2005

Il pluralismo preso sul serio:
quali diritti, quale giustizia penale? (*)

Luca Baccelli

I.

People everywhere want to be able to speak freely; choose who will govern them; worship as they please; educate their children-male and female; own property; and enjoy the benefits of their labor. These values of freedom are right and true for every person, in every society-and the duty of protecting these values against their enemies is the common calling of freedom-loving people across the globe and across the ages (The White House 2002).

Sono affermazioni contenute nel documento che enuncia i principi della politica estera degli Stati Uniti. Nella loro brutalità, esprimono una convinzione diffusa non solo nelle élites politiche, economiche e militari della superpotenza, ma in larga parte del pensiero mainstream: l'idea che un certo nucleo, più o meno ampio, di principi e valori - che in genere vengono indicati come diritti umani - non solo debba essere attribuito a tutti gli esseri umani, ma possieda una validità universale e metatemporale, across the globe and across the ages. Si ritiene insomma che i diritti umani abbiano un fondamento, se non assoluto, indiscutibile. E si tende ad identificare questi valori universali con i valori-guida degli Stati Uniti (1), a sostenere, con le parole di Condoleeza Rice, che "American values are universal [...] the triumph of these values is most assuredly easier when the internatioal balance of power favors those who believe in them" (Rice 2000). Su questa base, gli Stati Uniti si autoattribuiscono un diritto illimitato all'uso della forza militare per 'esportare' i diritti umani o impone il rispetto, e la difesa dei diritti umani legittima procedure eccezionali anche nel diritto penale. La 'guerra preventiva' contro i rougue states che "reject human values and hate the United States" è legittima così come lo è la 'counterproliferation'. Così come lo sono i Patriot Act, l'Homeland Security Act e gli altri provvedimenti che, in funzione della 'lotta al terrorismo', autorizzano - in particolare nei confronti degli stranieri, ma non solo - forme di arresto, di indagine e di giudizio che violano i più elementari principi della procedura penale, a cominciare dall'habeas corpus. La detenzione per tempo indefinito dei sospettati di terrorismo a Guantanamo rappresenta in modo esemplare questo approccio.

L'obiettivo - dichiarato - della difesa e della diffusione dei diritti umani viene considerato tale da legittimare atti che mettono a repentaglio, o violano apertamente, il diritto internazionale e i principi del rule of law. Si può parlare, io credo, di 'imperialismo militare' e di 'giustizia imperiale' (2). Corollario di questa dottrina è la tesi dell'immunità dei cittadini e dei militari statunitensi dalla giurisdizione della International Criminal Court. L'Amministrazione Bush non solo non ha ratificato il trattato istitutivo, siglato a Roma nel 1998, ma si è attivamente impegnata per esentare gli statunitensi dai poteri di investigation, inquiry e prosecutions della ICC (The White House 2002, 19).

Fino qui mi sono riferito a documenti o 'manifesti' politici. Ma un'impostazione analoga si ritrova anche in significativi contributi teorici. Di particolare è la posizione dell'intellettuale progressista Michael Ignatieff: egli muove da un approccio storicista, critica l''idolatria' dei diritti umani e si pronuncia contro la pretesa di 'fondarli' teoricamente, perché le pretese fondative rimandano ad assunzioni metafisiche non incontrovertibili che finiscono per dividere. Tuttavia per Ignatieff è possibile individuare un catalogo minimo, una sorta di nucleo duro dei diritti umani, che ha validità universale. Il contenuto dei diritti esprime per Ignatieff i conflitti tra gli individui e i gruppi. "Human rights is universal [...] as a language of moral empowerment" (Ignatieff 2001, p. 73), in quanto permettono all'individuo di "to act against practices [...] that are ratified by the weights and authority of their cultures" (ivi, p. 68). Da questa definizione, d'altra parte, discende che tale nucleo di diritti si limita alla "'negative liberty', the capacity of each individual to achieve rational intentions without let or hindrance" (ivi, p. 57).

Così ridotti al loro minimo comune denominatore, che in definitiva coincide con il catalogo dei diritti civili della tradizione liberale occidentale, i diritti legittimano direttamente, senza tener conto delle procedure e delle mediazioni del diritto, le azioni militari per tutelarli. Per Ignatieff "human rights language is also there to remind us there are some abuses that are genuinely intolerable [...]. Hence human rights talk is sometimes used to assemble the reasons and the constituencies necessary for the use of force" (ivi, p. 22). In questa linea Ignatieff si è schierato pubblicamente e clamorosamente a favore dell'intervento americano in Iraq, (Ignatieff 2003a, p. 1; 2003b), sostenendo che come ogni impero storico, l'impero americano del XXI secolo ha il suo 'fardello'. E d'altra parte gli Stati hanno il 'diritto' di usare la forza per difendere i diritti umani: "The disagreeable reality for those who believe in human rights is that there are some occasions - and Iraq may be one of them - when war is the only real remedy for regimes that live by terror" (ivi, p. 4). Il ruolo imperiale comporta dunque degli obblighi, ma anche l'esenzione da ulteriori 'fardelli' come quelli rappresentati dalla Corte penale internazionale o dal Protocollo di Kyoto: "America's allies want a multilateral order that still essentially constrain American power. But the empire will not be tied down like Gulliver with a thousand legal strings" (Ignatieff 2003a, p. 7).

Emerge qui l'elemento più tipico di questa impostazione: il fine della tutela dei diritti umani/valori americani esenta da ogni vincolo giuridico: dalle procedure previste dalla Carta delle Nazioni Unite per autorizzare gli interventi militari così come dai principi del diritto penale sostanziale e procedurale, siano pure di rango costituzionale (3).

II.

Nel dibattito teorico contemporaneo è presente un'impostazione specularmene opposta, che vede proprio nello sviluppo del diritto e delle istituzioni internazionali, e in particolare della giurisdizione penale internazionale, la via maestra per la tutela dei diritti umani. In questo filone la tutela dei diritti umani è ricollegata alla teoria del 'pacifismo giuridico' e del diritto 'cosmopolitico'.

Zum Ewigem Frieden di Kant è l'opera classica di questa corrente teorica. In essa si definisce l'idea che solo il supermanto dello 'stato di natura' nelle relazione internazionali ed il passaggio ad un Rechtszustand- ad una condizione nella quale i rapporti internazionali siano regolati dal diritto - può garantire una pace duratura. Un secolo e mezzo più tardi, in Peace through Law, anche Hans Kelsen considererà il diritto come lo strumento prioritario per il perseguimento della pace, criticando duramente l'idea che la guerra sia una conseguenza delle diseguaglianze e dei e conflitti economici (Kelsen 1944, pp. 16-18). Anche per Kelsen "the ideal solution of the problem of world organization as the problem of world peace is the establishment of a World Federal State composed of all or as many nations as possible" (ivi, p. 5). Ma Kelsen riconosce che si tratta di un'ipotesi irrealistica. E' invece del tutto praticabile - in particolare nella situazione che si delineerà con la fine della guerra - il progetto di una 'Permanent League fot the Maintenance of Peace' istituita mediante un trattato cui aderiscano un considerevole numero di Stati ed aperto a tutti gli altri. A differenza che la League of Nations, miseramente fallita, questa Lega dovrebbe avere come suo organo chiave non un'assemblea né un organo amministrativo, ma una Corte di giustizia, titolare di giurisdizione obbligatoria. La principale difficoltà nelle relazioni internazionali è infatti vista nella mancanza di un'autorità riconosciuta e imparziale per dirimere le controversie, in grado di risolvere la questione di diritto.

