2009

Il potere è la casta
Una revisione della teoria gerarchica di Dumont su nuovi dati etnografici

Alessandro Cisilin (*)

"L'India mi ha obbligato a distinguere la gerarchia dal potere. Col senno di poi questo è evidente. La mano destra è superiore alla mano sinistra, ma non ha potere sulla mano sinistra".
Louis Dumont, intervista a Le Monde, 25 gennaio 1981

1. Perché Louis Dumont?

L'antropologo indiano Dipankar Gupta si è posto esplicitamente l'identico quesito, non senza un'ottima dose di critica e autoironia. Era l'inizio del suo contributo a un lavoro collettivo dell'élite accademica nazionale: "Caste, Hierarchy, and Individualism. Indian Critiques of Louis Dumont's Contributions". La pubblicazione risale solo a tre anni fa e questo, piaccia o no, testimonia di per sé il perdurante peso del defunto etnologo francese nell'analisi e nella comprensione dell'universo indù. Il suo enciclopedico e discusso "Homo Hierarchicus" è ben più antico e si avvia oramai al mezzo secolo, eppure rappresenta tuttora un punto di riferimento chiave, nel bene o nel male a seconda dei punti di vista, per chiunque si avvicini alla ricerca indianistica, quantomeno nell'ambito socio-antropologico.

Nelle parole dello stesso Gupta (2006: 121) (1), "Dumont non solamente rappresenta l'esponente più sistematico della dominante visione concettuale del sistema delle caste, ma inoltre ha raggiunto tale posizione attraverso la revisione critica di tutte le visioni concettuali in materia, o integrandone i particolari, nel caso di coloro che sono giunti a conclusioni analoghe alle sue, oppure mettendone in discussione i concetti e la metodologia, nel caso di coloro le cui conclusioni potrebbero essere forse utilizzate per criticare la sua, quali quelle di Senart e Bouglé. Quando contesta Bouglé, Senart, o anche Ghurye e Karve, li prende a braccetto, non tanto per quel che dicono, quanto per quel che implicano. Anche quando ci troviamo in simpatia con queste implicazioni, è a Dumont che anzitutto lo dobbiamo". L'opera dell'etnologo francese rappresenta dunque ancora il riconosciuto spartiacque capace di avvolgere l'essenza globale del sapere sociologico sull'India, navigando tra gli antichi principi vedici e l'osservazione etnografica sul campo, tra i preconcetti occidentali e quelli brahmanici, tra la sociologia del concreto e l'analisi comparata delle ideologie. E' discutibile - e infatti se ne discute ancora - se Homo Hierarchicus abbia colto la logica della società indiana nel suo insieme, ma quel che è certo è che, per usare un termine caro allo stesso Dumont, ha senz'altro saputo "inglobare" l'epistemologia indianistica, perfino quella a lui successiva. A tutt'oggi la totalità degli indianisti - antropologi e sociologi, ma anche storici e, talora, economisti - si è sentita prima o poi costretta a posizionarsi nei suoi confronti. Per associarsi o quantomeno per dichiarare le proprie conclusioni "compatibili" con le sue. O viceversa per contestarlo, senza comunque omettere un'estesa argomentazione di motivazione. Oltre due decenni fa Arjun Appadurai (1986: 745) sentenziava che il suo lavoro "come altre grandi opere non sembra poi aver costituito un'ispirazione per un nuovo modo di pensare ma il canto del cigno per uno vecchio". Esattamente vent'anni dopo lo stesso antropologo si è rimesso a tavola con i suoi omologhi per riflettere sulle analisi di Dumont e sulle loro conseguenze.

La ragione dell'importanza della ricerca dumontiana sta in effetti nella sua estensione, nel tentativo di racchiudere in un'istantanea l'essenza della società indiana. E' un modello di analisi che ipotizza la coerenza di un tutto sociologico attraverso la comparazione tra poli estremi e l'identificazione di un principio che ne sancisca la distanza e ne ordini i rapporti. Le caste sacerdotali da un lato e quelle degli intoccabili da un altro, separate gerarchicamente, e al contempo complementari, attraverso un criterio ideologico di fondo, quello dell'opposizione tra purezza e impurità. La società indiana versus quella occidentale cristiana, esemplari di due principi contrari, rispettivamente quello gerarchico e quello egalitario, il primo a rappresentare una non-individualità della persona confinata al ruolo naturalmente assegnatogli dalla società di appartenenza, il secondo a fondarsi sulla pretesa completezza e autosufficienza di ciascun individuo, che si relaziona agli altri, per citare Durkheim, in un rapporto non più di "solidarietà organica", bensì "meccanica". Una comparazione che poi rinvia a un'altra, tutta europea, tra la società dell'Ancien Régime e quella post-rivoluzionaria. In India invece la distinzione si rivela speculare a quella tra l'"uomo-nel-mondo", che vive nelle gerarchie sociali, e l'"individuo-fuori-dal-mondo", ossia per definizione il "rinunciante" (sannyāsin), emancipato dalle relazioni interpersonali e dal "ciclo delle rinascite" (samsāra). Una specularità che, di nuovo, si riflette sul piano dei "valori" nella percezione, esattamente rovesciata, tra l'individuo cristiano, creato a immagine e somiglianza di Dio, e pertanto virtualmente "perfetto" al punto da aspirare alla propria immortalità nella reincarnazione in un "paradiso terrestre", e l'uomo indù, cosciente della propria finitezza e impurità, che colloca il proprio orizzonte supremo, e la sola "individualità" possibile, al di là dell'universo sociale e biologico.

La ragione della rilevanza di Dumont è però la stessa che ne fa invocare i limiti. A lasciare perplessa una parte importante degli indianisti è proprio l'universalità del suo ragionamento, che muove dallo specifico dell'analisi etnografica sul campo, ma poi aspira a una conoscenza globale attraverso una serie di categorie comparative. Nelle parole di Béteille (2006: 117), "I due contrasti fondamentali di Dumont sono tra l'India e l'Occidente e tra ideologie pre-moderne e moderne. L'India moderna non può illuminare nessuno di questi contrasti". In altre parole, la complessità indiana dei nostri giorni - così come il moderno Occidente - non sarebbero riducibili alle tipologie tratteggiate da Homo Hierarchicus. "Dumont non può che riconoscere l'esistenza di quest'India moderna, e alcuni suoi saggi lo testimoniano sul piano dei fatti, ma non la ammette sul piano dei valori", che invece contraddirebbero la sostanza e il "principio ideologico" sul quale ha eretto tra l'altro la sua teoria della gerarchia indiana tra caste. E la ragione del fallimento starebbe proprio nel suo "metodo comparativo". Dumont comparerebbe troppo, o quantomeno tra settori troppo lontani per poterne afferrare la natura e l'articolazione specifica di ciascuno, specie a causa "della scelta cosciente di privilegiare il contrasto al parallelismo, la differenza alla somiglianza, la discontinuità alla continuità. Affronta le complessità della società non come se esistessero davvero bensì come fossero esemplificazioni di alcune costellazioni di 'valori' nella loro forma pura".

