I Yadav votano i Yadav, gli appartenenti ad un gruppo votano per il loro gruppo (che sia religioso, castale, tribale, etc. poco importa). E poi si vota Gandhi. E, stavolta, c'era una ragione in più: Rahul.

Dico questo perché la sensazione che ho avuto durante la campagna elettorale era che non ci fosse nessun altro se non i Gandhi. Il BJP si è visto poco, così come gli altri, mentre i tre Gandhi sfuriavano dovunque.

La politica del Congresso, nei cinque anni di governo, ha fallito li dove aveva pescato la sua base elettorale nel 2004, nelle classi più basse. Eppure ha avuto oggi un consenso non indifferente. Come era successo all'indomani degli attentati di Mumbai. Gli indiani sono scesi in piazza in tutto il paese per protestare contro la mancanza di sicurezza e contro il governo che non si era impegnato a fondo. Per giorni le televisioni e i giornali mostravano gente per strada con cartelli e slogan antigovernativi. Eppure, agli inizi di dicembre, il Congresso e quindi il governo, non solo hanno vinto per la quarta volta Delhi, ma hanno strappato il Rajasthan al BJP che, vale dire, non era stato in grado di cavalcare l'ondata antigovernativa soprattutto nella critica al governo per la sua politica di lotta al terrorismo di matrice islamica interno ed esterno. Il BJP nelle elezioni del 2004 come in quelle appena concluse, non ha fatto una campagna elettorale propositiva, ma anti: anti congresso, anti Sonia, per certi versi antimusulmana.

Ultime due considerazioni. La percentuale dei votanti è stata del 58,4% cinque anni fa del 58,07%, quindi uguale. Sono aumentati i votanti, i primo ministro ieri ha detto che dalle loro analisi dei voti è risultato che il Congresso ha avuto i voti dei giovani. Non mi meraviglia, non foss'altro che almeno il partito di Sonia aveva tra i leader più esposti un giovane che, tra l'altro, possiede carisma secondo gli indiani, anche perché assomiglia molto a suo padre, speranza dei giovani degli anni 90.

La seconda considerazione è sul fatto che manca, come sempre, soprattutto ora nel voto elettronico, il dato relativo alle schede nulle o bianche. Sulla macchinetta ci sarebbe un pulsante per esprimere questo tipo di voto, ma nessuno lo pigia. Ciò avvalora la mia idea del voto per appartenenza, perché la gente comunque vota per il proprio candidato, il più delle volte locale o in qualche modo legato alle situazioni locali.

La percentuale dei non votanti non è data da coloro che non sono andati a votare per protesta, ma da una serie di fattori. Tra questi, come mi hanno fatto notare sapientemente pochi giorni fa i prof. Maiello e Amirante, c'è stata una riscrizione delle circoscrizioni elettorali. La difficoltà di raggiungerne alcune, in giorni tra l'altro nei quali il caldo era atroce (ci sono stati morti) ha portato a rinunce. Ma questo è solo un motivo, non tanto banale, credete, come possa sembrare. E poi, permettetemi una ultima considerazione, che va soprattutto contro la mia professione. Di India sui giornali si parla solamente per immagini. Situazioni iconografiche, quasi diapositive. Interessano molto i sadhu, la macchina a 1700 euro, gli elefanti, i poveri, il software, etc. Senza andare a vedere cosa c'è dietro. Ed anche quando gli articoli meriterebbero gli approfondimenti, si ragiona per immagini, come è appunto la definizione "l'esercizio democratico più grande del mondo" o "la più grande democrazia del mondo". È una banalizzazione, lo so. Ma meno male che c'è. Altrimenti, non se ne parlerebbe neanche in queste occasioni.

Una democrazia impiantata su una struttura sociale profondamente iniqua

Marzia Casolari

Concordo con tutti gli interrogativi posti da Elisabetta e condivido i dubbi da lei espressi. Sono gli stessi che mi sono posta io in anni di permanenza, di frequentazione, di studio di questo paese. Elisabetta si chiede, a un certo punto, che definizione dare alla società indiana. Io, fin dagli anni in cui vivevo e studiavo in questo paese ho coniato una mia definizione: un paese dalla struttura sociale profondamente iniqua. Pensiamo, oltre agli aspetti enumerati da Elisabetta, al solo sistema castale, ingiusto per definizione. Pensiamo però anche al fatto che molti di noi ignorano o sottovalutano, ovvero al fatto che i dalit (fuori casta, intoccabili, tribali e gli stessi musulmani) formano circa l'85% della popolazione indiana. Il restante 15% rappresenta l'elite politica, economica e sociale di questo paese. tutto il resto mi pare sia una conseguenza di questa realtà.

Nonostante ciò, io accolgo con sollievo la vittoria del Congresso, perché ritengo che sia l'unico partito ad offrire almeno le prospettive che tutti i problemi messi in luce da Elisabetta Basile, Nello Del Gatto e me e che tutti abbiamo ben presente possano essere almeno messi in discussione. Cosa che non sarebbe stata possibile con il BJP o una coalizione di partiti castali e non al potere. Io credo che buona parte della classe politica del Congresso e soprattutto della coalizione che andrà a governare l'India nei prossimi anni sia consapevole di questi grandi limiti che ha la più grande democrazia del mondo. Forse sarebbe utile che anche i politici degli altri paesi adottassero un atteggiamento meno ipocrita e mettessero sul piatto dei rapporti internazionali queste problematiche. Che chi fa opinione, e qui sono d'accordo con Nello Del Gatto, cominciasse a dipingere l'India per quello che è e andasse a guardare dietro le cifre, le immagini, gli slogan.

Infine, sì, l'India è un paese complesso e, come ho sempre detto, pieno di contraddizioni. Lo sosteneva lo stesso Nehru, no? Alcune forse non sono così dannose, altre lo sono tanto. Ci vorrà ancora molto perché il peggio di questa contraddittorietà possa essere superato.

A conti fatti l'India è tra le più avanzate democrazie del mondo

Alessandro Cisilin

Reagisco anch'io volentieri alla sollecitazione di Elisabetta Basile, nonché alle prime repliche di Nello Del Gatto e Marzia Casolari.

Temi interessanti, anzi cruciali su cui si dovrebbe confrontarsi e riflettere chiunque voglia seriamente studiare l'India. L'unica cosa che non capisco è: la democrazia che c'entra con le argomentazioni illustrate?

Basile definisce l'India una "società profondamente autoritaria e antidemocratica" motivandolo con categorie economiche (l'ineguaglianza, le caste eccetera). Casolari addirittura suggerisce che "sarebbe utile che anche i politici degli altri paesi adottassero un atteggiamento meno ipocrita e mettessero sul piatto dei rapporti internazionali queste problematiche". Il che mi ricorda un articolo di qualche tempo fa del "manifesto" che proponeva il boicottaggio dell'India e la rinuncia a incontrare i suoi vertici istituzionali per via di tali diseguaglianze.

Ammesso che l'India sia campione mondiale del "non-welfare" (il che non mi sembra: benché non abbia le competenze in materia di Elisabetta Basile, dalle mie letture ed esperienze sul campo mi sembra che un povero indiano abbia più facile accesso a cure mediche dell'omologo statunitense, ad esempio); ma ammesso questo, di nuovo, che c'entra?

È purtroppo una problematica vecchia quanto la rivoluzione francese: la democrazia è il trionfo dei diritti politici, non di quelli "sociali", o quantomeno non del proletariato. Tant'è che in democrazia vincono spesso le destre e i conservatori, che promuovono quelle diseguaglianze. Così funziona in tutte le democrazie del mondo, a meno che non decidiamo di cambiare la definizione di "democrazia", includendovi l'effettivo grado di sostegno ai più deboli: del tipo, "la democrazia c'è se è di sinistra"; oppure: "la democrazia c'è se non ci sono le classi sociali".

Ebbene, io sono di sinistra, pure radicale (tant'è che non condivido l'entusiasmo della Casolari per le virtù del Congresso), ma eguaglianza, purtroppo, non è sinonimo di democrazia. Spero di non ridicolizzare il pensiero altrui, ma mi sembra che questo sia il tema.

Sull'argomento del paese "antidemocratico" si cita poi anche il fatto che ci sia una frazione della popolazione che decida per tutti. Con l'aggravante, sottolineata anche da Del Gatto, del sistema delle caste, con un voto che tende a essere meno d'opinione che d'"appartenenza".

Di nuovo, mi viene romanescamente da commentare: "embé?", democrazia significa forse l'assenza una "classe dirigente", che per giunta abbia tendenza a riprodursi nel corso delle generazioni? E poi, democrazia significa che il voto sia esclusivamente l'espressione di un'istanza "individuale" di opinione, e non di "interessi" di gruppo o di ceto (e quindi con tanto di partiti, sindacati, istituzioni religiose e altre aggregazioni intermedie che organizzano il consenso)?