Kelsen si rendeva perfettamente conto che il principale problema per una tale corte sarebbe stato di far eseguire le sentenze. E considerava prematura la formazione di una forza di polizia internazionale, che avrebbe compromesso gravemente la sovranità dei singoli Stati. Ma per Kelsen c'era un'alternativa: "The decisions of the international court can be executed against a reluctant State only by the other States, members of the international community, if necessary by the use of their own armed forces" (ivi, p. 20). Si verrebbe così a distinguere fra tali interventi - l'unica forma ammissibile di bellum iustum - e le guerre di aggressione, che dal patto Briand-Kellog costituiscono per il diritto internazionale un crimine.

Kelsen sottolinea che in questo modo non si farebbe altro che seguire la 'naturale evoluzione' del diritto: nelle singole comunità nazionali le corti hanno applicato il diritto per casi concreti molto prima che venissero istituiti parlamenti; in una società primitiva le corti sono poco più che tribunali di arbitrato e solo in un secondo momento avviene la centralizzazione del potere esecutivo. Nel progetto di Kelsen la Corte non avrebbe solo il potere di stabilire le ragioni e di torti nel caso di controversie fra Stati, ma anche sanzionare le violazioni del diritto internazionale da parte degli individui, anche in quanto rappresentati degli Stati.

Quella che Kelsen propone è una forma di estensione della sua interpretazione dell'ordinamento giuridico - la Stufenbau - a livello globale: non vi è dualismo fra diritto internazionale e diritto interno, ma un unico ordinamento giuridico globale. La sovranità si identifica con l'assoggettamento di uno Stato al solo diritto internazionale, "cannot mean an absolutely, but only a relatively supreme authority" (ivi, p. 35).

Un modello di questo tipo viene riproposto nel dibatti contemporaneo avendo di mira, più che il mantenimento della pace come tale, la tutela dei diritti umani. Anche per Jürgen Habermas i diritti umani sono attribuiti a tutti gli individui e sono fondati in modo universale (4). Tuttavia Habermas si oppone all'idea che vi sia un passaggio immediato dalla fondazione universale dei diritti alla legittimazione degli interventi - anche militari - per la loro tutela. Per quanto universali, i diritti umani non sono norme morali: "una moralizzazione immediata del diritto e della politica sfonderebbe effettivamente quelle 'zone protette' che noi [...] vogliamo comunque salvaguardare alle persone giuridiche" (Habermas 1996, p. 233 - i 213) e condurrebbe ad un Menschenrechtfundamentalismus (cfr. ivi, pp. 235-36). Invece il superamento, a livello globale, della condizione pregiuridica, il passaggio dallo stato di natura ad una condizione di giuridicità perfezionerebbe il carattere giuridico dei diritti umani e renderebbe possibile tutelarli.

Se stabilissimo infatti una situazione di diritto cosmopolitico, allora le violazioni dei diritti umani non sarebbero più giudicate ed avversate immediatamente da una prospettiva morale, bensì piuttosto perseguite come si perseguono le azioni criminali nel quadro di un ordinamento giuridico statale: vale a dire attraverso procedimenti giuridici istituzionalizzati. Per impedire che il diritto venga confuso con la morale non dobbiamo far altro che trasformare lo stato di natura [Naturzustand] vigente in una situazione giuridica di legalità. Solo così potremo garantire agli accusati [...] una piena tutela giurisdizionale (Habermas 1996, p. 226 - i 206).

Questo significherebbe oggi, al di là dei limiti del progetto kantiano, "vincolare i singoli governi. Le sanzioni della comunità internazionale devono essere in grado di costringere i suoi membri a rispettare [...] le leggi" (Habermas 1996, p. 191), istituire una giurisdizione internazionale per la tutela dei diritti umani e costituire "un potere esecutivo che, se necessario, possa imporre agli stati nazionali - mediante interventi diretti sulla loro autorità - l'osservanza della Dichiarazione dei diritti umani" (Habermas 1996, p. 212 -- i 194).

L'assunzione di questa prospettiva non ha sempre permesso ad Habermas uno sguardo lucido né gli ha impedito di incorre in alcuni significativi errori di valutazione. Nel 1991 Habermas fu fra i molti intellettuali che videro in Desert Storm, in quanto intervento autorizzato dal Consiglio di sicurezza, un embrione di Weltinnenpolitik, piuttosto che cogliere il primo atto nel dispiegamento della strategia imperiale del New Global Order. Per contro il cosmopolitismo giuridico e il timore del Menschenrechtsfundamentalismusnon ha impedito che Habermas, nel 1999, si sia schierato a favore dell'intervento della NATO in Kosovo. L'evidente violazione del diritto internazionale vigente, sia sul piano dello ius ad bellum che su quello dello ius in bello, è stata giustificata facendo riferimento alla superiore esigenza di sanzionare la violazione dei diritti umani dei cittadini kosovari (Habermas 1999). Per contro, Habermas ha condotto una campagna intellettuale, coerente e militante, contro l'occupazione angloamericana dell'Iraq (Habermas 2003a). Una campagna nella quale le argomentazioni fondazionalistiche ed universalistiche non hanno trovato molto spazio, mentre Habermas ha finito per rispolverare i vecchi attrezzi francofortesi della critica dell'ideologia (Habermas 2003 b).

La posizione di Habermas è paradigmatica per un certo approccio che riprende il progetto kantiano-kelseniano del pacifismo giuridico, lo radicalizza in senso cosmopolitico, lo sviluppa nel senso della tutela sovranazionale dei diritti umani. E Habermas fa proprio il corollario giurisdizionale del teorema kelseniano: le competenze della Corte internazionale dell'Aia "dovrebbero essere allargate nel senso delle proposte già elaborate da Hans Kelsen mezzo secolo fa. La giurisdizione penale internazionale [...] dovrebbe venire istituzionalizzata in forme permanenti" (Habermas 1996, p. 200).

Ma questo grande progetto filosofico-giuridico va incontro a significative difficoltà. In primo luogo, ci si può chiedere se sia plausibile il modello monistico del diritto. Da Kant a Kelsen si è riconosciuta l'impraticabilità, e la pericolosità, di un ipotetico Stato mondiale. La concentrazione del potere genererebbe il più colossale dispotismo. Ma questi problemi sono risolti ipotizzando un consesso federale o confederale, una qualche lega per il mantenimento della pace? Anche queste ipotesi non possono non fare i conti con il problema del monopolio della forza fisica legittima. Dati i profondi dislivelli di potere economico e militare, è ipotizzabile che le principali potenze attribuiscano ad un terzo - poniamo, un esecutivo federale - il potere di intervenire per sanzionare le violazioni del diritto internazionale, e dei diritti umani in particolare? E se questo avvenisse, non si assisterebbe ad una concentrazione della forza militare tale da configurare un potere assoluto, non controllabile né bilanciabile? Si noti che in una tale ipotesi l'esecutivo globale dovrebbe disporre non solo di armamenti 'convenzionali' ma di un arsenale nucleare strategico, senza il quale risulterebbe impotente di fronte alle potenze nucleari. E si ricordi che anche un ipotetico, generalizzato, disarmo nucleare non permetterebbe di distruggere il know-how per la fabbricazione delle armi di distruzione di massa: le innovazioni tecnologiche non si possono 'disinventare'. E' pensabile un ordinamento giuridico globale nel senso forte in cui Kelsen lo intende in assenza di un monopolio della forza fisica legittima?