Torneremo nel corso di questo scritto a esaminare la pertinenza di questo tipo di obiezione negli aspetti che interessano più da vicino questo saggio. Ciò che rileva subito sottolineare è la sua principale implicazione, che rappresenta una critica ancor più grave, la più grave di tutte. Ancora con Béteille (2006: 118): il libro di Dumont "è distintamente antropologico, nel senso più specifico del termine: si fonda primariamente su dati etnografici contemporanei e su congetture derivanti dalla lettura di testi classici. Il passaggio dagli uni agli altri, su un arco temporale di duemila anni, è leggero, facile e quasi privo di sforzo [...] I valori da lui descritti e la stessa civiltà indiana sono fatti apparire senza tempo e astorici".

E' curioso che un testo venga criticato in quanto "antropologico" da un antropologo sociale, e che lo stesso ne contesti la "ricerca delle differenze" nell'ambito comparativo, che rappresenta il metodo che ha sorretto i contributi più preziosi della storia di questa disciplina. Il fondamento di quest'ultimo appare del resto scontato: si riconosce una società solo quando si comprende la specificità che ne definisce la logica interna, e quindi l'originalità rispetto alle altre, anziché la loro replica. Negarne l'utilità e la fondatezza significa minare la sussistenza stessa della ricerca antropologica. Non si tratta di un reato di lesa maestà, di per sé. Gli si avvicina però, in quanto non è in gioco solo una particolare materia umanistica, ma l'intero contributo concettuale delle moderne scienze sociali fornito attraverso sforzi di sintesi e di confronto tra poli opposti, a cominciare da Marx e Weber.

Ma andiamo all'implicazione fondamentale della critica di Béteille, quella dell'"atemporalità ". Su questo l'accusa è diffusa e condivisa, e lo è soprattutto, com'è naturale per metodo e obiettivi, tra gli storici. A Dumont si contesta il cosiddetto "orientalismo" che, come documenta Torri (2006: 74sq), "ha storicamente avuto origine come il tentativo di arrivare a una comprensione non superficiale di parti sempre più vaste del subcontinente indiano, in modo da poterle amministrare - e sfruttare - in maniera efficiente ed economica". Si tratta dunque di un orientamento di origine e finalità coloniali e consiste anzitutto nella costruzione di un'antitesi rispetto al mondo indiano che può sintetizzarsi così: "L'Occidente è il regno della storia e della razionalità (o, se vogliamo, dell'emergere della razionalità nella storia); l'Oriente, invece, è un'area senza storia, nel senso che è dominato da tradizioni presenti da tempo immemorabile, tradizioni che poco o nulla hanno a che vedere con la ragione. In altre parole, l'Occidente non è limitato e coartato nel suo sviluppo da qualche 'essenza' profonda (o, se vogliamo, l'essenza profonda dell'Occidente è appunto rappresentata dalla sua capacità di cambiare e di svilupparsi lungo parametri razionali); viceversa, l'Oriente ha un'essenza profonda, rappresentata dal fatto che, al posto della razionalità, esiste la tirannide del costume e l'irrazionalità della religione". Per Torri, inoltre, tale contrapposizione culturale, anziché sfumare, si è accentuata negli ultimi decenni per reazione alla "sanguinaria parabola del nazismo [...] Il lato razzista della visione orientalistica è stato abbandonato, o quantomeno nascosto, a favore di una spiegazione culturale [...] E' diventato sempre più influente a livello scientifico, e sempre più diffusa nell'opinione pubblica occidentale, l'idea che la "cultura" sia qualcosa caratterizzata da un'essenza sostanzialmente immutabile. Di conseguenza, chi fa parte di una certa cultura non se ne può liberare ma, al limite, può semplicemente arrivare a realizzare cambiamenti cosmetici che, come tali, sono assolutamente superficiali, necessariamente temporanei e, in ogni caso, non in grado di cambiare l'essenza profonda di quella determinata cultura".

Torri si riferisce a Dumont e non solo. La riflessione è seria e mette in discussione le motivazioni e le conseguenze di una ricerca orientata a identificare continuità e differenze strutturali su lassi temporali molto estesi. Sul piano delle intenzioni, tuttavia, l'etnologo francese sembra inattaccabile. La sua teoria "atemporale" della gerarchia indù ha indotto alcuni, anche tra i suoi più fervidi sostenitori, a posizionarlo all'interno di inclinazioni ideologiche reazionarie. Questo è tuttavia un falso storico. Il suo passaggio giovanile in Russia lo aveva indotto a prendere le distanze dalle proprie iniziali simpatie comuniste e la sua successiva esperienza indiana lo portò a contestare parte del metodo di analisi marxista, ma mai arrivò a cedere alle lusinghe della destra, preferendo piuttosto riconoscersi nell'ombrello socialdemocratico.

Sul piano epistemologico, poi, Dumont non nega affatto il cambiamento storico, semplicemente si occupa d'altro (2). La storia è l'analisi di ciò che muta, le scienze del presente cercano le strutture che resistono al mutamento. E' uno sforzo che può non piacere se l'ambizione personale dello studioso è quella del cambiamento sociale. Si tratta però in ogni caso di una ricerca di verità. Si può sottolineare la fluidità di tali strutture, e Dumont stesso lo fa ampiamente. Negare la loro esistenza significa però fare piazza pulita non solo dell'intero pensiero sociologico erede di Marx, di Durkheim o di Lévi-Strauss, bensì anche della tendenza storiografica degli ultimi quarant'anni a occuparsi, per dirla con Braudel (1969: 59), di un "tempo lungo", che non si fermi alla contingenza degli eventi ma si spinga alla ricerca dei più profondi, e quindi più lenti, cambiamenti di sostanza nei sistemi sociali. Gli storici, pur senza lesinare critiche al metodo antropologico, hanno iniziato a servirsene per valutare l'effettività e la natura, appunto, "strutturale" dei cambiamenti ricercati (3).

La critica di Béteille sulla mancanza dell'elemento temporale in molta parte della ricerca sociologica è sacrosanta così come la stroncatura dell'orientalismo da parte di Torri. Ma che il loro bersaglio si incarni in Dumont risulta un salto logico che non può dunque dimostrarsi nel solo fatto che avesse cercato qualche continuità di lungo periodo. Come nota Bose (2006: 146), antropologo di ispirazione marxista (e quindi sostenitore del mutamento sociale, specie in fatto di "casta"), Dumont "non ignora i cambiamenti, sebbene li tratti come secondari. Nel suo 'inventario' di quel che è stato e quel che è non è rintracciabile alcun segno del rigetto del cambiamento".