Se così fosse, direi che la democrazia non solo non esiste in India, ma sia mai esistita in alcun luogo, al di fuori, forse (non senza ombre e distinguo), di Francia e Gran Bretagna... mi sembra forse esagerato. Un po' di comparazione qua è cruciale (anche Basile del resto accenna al caso italiano). Anche facendo astrazione dai conflitti di interessi (che ci rendono, noi sì, un paese attualmente e oggettivamente non democratico), le nostre rigidità "di casta" coinvolgono la totalità dei settori, a cominciare dalla leadership politica. E non dimentichiamoci poi del ruolo della mafia e della Chiesa nel processo elettorale, senza contare le altre miriadi di "corporativismi" che organizzano il consenso.

Ebbene, l'Italia è un caso limite, ma anche il resto dell'Occidente democratico non è esente da tali fenomeni, nonostante sia tenuto lontano dalla letteratura indianistica sulle caste.

L'India da tali punti di vista sta messa peggio? Non mi sembra proprio. Cito due dati, forse sciocchi ma significativi: mi sembra che l'ampia letteratura su "caste and politics" sia al tramonto. La ragione che il voto è molto più mobile delle appartenenze, tant'è che gli analisti, nelle ultime due elezioni, non sapevano più che pesci pigliare.

Secondo dato, viceversa sull'Italia: le ultime analisi sulla struttura del voto ne rivelano l'immobilismo praticamente assoluto negli ultimi decenni, prima e dopo l'avvento di Berlusconi. Cambiano i partiti, cambia l'affluenza e la capacità di mobilitare "i propri". Ma il voto delle singole famiglie (e dei rispettivi figli) è rimasto sostanzialmente immobile.

E allora, di che stiamo parlando? Personalmente, ho solo un'esperienza di osservazione sul campo di un processo elettorale. Fu nel 2000. Vivevo nelle aree rurali, e mi capitò anche di aiutare alcuni analfabeti (non per questo non appassionati dal processo politico) a leggere i volantini elettorali (io conoscevo l'alfabeto, loro conoscevano il significato). Vidi migliaia di famiglie percorrere decine di chilometri scalze per recarsi alle urne. E vidi poi anche l'elezione di gente di bassa casta. E penso ora a paesi quali agli Stati Uniti, con le affluenze ridicole e l'impossibilità di votare per molti.

E allora, a differenza del pessimismo di chi ha lanciato e commentato quest'importante discussione, sono sempre più persuaso che, non solo l'India è una delle più grandi democrazie al mondo, ma è anche tra le più avanzate.

La seconda democrazia del mondo

Giuseppe Carità

Vedo, con piacere devo dire, che la discussione aperta sul tema della situazione sociale e politica dell'India, anche alla luce degli esiti delle ultime elezioni, suscita un intenso dibattito ed è naturale per chi ama l'India, per chi desidera vedere l'India progredire in tutti i suoi aspetti!

Io proverò a dire la mia partendo però da una considerazione: molte affermazioni - che ho anche letto negli interventi succedutisi su Italindia - mi paiono più espressioni di un sentimento che non del dato analitico, dato peraltro che neppure io posseggo!!!

L'India è ciò che tutti noi che abbiamo visto, sperimentato, subito ed amato: purtroppo ci mancano molti dati documentali, statistici, reali, perché questi dati non vengono raccolti, non vengono analizzati, non producono esiti nelle scelte da fare (sempre che vogliano e debbano esserci) da parte dei politici indiani.

Sono 30 anni che frequento l'India e la definizione di "più grande democrazia del mondo" ha spesso pure suscitato il mio sarcasmo, ma a ben vedere, vogliamo dire che è più democratico un paese come il nostro, narcotizzato da un personaggio a dir poco discutibile, o, come ben dice Giorgio Bocca, un paese sostanzialmente, fondamentalmente fascista, così come scaturito dalle ultime elezioni? Un paese dove la cosiddetta informazione è tutta in mano al "duce delle veline" (e tutti vediamo come e dove le conduce, quanto meno ai pranzi ufficiali di Villa Madama - Corriere, 21 maggio 2009), al "faro" sostenuto da quel "Dell'Utri" che afferma che Mussolini era un "buono" (come l'aguzzino di Fantozzi? o meglio)?

Certo sul concetto di "paese democratico" tutti dovremmo fare delle riflessioni, dei confronti: ma io comincerei allora a riflettere partendo da un altro grande paese, gli USA, che io - oltre ad amare a priori - comparo sempre all'India per il problema degli emarginati, dei poveri: io sono sempre scandalizzato dagli homeless di Los Angeles che vedo nei parchi di Santa Monica, da quelli di Washington e New York dormienti negli androni dei grattacieli di Manhattan quando non, d'inverno, sui tombini della rete di riscaldamento: qualcuno oserebbe dire che gli USA non sono una grande democrazia?

Io non sono uno studioso di politica ed ho solamente le mie conoscenze ed esperienze, le mie impressioni e le mie opinioni indotte dal naso sbattuto sul campo, dal che deduco - statisticamente - che l'India è la "più grande democrazia del mondo", con tutti i se ed i ma che tutti, al di là delle statistiche, abbiamo visto e sperimentato: è il paese dei 665 milioni (undici Italie!!!, dato dell'OMS, maggio 2008) senza un "cesso", non dico un bagno!!!, ma un semplice posto dove defecare e orinare in riservatezza!!!

È il paese dove i miei giovani amici da un giorno all'altro perdono la ragazza perché la famiglia l'ha data in sposa nell'ambito del matrimonio combinato dal clan il giorno prima; il paese dove l'amico islamico non può frequentare e meno che mai sposare la ragazza hindu che ama ricambiato. O, peggio, quanto leggiamo delle mogli sfigurate o impiccate alla porta del bagno perché il padre non ha finito di pagare la dote (marito ingegnere, luglio 2008, Bangalore), del marito decapitato dal clan perché ha sposato la ragazza di una casta non sua (marito e moglie ingegneri, Bihar, giugno 2008), dei due bambini sgozzati in Orissa per ingraziarsi la dea Durga al plenilunio (ottobre 2006).

Ma è più democratica (perché qui pare emerga il dilemma negli interventi apparsi) l'Italia delle studentesse violentate dal preside siciliano (20 maggio 2009), quella delle ragazze violentate nei parchi urbani milanesi, degli studenti ammazzati a raffica in tutti i college americani o svedesi o tedeschi protagonisti di eventi negli ultimi recentissimi anni?

Certo l'India è uno stato pieno di problemi ed io dico (spesso non capito o contraddetto da chi mi ascolta) che l'India è anche un paese reduce da una colonizzazione di rapina come solo gli inglesi sapevano fare, reduce da una colonizzazione che ha per prima "classificato" le caste!!! Prima dei colonizzatori inglesi non c'erano gli "schedari" che inquadravano le appartenenze (o le non appartenenze); c'era. certamente la tradizione. Infausta quanto si vuole, ma non schedario degno dei nazisti.

Da una decina d'anni mi occupo, con un gruppo di amici, di social work in India: certo è tutto difficile, ma per noi è spesso anche un modo per meglio approfondire, conoscere, cercare di capire una realtà sociale e culturale, oltre che economica, così specifica.

Ed in trenta anni ho avuto anche modo di riscontrare una crescita di interessi, una maturazione costituita di curiosità che spaziano in differenti ambiti, un effettivo progresso in campi differenti che nel 1979 non potevo attendermi: restano certamente i problemi della sporcizia (58% degli indiani senza cesso, con il conseguente grave stato igienico e sanitario), della predominanza assoluta ed indiscutibile del ruolo del maschio, della dominante povertà in enormi slum urbani e nell'80% delle campagne, dell'assenza di adeguati sistemi di sicurezza sociale...

Ma resta il fatto che... se gli USA sono (con Guantanamo, la mancanza di assistenza sociale e sanitaria, la criminalità e l'abuso delle armi...) la "seconda democrazia del mondo", con gli stessi parametri ahimé l'India è la seconda!!! Con una struttura dell'informazione ed un livello della stessa (pensiamo a riviste diffusissime, come "India Today") che la povera "nazione italiana" può solamente invidiare: lì i politici ladri vanno talvolta in galera, come negli USA del resto, qui in Italia vanno più spesso al potere e trasformano le leggi per restarci, quando non riescono a comprare in blocco chi li dovrebbe giudicare.

So che le mie comparazioni possono apparire "di parte" ed io dico che certo lo sono: ma l'obbiettivo delle mie considerazioni era orientato a capire di più le nostre (anche mie, sicuramente!) perplessità sullo stato dell'India e su certe facili superficiali affermazioni che spesso compaiono sulla nostra stampa.