Kelsen risponde a problemi di questo genere alludendo alla genesi del diritto moderno, ed al fatto che per un lungo periodo i tribunali si sono limitati ad esercitare poteri di arbitrato o ad emanare sentenze, senza disporre del potere esecutivo. Ma questo schema potrebbe riprodursi su scala globale? In particolare, quali potenze e/o quale coalizione di potenze sarebbe in grado di sanzionare violazioni del diritto internazionale commesse da una superpotenza nucleare - l'ipotesi è tutt'altro che peregrina? D'altra parte, l'idea kelseniana della guerra come sanzione giuridica apre questioni di difficile soluzione. La guerra, per sua natura, fa vittime innocenti, riesce in modo molto limitato a discriminare fra combattenti e non, e d'altra parte provoca reazioni a catena. Il ricorso alla guerra per sanzionare la violazione dei diritti umani espone al paradosso per il quale si violano i diritti umani - a cominciare dal diritto alla vita - di coloro i cui diritti umani si vorrebbero tutelare.

D'altra parte, gli studi sulle istituzioni giuridiche della globalizzazione segnalano tendenze che sembrano andare in tutt'altra direzione che verso la costruzione di un ordinamento giuridico globale sul modello kelseniano. Sotto la spinta dei processi economici transnazionali il diritto tende piuttosto a perdere i suoi caratteri di prescrittività, di sanzionabilità, di certezza. Mentre il potere si sposta dalle istituzioni pubbliche alle agenzie private, dalla politica all'economia, si afferma una nuova lex mercatoria la cui logica contamina progressivamente anche gli ambiti tradizionali del diritto pubblico. Il modello del contratto di diffonde pervasivamente negli ambiti del diritto costituzionale, del diritto amministrativo e del diritto penale. Si affermano nuove fonti del diritto e proliferano i soggetti ed i destinatari del diritto. In altri termini, anziché ad una estensione verso l'alto della Stufenbau si assiste ad uno sconvolgimento della struttura dei singoli ordinamenti giuridici interni. Il diritto costituzionale, così, perde la sua capacità di 'chiudere' e fondare l'ordinamento, diviene 'interattivo' e 'fluido' (Ferrarese 2003).

Ma questi processi non implicano una scomparsa delle sovranità 'forti', che anzi, come abbiamo visto, si riaffermano e si proclamano superiorem non recognoscens e immuni dalle sanzioni e dalle procedure giurisdizionali. Il diritto internazionale, almeno dal patto Briand-Kellog e dalla Carta delle Nazioni Unite, introduce significative limitazioni di quel tipico attributo della sovranità che era lo ius ad bellum. Tuttavia le Nazioni Unite riconoscono di fatto livelli differenti di sovranità, attribuendo in particolare un ruolo egemone ai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Ma anche questo schema sembra ormai superato: oggi gli Stati Uniti si considerano del tutto legibus soluti rispetto ai vincoli del diritto internazionale e si riattribuiscono un illimitato ius ad bellum. In questo contesto 'imperiale', sulla scena delle drammatiche differenze di reddito, di sviluppo e di potere che attraversano l'umanità, non c'è da stupirsi che il progetto della ICC incontri gravissimi problemi. Come è noto, il suo statuto presenta un profondo vulnus: il Consiglio di sicurezza ha il potere di impedire o sospendere le iniziative della procura. Estremamente pericolosa è poi la possibilità di accettare 'contributi volontari' non solo di governi, ma anche di organizzazioni pubbliche e private, con tutto ciò che questo potrà comportare in termini di finanziamenti. A ciò si ricollega il grave limite derivante dalla necessità di ricorrere alle forze militari delle potenze aderenti per esercitare azioni di polizia giudiziaria. Da parte loro gli Stati Uniti non si limitano a non aderire alla Corte, ma si adoperano per sottrarre i propri cittadini. Non solo gli statunitensi impiegati in operazioni di Peacekeeping godono di immunità: gli Stati Uniti, facendo leva sull'ambiguo art. 98 dello Statuto, si stanno impegnando a stringere il maggior numero possibile di trattati bilaterali che gerantiscano perpetuamente l'immunità del loro personale militare.

III.

Questi approcci hanno in comune l'idea che i diritti umani siano saldamente fondati. Viceversa, Norberto Bobbio ha argomentato la tesi che è impossibile stabilire un 'fondamento assoluto' dei diritti fondamentali. Bobbio rilevava che quelli che abbiamo definito, di volta in volta, diritti 'naturali', 'umani' e 'fondamentali' mutano storicamente, non sono analiticamente definibili, sono eterogenei e sono antinomici: non solo i diritti di determinati soggetti si possono contrapporre a quelli di altri soggetti, ma alcuni diritti attribuiti allo stesso soggetto possono contraddire altri diritti. Questa critica del fondamento assoluto costituisce a mio avviso un elemento prezioso nel suo lascito intellettuale. Tuttavia, sosteneva Bobbio, con l'approvazione della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 il problema del fondamento è superato: su di essa si esercita ormai un consenso generalizzato, un consensus omnium gentium e dunque quel sistema di principi può essere considerato generalmente riconosciuto e dunque fondato (Bobbio 1992, p. 13). Su questa via, Bobbio si inserisce nel filone del globalismo giuridico, facendo proprio il progetto kantiano-kelseniano di sviluppo ed affermazione del diritto internazionale (e, come Habermas, ha giustificato sia la guerra del Golfo del 1991).

Credo che in questa posizione emerga un limite, del resto caratteristico del magistero intellettuale di Bobbio. Bobbio ha per decenni messo impietosamente in luce i limiti, le contraddizioni, i paradossi del pensiero filosofico, giuridico e politico occidentale, ma non si è occupato del rapporto fra questa tradizione di pensiero ed altre esperienze culturali. Ciò emerge con chiarezza se si esamina il senso in cui sulla Dichiarazione universale si è esercitato un consensuns omnium gentium. Non solo l'adesione di quasi tutti gli Stati del globo alle Nazioni Unite, ma la redazione di documenti come la Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, adottata nel 1981 dall'OUA, o le varie dichiarazioni islamiche, testimoniano di una grande forza espansiva del linguaggio dei diritti, 'parlato' entro tradizioni giuridiche e culturali assai differenti da quella ellenico-ebraico-cristiana-illuministica. Ma il modo in cui tale linguaggio viene recepito - l'enfasi sui diritti sociali, l'affermazione dei diritti 'collettivi', la protezione della morale, della famiglia e dei valori tradizionali, i limiti alla libertà religiosa - restituisce un insieme di principi e valori significativamente trasformati rispetto a quelli della tradizione liberale. E si pensi, d'altra parte, a quel caso paradigmatico di resistenza alla diffusione del linguaggio dei diritti che è il dibattito sugli Asian Values.