Iscrivere Dumont nell'alveo dell'antropologia "coloniale" risulta poi ingeneroso, non foss'altro per la distanza anagrafica. Ma dell'altro c'è. L'etnologo francese, come ha riconosciuto tra gli altri il citato Gupta, muove la sua analisi e la sua ricerca dell'"originalità indù" non senza aver prima passato in rassegna l'intera storia della letteratura occidentale sulla casta, contestandone i contenuti e il metodo (4), e facendolo con l'obiettivo opposto, quello di "vendicare" la società indiana dalle rappresentazioni eurocentriche.

Rimane il quesito se Dumont ci sia riuscito sul piano dei contenuti. Le stroncature a Homo Hierarchicus sono perlopiù confinate al livello delle "motivazioni" e delle "conseguenze" e risultano, come abbiamo visto, sostanzialmente infondate. Come ammette lo stesso Appadurai (2006: 32), "qualsiasi valutazione sui lavori di Dumont deve ora fondarsi su nuovi progetti di ricerca tematica ed etnografie sul campo (gli strumenti di conoscenza preferiti da Dumont)".

E' esattamente l'obiettivo di questo scritto. Verranno illustrati i dati di una ricerca concreta, che saranno analizzati per riesaminare dapprima gli aspetti di contenuto accennati dai detrattori di Dumont, e poi i contenuti e le interpretazioni fornite da Dumont stesso. Il tema specifico è quello cruciale della casta, nonché quello, correlato, della gerarchia. Il cuore della teoria dumontiana si fonda proprio su una distinzione fondamentale tra "gerarchia" e "stratificazione economica", ovvero tra "autorità " e "potere politico-economico". I primi rappresentano il riferimento "di valore" che soggiacciono alla superiorità dei sacerdoti e ispirano e plasmano le determinanti fondamentali della casta. I secondi delineano invece rapporti assimilabili alle nostre "classi sociali" sulla base di un ordine "di comando" che dipende da principi di dominanza materiale. Tra i due poli, e le categorie sociali che li incarnano, c'è un rapporto di complementarietà, ovvero di dipendenza reciproca, e al contempo di separazione netta. La superiorità dello "status" (di casta) sul piano ideologico non inficia un'autonomia praticamente assoluta delle concrete dinamiche di "potere" e di chi lo esercita. La casta scaturirebbe proprio da questa distinzione gerarchica.

La ricerca sul campo qui illustrata si focalizza proprio sugli aspetti economico-finanziari delle relazioni sociali. Spiegheremo come i dati raccolti facciano emergere la sterilità di fondo delle critiche comunemente rivolte a Dumont sul terreno dell'apparente "semplificazione" del sistema sociale indù e della presunta "sopravvalutazione" della posizione dei gruppi sacerdotali. Ma infine vedremo anche come le conclusioni dumontiane risultino parziali, e per certi versi fallaci, per il motivo opposto, ossia proprio nell'affermata separazione delle forze e delle logiche economiche dai principi e dalle autorità religiose. Non è un particolare da poco, e conduce anzi a spostare le intere fondamenta dell'edificio. Come si legge in Homo Hierarchicus (1966: 269) "il sistema delle caste si caratterizza comparativamente - senza dubbio parzialmente ma sufficientemente - nella distinzione tra status e potere. Possiamo dire che la casta sussiste solo laddove è presente questa caratteristica".

2. Gerarchia e ricchezza nell'India del Sud

La ricerca qui illustrata si riferisce a un lavoro sul campo effettuato nel sud dello Stato del Karnataka nel 2000 con verifiche e integrazioni nel 2006. L'area è quella dell'Hubli di Kāmasamudra, del distretto di Kolar, vicino al confine sia col Tamil Nadu sia, più a nord, con l'Andhra Pradesh. L'obiettivo primario era quello di valutare l'efficacia di un progetto di sviluppo (5) basato sul micro-credito verificandone la compatibilità con la logica degli scambi monetari locali (6). Parte dei risultati è già stata oggetto di una precedente pubblicazione (7). Ne presentiamo in questo saggio una sintesi, integrandola nei dati e nelle implicazioni ora rilevanti.

Il sistema finanziario indigeno muove da alcuni criteri relazionali rispetto ai quali il piano di micro-credito ha saputo effettivamente modificarsi e adattarsi con successo. Il punto di partenza è che la "ricchezza" non sembra affatto misurabile da ciò che "si possiede", per esplicita ammissione dei locali. Il "risparmio" ha una propensione bassissima, e non ha neppure un termine locale che lo designi, tant'è che si utilizza solitamente l'inglese "saving" (8). Il sistema tradizionale di custodia del danaro e degli altri oggetti preziosi si trova nel tole, una cavità nascosta nel pavimento interno delle case. E' da notare che viene descritto dai suoi proprietari come un deposito d'emergenza, da usare come garanzia per l'ottenimento di un prestito. L'unico termine che si avvicina ai nostri concetti di "ricchezza" e "risparmio" qui rinvia pertanto già nel suo interno a una relazione. E la linguistica lo conferma, in quanto un altro significato di tole è proprio quello di "debito". L'analisi delle relazioni di potere materiale è stata pertanto focalizzata sulla circolazione delle risorse, anzitutto monetarie, piuttosto che sulla loro distribuzione.

Quel che salta subito agli occhi in tale ambito è la pluralità degli atti del "dare", nelle modalità e, correlativamente, nelle definizioni linguistiche. Il sāla è il "prestito con interesse". La traduzione è facilmente delineata dalle spiegazioni fornite dagli abitanti, che lo mettono in relazione con il baddi. Si tratta del "tasso di interesse", che ha antecedenti antichi nella civiltà indiana (9), ma porta anche, nell'idioma locale, il kannada, i significati negativi di "usura" e di "rapporto sessuale illecito" (10). Il termine designa dunque una pratica comunemente accettata ma al contempo associata all'idea di una relazione sociale "impura". L'ambivalenza si ritrova anche in sāla, che oltre al "credito" indica anche il suo contrario, il "debito". Come se il primo imponesse anche un onere, ossia proprio quello di aver attivato quella relazione impropria. Nelle parole di Galey (1988: 54), riferite a un'altra ricerca etnografica indiana, "il debitore si impone come socialmente creditore".

La connotazione negativa comporta due corollari: primo, la maggior parte delle transazioni creditizie non avvengono tra abitanti del villaggio, si preferisce prestare e indebitarsi altrove; secondo, chi cerca un prestito evita di contrarlo con uomini di caste inferiori. Si cerca cioè di evitare l'onta di una relazione debitoria all'interno del proprio nucleo geografico, e, quando ciò risulta ineludibile, si cerca di non aprirla con persone di basso status.