Resta il fatto che il Bjp, Bharatiya Janata Party in India non è più passato, mentre da noi la Lega ha gli Interni nell'ambito della Luce emanata da quello che molti sgherri chiamano il "grande comunicatore"!!!

Un'ultima considerazione critica: i dalit che una volta al potere si arricchiscono - come la chief minister Mayawati - non sono così differenti dai nostri parvenu. Resta la differenza sostanziale che i nostri parvenu, narcotizzando "una maggioranza", comprano o si impossessano di mezzi di comunicazione e potere: e lo tengono!!!

Forma e sostanza della Democrazia

Alessandra Consolaro

Vorrei aggiungere una considerazione che esula dal discorso puramente indiano ma forse non è del tutto inappropriata. Sono perfettamente d'accordo con quanto finora esposto a proposito delle limitazioni della democrazia in India. Ma forse ciò di cui stiamo discutendo riguarda la crisi della democrazia rappresentativa in senso più generale. Penso a quanto, per esempio, disse Calamandrei nel suo famoso discorso sulla Costituzione all'Umanitaria (1955!), riferendosi all'Art. 3, comma 2 della Costituzione Italiana (**):

"Una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della Società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la Società."

Io rimango convinta che in ogni caso sia un bene avere la possibilità di votare e di eleggere rappresentanti, ma che questo non necessariamente significhi 'democrazia'. Non basta la 'democrazia' politica, il riconoscimento e la garanzia giuridica delle libertà civili e politiche fondamentali, o l'uguaglianza giuridica: la vera democrazia è democrazia sociale, dove l'uguaglianza si realizzi anche nei fatti, dove ci siano giustizia e libertà, insomma (e dove per giustizia intendo anche la giustizia sociale e per libertà anche libertà dalla schiavitù economica).

Mi sembra che questa discrepanza tra forma e sostanza non riguardi solo la 'più grossa democrazia del mondo', ma molte altre democrazie, incluso quello che resta della nostra.

Il mondo occidentale e il mondo economicamente avanzato si fanno belli della democrazia da esportazione, che però coincide esclusivamente con il primo livello di democrazia descritto sopra, ovvero con l'istituzione di un sistema rappresentativo dove a rappresentare sono sempre e solo le elite. Questo, però, come cantava mio nonno, si fa ma non si dice... altrimenti la gente potrebbe mettersi a pensare!

Non è utile fare la gara delle democrazie

Nello Del Gatto

Ho letto con interesse tutti gli interventi che considero non solo interessanti ma molto stimolanti e per la maggior parte condivisibili. Una sola domanda: ma è in campo una gara fra democrazie? Perché allora non so se ne uscirà qualcuna vincente, dal momento che eminenti politologi o studiosi di sistemi politici e giuridici, non certamente io modesto cronista, spiegano che la democrazia è sempre imperfetta. Credo che fare parallelismi sulla democrazia nei diversi paesi non serva a nessuno, anche perché entrano in gioco idee e convinzioni politiche che fanno vedere nera una cosa che è bianca per chi ha idee diverse.

Se ho ben capito quello che ha scritto la prof.ssa Basile e per ribadire quello che ho scritto io, si criticava solo l'utilizzo della definizione "la più grande democrazia del mondo" relativa all'India, non perché paragonata con altre, ma partendo da questioni prettamente indiane emerse anche dai risultati delle scorse elezioni. Tutto qua.

Democrazia si associa ad equità sociale ed economica

Marzia Casolari

Vorrei aggiungere due brevi considerazioni sulla democrazia in India, in risposta al messaggio di Alessandro Cisilin.

Leggendo il messaggio di Alessandro, la prima cosa che mi viene in mente è che evidentemente non ha letto Amartya Sen, il quale associa democrazia ed equità sociale ed economica. In questo Sen non scopre forse nulla di nuovo, visto che il concetto di democrazia così come formulato dalla rivoluzione francese si poggia su égalité, oltre che fraternité e liberté. Valori che, guardando a tutte le democrazie del mondo, risultano ampiamente disattesi.

Fra tutti, l'uguaglianza è quello che passa maggiormente per fattori economici e sociali: accesso egualitario (se non uguale) ai mezzi di produzione, al reddito, ecc.? Vogliamo metterla così?

Per quanto riguarda lo stato sociale, in India non esiste e non si può generalizzare dicendo che è senz'altro più saldo qui che negli Stati Uniti. Ricordo che in India non esiste l'istruzione pubblica e obbligatoria e la sanità è tutt'altro che gratuita e garantita a tutti. Chi può, le cure mediche le paga, più o meno profumatamente secondo i propri mezzi. Esistono gli ospedali pubblici o i piccoli ambulatori rionali, dove però viene impartita un'assistenza sanitaria talvolta spaventosa. Molti ospedali pubblici indiani, che appaiono (io li ho visti) come gironi infernali, hanno la discrezionalità di respingere moribondi, soprattutto se di condizioni infime. Per questo ci sono Madre Teresa e istituzioni similari.

Per quanto riguarda i numeri degli oppressi indiani (è questo il significato letterale del termine dalit), credo che si trovino diverse statistiche affidabili in merito. Esistono anche documenti molto ben fatti, come il Sachar Report, che documenta la situazione dei musulmani, con numeri, cifre, descrizioni di contesto.

Detto questo, a me continua a sembrare difficile sostenere che la democrazia non c'entri nulla con l'economia

Al mio precedente messaggio avrei voluto aggiungere qualche considerazione sulla nostra democrazia e sul senso del concetto di democrazia in generale. Me ne ero dimenticata, ma colgo l'occasione per farlo ora. Credo che gli indiani, con questo voto elettorale ci abbiano dato una lezione, così come ce l'hanno data gli americani votando Obama. Non importa se in percentuali bulgare o con cifre più risicate, se con le scarpe ai piedi o scalzi, gli indiani hanno votato per un partito che è stato e speriamo continui (o meglio torni) ad essere garante della laicità dello stato. Che non ha fatto del conflitto sociale il suo vessillo. Pur con tutti i limiti e gli errori imputabili al Congresso. Non so se si tratti di democrazia o semplicemente di buon senso. Noi siamo solo in grado di sceglierci una classe politica che non perde occasione per smantellare i diritti e per alimentare il conflitto sociale. Credo che il concetto di democrazia sia sofferente, in tutto il mondo. Non c'è tanta democrazia in uno stato, come il nostro, dove la disuguaglianza sociale non è lacerante, per ora, come in India, e dove una parvenza di welfare state sopravvive, ma vengono continuamente messe in discussione le libertà civili, in primis quella di espressione. Dove il diritto uguale per tutti, a mio avviso alla base di ogni democrazia, è continuamente bersagliato dal diritto che garantisce gli interessi di pochi e salvaguarda i diritti esclusivi di uno. È ovvio che la democrazia non dovrebbe essere né di destra né di sinistra.

Da questo punto di vista, forse una delle migliori applicazioni della democrazia si trova nei paesi scandinavi, per i quali non ho grandi passioni, dove però politici di destra hanno posizioni e politiche di governo di gran lunga più progressiste dei nostri politici, anche di sinistra.

In India le disuguaglianze agevolano la rapidissima crescita economica

Elisabetta Basile

Credo che siamo arrivati ad un punto di vivace confronto in cui riusciamo a toccare il nocciolo della questione.

Capisco che a Cisilin (e ad altri, anche a me) venga in mente di fare il confronto con altre democrazie - quella italiana, quella americana - rispetto a cui l'India non è necessariamente peggiore, anche se molto lontana dal concetto alto di democrazia di Calamandrei citato da Marzia. Ma non è questo il punto. Non serve a nessuno dire che la democrazia è quasi assente dal nuovo millennio. La questione che vorrei discutere è invece quanto questa immagine - la più grande democrazia dl mondo - descriva l'India.

Quando penso all'India, mi vengono in mente ben altre immagini: una grande economia informale, uno stato in cui l'impalcatura di origine religiosa (e castale) organizza le relazioni economiche, una economia in cui il mercato del lavoro è assente, un enorme e potente capitalismo in cui il capitale poggia si forme di stratificazione sociale non economiche (un sistema economico che pare un passo indietro rispetto alla grande trasformazione descritta da Polanyi).