Di fronte al problema del confronto interculturale, i tentativi di 'traduzione' si incentrano sull'individuazione di 'equivalenti omeomorfi' ai diritti umani nelle culture non occidentali (Panikkar 1982) o su una strategia di 'fusione degli orizzonti' (Taylor 1999). Qui riveste un'importanza del tutto particolare l'approccio proposto da Ottfried Höffe, che connette strettamente la fondazione interculturale dei diritti umani a quella del diritto penale. Secondo Höffe, si deve riconoscere che nella concezione dei diritti umani propugnata dall'Occidente, così come nelle concezioni 'non-occidentali', ci sono elementi cultural-specifici (Höffe 1998, 117). Ma è proprio per questo che si deve condurre un'accurata operazione di analisi dei diversi elementi, una distinzione dell'universale dal particolare che consenta di individuare i 'veri diritti umani'. Occorre ispirarsi ad una "strategia dell'universalità nella modestia" (ivi, p. 120) che permetta di raggiungere una 'universalità senza uniformità'. In questo modo è possibile definire i diritti umani "in modo tanto formale da restare aperti per diverse condizioni di vita e per diverse ipotesi di società" (ivi, p. 120). Al di là delle trasformazioni storiche e delle connotazioni culturali, esiste cioè un nucleo sovratemporale e transcultuarle di diritti umani.

Esistono infatti conditions of agency irrinunciabili per ogni essere umano, come la vita e l'integrità fisica, il linguaggio e la ragione (espressi nella nozione dell'uomo come zoon logon echon), una generale capacità sociale ed una più specifica capacità politica e giuridica (l'uomo zoon politikon). Sulla base di questa comune conditio humana la legittimazione dei diritti umani rimanda a quello ché Höffe definisce 'scambio trascendentale': l'uomo può causare violenza ed esserne vittima. Proprio per questo "sussiste una pretesa soggettiva a non diventare vittime della capacità altrui di usare violenza; formulato positivamente, si tratta del diritto alla vita e all'integrità fisica". Inoltre - e questo è il punto decisivo - tale interesse può essere tutelato solo laddove gli altri - che hanno a loro volta tale interesse - lo rispettino.

Per giustificare i diritti umani nel loro carattere di diritti soggettivi bisogna quindi dimostrare la presenza di una reciprocità caratterizzante l'essere umano per il mero fatto di essere tale. Essa sussiste solo laddove l'uomo può realizzare un interesse irrinunciabile solo nella reciprocità e per mezzo di essa. In questo caso, dove gli interessi sono irrinunciabili e al contempo legati alla reciprocità, l'irrinunciabilità si trasmette alla reciprocità; lo scambio corrispondente è cioè a sua volta irrinunciabile. Diritti umani esistono non meramente perché l'essere umano possiede interessi di più alto livello, 'trascendentali', alla vita ed all'integrità fisica, ma solo nel momento in cui gli interessi possono esser realizzati solo reciprocamente e nel 'sistema della reciprocità' ognuno esige già una prestazione, la rinuncia alla violenza da parte degli altri, la quale ha luogo esclusivamente alla condizione della prestazione reciproca, ovvero della propria rinuncia alla violenza. Si verifica qui pertanto uno scambio di più alto livello logico, ovvero 'trascendentale' (ivi, p. 64).

Se è possibile definire un nucleo di diritti umani e giustificarli in modo indipendente dall'appartenenza culturale, per Höffe si deve d'altra parte riconoscere che il diritto penale, in qualche forma, è presente in pressoché tutte le culture e che i suoi principi hanno validità interculturale. Si pensi a criteri fondamentali della procedura, come in dubio pro reo, audiatur et altera pars, nemo sit judex in causa sui. Sul piano del diritto penale sostanziale, se pure vi sono forti differenze nella tipologia delle pene, è universale gran parte di ciò che viene inteso come crimine. E ciò esprime, secondo Höffe, un nesso di implicazione fra diritti umani e diritto penale (5). Infatti, egli sostiene, "affermare che si ha diritto a qualcosa - per esempio alla vita ed all'integrità fisica - significa che il soddisfacimento di questo diritto è dovuto a ognuno e che in caso contrario si può ottenere tale soddisfacimento con la forza" (pp. 70-71). In questa ottica, i divieti la cui inosservanza dà luogo ad una sanzione penale rappresentano il rovescio di esigenze legittime, in ultima istanza fondate sui diritti umani e pertanto valide universalmente. "Ciascuno di noi [...] ha in linea di principio interesse a che sussistano tali divieti" (p. 95) (6). Il fatto che Höffe 'prenda sul serio' i problemi di confronto interculturale emerge anche nella considerazione che l'idea filosofica dei diritti umani non coincide con determinato catalogo. Di qui la raccomandazione della 'modestia' e della 'cautela' e l'impegno a mediare un nucleo universale con elementi della rispettiva cultura, in cui le differenti tradizioni culturali hanno da imparare reciprocamente: "altre culture giuridiche hanno lo stesso diritto dell''Occidente' a riconoscere se stesse nei diritti umani, portando a termine i processi di apprendimento e di trasformazione necessari a questo scopo a partire da se stesse" (p. 96).

Se la titolarità dei diritti umani si traduce immediatamente nella facoltà di punire il trasgressore, affidare ai privati questo compito finisce per sfociare nella 'legge del più forte' e, in mancanza di un terzo super partes, rimane dipendente dall'interpretazione privata. Le Eumenidi di Eschilo possono venire interpretate come la narrazione del mito fondativo del diritto penale come procedura che interrompe la catena delle vendette; raccontano la nascita del potere pubblico come momento sostitutivo della vendetta di sangue.

Questa concezione del nesso diritti umani/diritto penale si esprime in una teoria retributivistica della pena, che nell'ottica di Höffe è in grado di recepire anche le istanze della prevenzione e del reinserimento sociale (7).

Sulla base di questo approccio. Höffe sostiene che l'incontro fra popoli differenti non configura come tale situazioni in cui gli stranieri possano richiamarsi alla diversità della loro cultura: dal punto di vista penalistico non esistono 'stranieri' in senso forte. "Il diritto penale internazionale conferma così una regola fondamentale dei discorsi giuridici interculturali: ciò per cui ci impegniamo con forza, lo possiamo ritrovare anche in altre culture in particolare ciò per cui ci indigniamo suscita l'analoga indignazione dei nostri simili anche altrove" (ivi, p. 136). In questa linea, Höffe auspica la formazione di un codice penale transculturale, al di là della ristretta serie di reati previsti dallo statuto della ICC, di cui critica la timidezza ed i limiti.

Si potrebbe mettere in questione, sul piano storico e su quello antropologico, l'effettiva universalità metatemporale e transculturale di quel nucleo di 'veri' diritti umani cui Höffe riferimento come saldo fondamento dell'intera costruzione. Probabilmente De Maistre aveva torto quando sosteneva di non aver mai visto 'l'uomo'. La nostra specie, in una determinata fase della sua evoluzione, presenta senza dubbio alcune caratteristiche comuni e tipiche, come un insieme di socialità ed aggressività, di tendenze gregarie e di individualismo, come la vulnerabilità, la tendenza acquisitiva in presenza di risorse scarse e così via. Ed è verosimile che queste caratteristiche rimandino all'esigenza di valorizzare alcuni beni e di tutelarli, in particolare attraverso l'elaborazione di norme sociali. Un giuspositivista convinto come Herbert Hart (Hart 1961), del resto, parlava su questa base di un 'diritto naturale minimo'. Ma attrarerso le differenti esperienze storiche, le differenti culture, i differenti codici morali all'interno delle società pluralistiche e 'politeistiche', cambia radicalmente l'interpretazione di questi beni e di questi valori, e dunque si modifica notevolmente il significato che si attribuisce ad essi. Anche solo per riferirsi al mainstream della cultura occidentale, si pensi alle contrapposte interpretazioni della natura umana di Aristotele e di Hobbes, alle loro conseguenze teorico-politiche (ed al modo in cui il pensiero di queste due geni assoluti sia stato condizionato dalle condizioni sociali e dalla mentalità corrente). Del resto, la stessa definizione di chi appartiene all''umano', di chi è homo, per così dire, optimo jure, si è trasformata storicamente ed è tuttora sottoposta a discussione ed interpretazione. Ora, il punto è che nelle società multiculturali (e non solo in quelle, come ci insegna la riflessione di Max Weber sul 'politeismo dei valori' come cifra della modernità) confliggono appunto tali differenti interpretazioni. Nessuno contesta, ad esempio, che la vita umana abbia grandissimo valore; ci si differenza radicalmente, però, sull'interpretazione del significato della vita e sul 'peso' relativo di differenti valori: si pensi appunto alla discussione sul diritto alla vita dell'embrione comparata con il diritto alla scelta della madre, come a quella sulla 'sacralità' della vita rispetto alla sua 'qualità' nel caso dell'eutanasia.