La naturale conseguenza è che il principale prestatore locale di danaro è un uomo di alta casta. Si tratta del "rispettabile ricco", tipicamente di un proprietario terriero di buona reputazione, il "dominante", come avrebbe detto Srinivas, capace di coniugare le facoltà materiali con un livello almeno accettabile di "casta". Ma la conseguenza è anche un'altra: il creditore dev'essere di status alto ma non troppo. Non potrà mai cioè rappresentare il vertice della gerarchia di valori locali. In altre parole, non può essere un brahmano. Un sacerdote locale infatti spiega: "se la conoscenza, le donne e il danaro passano ad altra mano, torneranno certamente ridotti e impuri". Il proverbio chiarisce la natura e la motivazione locale del tasso di "interesse". Se nelle lingue europee denota etimologicamente un'attitudine attiva e positiva del prestatore verso il proprio credito, qui rappresenta la compensazione per l'impurità acquisita nella transazione.

Il baddi viene a mancare solo quando sono in gioco relazioni di particolare prossimità, ovvero all'interno del nucleo familiare, o talora tra amici o vicini di casa, purché di casta affine. Qui nessun termine denota la transazione, che dunque viene negata, essendo piuttosto considerata come un semplice atto di condivisione. Ci sono però alcune relazioni tra prossimi che, pur non designandosi coi termini sala e baddi, comportano effettivamente una circolazione di danaro e una restituzione asimmetrica. E' ad esempio il caso dell'udugōre, ossia il "dono" offerto ad esempio prima di un matrimonio. L'ammontare prestato da un lato della famiglia prima delle nozze nel corso degli anni viene restituito alla stessa incrementato, addirittura del valore doppio nell'aspettativa del nucleo donatore.

Ma c'è un'altra prestazione apparentemente gratuita che viene ritenuta ancor più preziosa. Si tratta del kanike, che viene offerto agli dei, ai defunti, ai brahmani prima del rito e anche, ai giorni nostri, all'amico più stretto o alla ragazza alla quale viene proposto, per scelta individuale e non familiare, il matrimonio. La differenza tra kanike e udugōre si riflette in due diversi stati d'animo. Il primo rappresenta un gesto di sottomissione, risultante da un sentimento di "amore" (prema), mentre l'altro è solo un gesto di "affetto" (priti). A questa differenza se ne associa un'altra che consiste nell'assoluta assenza, da parte del donatore del kanike, di ogni aspettativa di remunerazione.

Secondo un altro detto kannadiga, "ciò che viene dato da una mano non dovrebbe esser noto all'altra". La frase evoca significativamente il pensiero di Dumont che introduce questo saggio. Curiosamente, però rinvia anche a un'altra massima, di tutt'altra tradizione, quella evangelica: "quando fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra quel che fa la tua destra affinché la tua elemosina rimanga in segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto te ne darà la ricompensa" (Matteo: 6, 3-4). La preoccupazione etica è identica, non però i presupposti culturali e le implicazioni economiche. Come ha dimostrato Malamoud (1980, 1988), la teologia cristiana associa i concetti di "dovere" e "debito" (11) a quello di "peccato originale", rinviando così a un'etica universale riferita a un unico Dio. Nell'induismo la nozione di peccato è invece assente, sicché debiti e doveri si definiscono e si esplicano in riferimento solo alla logica interna della relazione. In termini giuridici, si può dire che la tradizione locale indù non conosca diritto penale ma solo quello civile e in effetti le "pene" stabilite al di fuori delle moderne aule giudiziarie coinvolgono solo prestazioni risarcitorie, mai limitazioni di libertà prestabilite erga omnes.

La logica di tale relazione bilaterale è quella dell'impurità, come abbiamo visto nel baddi. Essa tende a dileguarsi nell'udugōre e a scomparire del tutto nel kanike. L'aspetto cruciale è che la purezza di quest'ultimo non comporta una minore ricompensa. Al contrario, l'atto più puro è al contempo il più remunerativo. L'esecutore del kanike riceve le ricompense più preziose, dalla celebrazione delle nozze con l'amata alla celebrazione di un rito, dalla restituzione di parte del cibo donato agli dei alla loro protezione materiale e spirituale. Non esiste "trade-off" tra etica ed economia: chi si muove con l'animo più "puro", e cioé sganciato da un animo orientato all'interesse, ottiene di più, anziché di meno.

E anche la probabilità, oltre che il valore della ricompensa, è funzione positiva della qualità etica della prestazione. Il dovere sociale (universale) di restituire ciò che si è ricevuto è rafforzato nell'induismo dall'obiettivo supremo della trascendenza dal mondo delle relazioni. Abbiamo visto con Galey l'inferiorità morale a priori del creditore rispetto al donatore. Quel rapporto però si rovescia in caso di mancata restituzione, in quanto è il debitore a diventare responsabile del perdurare della relazione (12). Il donatario ha tuttavia anche un'altra via di fuga psicologica da quella degradazione, e porta alla conseguenza opposta. Egli può cioè "ignorare" la relazione "dimenticando" il debito, essendo moralmente legittimato proprio dall'impurità del rapporto da cui si fugge. La dinamica esiste ed è diffusa, e lo dimostra la prassi: il mancato saldo di un debito è un fatto comune, mentre la mancanza di un consistente dono effettuato in seguito a uno ricevuto non si verifica quasi mai, in quanto per il beneficiario del kanike non agisce la motivazione "fuggitiva" di ignorare una relazione debitoria, giacché questa non sussiste. Dal punto di vista del prestatore, inoltre, la mancata restituzione può rappresentare un vantaggio, di nuovo morale ed economico allo stesso tempo. Sul primo aspetto, come abbiamo appena visto, acquisisce una superiorità etica nei confronti del debitore. E, parallelamente, mantiene o consolida la propria posizione di potere nei suoi confronti (13), di cui abbiamo notato l'importanza superiore alla ricchezza in quanto tale.

E' una logica finanziaria che delegittima il possesso in quanto tale e induce tutti gli attori a giocare le proprie risorse nelle relazioni creditizie. Questo spiega l'onnipresenza del debito nei rapporti economici, a cominciare dalla banale prassi di dilazionare il pagamento anche al dettagliante, perfino dai consumatori che non ne avrebbero bisogno. Paradossalmente, però, la medesima motivazione, che è quella di limitare l'attaccamento "impuro" alle "cose-del-mondo", determina al contempo la costante tensione a fuggire dalla relazione debitoria, fino al punto da rendere il prestito meno remunerativo del dono.