Ad essere sincera l'economia indiana mi pare un mostro, ed è un mostro prodotto dalla crescita del capitalismo. Il capitalismo indiano mi pare uno schiacciasassi che assorbe tutto - cultura, valori, tradizioni - e li sottopone alla logica del profitto. Sì, l'economia indiana è un risultato mostruoso: un tasso di crescita che i paesi dell'OECD si sono dimenticati da molto tempo, ma nessuna delle conquiste che hanno accompagnato la crescita del capitalismo in occidente. Ciò è possibile perché la società indiana contiene al suo interno delle formidabili barriere sociali. Se queste barriere avessero agito in occidente, enormi frange della popolazione sarebbero ancora in condizioni di profonda arretratezza. Metà dei popoli europei sarebbe costituita da servi della gleba. Come in India oggi.

Il confronto che Cisilin ci spinge a fare con gli USA ha un senso. Ma siamo sicuri che negli USA operano meccanismi analoghi a quelli che operano in India?

Vorrei riprendere la distinzione (che mi pare molto efficace) fra India della luce e India delle tenebre che fa Aravind Adiga nella White Tiger. Qui la questione è di numeri e non solo di qualità dei processi, mi spiace per Cisilin. Vorrà dire qualcosa il fatto che l'India cresca ad un tasso dell'8%, ma che continui ad avere 2 donne su 3 analfabete e 300 milioni di persone nelle campagne sotto la linea della povertà? Vorrà dire qualcosa che malgrado la politica delle riserve, ancora oggi la quota maggiore dei poveri appartenga ai fuori casta?

Il punto che voglio sostenere è che la società indiana contiene al suo interno i meccanismi che portano alla crescita della disuguaglianza e anche all'emarginazione, e che, anziché costituire degli ostacoli alla crescita, questi meccanismi diventano uno strumento per aumentare il tasso di crescita. Per questo vedo il capitalismo indiano come un mostro: un esito mai osservato prima e, aggiungo, oltremodo preoccupante.

Di fronte a questa realtà, non è vero affermare che l'India è una grande democrazia: perché esistono troppe barriere radicate che impediscono che i benefici della crescita siano goduti da ampi strati della popolazione. Ma soprattutto non ci serve perché ci fa immaginare un mondo che non esiste e che oggi appare sempre meno probabile. L'assetto attuale delle relazioni internazionali spinge a pensare che l'India non possa cambiare strada, che il capitalismo indiano - il mostro di cui parlavo prima - sia obbligato a continuare a percorrere la strada "bassa" della concorrenza internazionale (quella in cui la competitività risulta dal contenimento dei costi del lavoro e non dall'introduzione di nuove tecniche). Se ciò continuerà, i tassi di crescita indiani saranno tenuti alti da un ulteriore aumento dello sfruttamento e da una compressione dei diritti? Sarà dunque l'India ancora una democrazia?

La democrazia non risolve il problema dell'uguaglianza

Alessandro Cisilin

Del Gatto si chiede se stiamo discutendo di una "gara tra democrazie". Secondo me no, stiamo discutendo se un sistema politico sia democratico o meno.

L'Italia, a causa dei conflitti di interesse, secondo me non lo è, gli Stati Uniti, dove vota una minoranza, secondo me non lo sono. L'India, dove vota la maggioranza e dove operano un sistema giudiziario e mediatico indipendente, effettivamente lo è.

Marzia Casolari usa l'argomento, riferendosi a me: "evidentemente non ha letto Amartya Sen". È un modo molto "accademico" di porre le proprie idee (mi scuso per la connotazione dispregiativa. ..magari fossi dentro l'Accademia!), ed è anche fallace: primo perché anche senza leggere Amartya Sen si ha dignità di pensiero; secondo perché non tutti quelli che hanno letto Amartya Sen la pensano in modo identico; terzo perché se si bacchetta qualcuno per non aver letto Amartya Sen e poi si precisa "che forse non scopre nulla di nuovo" non si capisce la bacchettata; quinto perché ha ragione, non ha effettivamente scoperto nulla di nuovo, visto che la rivoluzione francese ha rappresentato una rivendicazione (benché irrealizzata) di uguaglianza (almeno della classe media rispetto alle superiori) ancor più che di libertà (dato che questa esisteva già in molta parte della Francia), e risparmio le citazioni; sesto perché, confesso, Amartya Sen l'ho letto e, di più, ho letto anche altri economisti premi Nobel che (purtroppo, a mio parere) hanno avuto tesi del tutto opposte. Mi fermo al sesto e torno alla discussione.

La democrazia, come dice Del Gatto, è imperfetta. E tra le imperfezioni c'è quella che non risolve il problema dell'uguaglianza. Ma, se non lo risolve, è proprio perché non è vero che i due concetti siano interrelati. Non è, come argomenta Marzia Casolari, che la democrazia nei paesi scandinavi sia "migliore" che da noi perché i politici di destra hanno posizioni politiche più progressiste del nostro centrosinistra. Significa un'altra cosa. Significa che i paesi scandinavi sono più progressisti di noi, e l'elezione democratica dei rispettivi governi eletti non è altro che l'espressione democratica di questa differenza. Quelle posizioni non sono altro che la fotografia più o meno fedele di quel che chiede il popolo.

E, a proposito di "quel che chiede il popolo", per quel che riguarda l'India, lo dico in modo sempliciotto e grossolano: il popolo non vuole l'uguaglianza. Vuole un minimo di welfare, e quel minimo in parte c'è ed è enorme rispetto al periodo coloniale. Ma, nel suo dna culturale, mantiene tuttora una cultura gerarchica. La politica indiana tende a riflettere questa impostazione. Può piacerci o non piacerci (a me, tendenzialmente, non piace), ma questo è. Ed è una corrispondenza che dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che l'India è profondamente democratica.

Precisazioni politologiche sul concetto di "Democrazia"

Rosita Di Peri

Su suggerimento di Michelguglielmo Torri ho provato a buttare giù, da politologa, alcune riflessioni sulla questione della democrazia per contribuire al dibattito in atto sulla lista riguardo alla democrazia indiana. Non si tratta di una riflessione di merito, essendo studiosa di Medio Oriente, quanto, piuttosto, una riflessione sulla bontà/effettività di una vera democrazia.

È indubbio che nei cosiddetti paesi occidentali sia in atto un processo di dequalificazione della democrazia: i cittadini hanno sempre meno fiducia nelle istituzioni e partecipano mal volentieri ai momenti di verifica e di controllo in cui sono coinvolti in prima persona. Certo anche la recente situazione di crisi ha acuito questa dinamica che, tuttavia, non è recente ma ha radici ben profonde e lontane. In particolare alcuni studiosi si sono perfino interrogati se quello democratico sia il migliore sistema possibile a disposizione (fino ad oggi, tuttavia, nessuno è riuscito a dimostrare che esistano valide alternative a questo modello per imperfetto che sia). Il livello di partecipazione e di interesse verso la politica e la vita democratica è sempre un indice molto importante per misurare la "tenuta democratica" di un paese. Tuttavia, come sappiamo, in molti paesi, soprattutto non europei, il livello di partecipazione non è affatto indice di democraticità (pensiamo, ad esempio alle elezioni con partecipazione del 90% della popolazione in vari stati che sono ascrivibili nella categoria di stati non democratici). Già, ma allora quale criterio utilizzare per stabilire quale sia il livello di democraticità di un paese? Per rispondere a questa domanda si aprono almeno due canali di analisi: da un lato i tentativi teorici atti a spiegare quali dovrebbero essere le caratteristiche di una democrazia ideale (che grossomodo si dividono in approcci che si rifanno alla scuola minimalista- procedurale e a quella massimalista). Dall'altro, e si tratta di un annosa questione per i politologi, i tentativi empirici atti ad individuare criteri o standard validi universalmente per "misurare" i livelli di democrazia. Tralasciando il primo aspetto, per quanto riguarda i tentativi empirici atti a misurare il livello di democraticità e la qualità di una democrazia, un passo è stato fatto attraverso la creazione, a partire soprattutto dagli anni '60 del secolo scorso, di Istituti e centri ricerca che avevano proprio lo scopo dichiarato di misurare il livello di democrazia di uno stato. In tali misurazioni tutto dipende dai criteri di rilevazione, dagli aspetti considerati importanti e da quelli considerati trascurabili. Uno dei più famosi tra questi Istituti, Freedom House, utilizza una serie di indici complessi, che rivelano, nel loro insieme, una scarsa o nulla considerazione dei tragitti storici, sociali e culturali dei paesi oggetto di studio. Le indicizzazioni di Freedom House considerano dunque alcuni aspetti ma ne tralasciano altri altrettanto importanti fornendo un quadro parziale e incompleto.