In secondo luogo, sempre in presenza di un pluralismo di culture e di valori, ci si dovrebbe chiedere che cosa si intenda con 'diritti umani', piuttosto che con 'principi' o 'valori' umani: in cosa consista, cioè, la caratteristica specifica dei diritti soggettivi rispetto ad altri concetti deontici. Se pure è possibile individuare un nucleo (relativamente) metatempoarale e transculturale di valori, è solo in tempi molto recenti che si è generalmente convenuto di esprimere tali valori in termini di 'diritti umani'. Si pensi al dibattito ottocentesco sulla Dichiarazione dell'89, ma anche alla secolare resistenza della Chiesa cattolica - di fatto fino al Concilio Vaticano II - a fare proprio il linguaggio dei diritti. E ciò vale a maggior ragione nel confronto interculturale. Si pensi, ad esempio a come la nozione dei diritti soggettivi, intesi come facoltà o poteri degli individui umani, sia difficilmente accoglibile come tale nella cultura indiana tradizionale, pervasa dalla nozione di dharma, lontana sia dall'individualismo che dall'antropocentrismo, che tende a connettere l'humanum con il tessuto di relazioni comune a tutti gli enti del cosmo (Panikkar 1982). Ma se riconoscere un valore non si identifica con il considerarlo un diritto soggettivo, l'idea di Höffe che alla titolarità di un diritto umano corrisponda immediatamente la legittimità della pretesa che chi lo viola sia punito diviene assai più problematica.

Ci si può poi interrogare ancora sul rapporto fra norma e sanzione. Höffe distingue la legittimazione della facoltà di punire dall'individuazione della sanzione, riconoscendo che l'esperienza del diritto penale conosce una grande varietà di pene, pur in presenza di una tendenza alla loro mitigazione. Ma è possibile separare così nettamente la definizione del reato/violazione del diritto umano dalla determinazione della sanzione? D'altra parte forse non è necessario condividere la teoria kelseniana della norma giuridica, seconda la quale si dà norma nella misura in cui si definisce la sanzione per un particolare comportamento, per chiedersi: un reato punito, poniamo, con il supplizio o piuttosto con la sedia elettrica o con una pena detentiva può essere considerato come lo stesso reato? E non c'è bisogno di essere seguaci di stretta osservanza di Michel Foucault per riconoscere che attraverso la modificazione delle pene è passata una radicale mutazione della funzione, dello spazio e dello stesso significato del diritto penale (Foucault 1975).

Ma soprattutto ci si deve chiedere se una concezione retributivistica della pena sia quella più adeguata al confronto interculturale. Considerare il diritto penale come, in definitiva, l'attribuzione di giuste punizioni per atti da considerare in sé, e dunque universalmente, illeciti, è il modo migliore per limitare efficacemente le violazioni dei diritti fondamentali, per limitare le sofferenze degli individui, per favorire la pace? L'idea che la punizione sia la giusta punizione di un peccatum non rischia di rendere più ardua la tolleranza e più problematico il processo dia apprendimento reciproco? Non si inclina a posizioni del tipo fiat justitia, pereat mundus, senza riguardo per il punto di vista delle vittime e per gli interessi generali della collettività?

Forse quegli inviti alla cautela ed alla prudenza che Höffe reitera andrebbero tenuti presenti anche quando si considera la potenzialità e l'efficacia del diritto penale. Senza ripercorrere un dibattito che ha contrapposto, fra l'altro, abolizionisti e sostenitori di un 'diritto penale minimo' (Ferrajoli 1989), non si può non riconoscere che anche nei singoli ordinamenti giuridici nazionali l'efficacia del diritto penale è tutt'altro che assoluta. E, per quanto le politiche meramente repressive, ispirate al principio della 'tolleranza zero' godano di larga approvazione, il diritto penale, da solo, non appare sufficiente per mantenere l'ordine e garantire al sicurezza dei cittadini. L'integrazione e la coesione sociale richiedono interventi su una pluralità di piani, dai servizi sociali all'istruzione, alle politiche del lavoro. D'altronde, l'apparato penale e il suo sottoapparato carcerario producono macroscopici effetti di stigmatizzazione, e in tal modo rafforzano sì la coesione sociale, ma a spese dell'esclusione dei 'devianti' (Parsons 1951). C'è allora da chiedersi se questo non valga a fortiori in presenza del confronto interculturale e soprattutto su scala internazionale. In particolare, il teorema kelseniano della pace attraverso il diritto e il suo corollario giudiziario sembrano sopravvalutare le possibilità del diritto, e del diritto penale in particolare, rispetto ad altri strumenti - dalla cooperazione economica all'apprendimento reciproco - per il mantenimento della pace. E questo vale anche per il progetto di human rights through law.

IV.

La mia tesi è che per affrontare questi problemi sia utile interrogarsi sul carattere specifico dei diritti i quanto diritti soggettivi e riconoscere francamente il 'particolarismo' storico-culturale che li caratterizza. Lo stesso Bobbio ha sostenuto che "i diritti naturali sono diritti storici" (Bobbio 1992, p. VIII), e cioè

sono nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre. [...] la libertà religiosa è un effetto delle guerre di religione, le libertà civili, delle lotte dei parlamenti contro i sovrani assoluti, la libertà politiche e quelle sociali, della nascita, crescita e maturità del movimento dei lavoratori salariati, dei contadini con poca terra o nullatenenti, dei poveri che chiedono ai pubblici poteri non solo il riconoscimento della libertà personale e delle libertà negative, ma anche la protezione del lavoro contro la disoccupazione, e i primi rudimenti d'istruzione contro l'analfabetismo, e via via l'assistenza per l'invalidità e la vecchiaia [...] i diritti non nascono tutti in una volta. Nascono quando devono o possono nascere. Nascono quando l'aumento del potere dell'uomo sull'uomo, che segue inevitabilmente al progresso tecnico, cioè al progresso della capacità dell'uomo di dominare la natura e gli altri uomini, crea o nuove minacce alla libertà dell'individuo oppure consente nuovi rimedi alla sua indigenza (ivi, pp. XIII-XV).

Se i diritti si originano da processi conflittuali, ci si deve riferire alla rivendicazione anche per individuare le caratteristiche specifiche della figura deontica del diritto soggettivo. Secondo Joel Feinberg ciò che qualifica i diritti soggettivi è "the activity of claiming", l'attività di rivendicare. Il "characteristic use" dei diritti, "and that for which they are distinctively well suited, is to be claimed, demanded, affirmed, insisted upon" (Feinberg 1970, p. 151):

Having rights, of course, makes claiming possible; but this is claiming that gives rights their special moral significance. This feature of rights is connected in a way with the customary rhetoric about what is to be a human being. Having rights enables us to "stand up like men", to look others in the eye, and to feel in some fundamental way the equal of anyone [...] and what is called "human dignity" may simply be the recognizable capacity to assert claims (ivi, p. 151).