Tale logica porta con sé altre implicazioni e concomitanze regionali, illustrate nella nostra precedente pubblicazione, che trovano riscontro anche lontano dai villaggi osservati: l'incessante necessità di un mediatore terzo, nelle relazioni sia economiche che religiose, che limiti il rapporto bilaterale diretto, "interessato" e quindi impuro, e magari abbia l'ulteriore virtù di trasformare il significato della prestazione da sāla in kanike; l'agire della medesima logica sia nelle strutture operative di micro-credito attivate dall'organizzazione non governativa di concerto con i locali, sia nei meccanismi donatori nel luogo di pellegrinaggio più popolare dell'area, sia in quelli riscontrabili dai documenti finanziari ufficiali del regno locale abdicato con l'Indipendenza, sia ancora nel funzionamento dei diritti fondiari prima dell'introduzione della proprietà privata alla fine dell'Ottocento e, informalmente, anche ai giorni nostri.

Ma il correlato che interessa più da vicino questo saggio è quello che coinvolge la gerarchia sociale. Abbiamo notato come l'esercizio creditizio tenda a salire col salire del livello di casta, ma abbiamo anche visto come però non raggiunga il suo vertice, anzi scompaia quando si arriva al brahmano. Il fatto non suona sorprendente, dato che si tratta di relazioni economiche ritenute impure. Di più, essa sembra chiaramente confermare la teoria di Dumont circa un doppio binario che tenga ben separate, seppur interdipendenti, le categorie del potere economico e dell'autorità religiosa. Questa etnografia dice però qualcosa di più, e di diverso.

A spiegarlo, in realtà, sono gli abitanti stessi, e lo hanno fatto in modo tanto semplice quanto sistematico soprattutto con l'organizzazione non governativa di riferimento che, all'inizio del progetto, li interrogava circa la stratificazione economica all'interno dei rispettivi villaggi. Non c'erano equivoci linguistici tra "gerarchia" morale e "potere" materiale, nonostante le significative omissioni e ambiguità nelle definizioni kannadiga di ricchezza e risparmio. Il quesito era chiaramente posto in riferimento alle diverse capacità materiali delle famiglie. Ebbene, le risposte convergevano non solo nel sottovalutare genericamente i possessi rispetto alle qualità morali, ma soprattutto collocavano il brahmano quasi sempre al vertice della scala. Tra il detto e il non detto, la motivazione è risultata ben presto piuttosto evidente. Il fatto che il sacerdote possa detenere poco e non prestare nulla non è valutato irrilevante, bensì al contrario risulta un indicatore del suo potere economico. Egli è più ricco del più ricco proprio perché la sua autorità - derivante dalla funzione di mediatore nel rapporto con gli dei - gli consente di trarre la sua sussistenza ricevendo doni, ovvero limitando al massimo la propria dipendenza dalle proprietà e dai debiti. Il suo status è quindi anche il suo potere, misurato proprio dal criterio religioso, e quindi castale, del grado di emancipazione dalle relazioni biologiche e sociali, nonché dagli "interessi" in esse coinvolti. In altri termini il potere non risiede tanto in quel che si ha, ma in quanto poco si deve materialmente faticare e ci si deve moralmente compromettere per averlo.

3. La complessità intellegibile

La presunta atemporalità che diversi studiosi, come sottolineato nel primo capitolo, attribuiscono a Louis Dumont coinvolge anzitutto proprio l'interpretazione della gerarchia sociale. La critica si fonda largamente sulla sua identificazione di una continuità di fondo tra la teoria dei Varna delineata dagli antichi testi vedici e il moderno sistema delle caste, con il corollario di una perdurante superiorità della casta sacerdotale intorno al criterio della purezza.

Partha Chatterjee (2006: 174) parla di semplificazione "inelegante", Veena Das (2006: 205), la definisce una "verità autoritaria che si reclama sovrana e vuole regnare sulla totalità dei discorsi intellettuali". Il ventaglio di siffatte critiche di natura "estetica" a Dumont è piuttosto esteso, ed è umanamente comprensibile in quanto l'asserita naturalità e strutturalità di lungo periodo della gerarchia rappresenta un pugno allo stomaco, specie dalla prospettiva della moderna ideologia egalitaria, e di questo lo stesso etnologo francese era ben consapevole (14).

Il già citato Torri motiva la sua accusa di orientalismo sottolineando come l'ipotesi dumontiana della continuità ometta una variabile storica fondamentale, quella della "brahmanizzazione della società indiana" (2006: 87) operata dall'occupazione britannica con la complicità proprio delle caste sacerdotali, mentre l'antefatto pre-coloniale era quello di una "società indiana politicamente, economicamente e socialmente dinamica". La riflessione è preziosa perché chiarisce le responsabilità del colonialismo sul blocco dello sviluppo politico-economico ottocentesco dell'India e sulla rigidità sociale sospinta attraverso i censimenti della popolazione, della cultura e del territorio, a cominciare proprio dalla casta. Alla suddetta rigidità Torri (2006: 84) oppone le seguenti affermazioni: "La società indiana non è mai stata una società immobile. Il sistema dei villaggi autosufficienti era solo una parte - e, per lunghi periodi storici, la parte meno significativa - dell'economia indiana. Il sistema castale aveva caratteristiche completamente diverse da quelle che gli sono state attribuite e, in molti casi, sembra essere stato assai meno importante di quanto sostenuto dall'Orientalismo. L'induismo non è, in primis, una religione unificata, con le caratteristiche attribuitegli dall'Orientalismo, bensì un fascio di religioni anche considerevolmente diverse; e, per finire, l'induismo, per quanto tradizione religiosa maggioritaria, è ben lungi dall'essere l'unica tradizione religiosa presente in India".

Sono considerazioni oggettivamente inappuntabili e che trovano riscontro anche nella nostra etnografia, ossia nel gioco tutt'altro che statico delle relazioni economiche, fondate sulla circolazione e sulle dinamiche interne delle relazioni bi e trilaterali piuttosto che su dominanze stagnanti intorno a proprietà consolidate. E lo trovano anche in altri aspetti qui non illustrati del nostro lavoro, quali la fluidità delle scelte matrimoniali, la possibilità di salti sociali attraverso processi finanziari e anche politico-elettorali, la dinamica incessante di sovrapposizioni e influenze culturali e linguistiche. Quel che però preme qui sottolineare è che Torri ha fornito con l'analisi storica una lettura della società indiana antitetica sì alla prospettiva orientalistica, ma per nulla a Dumont nella quale lo iscrive. L'etnologo francese, oltre a negare l'esistenza di "villaggi autosufficienti" (1966: 130sq) e di una vera e propria "religione rivelata indù" (1966: 261sq) - opponendovi un sistema di credenze e riti pieno di contraltari nel suo interno e in altre religioni (1996: 265sq) - riconosce il perdurare di principi assimilabili a quelli degli antichi varna (1966: 91sq) ma non ne attribuisce il funzionamento concreto, individuato invece nei più piccoli e dinamici jāti ("nascita"), le cosiddette "sottocaste" (1966: 93; 101sq). In esse, poi, chiarisce gli elementi di fluidità (1966: 85-90), la relatività dei livelli (1966: 50) e anche i cambiamenti moderni nel senso di un irrigidimento attraverso processi politici, amministrativi e ideologici (1966: 274sq). Si tratta quindi di un'interpretazione molto vicina a quella di Torri, seppure illustrata con metodo e obiettivi antropologici.