Il problema della misurazione è emerso ancora con maggiore vigore a partire da quella che Huntington ha definito "terza ondata" di democratizzazioni. Il repentino aumento delle democrazie nel mondo, in aree dove fino a poco tempo prima vigevano sistemi autoritari, ha spinto sempre più studiosi a riflettere su quali potessero essere gli standard minimi affinché un sistema sociale e politico potesse essere considerato una democrazia. Al di là della difficoltà, come abbiamo accennato, di arrivare a sistemi di misurazione condivisi ed univoci, in letteratura c'è accordo su una serie di criteri che sono stati formalizzati dal politologo Robert Dahl e che definirebbero quella che lui ha chiamato poliarchia ossia un insieme di istituzioni politiche necessarie per far funzionare una democrazia. Tali requisiti sono: eleggibilità delle cariche pubbliche; elezioni libere e regolari; suffragio universale; diritto di farsi eleggere; libertà di pensiero ed espressione; informazione alternativa; libertà di associazione e di organizzazione.

Come si può intuire l'elenco indicato non tiene conto delle molteplici varianti presenti. Infatti un paese può, sulla carta, assecondare tutti i requisiti sopra elencati e non essere democratico. Le elezioni, ad esempio, possono essere soltanto momenti di facciata legati alla legittimazione del leader ed alla sua celebrazione. La libertà di associazione può esistere sulla carta ma essere negata nei fatti e via dicendo.

Anche questi criteri non sono dunque sufficienti, da soli, ad identificare una democrazia come tale.

Il problema, ovviamente, si pone per i casi delle democrazie incerte, dei casi limite, di quei paesi, cioè che non hanno una democrazia stabile o che si sono affacciati da poco sullo "scenario democratico".

Che soluzione dunque? Un approccio recentemente molto utilizzato, che si rifà alla scuola massimalista orientata al ruolo degli attori (ossia un tentativo di non ridurre l'analisi ai soli aspetti procedurali sopra indicati) riconosce all'azione dei soggetti che fanno parte del sistema politico un ruolo chiave nel definire gli orientamenti democratici di un paese. Ad esempio analizzando come gli attori si relazionano reciprocamente in arene deliberative e come le loro interazioni impattano sul decision making (un tentativo che si potrebbe definire precursore degli studi deliberativi era stato promosso da Barrington Moore, il quale, tra l'altro, aveva proprio analizzato il caso dell'India).

Non sembra esistere, al momento una via di uscita a questo dibattito. Certo il rispetto e la tutela dei diritti umani, delle minoranze e delle diversità culturali sono alla base di ogni sistema che si presenti come democratico, ma è solo nella pratica quotidiana che una democrazia si esplicita come tale. Per questa ragione sempre più politologi affrontano lunghe sessioni di lavoro sul campo con risultati estremamente interessanti.

Tornando, per concludere, al dibattito sulla democrazia indiana, ritengo, almeno da un punto di vista politologico, che non vi possano essere dubbi sul fatto che l'India sia una democrazia effettiva a 360° che risponde agli standard minimi procedurali sopra definiti, ma anche ai criteri della scuola massimalista. Certo si tratta di una democrazia a volte deviante, ma credo che tutte le democrazie (o quelle autoproclamatesi tali) della nostra epoca abbiano un qualche tipo di deviazione interna. Il punto è, piuttosto, fino a che punto tali "deviazioni" interferiscano con il lavoro delle istituzioni e con gli sviluppi del tessuto sociale e produttivo.

In questo senso penso che, prima di parlare delle democrazie degli altri bisognerebbe sempre guardare alle "deviazioni nostrane".

La democrazia partitica non ha qualità salvifiche ma va riempita di contenuti

Domenico Amirante

Se ho ben capito, l'oggetto del dibattito non è tanto l'uso dell'espressione "la più grande democrazia del mondo" riferita all'India, quanto una valutazione sulla qualità della democrazia indiana.

Comunque, in merito alla questione terminologica, non mi pare che ci sia nulla di pericoloso nell'utilizzare l'espressione incriminata, in quanto mi sembra difficile negare che lo stato indiano sia democratico e che sia il più grande in termini di popolazione fra quelli che scelgono liberamente i propri governanti. Per essere più precisi si potrebbe forse utilizzare la versione di Del Gatto ("la più grossa democrazia del mondo") che fa riferimento in modo più esplicito agli aspetti quantitativi. Ma non mi soffermerei più di tanto su una questione stilistica. Piuttosto credo sia necessario intendersi sull'uso della parola democrazia che può avere moltissimi significati ed essere declinata nelle modalità più diverse, ma che ha una base, anche etimologica, dalla quale non si può prescindere, cioè quella di essere innanzitutto "governo del popolo". Le libere elezioni, il pluralismo politico, la possibilità di scegliere e sanzionare i governi (insomma i "diritti politici") sono le condizioni minime, i prerequisiti per poter parlare di democrazia. A partire da questa base (che non è per niente scontata, ma è sempre potenzialmente a rischio, e noi italiani lo sappiamo bene) va poi valutata la qualità della democrazia in termini di rapporti fra società e stato, di eguaglianza sociale, di welfare, etc ...

Detto questo, non mi pare che, sotto il profilo della democrazia politica, l'India abbia molto da invidiare a tanti paesi occidentali. Come ho avuto più volte modo di sottolineare, la forma di governo indiana ha mostrato in sessant'anni una notevole efficienza, garantendo allo stesso tempo stabilità (i "governi di legislatura", tranne negli anni novanta, sono una costante), possibilità di alternanza, un forte pluralismo partitico. Le elezioni rappresentano un elemento decisivo della vita pubblica indiana, come dimostrato, per fare un solo esempio, dalla sconfitta di Indira Gandhi nel 1977: un vero "colpo di stato" che ha ripristinato le libertà costituzionali, fatto però dagli elettori e non dai militari o da gruppi terroristici.

A questo proposito bisogna poi aggiungere che, sotto il profilo della democrazia politica, l'India va paragonata non tanto alle democrazie occidentali, quanto agli altri stati dell'area sub-continentale, che ne condividono il contesto geografico, storico e, per buona parte, culturale (con le dovute differenze). Dal confronto con le tormentate vicende politico-istituzionali del Pakistan, dello Sri Lanka, del Nepal, del Bangladesh, emerge in maniera nitida il successo dell'esperimento democratico avviato nel '47. Esiste peraltro un collaudato filone di studi che "contestualizza" l'analisi del caso indiano nel quadro della "costruzione della democrazia in Asia del sud". Ad esempio, mi sembra particolarmente utile al nostro dibattito l'impostazione metodologica di Maya Chadda (nell'ormai non più recente "Building democracy in South Asia", del 2000) che sottolinea come l'approccio strutturalista si riveli sostanzialmente inadeguato a studiare il sub-continente in quanto applica una griglia concettuale ricavata esclusivamente dalla storia euro-americana. In effetti le tre fasi di consolidamento dello stato democratico (costituzione dello stato-nazione, industrializzazione , democratizzazione) sono state spalmate da noi in diversi secoli mentre qui (come nel caso di molte democrazie recenti) si sovrappongono in un lasso di tempo molto breve (quando non sono addirittura contemporanee). La persistenza di strutture sociali considerate arcaiche e disfunzionali nel modello euro-americano diventa qui, spesso, un elemento che non ostacola, ma rende possibile lo sviluppo della democrazia, producendo peraltro fenomeni originali (parafrasando Jaffrelot, ad esempio, non guarderei alla nascita della "coscienza di casta" come ad un fenomeno anti-democratico).

Ovviamente non dobbiamo cadere nell'errore di assegnare alla democrazia rappresentativa qualità salvifiche o taumaturgiche: non risolve da sola i problemi (ed anche questo, come italiani lo sappiamo bene), ma va riempita di contenuti ed è da qui che comincia il nostro dibattito, sul quale mi limito a qualche flash.

Innanzitutto non mi pare che i risultati delle ultime elezioni siano particolarmente preoccupanti, peggio sarebbe stata una Lok Sabha divisa, con i due grandi partiti con lo stesso numero di seggi ed il pericolo di una Mayawaty o una Jayalalitha a fare il bello e il cattivo tempo. Il Congress ha un'altra legislatura a disposizione per realizzare quelle politiche in favore degli strati più deboli della società già annunciate nel 2004 (nel programma elettorale 2009 non c'è molto di nuovo) e questa volta, avendo le mani libere, avrà meno scuse da accampare. Il risultato del BJP ha confermato che l'estremismo religioso, da solo, non consente di governare l'Unione, ma più che di crollo mi sembra si possa parlare di sostanziale tenuta delle posizioni, anche se ha perso qualche stato inaspettatamente. Analogo discorso penso possa farsi per il BSP, più credibile a livello statale che nazionale (vedremo cosa succederà nelle prossime elezioni statali in UP), ma non credo che la "caste politics" sia già al tramonto. Per analisi approfondite dei flussi elettorali bisogna attendere dati più dettagliati, ma mi pare che gli spostamenti di seggi fra le elezioni del 1999, 2002 e 2009 confermino la vivacità dell'elettorato indiano. Esiste certamente, come ha sottolineato Del Gatto, un consistente voto d'appartenenza (che non va peraltro demonizzato) , ma questo resta soltanto uno degli elementi caratterizzanti delle elezioni indiane, altrimenti i sondaggisti andrebbero sul velluto senza rischiare le magre figure cui si sono dovuti abituare nelle ultime tornate. Anche l'affluenza alle urne si conferma a livelli più che ragguardevoli (non ho sottomano il dato preciso, ma hanno votato sicuramente più di 400 milioni di persone) ed il quasi 59% del corpo elettorale è molto di più delle percentuali di diverse democrazie europee. Ad esempio, nelle tanto strombazzate elezioni del Presidente USA Obama, il 54% dei votanti è stato salutato come un risultato di partecipazione storico (infatti nelle elezioni parlamentari, in genere, votano molti di meno).