In questa prospettiva è di grande la concezione 'repubblicana' dei diritti proposta da Frank Michelman. I diritti sono visti come "a relationship and a social practice" (Michelman 1986b. p. 91). Essi emergono da, e si fondano nel processo di elaborazione e trasformazione dei principi giuridici: quel processo che Michelman chiama political jusgenesis, e "can be both the free creations of citizens and, at the same time, the normative givens that constitute and underwrite a political process capable of creating constitutive law (Michelman 1988, pp. 1404-05). Al processo di political jurisgenesis partecipano i corpi deliberativi istituzionalizzati, la giurisdizione (in primis quella costituzionale) e tutte le arene di dibattito pubblico aperto ai cittadini che realizzano un "potentially transformative dialogue" (8).

Questa concezione dei diritti può essere accolta in un approccio pluralistico al diritto. La tradizione delle teorie antiformalistiche ed istituzionalistiche del diritto ha insistito sull'opportunità di riconoscere l'attributo 'giuridico' anche ad ordinamenti non statali e sull'esistenza di una pluralità di ordinamenti giuridici. Ma anche se si utilizzano criteri più restrittivi per qualificare come 'giuridico' un ordinamento, non si può non notare che esistono differenti sistemi e insiemi di norme - più o meno riconosciute da questo o da quell'altro ordinamento giuridico - che regolano la vita delle singole persone. Questo approccio rivela una significativa validità euristica nell'epoca della globalizzazione e del multiculturalismo. Nelle società multiculturali gli individui sono intensamente investiti dal pluralismo normativo. Essi appartengono a più gruppi e sono interessati da norme e sistemi normativi differenti, provenienti da una pluralità di fonti, giuridiche e non. E tali norme possono configgere fra loro, tanto da scaricare sull'individuo l'onere della scelta e/o della conciliazione.Tutto questo vale in modo particolarmente significativo per gli individui e le comunità migranti, che hanno a che fare non solo con l'ordinamento positivo del paese di origine e con quello del paese di immigrazione, ma anche con le norme religiose e con i codici normativi tradizionali vigenti nelle loro comunità di origine, a loro volta spesso riformulate ed integrate in relazione a quelle della società di immigrazione, spesso in sintesi inedite. "La vita delle comunità di immigrati è regolata da una sorta di diritto vivente in costante trasformazione che ha origine da molteplici fonti" (Facchi 2001, pp. 43-44). Tutto ciò esclude una gerarchia ben definita e analoga a quella comunemente accettata nel paese di immigrazione. In particolare, vi sono prescrizioni e norme avvertite come più vincolanti delle stesse norme giuridiche vigenti, comprese quelle penali. Ed è evidente che, mutatis mutandis, considerazioni analoghe valgono per lo scenario transnazionale.

Tutto questo riguarda direttamente il diritto penale. Nella giurisprudenza dei paesi europei si nota la tendenza a non ignorare il pluralismo normativo. Che un determinato comportamento, reato penale nel paese di immigrazione (in certi casi anche in quello di origine) sia considerato lecito, o più spesso obbligatorio, nel sistema di valori cui l'individuo risponde, è stato considerato spesso come un'attenuante. Per utilizzare le categorie giuspenalistiche: la volontà di provocare un determinato evento non si associa alla coscienza o alla volontà di causare un danno, ma piuttosto alla certezza di assolvere un dovere. In certi casi, la costrizione sociale verso certe pratiche ha configurato lo stato di necessità (Facchi 2001, pp. 66-70).

Un approccio insieme pluralistico e 'conflittualistico' ai diritti umani dovrebbe allora suggerire alcune considerazioni.

  1. Occorre riconoscere l'origine contestuale del linguaggio dei diritti, in un duplice senso: riconoscere che determinati valori e principi - o, se si preferisce, che l'interpretazione di determinati valori e principi - non sono universali e non sono facilmente universalizzabili; e riconoscere altresì che la forma-diritto soggettivo ha un'origine storica ed una connotazione culturale. Ciò non implica il relativismo, se relativismo significa attribuzione a tutti i principi dello stesso valore; credo sia piuttosto da raccomandare quello che Richard Rorty definisce 'franco etnocentrismo': attribuire grande valore a determinati principi, impegnarsi per affermarli, individuare forme di tutela, ma nella consapevolezza che tali principi non sono fondati in modo assoluto, che non c'è un consenso universale su di essi (o sulla loro interpretazione), che il linguaggio in cui sono espressi deve essere tradotto. Tutto ciò, ovviamente, anche con la consapevolezza che non si parte da zero: la condivisione e una determinata interpretazione del contenuto dei diritti umani si è diffusa ed incontra forme di overlapping consensus, mentre la stessa forma-diritti soggettivi - forse proprio per la sua capacità di esprimere il sentimento di dignità e il claiming - è fatta propria al di là del suo contesto di origine.

  2. Se i diritti sono concepiti in questi termini, sono escluse una serie di forme di presunta tutela; il paternalismo, più o meno benevolo, trova scarso fondamento e si recide il nesso fra fondamento assoluto dei diritti umani e interventi 'umanitari'; non solo gli interventi militari violano i diritti umani dei soggetti che si vorrebbero tutelare e sono incontrollabili giuridicamente (Zolo 2000, pp. 111-17); se i diritti umani sono il risultato di processi storici attivati dai soggetti che rivendicano 'nuove libertà contro vecchi poteri', ciò significa che non possono venire imposti manu militari: la loro universalizzazione rimanda ad un'opera paziente di confronto, mediazione e traduzione e non può essere imposta con la violenza.

  3. Il progetto di costruire un'alternativa all'uso della forza attraverso il diritto deve fare i conti con le trasformazioni del diritto contemporaneo e con la realtà del pluralismo normativo; in altri termini, se il modello gerarchico e statalistico dell'ordinamento giuridico è ormai inadeguato per i singoli ordinamenti interni, ciò vale a fortiori a livello sovranazionale. Tuttavia, pur se non si può parlare di 'società civile mondiale', anche a livello transnazionale si produce una circolazione di temi, questioni, valori, principi, si definiscono issues politiche e sociali, si organizzano forme di mobilitazione. Con le dovute differenze, potrebbe essere utilizzato anche a questo livello il modello della jurisgenesis proposto da Michelman. Anche a livello transnazionale si potrebbe ricostruire una sorta di 'triangolazione' fra l'azione dei movimenti, la giurisdizione - nazionale e sovranazionale -, l'azione politica entro gli Stati, le organizzazioni regionali e le istituzioni sovranazionali. Una triangolazione di questo genere rimanda non ad un modello monistico dell'ordine internazionale ma all'idea di una pluralità articolata (e competitiva) di soggetti sociali, politici e giuridici. In altri termini, non si tratta di contrapporre alla 'spontaneità' dei mercati ed all'azione delle potenze egemoniche l'ordine statico e gerarchico del diritto. Si tratta di garantire la molteplicità dei soggetti in campo, di favorire la pluralità delle culture, dei valori, delle istanze e delle rivendicazioni, in modo da stabilire controlli e contrappesi.