Analogamente sembra non centrare il bersaglio l'accusa di Dipankar Gupta circa la sussistenza di "fatti spiacevoli" (2006: 125sq) per Dumont, ossia di fenomeni che contraddirebbero la sua presunta descrizione di un "ordine gerarchico chiaramente lineare". Quei fatti consisterebbero proprio nell'articolata differenzazione della società indiana, nella quale "non c'è un'unica ideologia di casta, ma ideologie multiple che hanno alcuni principi in comune ma sono articolati in modo variabile e perfino in opposizione l'uno all'altro". Di nuovo, leggendo Dumont, ad esempio nell'illustrazione delle differenze regionali (1966: 81sq), le parole di Gupta, benché orientate alla confutazione e alla proposta di una teoria alternativa di "caste discrete", sembrano null'altro che una presentazione dello stesso Homo Hierarchicus. Lo stesso riguarda Appadurai (2006: 188sq), che definisce "monotono" il sistema delle caste di Dumont, e si chiede "E' davvero Homo Hierarchicus"? E si risponde: "Sì, ma non del tutto", spiegando che ciò che manca è proprio un'analisi della "molteplicità delle forme sociali", che invece è appunto il cuore della ricerca dumontiana.

Rimane tuttavia un quesito di fondo, che coinvolge l'essenza della molteplicità descritta dall'etnologo francese, per giunta nel lungo periodo. Si tratta di valutare se esista davvero un "principio ideologico" che sappia racchiudere quella variabilità in un ordine sociale in qualche modo coerente e in una gerarchia di valori che ponga al suo vertice i gruppi sacerdotali. Un prezioso contributo critico in tal senso è quello di Heestermann (1982, 1985), un etnologo olandese che, come Dumont, ha associato l'etnografia a un ampio utilizzo di fonti indologiche del passato. Una delle sue tesi è il rilancio della posizione suprema del vecchio Māharāja, nella sua capacità di associare il potere delle armi all'assunzione di funzioni religiose e addirittura all'orizzonte ultimo, segnalato anche nelle epopee classiche a partire dal Māhabhārata, della capacità di rinuncia al proprio stesso regno. La sua posizione "ubiqua", che abbiamo osservato in un'altra etnografia (Cisilin 2005: 331-343), è effettivamente centrale e cruciale per tenere insieme la società, tra le sue pulsioni materiali e il suo istinto religioso di fuga dalle cose del mondo, che Heestermann definisce "il conflitto interno della tradizione". Tuttavia, è da notare come il sovrano passi da una funzione all'altra non prima di un atto rituale che lo spogli delle altre, e che soprattutto la posizione suprema rimanga quella, descritta da Dumont, dell'"individuo-fuori-dal-mondo". La figura sociale che gli si avvicina di più, per sua stessa natura, è ancora quella del sacerdote, o di chi al suo posto abbia il ruolo riconosciuto di mediazione con le divinità.

Su un'interpretazione troppo "brahmanica" della gerarchia si sono scritti fiumi di inchiostro, ma forse la critica più pertinente in tal senso è curiosamente quella mossa da Srinivas, studioso kannadiga di famiglia brahmana, ritenuto tra l'altro relativamente vicino a Dumont nei contenuti e nel metodo strutturalista. Srinivas (2006: 94sq) fa notare anzitutto che "non esista alcun termine che designi specificamente la gerarchia in alcuna lingua indiana", sebbene questo non rappresenti per sé un indicatore della sua assenza di fatto. Al contrario, la mancanza di definizioni linguistiche di un fenomeno sociologico ne rivela sovente l'importanza, manifestando una presenza talmente ancorata e diffusa nella naturalità dell'esistenza di ciascuno da annientare il bisogno di una parola che lo identifichi.

Ma al di là della curiosità linguistica, che Srinivas definisce "intrigante", il rilievo di fondo mosso a Dumont è quello di una presunta sottovalutazione delle "caste intermedie", e in particolare di quella "dominante". L'antropologo indiano spiega che "un elemento fondamentale nell'omologia tra varna e jāti è l'assunzione delle funzioni sovrane da parte della casta dominante a livello locale". Ma poi nota: "le caste dominanti sono in effetti ambivalenti circa la legittimazione del proprio potere e del proprio status. E quando non c'è alcun rito di incoronazione, il brahmano è irrilevante per la legittimazione del suo potere". La casta dominante quindi sarebbe localmente ancor più forte del "sovrano" di Heestermann e dello stesso brahmano, in quanto dotata di un potere e, al contempo, di un'autorità autosufficienti, non necessariamente determinate da un'interdipendenza con la casta sacerdotale. Anche qui, però, la dimostrazione fattuale rappresenta null'altro che la conferma della teoria dumontiana. La superiorità morale dei gruppi di potere viene enunciata con una serie di esempi, tratti anche da altre etnografie (15), nei quali il brahmano è considerato più impuro di altri, talvolta perfino il più impuro di tutti, o perché si trova effettivamente a esercitare funzioni e mestieri ritenuti biologicamente inquinanti, o perché, nella complessità del sistema delle caste, emerge qua o là una diversa definizione della purezza, influenzata dalla compresenza di altri fattori e criteri di stratificazione sociale. Esempi a tal proposito si trovano anche in Dumont (1966: 181, 208, 227), che però, come ammette lo stesso Srinivas, non inficiano la sussistenza del principio gerarchico di fondo rappresentato dall'opposizione tra puro e impuro. Come spiega l'etnologo francese, può ad esempio accadere che, anziché fare i preti, "alcuni brahmani possano essere economicamente dominanti o anche fare i re; ma a quel punto perdono la loro autorità di casta nei confronti di altri sacerdoti che li servono".

La tesi di Dumont sull'ideologia pervasiva della purezza, soggiacente sia all'antica teoria dei varna che alla moderna gerarchia tra jāti rimane tutt'ora esente da adeguate confutazioni. La nostra etnografia ne fornisce un'ulteriore conferma, e smentisce in maniera piuttosto evidente, addirittura "lineare", le obiezioni sollevate dai critici. Quel criterio ideologico definisce e ordina la logica delle relazioni sociali, anche materiali. Ribadisce la posizione suprema dei brahmani e, nei villaggi in cui sono assenti, l'autorità viene comunque riconosciuta al soggetto che esercita le funzioni sacerdotali. Di più, la nostra ricerca sul campo ha portato a riconoscere in quell'autorità anche una posizione di potere economico, senza contraddizione né opposizione con la funzione sacerdotale, nonostante essa esplichi le proprie prerogative materiali con modalità del tutto anomale rispetto a quelle degli altri. Questo "di più", d'altronde, non è senza conseguenze. Ha in sé il potenziale di emendare la teoria dumontiana della gerarchia, benché su presupposti e implicazioni esattamente rovesciate rispetto alle obiezioni sollevate fino ad oggi.