Basta così, anche perché per intervenire su tutto quanto è stato messo in campo nel nostro dibattito bisognerebbe scrivere un libro ...

La storia di Meira Kumar e l'ongoing process della democrazia indiana

Enrica Garzilli

A proposito della corrente discussione sulla democrazia in India Volevo segnalarti uno dei tanti articoli (http://abcnews.go.com/International/wireStory?id=7742143) su Ms Meira Kumar, appena eletta come portavoce del Lok Sabha: È dalit, è donna, viene dal Bihar. Rimpiazza un bramino.

È vero che è figlia di un parlamentare e figura di spicco dei dalit, ma è avvocato e nella carriera diplomatica da decenni. Non è diventata membro del Parlamento dopo una carriera da velina et similia (lo dico senza alcun intento polemico, ovviamente, ma solo come dato di fatto) o, peggio, da pornostar. Se è vero, come è vero, che uno dei parametri di democrazia di un paese è lo status delle donne e lo sfondamento del "tetto di vetro", ben noto in Italia e in USA (e in molti altri paesi democratici occidentali), l'India non solo è una democrazia per il sistema elettorale, ma lo è nei fatti.

Imperfetta, certo, ma per questo perfettibile. Come dicono i politologi americani, la democrazia è un ongoing processe non ha la rigidità tipica degli stati totalitari. L'India può migliorare, ma ha un sistema elettorale e un apparato legale democratico. È una grande democrazia, a mio modesto parere. Perfettibile, per fortuna.

Si potrebbe obiettare che Meira Kumar era avvantaggiata perché figlia di un ministro e vice primo ministro, mentre la maggior parte delle donne indiane non lo è. Anche su questo fronte devo dire che un paio di anni fa sono stata invitata a parlare a una conferenza su e-governance, politica e sviluppo economico sponsorizzata dalla Comunità europea all'ILS Law College di Pune, considerato il migliore centro di studi giuridici dell'India. Il rettore (Ms Joshi) e il suo vice era ed è tuttora una donna, che oltre tutto faceva parte del Legal Education Committee del Bar Council dell'India. La maggioranza delle docenti era donna. L'alta educazione, in India, è spesso in mano alle donne (di qualsiasi casta). Se poi si vuole obiettare della povertà delle donne nelle campagne, specie quelle degli stati più poveri, o negli slum, è senz'altro vera: ma sono poveri anche gli uomini e credo che sia una questione di eco-sviluppo economico, non di genere.

E se proprio vogliamo avvicinare le democrazie occidentali e l'India, cosa che secondo me è già metodologicamente sbagliata, basta girare verso le 21.00 per le strade del centro di Milano e si può vedere il triste spettacolo di centinaia di senzatetto o di malati mentali che, sotto i portici di Vittorio Emanuele e vicino alla chiesa di S. Carlo, aspettano coperte e tè caldo d'inverno e bibite fredde d'estate. Non parliamo poi degli USA, dove i malati mentali e i senzatetto sono così tanti che gli shelter, in pieno inverno (anche -10 C° a Boston, per es.), non riescono a contenerli tutti. Intendo dire che se un parametro per definire un paese democratico fosse uno sviluppo economico sostenibile e una equa distribuzione del reddito, non mi viene in mente nessuno stato del mondo realmente democratico. Potremmo dire, anzi, che la democrazia non esiste.

Puntualizzazioni

Elisabetta Basile

Sono molto contenta del dibattito che il mio intervento ha suscitato. Come sempre accade, gli intervenuti hanno reagito alla mia provocazione da molti punti di vista diversi e hanno portato dentro il dibattito contenuti cui io non avevo pensato, arricchendolo molto.

Quello che volevo sostenere inizialmente è che il concetto di democrazia come categoria analitica è svuotato quando usato con riferimento all'India (in questo senso non ci "serve"), nel senso che non è più possibile associarlo ad un sistema politico-economico in cui la partecipazione dei cittadini è assicurata a livello massimo, così come è assicurato che i vantaggi della crescita economica e del progresso sociale siano estesi ad ampi strati della popolazione (come avviene quando pensiamo alla democrazia occidentale costruita nell''800 e nel '900. Molti partecipanti al dibattito hanno suggerito implicitamente (almeno così mi pare) che è una categoria analitica svuotata anche in occidente (per l'Italia, ad esempio). Credo che dovremmo continuare questa discussione che è molto stimolante per tutti noi.

Sintesi e conclusioni

Michelgugliemo Torri

Vorrei provare a tirare le fila del presente dibattito sulla democrazia in India.

Il dibattito è stato aperto da un intervento di Elisabetta Basile, che dichiarava la sua «crescente perplessità sull'uso corrente che viene fatto nella stampa e dagli specialisti dell'espressione che afferma che l'India è la più grande democrazia del mondo». In realtà, come era chiaro dal prosieguo del messaggio, a disturbare Elisabetta non era l'uso dell'etichetta in sé, quanto il fatto che questa etichetta coprisse, anzi copra, una realtà sociale spaventosa: «Affermare che l'India è una grande democrazia è vero - diceva Elisabetta Basile -, ma è anche banale allo stesso tempo». Ad essere più rilevante era il fatto che l'India fosse - e sia - «una società profondamente autoritaria e antidemocratica, sia in relazione alla organizzazione economica sia con riferimento alla struttura politica.»

In realtà, quest'ultima affermazione presentava un margine di contraddizione: si può affermare che un paese è allo stesso tempo democratico e socialmente autoritario e antidemocratico, ma non si può certo dire (per «la contraddizion che nol consente», direbbe Dante) che un sistema politico sia allo stesso tempo democratico e politicamente autoritario e antidemocratico.

In realtà, nelle sue argomentazioni Elisabetta sembra oscillare fra queste due posizioni: quella secondo cui l'India è un paese effettivamente democratico, anche se con una serie di profonde carenze, anche a livello di struttura politica, e quella secondo cui, anche da un punto di vista meramente politico, l'India sia un paese democratico solo in apparenza. Quest'ultima posizione è fortemente argomentata da Elisabetta, sotto la forma di una serie di domande retoriche, laddove essa scrive: «Può essere considerato democratico un paese in cui il dibattito politico viene in larga parte condizionato dall'appartenenza religiosa e castale, dove esistono partiti che sono espressione esclusivamente di tale logica? dove operano meccanismi ideologici forti, come per l'appunto l'ideologia religiosa e castale e i miti ad essa collegati (si veda il BJP e la Mayawati), che condizionano in modo forte le percezioni degli interessi individuali e di gruppo? Un paese in cui la gestione democratica stessa delle elezioni è messa in discussione dalla letteratura e dalla narrativa corrente (si veda ad esempio la descrizione che ne fa Aravind Adiga in The White Tiger), dove oltre il 40% della popolazione è analfabeta e fa fatica a capire per chi vota e come vota?»

Le prime reazioni alle posizioni della Basile, senza cogliere del tutto l'ambiguità di fondo che ho appena segnalato, si sono dilungate sulle «sperequazioni sociali [e sui] problemi economici» [Nello Del Gatto], sulla «struttura sociale profondamente iniqua» [Marzia Casolari] e sul fatto che «la vera democrazia [sia] democrazia sociale, dove l'uguaglianza si realizz[a] anche nei fatti, dove ci siano giustizia e libertà, insomma (e dove per giustizia [si intende] anche la giustizia sociale e per libertà anche libertà dalla schiavitù economica)» [Alessandra Consolaro].