  4. In questa ottica si può considerare la dimensione sovranazionale del diritto penale. Nello spazio giuridico globale, l'ambito del diritto giurisprudenziale non può che essere molto ampio, e questo vale in modo particolare per i diritti umani e per la loro tutela. Ma è evidente che c'è differenza se i giudici sono i meri esecutori della volontà delle potenze imperiali oppure se se si pongono come interlocutori dei soggetti e dei gruppi impegnati nella rivendicazione dei diritti. Il potere giudiziario può sollecitare o anticipare lo sviluppo del catalogo dei diritti umani e soprattutto degli strumenti per tutelarli, ma non può sostituirsi ai soggetti individuali e collettivi. Così concepito il potere giudiziario si presenta come una delle agenzie che intervengono nella dialettica fra processo rivendicativo 'dal basso' ed elaborazione normativa con gli strumenti del diritto. Le corti internazionali, insomma, hanno un ruolo-chiave sia nell'accertamento e nella definizione che nella tutela dei diritti. Ma non è pensabile che si sostituiscano all'azione politica e diplomatica e tantomeno ai processi sociali. In questo senso l'istituzione di una ICC è positiva in quanto se ne riconosca il ruolo di strumento definito e parziale. Non si può pensare alla ICC nei termini in cui Kelsen pensava alla Permanent Court of International Justice. Riconoscere la parzialità non significa attenuare l'autonomia rispetto ai condizionamenti politici delle potenze egemoni e dello stesso Consiglio di sicurezza. L'autonomia costituisce un valore prioritario rispetto a fini come la ricerca di una ambito più vasto di applicazione, l'aumento dei reati di competenza ed alla stessa esigenza di dotarsi di un apparato investigativo e repressivo efficiente.

  5. Ma il problema del rapporto fra diritti umani, diritto penale e pluralismo normativo si pone in maniera drammatica anche rispetto ai singoli ordinamenti nazionali. Anche in questo caso, il riconoscimento del 'particolarismo' dei diritti umani, dell'esistenza di una pluralità di norme e sistemi normativi che attraversano gli individui e le comunità, e dei limiti del diritto penale, deve ispirare le politiche penali. Non si tratta in alcun modo di delegittimare i diritti fondamentali, di considerarli come principi derogabili. Considerare certi principi come contestuali, o come suscettibili di differenti interpretazioni, non significa che non si consideri un dovere irrinunciabile affermarli e difenderli. E su certi principi fondamentali è legittimo affermare "noi qui facciamo così" (Taylor 1994). Ma il riconoscimento del pluralismo normativo richiede saggezza, prudenza e sagacia nell'individuare aggravanti, attenuanti e scriminanti, nell'introdurre categorie di reati, nell'interrogarsi se la via penale sia la più adeguata per ottenere determinati risultati. E invita ad assumere come termine di riferimento il punto di vista dell'individuo coinvolto, in primo luogo della vittima della violenza, della sopraffazione, dell'emarginazione, dei condizionamenti culturali.

Un caso esemplare per verificare la fecondità di questi approcci è quello delle mutilazioni genitali femminili. Si tratta di un'evidente, gravissima violazione di diritti umani fondamentali all'integrità fisica, alla salute, ad una sessualità fisiologica, che coinvolge minori negando loro ogni libertà di scelta autonoma e perpetra una millenaria oppressione sulle menti e sui corpi delle donne. Questi diritti rimanderebbero immediatamente ad una grave sanzione penale nei confronti di chi opera le mutilazioni, dei genitori e forse della stessa comunità che esercita pressioni di vario tipo.

Ma nelle comunità dell'Africa e dell'Asia dove queste pratiche sono diffuse esse vengono avvertite come un obbligo. Non come una violazione del corpo della bambina, ma al contrario come un rito di passaggio, necessario perché diventi un'adulta responsabile, se non una 'donna' in senso pieno. Non c'è dubbio che queste culture attribuiscano grande valore alla salute, ma l'interpretazione che danno di questo valore - se vogliamo, di questo diritto - non implica il divieto di queste pratiche, anzi le vede con favore. La pressione normativa di questi codici tradizionali, nella gran parte dei casi, continua ad esercitarsi nelle comunità di immigrati in Europa e in Nordamerica. In questa situazione, la pur sacrosanta e pienamente fondata - sul piano giuridico come sul piano morale - condanna penale non è sufficiente:

  • nelle comunità tradizionali i tentativi, già attuati dalle potenze coloniali e poi dai governi indipendenti, di vietare tali pratiche attraverso la repressione penale, si sono rivelati infruttuosi; a maggior ragione sarebbe illusorio seguire la via del diritto penale sovranazionale (per non dire dell'azione militare, pur in presenza di violazioni ripetute, sistematiche e gravissime di diritti umani); non sembra esservi alternativa ad una pressione dell'opinione pubblica internazionale che eviti forme di imperialismo culturale, assuma il punto di vista delle vittime e si saldi con i movimenti autoctoni, in particolare delle donne, per l'abbandono di queste pratiche (sostituite in certi casi con rituali incruenti)

  • nei paesi di immigrazione, una politica di mera repressione penale, oltre a rivelarsi impotente (è frequente il ricorso a viaggi nel paese di origine per operare le mutilazioni) rischia di risolversi in un danno per la vittima, ad esempio nel caso di reclusione dei genitori; in molte situazioni i giudici hanno tenuto conto dell'esistenza di un pluralismo normativo di fatto, concedendo attenuanti ai genitori ed evitando di togliere loro l'affidamento della bambina, che si sarebbe risolto in conseguenze devastanti; molte analisi indicano l'importanza del lavoro di educazione e formazione e soprattutto degli interventi per garantire l'integrazione delle comunità nella società di immigrazione e soddisfacenti condizioni di lavoro, di reddito e di istruzione alle donne ed alle bambine. In questo momento si fronteggiano strategie di 'riduzione del danno' e strategie di inasprimento delle pene. C'è da chiedersi quali politiche siano più lungimiranti.

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Note

*. Human Rights and Criminal Justice, Saarbrücken, March 27-29, 2004.

1. Un esempio paradigmatico di questo atteggiamento è il noto documento What We're Fighting For, sottoscritto all'indomani dell'11 settembre 2001 da una serie di grandi intellettuali statunitensi, che include figure come Francis Fukujama, Samuel Huntington e Michael Walzer: personaggi che nel corso della loro carriera accademica dovrebbero aver avuto l'occasione di imbattersi in qualche paginetta di David Hume. In questo documento l'idea che "All human beings are born free and equal in dignity and rights" è presentata come una delle "five fundamental truths that pertain to all people without distinction". D'altra parte "the conviction that universal moral truths (what our nation's founders called 'laws of Nature and of Nature's God') exist and are accessible to all people" è presentato come uno di quegli American values che costituiscono "the shared inheritance of humankind" (Aird et al., 2002).

2. Si noti che il documento What We Are Fighting For ha al suo centro la critica del 'realismo' e la riaffermazione della teoria della 'guerra giusta': "To seek to apply objective moral reasoning to war is to defend the possibility of civil society and a world community based on justice". Il momento storico in cui Al Qaeda minaccia "a foundational principle of the modern world, religious tolerance, as well as those fundamental human rights, in particular freedom of conscience and religion, that are enshrined in the United Nation Universal Declaration of Human Rights" è uno di quei momenti "when waging war is not only morally permitted, but morally necessary" (Aird et al., 2002).