4. Casta e potere oltre Dumont

Ne abbiamo accennato nella prima parte. L'intero edificio delle conclusioni di Dumont sul sistema gerarchico delle caste poggia sulla distinzione fondamentale tra status socio-religioso e potere politico-economico. Nelle parole dello stesso (1966: 317): "Gli indiani ovviamente non confondono un uomo ricco da uno povero ma, come gli studiosi comprendono sempre più chiaramente, un'ulteriore distinzione dev'esser fatta: da un lato, una scala religiosa di 'status', che chiamerò gerarchia, e che non ha nulla a che vedere col potere; dall'altro, la distribuzione del potere politico ed economico, che è in effetti molto importante, ma separato e dipendente dalla gerarchia. Quindi la questione è: come la gerarchia si relaziona col potere? In effetti, la società indiana risponde molto chiaramente. La gerarchia culmina nel brahmano, o sacerdote, è il brahmano che consacra il potere del re che, per il resto, conta sulla propria forza. Questo è il risultato di una dicotomia".

La "dicotomia" descritta da Dumont implica dunque un'interdipendenza. Quella del sovrano - e, per estensione, localmente della casta dominante - nei confronti del prete per la propria incoronazione e legittimazione. E poi quella del sacerdote, che dipende dall'uomo di potere per il proprio sostentamento. Con la conseguenza, che coinvolge la nostra etnografia, che "la teoria del dono ai brahmani, atto meritorio per eccellenza, può essere ritenuta come fondante di uno strumento di trasformazione dei beni materiali in valori" (1966: 318).

Ma questa interdipendenza è altresì associata a una netta divisione dei ruoli, proprio allo scopo di preservare la posizione di entrambi. La distanza serve al prete e serve al potente per poter esercitare correttamente le proprie funzioni. Il loro contatto si esaurisce negli atti strettamente necessari a quell'interdipendenza, ossia, come detto, rispettivamente la legittimazione morale e il sostentamento. Per il resto si muovono in autonomia e seguendo le regole che attengono alla propria professione, il brahamano nel celebrare i riti, il sovrano nell'esercizio della forza. Tornando alla citazione che apre questo saggio, "la mano destra è (moralmente)superiore alla sinistra, ma non ha potere sulla mano sinistra". E siffatta separazione non si limita a orientare, limitandoli, i rapporti tra le due categorie suddette. A ben vedere, è il principio fondante che definisce la tendenza al distinguo coltivata da ogni casta e le sue relazioni con le altre.

Il doppio binario risulta uno strumento metodologico indubbiamente utile per comprendere l'originalità del sistema sociale indù, e al contempo serve a Dumont per prendere le distanze dalle letture largamente eurocentriche fornite dal pensiero economico occidentale moderno. L'etnologo francese ne chiama in causa i capisaldi, a cominciare dalla "mano invisibile" di Adam Smith, ossia della teoria di una logica autosufficiente, quasi religiosa, capace di regolare l'insieme dei rapporti socio-economici. Un'autonomia e una superiorità che si rivendica, oltretutto, non solo rispetto all'ambito culturale e religioso, ma anche rispetto a quello politico (1977: 47sq). Sullo stesso piano viene poi a collocarsi, seppur da ben altro orientamento, Karl Marx (1977: 137sq), in quanto edificò un modello che collocava gli stessi rapporti materiali a fondamento "di struttura" della totalità dei comportamenti umani, inglobando e relegando le altre dimensioni dell'agire sociale al solo rango di variabili dipendenti.

Dumont rivendicava che ci può essere dell'altro nei fondamenti strutturali di un sistema, e rivendicava alla società indiana la sua incarnazione. La materialità, ovvero il mero incrocio degli interessi individuali, esiste in India ed è carica di conseguenze, ma non spiega tutto, né tantomeno può farlo la correlata "stratificazione tra classi". Essa riflette una visione della società che è figlia di una particolare ideologia e di una particolare visione del mondo, quella dell'"homo economicus", ma che, a torto, si pretende universale. Prima dell'etnologo francese la casta era stata pertanto descritta largamente nei termini di "forma limite delle istituzioni conosciute" in Occidente (1966: 40sq), ossia come forma estrema della classe sociale: una categoria di natura sostanzialmente economica, seppur infarcita nel caso indiano di riti religiosi e tabù esclusivi.

E' per questo che la teoria dumontiana, lungi dal semplificare la società indiana, ne restituisce la complessità. Non sostituisce affatto una categoria totalizzante - quella economica - con un'altra - quella religiosa. Le riconosce entrambe come elementi concreti di sistema. Identifica la superiorità dell'aspetto religioso, e quindi del brahmano nella gerarchia tra caste, attorno al principio di fondo rappresentato dall'opposizione tra puro e impuro. Ma al contempo, proprio nel gioco delle separazioni tra caste, a partire dalla distinzione tra status e potere, riconosce la compresenza e la relativa autonomia di altre categorie e logiche relazionali, a cominciare da quella materiale. Lo schema di Dumont non è assimilabile dunque a una sorta di "dispotismo religioso". Addirittura, argomenta il contrario, ossia che l'India, a differenza dell'Occidente, proprio per l'articolazione tra diverse caste e la logica che la sottende, possiede al suo interno gli antidoti strutturali al totalitarismo. Nessun principio ideologico e nessuna categoria sociale indiana aspira all'inglobamento del tutto nel segno dell'imposizione di logiche uniformi. Come già sottolineato, la differenziazione culturale è rivendicata da ciascuno per proteggere la propria funzione nei confronti del tutto.

Sul come si articoli quella distinzione fondamentale tra status e potere, Dumont tuttavia dice poco, al di fuori della metafora dei rapporti tra le due mani. La destra è superiore ma non controlla la sinistra. La sinistra, ossia l'ambito economico, dopo la sua legittimazione da parte della sfera religiosa, sembra dunque muoversi sostanzialmente da sola. Al quesito su "come la gerarchia si relaziona col potere" si limita a osservarne l'interdipendenza "istituzionale" e la distanza "di contenuto". Questa distanza, anziché "irrigidire" la società indiana, ne aiuta parecchio a spiegare la facilità di cambiamento storico, anche per quel che riguarda strutture politiche ed economiche moderne. La gerarchia culminante sui brahmani è una cornice - che risulta ampiamente confermata dalla nostra etnografia - ovvero un principio ideologico che si regge per sua stessa definizione sulla pluralità e la variabilità delle forme culturali ed economiche "intermedie".