A questo ha fatto seguito il primo intervento di Alessandro Cisilin, che ha immediatamente posto le proprie obiezioni a questa linea d'analisi aprendo, di fatto, la sua discussione chiedendosi: «la democrazia che c'entra con le argomentazioni illustrate?» Di qui Alessandro è partito per mettere giustamente in luce una serie di punti fermi: (a) «la democrazia è il trionfo dei diritti politici, non di quelli "sociali", o quantomeno non del proletariato» ; (b) la democrazia non è un sistema in cui via sia l'assenza di una "classe dirigente"; (c) la democrazia non è un sistema dove «il voto sia esclusivamente l'espressione di un'istanza "individuale" di opinione, e non di "interessi" di gruppo o di ceto».

A questo punto è seguito l'intervento di Pino Carità, scritto in realtà in contemporanea all'intervento di Alessandro Cisilin, e non in risposta ad esso. Pino Carità a continuato nell'esame delle iniquità del sistema sociale indiano, ma ha allargato il discorso per affermare - in consonanza con le tesi di Alessandro - che, di per sé, l'iniquità sociale non è sinonimo di mancanza di democrazia: «qualcuno oserebbe dire che gli USA non sono una grande democrazia?», si è chiesto retoricamente, dopo aver ricordato lo scandalo degli «homeless» di Los Angeles, di Washington e di New York. E di qui Pino Carità è passato a fare un esplicito paragone fra la democrazia (e le ingiustizie) dell'India e la democrazia (e le ingiustizie) dei paesi occidentali, Italia compresa, argomentando che, alla fin fine non c'è una differenza sostanziale fra le limitazioni che caratterizzano l'una e le altre.

Agli interventi appaiati di Cisilin e di Carità è seguita una serie di contro-interventi di Marzia Casolari, di Nello Del Gatto, di Elisabetta Basile e dello stesso Alessandro Cisilin che, nella sostanza, hanno delineato con più chiarezza le rispettive posizioni, senza però portare un gran che di nuovo al dibattito, con l'eccezione, direi di quello di Elisabetta Basile. In questo suo intervento, infatti, Elisabetta ha definito con più precisione la sua argomentazione, uscendo dalla sostanziale ambiguità dell'intervento che aveva aperto il dibattito. «La questione che vorrei discutere - ha affermato Elisabetta - è [...] quanto questa immagine - la più grande democrazia del mondo - descriva l'India». E la sua risposta è stata di puntualizzare che «la società indiana contiene al suo interno i meccanismi che portano alla crescita della disuguaglianza e anche all'emarginazione, e che, anziché costituire degli ostacoli alla crescita, questi meccanismi diventano uno strumento per aumentare il tasso di crescita. Per questo vedo il capitalismo indiano come un mostro: un esito mai osservato prima e, aggiungo, oltremodo preoccupante.» Di qui, sciogliendo l'ambiguità della sua iniziale posizione, Elisabetta ha esplicitamente tratto la conclusione che: «non è vero affermare che l'India è una grande democrazia: perché esistono troppe barriere radicate che impediscono che i benefici della crescita siano goduti da ampi strati della popolazione». E ha continuato affermando che, «soprattutto», l'immagine dell'India come la più grande democrazia del mondo «non ci serve perché ci fa immaginare un mondo che non esiste e che oggi appare sempre meno probabile».

A questo punto, su mia sollecitazione, c'è stato un intervento da «fuori lista», da parte di una mia allieva politologa e mediorientalista, Rosita Di Peri, la quale ci ha sinteticamente presentato il pensiero prevalente dei nostri colleghi politologi a proposito di cosa costituisca una democrazia. «In letteratura - ha scritto Rosita nel passaggio chiave del suo scritto - c'è accordo su una serie di criteri che sono stati formalizzati dal politologo Robert Dahl e che definirebbero quella che lui ha chiamato poliarchia ossia un insieme di istituzioni politiche necessarie per far funzionare una democrazia. Tali requisiti sono: eleggibilità delle cariche pubbliche; elezioni libere e regolari; suffragio universale; diritto di farsi eleggere; libertà di pensiero ed espressione; informazione alternativa; libertà di associazione e di organizzazione». E, ha concluso, affermando: «ritengo, almeno da un punto di vista politologico, che non vi possano essere dubbi sul fatto che l'India sia una democrazia effettiva a 360° che risponde agli standard minimi procedurali sopra definiti, ma anche ai criteri della scuola massimalista». E, facendo riferimento a quei criteri che, seppure difficili da formalizzare in modelli politologici, sono determinanti per definire l'effettivo grado di democraticità di un sistema («il rispetto e la tutela dei diritti umani, delle minoranze e delle diversità culturali») ha continuato affermando: «Certo si tratta di una democrazia a volte deviante, ma credo che tutte le democrazie (o quelle autoproclamatesi tali) della nostra epoca abbiano un qualche tipo di deviazione interna. Il punto è, piuttosto, fino a che punto tali "deviazioni" interferiscano con il lavoro delle istituzioni e con gli sviluppi del tessuto sociale e produttivo».

All'intervento di Rosita è seguito quello di Domenico Amirante. Un intervento che, riprendendo di fatto le tesi di Alessandro Cisilin, ha sottolineato che «democrazia» come dice l'etimologia, significa "governo del popolo" e che, quindi: « Le libere elezioni, il pluralismo politico, la possibilità di scegliere e sanzionare i governi (insomma i "diritti politici") sono le condizioni minime, i prerequisiti per poter parlare di democrazia.» E, ha continuato Domenico, «A partire da questa base [...] va poi valutata la qualità della democrazia in termini di rapporti fra società e stato, di eguaglianza sociale, di welfare, etc ...» Infine, concludendo il suo ragionamento, Domenico ha messo in luce l'innegabile vitalità politica del sistema indiano, una vitalità che può essere vantaggiosamente paragonata a quella del sistema politico americano (che è poi il più vecchio sistema democratico al mondo). Domenico non si è però soffermato sul problema della «qualità della democrazia in termini di rapporti fra società e stato, di eguaglianza sociale, di welfare, etc ...», per la semplice ragione, però, che ne ha auspicato uno studio sistematico, in un convegno, volto ad analizzare «la qualità della democrazia in India.»

Gli ultimi due interventi del dibattito sono stati quelli Enrica Garzilli e di Elisabetta Basile. Enrica ha sostanzialmente detto che «la democrazia è un "ongoing process" e non ha la rigidità tipica degli stati totalitari. L'India può migliorare, ma ha un sistema elettorale e un apparato legale democratico. È una grande democrazia, a mio modesto parere. Perfettibile, per fortuna.» A cui è però seguita una riflessione pessimistica sullo stato di tutte le democrazie del mondo, non appena si legga il dato politico alla luce della giustizia sociale: «Intendo dire - concludeva infatti Enrica - che se un parametro per definire un paese democratico fosse uno sviluppo economico sostenibile e una equa distribuzione del reddito, non mi viene in mente nessuno stato del mondo realmente democratico. Potremmo dire, anzi, che la democrazia non esiste.»

Dal canto suo, Elisabetta Basile, facendo il punto sulle proprie posizioni, alla luce del dibattito, ha affermato: «il concetto di democrazia come categoria analitica è svuotato quando usato con riferimento all'India (in questo senso non ci "serve"), nel senso che non è più possibile associarlo ad un sistema politico-economico in cui la partecipazione dei cittadini è assicurata a livello massimo, così come è assicurato che i vantaggi della crescita economica e del progresso sociale siano estesi ad ampi strati della popolazione (come avviene quando pensiamo alla democrazia occidentale costruita nell'800 e nel '900». E conclude affermando: «Molti partecipanti al dibattito hanno suggerito implicitamente (almeno così mi pare) che [quella di democrazia] è una categoria analitica svuotata anche in occidente (per l'Italia, ad esempio)».

Personalmente, devo esprimere il mio dissenso sull'idea della democrazia come concetto «svuotato» di contenuto. Il punto è che il concetto è stato effettivamente svuotato di contenuto nell'uso che ne hanno fatto i «neocon» americani e che, da quel momento, è stato pedissequamente riproposto e amplificato dalla quasi totalità dei media internazionali. In questa interpretazione, democrazia significa avere un paese dove si tengono le elezioni e dove le elezioni servano a rendere presentabili un sistema politico che leghi il proprio paese agli interessi della potenza egemone e dei suoi più stretti alleati sia dal punto di vista geopolitico, sia da quello economico, attraverso la promozione del sistema economico neoliberista. In effetti, tanto più succube è un paese agli interessi geopolitici USA e tanto più estremista e scellerato è il tipo di economia neoliberista seguita da un determinato paese, tanto più democratico viene considerato il paese in questione. Ovviamente questo tipo di democrazia è una farsa. E naturalmente non ci serve.