3. A posizioni non lontane era giunto anche John Rawls nello sviluppare le sue riflessioni sulla law of the peoples. Anche per Rawls è possibile individuare un insieme di 'diritti umani' - una classe più ristretta rispetto ai diritti garantiti ai cittadini dalle democrazie liberali, diritti umani che non possono venire considerati come. Rispettare i diritti umani è condizione necessaria perché una società ed il suo ordinamento giuridico possano essere considerati decenti, ed è condizione sufficiente per escludere sanzioni economiche o interventi militari da parte di altri popoli. Uno Stato che viola i diritti umani si colloca così, per definitionem, al di fuori del diritto dei popoli, nell'ambito degli 'outlaw states' fuorilegge'. Ma, in virtù dell'universalità dei diritti umani, è comunque tenuto a rispettarli. Ne consegue, secondo Rawls, che i popoli liberali ed i popoli decenti sono tenuti a non tollerare gli Stati fuorilegge e la guerra contro gli Stati fuorilegge allo scopo di tutelare i diritti umani è pertanto una guerra giusta. Questo può valere anche nel caso in cui gli Stati fuorilegge non siano particolarmente aggressivi o pericolosi: "If the offences against human rights are egregious and the society does not respond to the imposition of sanctions, such intervention in the defense of human rights would be acceptable and would be called for" (Rawls 1999, p. 94 n). Per Rawls, dunque, la teoria del diritto dei popoli nei confronti degli 'outlaw states' si identifica con la teoria della guerra giusta. In popoli liberali hanno un dovere in questo senso. Per quanto si richiami al principio dell'autodifesa - quell'autentico principio di ius contra bellum che è affermato nella Carta delle Nazioni Unite - Rawls fa qui una più o meno consapevole apertura di credito alla teoria della guerra preventiva. Ed è significativo che Rawls non citi neppure lo strumento della giurisdizione internazionale, in special modo penale.

Si potrebbe sostenere che nihil sub sole novi. Il primo autore a teorizzare esplicitamente il carattere universale dei diritti soggettivi, goduti da tutti gli uomini per jus gentium, il quale si identifica con il diritto di natura o ne deriva, Francisco de Vitoria, ha immediatamente connesso questa teorizzazione alla legittimità della guerra per imporre il rispetto di questi diritti. Nella Relectio de Indis si legge che laddove si impedisca il godimento di diritti quali --- la guerra per imporli è guerra giusta (e dunque la conquista spagnola delle Indie è legittima). Ed altrettanto giusta la guerra per tutelare i diritti umani degli Indios, violati attraverso pratiche quali l'antropofagia ed i sacrifici umani, anche se una tale guerra dovesse comportare vittime innocenti.

4. Secondo Habermas i vari cataloghi storici dei diritti, elaborati nel contesto della cultura giuridica europea moderna, costituiscono differenti interpretazioni "d'uno stesso sistema dei diritti" (Habermas 1992, p. 155). Accanto ad un percorso storico-sociologico di ricostruzione del processo di definizione e affermazione di un catalogo di diritti fondamentali, Habermas propone argomentazioni di tipo funzionalistico: i diritti fondamentali sono la condizione necessaria perché si costituisca il codice diritto, che richiede la garanzia dell'autonomia privata e pubblica. Inoltre, sostiene Habermas, "le grandi religioni con pretesa universalistica convergono in un nucleo di intuizioni morali" (Habermas 1991b, p.19). E d'altra parte i diritti fondamentali rappresentano l'implementazione, attraverso un a 'genesi 'logica' dei diritti, del 'principio D', il principio normativo generale della Diskurstheorie, dunque rimandano a quelle che Habermas definisce 'strutture quasi-trascendentali' comuni a tutti i parlanti umani in quanto intraprendano una prassi comunicativa. Credo che si possa sostenere che la teoria habermasiana del discorso, nonostante la sua pretesa universalistica, sembra in realtà rimandare ad un contesto sociale, culturale e politico-giuridico definito. La ricostruzione storico-sociologica fa riferimento esclusivamente alla genealogia della modernità occidentale. Significativamente, Habermas sostiene che diritti umani, Stato di diritto e democrazia hanno un'origine comune. Ma anche le considerazioni funzionalistiche sui diritti come presupposto necessario del codice diritto in realtà presuppongono il riferimento non ad ogni possibile forma di ordinamento giuridico, ma al diritto positivo occidentale moderno. La considerazione della 'genesi logica' dei diritti richiederebbe un'analisi più articolata, che porterebbe a mettere in questione gli stessi assunti-chiave della teoria del discorso. Qui può essere sufficiente una considerazione: in tutti i casi in cui Habermas argomenta sul cattere universale dei presupposti dell'agire comunicativo, aggiunge sempre una clausola del tipo 'per tutti coloro che vogliano intendersi'. Questo significa presupporre la disponibilità del partecipante all'interazione a mettere la propria verità a disposizione dell'interlocutore. Un atteggiamento difficilmente universalizzabile nella stessa cultura erede dell'Illuminismo.

5. Per Höffe il diritto penale "rappresenta un elemento irrinunciabile dell'organizzazione di una società che intenda se stessa come vincolata all'ideale dei diritti umani [...] nella funzione concreta di scudo protettivo dei diritti umani ed espressione del legame della società con le vittime della loro violazione [...] in questa funzione esso avanza a buona ragione la pretesa di possedere una validità interculturale" (ivi, pp. VIII-IX).

6. Questo tipo di legittimazione, dunque, non si richiama a particolarità culturali ma d'altra parte non concede al diritto penale una sorta di delega in bianco, tale da trasformarlo in "uno strumento di controllo generale del comportamento": "dove non sono in gioco quei beni giuridici elementari che posseggono dignità di diritti umani non è lecito che intervenga l'ultima ratio dell'uso della coercizione da parte dello Stato, ovvero il diritto penale" (ivi, p. 95).

7. Höffe sottolinea che la pena in sé è una re-azione, punitur quia peccatum est. "Finché il diritto penale fa riferimento ad azioni intenzionali, che avvengono a seguito della violazione di una regola e soprattutto a causa di tale violazione, esso può essere sì riformato in più sensi, ma non può mai perdere il suo carattere di ritorsione. Poiché anche le alternative, l'effetto intimidatorio tramite la minaccia della pena e il reinserimento, consistono in reazioni post et propter a violazioni delle regole, anch'esse riconoscono - eventualmente à contre cœur - l'idea della ritorsione" (ivi, p. 88). E' lo stesso principio della ritorsione a indicare la misura della pena, ma non nel senso letterale della legge del taglione: "chi si rende colpevole di un'elementare violazione del diritto merita di essere punito, e lo merita nella misura della gravità oggettiva del torto, del crimine, e della responsabilità penale (soggettiva) ovvero della colpa" (ivi, p. 90).

8. Particolarmente istruttiva a questo proposito è la storia del movimento americano per i diritti civili. Gli afro-americani costituivano all'inizio della vicenda una parte marginalizzata della società che stava trasformando la sua autopercezione. Con lo sviluppo del loro movimento -- che peraltro ha conosciuto conflitti interni alla loro stessa comunità -- gli afro-americani si sono contrapposti alla 'partial citizenship' di cui erano titolari, ma hanno anche rivendicato e fatto valere questa 'cittadinanza parziale'. Il potere giudiziario, in questo processo "drew on interpretive possibilities that the challengers' own activity was helping to create" (ivi, p. 1530).