La nostra ricerca sul campo fa però emergere qualcosa di più su quel rapporto tra gerarchia e potere. E' vero che la dinamica delle relazioni finanziarie si muove autonomamente dal brahmano, che infatti se ne tiene significativamente alla larga. Ma abbiamo anche accertato che la loro interdipendenza va ben al di là del mero scambio tra legittimazione e sostentamento. La logica brahmanica della purezza penetra nel cuore del concreto della vita sociale, comprese le sue transazioni materiali. Ogni atto di dare e avere è definito e gerarchizzato in funzione di quel principio fondamentale. Religione ed economia non vanno per conto proprio, vanno dalla stessa parte e con le stesse gambe. E la distanza mantenuta dal brahmano non serve solo a preservare se stesso dalla stratificazione tra classi, nonché la gerarchia di natura morale tra caste. Serve altresì a modellare un principio capace di orientare anche i criteri dell'agire materiale.

In altre parole, le categorie economiche sono interdipendenti con quelle religiose non solamente su un piano "formale". La logica religiosa della purezza ne determina anche i contenuti. La ricchezza, il risparmio, il dono, il prestito non hanno solo una "posizione" particolare in funzione dell'ideologia gerarchica tra caste. Hanno significati, modalità operative e implicazioni concrete che discendono direttamente da quel paradigma. Non c'è una doppia logica, tra "caste" e "classe", ne esiste una sola, seppur di contenuto e modalità diverse rispetto alla gerarchia che si articola nelle società europee.

La figura più esemplare in tal senso è proprio quella del brahmano. Gli abitanti del villaggio non si limitano a collocarlo al vertice di una gerarchia morale, bensì lo considerano al contempo come l'uomo economicamente più potente, sebbene il suo potere non sia alimentato dall'ampiezza dei suoi possessi bensì proprio dalla sua distanza, ovvero dal suo limitato livello di dipendenza dalle cose materiali. Dumont è stato prezioso a far comprendere che la logica gerarchica indù è altra cosa rispetto alla stratificazione occidentale. Ma non si è accorto che quella separazione tra status e potere non coinvolge un doppio binario tra valori religiosi ("dharma") e interessi materiali ("artha"). Se, come spiegavano i testi vedici, il dharma ingloba l'artha (1966: 247sq), ciò non implica solo che il primo inferiorizza il secondo, significa anche che ne definisce la sostanza e l'azione reale.

Che Dumont abbia sopravvalutato la posizione dei brahmani, come sovente si accusa, è un sostanziale falso. Tuttavia è vero il contrario: li ha sottovalutati, non rilevando che la loro autorità non è ridotta a fonte legittimante del potere altrui, essendo anzitutto la ragione del proprio, o meglio coincide con esso. Analogamente, il modello dumontiano non risulta troppo "semplice" o "monotono" rispetto alla variabilità indiana. E' al contrario troppo complesso rispetto alla percezione illustrata dagli stessi locali, che non distinguono affatto tra status e potere. Se la "classe sociale" descritta dai pensatori occidentali è effettivamente poco pertinente per valutare una scala economica che, per i precetti culturali indigeni, si fonda solo marginalmente sulle ricchezze, anche la "casta", intesa come ordine gerarchico distinto e sostanzialmente indipendente dalle categorie economico-finanziarie, risulta una costruzione accademica fittizia (16). Comunque la si voglia chiamare, la gerarchia indiana è una, economica e religiosa, allo stesso tempo e con le stesse logiche. Il fatto che queste logiche siano diverse da quelle occidentali non richiede astrusi sdoppiamenti di valori. Rivela niente di meno e niente di più del dato in sé: che in India i principi religiosi sono diversi dai nostri e, correlativamente, lo è anche l'economia.

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Note

*. Centre for advanced research on indigenous knowledge systems, Mysore (acisilin@yahoo.it).

1. La traduzione di questo passo e delle citazioni successive è dell'autore.

2. Nello stesso Homo Hierarchicus (271-301) Dumont ha dedicato un intero capitolo all'analisi dei cambiamenti contemporanei, anche se naturalmente lo ha fatto glissando gli eventi e mettendo antropologicamente a confronto gli aspetti ritenuti essenziali della dialettica sociale e ideologica nel contesto indiano.

3. Per una più estesa analisi epistemologica dei rapporti tra storia e antropologia si veda ad esempio Cisilin (2005: 17-41).

4. Ad esempio, nell'intera prima parte di Homo Hierarchicus (Dumont 1966: 13-50).

5. Si trattava di un progetto dell'Ong Myrada ("Mysore Resettlement and Development Association") per sviluppare la capacità creditizia dei meno abbienti delle aree rurali, e in particolare delle donne.

6. L'analisi è stata condotta in diversi villaggi dell'area. Le fasi più sistematiche e prolungate del lavoro etnografico è stata però condotta in uno di essi, chiamato Vottigalu, abitato da circa duecento famiglie, e sede di uno dei "gruppi di auto-aiuto" promossi dall'organizzazione non governativa.

7. Cisilin (2002: 387-412): "Il micro-credito nell'India del sud fra tradizione e innovazione", in M.Torri ed E.Basile (ed.), Il subcontinente indiano verso il terzo millennio. Tensioni politiche, trasformazioni sociali ed economiche, mutamento culturale. Milano, Angeli.

8. Il fatto che l'inglese sia tuttora una delle due lingue ufficiali, assieme all'hindī, e che venga diffusamente prescelto nei ceti urbani, e in particolare nella vicina Bangalore, è qui irrilevante. Nei villaggi visitati l'inglese è superficialmente noto solo a una piccola élite istruita.

9. Ad esempio in Manu, VIII: 141-162.

10. A testimonianza della complessità della civiltà indiana, i due significati riflettono due diversi etimi, rispettivamente sanscrito e proto-dravidico.

11. I due concetti sono strettamente interrelati, sia nella tradizione cristiana che in quella indù.

12. Lo aveva notato anche Mauss (1924: 258): il donatario, quando insolvente, rovescia la propria posizione e diventa socialmente inferiore.

13. E' un aspetto sottolineato anche da un'altra etnografia nelle campagne del Karnataka, quella di Brouwer (1999). L'interesse alla mancata restituzione del prestito per acquisire una posizione di potere è anche sovente riconosciuto dalle agenzie ufficiali di credito, incluse quelle internazionale.

14. Oltre agli innumerevoli passaggi in Homo Hierarchicus, Dumont ha pubblicato sul tema diversi interventi e un successivo volume, intitolato significativamente Homo aequalis (1977).

15. Ad esempio, Parry (1980: 83-84).

16. E di etimo alieno, esportato in India dai coloni portoghesi.