Il problema è che la democrazia è qualcosa d'altro. È un sistema che, pur non rappresentando «il governo del popolo», come vorrebbe la teoria e l'etimologia del termine, apre degli spazi d'intervento politico anche agli strati subordinati di una determinata società. Non è che il governo democratico sia effettivamente espressione degli interessi degli strati subordinati, ma questi strati subordinati riescono ad esercitare un certi peso e, di conseguenza, le loro esigenze, almeno parzialmente, devono essere prese in considerazione da quella che Alessandro Cisilin definisce la classe dirigente. Il peso degli strati subordinati varia non solo da paese a paese, ma nello stesso paese nel corso del tempo, in base ad una serie complessa di fattori, che sono sia di tipo internazionale sia legati al contesto interno. Fra quelli legati al contesto interno ci sono l'effettiva indipendenza della magistratura, una stampa vivace e indipendente e, da ultimo ma non per importanza, le qualità di leadership espressa dagli strati subordinati attraverso sia partiti organizzati sia gruppi di base.

Da questo punto di vista, il caso dell'India sembra chiaro. L'India ha una società iniqua e stratificata, che è diventata ancora più iniqua e stratificata in seguito al funzionamento di quel sistema coloniale che, di fatto, rappresenta uno dei due genitori dell'India di oggi (l'altro è rappresentato dall'ideoologia «socialistica» e dall'operato di governo di Jawaharlal Nehru, il primo capo di governo dell'India indipendente). Su questa società iniqua e stratificata è stato gradualmente inserito, attraverso un processo che è iniziato negli anni Settanta dell'Ottocento, un sistema politico di carattere democratico. Di per sé, questo sistema non ha portato alla fine delle ingiustizie e delle discriminazioni. Ma ha avuto un ruolo nella diminuzione di queste ingiustizie e discriminazioni: ci sono stati interi gruppi sociali, in genere organizzati su basi castali, che, grazie all'esistenza di un sistema democratico funzionante, sono riusciti ad organizzarsi politicamente e ad acquisire quote considerevoli di potere politico, sociale ed economico. Sarebbe stato pensabile, nell'India degli anni Cinquanta, un'intoccabile a capo dello stato più popoloso dell'Unione Indiana? Ovviamente no. E perché esiste oggi Mayawati? Per il semplice fatto che la politica di discriminazione positiva a favore degli intoccabili, sanzionata dalla costituzione indiana, ha reso possibile la crescita di una classe media e di un personale politico formati da intoccabili e legati alla promozione degli interessi sociali di quello che rimane il gruppo più discriminato della società indiana. Poi, c'è il fatto che Mayawati sia un personaggio antipatico a molti, su cui esistono ombre considerevoli. Ciò non toglie che la carriera politica di Mayawati è il simbolo di mutamenti profondi nell'ambito della società indiana. Mutamenti che sono indubbiamente per il meglio. Ed è del tutto irrilevante che, vinte le ultime elezioni generali, il presente governo si ponga come obiettivo prioritario l'introduzione di una quota riservata alle donne, dell'ordine del 33%, nei seggi del parlamento indiano? Direi proprio di no. Mayawati e le «quote rose» non sono di per sé una risposta definitiva alle ingiustizie della società indiana, ma sono un passo nella direzione giusta. Poi di passi ce ne vogliono molti, e ai passi avanti seguono spesso anche passi indietro.

Come amava ripetere uno dei miei maestri, Alessandro Passerin d'Entrèves, la libertà è qualcosa che si riconquista giorno per giorno. La si può riconquistare in tanti modi - i d'Entrèves, Alessandro ed Ettore, erano stati antifascisti che avevano fatto la resistenza -, ma, indubbiamente, l'esistenza di strutture democratiche funzionanti è conditio sine qua non per qualsiasi progresso sociale gestito dal basso e a favore degli strati più deboli. Queste strutture democratiche funzionanti in India esistono. È sicuramente vero che il sistema sociale continui a rimanere profondamente iniquo, ed è altrettanto vero che il capitalismo neoliberista indiano sia una sorta di mostro, come giustamente puntualizza Elisabetta Basile, ma credo che sia solo attraverso le potenzialità offerte dal sistema democratico che si possa rimediare - non subito e non totalmente, certo, ma nel medio e nel lungo termine e in maniera sostanziale - all'iniquità della società e, per così dire, se non uccidere, quanto meno mettere le briglia al mostro dell'attuale sviluppo neoliberista indiano. Provvedimenti come la legge dei 100 giorni di lavoro garantito ad almeno uno dei membri delle famiglie povere rurali o come la legge a favore degli agricoltori indebitati sono passi in questa direzione. Passi che, non a caso e significativamente per il nostro dibattito, sono stati premiati dall'elettorato indiano. Un elettorato che voterà sì sulla base di gruppi d'appartenenza, ma anche in base agli interessi reali di questi gruppi d'appartenenza. Gruppi di appartenenza che sono a volte organizzati e mobilitati in base a parole d'ordine castale, ma che, di fatto, coincidono con classi sociali e i cui appartenenti, analfabeti o meno, hanno dimostrato, elezione dopo elezione, di avere un'acuta percezione di quello che un marxista definirebbe l'interesse di classe.

Perché quindi svalutare l'idea di democrazia indiana? Perché considerarla una categoria «svuotata»? Solo perché la democrazia indiana, nell'arco di appena sessant'anni, non ha trasformato il proprio paese in uno stato di tipo scandinavo? Solo perché le forze della reazione sono numerose, potenti e sempre pronte a colpire? Ma non è, quest'ultima, la situazione in tutte le democrazie del mondo? E allora, perché criticare e porre in dubbio il fatto che l'India sia la più «grossa» democrazia del mondo e che, probabilmente, visto che la quantità si trasforma in qualità, anche la più «grande» democrazia del mondo?

È indubbiamente legittimo criticare la visione unidimensionale ed ideologicamente fuorviante di democrazia usata da certi gruppi di potere e dai media occidentali; ma sarebbe un grave errore delegittimare l'idea di democrazia sulla base del fatto che la sua semplice presenza non porti, hic et nuc, alla fine delle ingiustizie sociali e alla sconfitta di quei gruppi di potere, nazionali e internazionali, che su tali ingiustizie prosperano.


Gli autori

  • Domenico Amirante, professore ordinario di Diritto pubblico italiano e comparato presso la Seconda Università di Napoli, Facoltà di Studi politici ed Alta Formazione Europea e Mediterranea "Jean Monnet". E-mail: do.amirante@gmail.com
  • Elisabetta Basile, Professore ordinario di Agricoltura e sviluppo economico - Facoltà di Economia, Università di Roma «La Sapienza». E-mail: elisabetta.basile@fastwebnet.it
  • Giuseppe Carità, architetto, assiduo viaggiatore nel subcontinente indiano. E-mail: pino.carita@gmail.com
  • Marzia Casolari, Docente di Storia dell'India presso l'Istituto Primo Levi di Bologna. E-mail: m.casolari@libero.it
  • Alessandro Cisilin, Giornalista (attualmente presso l'agenzia stampa radiofonica Area e la rivista internazionale Galatea) e dottore di ricerca in antropologia (Ehess, Parigi). E-mail: acisilin@yahoo.it
  • Alessandra Consolaro, Ricercatrice di Lingua e Letteratura Hindi, Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Orientalistica. E-mail: alessandra.consolaro@gmail.com
  • Nello Del Gatto, collaboratore di Ansa, Radio Rai e Il Mattino. Collabora in maniera continuativa con le trasmissioni radiofoniche Pianeta Dimenticato (Radio 1 Rai) e Radio3 Mondo (Radio 3 Rai). Blog: http://indonapoletano.wordpress.com
  • Rosita Di Peri, Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di storia dell'Università di Torino, Docente di Storia moderna e contemporanea dell'Asia, Corso di laurea in scienze internazionali e diplomatiche, Università degli studi di Torino. E-mail: rosita.diperi@gmail.com
  • Enrica Garzilli, Research Assistant di sanscrito presso la Harvard University. E-mail: enrica.garzilli@gmail.com
  • Michelgugliemo Torri, Professore di Storia moderna e contemporanea dell'Asia presso l'Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Studi Politici. E-mail: michelguglielmo@tiscali.it

Note

*. Italindia è un'associazione culturale dedicata allo studio e alla conoscenza dell'Asia Meridionale fondata su iniziativa di Michelgugielmo Torri. Tra i suoi primari obiettivi vi è quello di raccogliere tutti coloro che, in Italia, studiano l'Asia meridionale moderna e contemporanea o che hanno un interesse non episodico per la politica, l'economia, la società e la cultura dell'India moderna e contemporanea. Uno degli strumenti più validi a tal fine è la mailing list di Italindia che mantiene aggiornati attraverso una rassegna stampa dei migliori articoli della stampa indiana ed estera e che facilita i contatti personali e la conoscenza dei lavori di ricerca già fatti, in corso o allo stadio di progetto.

**. "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".