2005 L'antropologia dei diritti umaniLeonardo Marchettoni 1. I diritti umani: consensus omnium gentium?Ci sono buone ragioni per sostenere che il novecento, fra le altre cose, è stato anche, per riprendere il fortunato titolo di una raccolta di saggi di Norberto Bobbio, l'età dei diritti. Nonostante il succedersi di due conflitti mondiali, l'atrocità dei campi di sterminio e della persecuzione razziale, il riaccendersi, sul finire del secolo degli odi etnici, il novecento è anche il secolo in cui il processo di positivizzazione, generalizzazione e soprattutto internazionalizzazione dei diritti umani ha subito una progressiva accelerazione. Se poi l'ampliarsi e l'intensificarsi del dibattito sui diritti dell'uomo possa essere interpretato, come sostiene Bobbio (1), come un signum prognosticum in senso kantiano del progresso morale dell'umanità, questo è un interrogativo al quale sarei meno incline a rispondere affermativamente. In ogni caso, indipendentemente dall'interpretazione che se ne vuol dare, è un fatto che il linguaggio dei diritti umani ha conosciuto nel ventesimo secolo una diffusione e un'espansione costanti. E soprattutto la validità di questo linguaggio è stata sanzionata attraverso documenti ufficiali: i diritti umani sono stati accolti nella Dichiarazione Universale del 1948, ratificata da quasi tutti gli stati, sono state approvate convenzioni per la tutela dei diritti che vincolano gli stati aderenti, i diritti fondamentali sono stati incorporati nelle costituzioni democratiche contemporanee. Può forse apparire paradossale che questo processo di estensione e positivizzazione dei diritti si svolga in un'epoca in cui si va spegnendo l'illusione di rinvenire un fondamento assoluto dei diritti dell'uomo. Questa situazione è stata riconosciuta lucidamente da Bobbio il quale ha indicato nella vaghezza semantica dei diritti, nella variabilità storica dei loro contenuti e nella loro eterogeneità strutturale gli ostacoli che si oppongono a un tentativo di fondazione (2). D'altra parte, continua Bobbio, con l'adesione della maggior parte dei governi alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo il problema dei fondamenti ha perso gran parte del suo interesse. Anzi, si può dire che la Dichiarazione "rappresenta la manifestazione dell'unica prova con cui un sistema di valori può essere considerato umanamente fondato e quindi riconosciuto: e questa prova è il consenso unanime circa la sua validità" (3). Tuttavia la consistenza di questo consensus omnium gentium non può essere data per scontata. Anche a prescindere dal fatto che la composizione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1948 escludeva i paesi sconfitti della seconda guerra mondiale mentre quasi l'intera Africa e gran parte dell'Asia erano rappresentate dalle potenze coloniali, fatto che si potrebbe ritenere superato dalla successiva adesione dei nuovi Stati post-coloniali, non mancano ragioni per dubitare. La questione centrale concerne il peso che le differenze culturali giocano nel processo di espansione dei diritti. Dal momento che l'evoluzione del linguaggio dei diritti dell'uomo è avvenuta in Occidente, la concezione della persona umana che soggiace alla formulazione dei diritti non può che rispecchiare le assunzioni filosofico-politiche dell'individualismo occidentale. Per questo motivo la compatibilità dei valori civili, politici e sociali che fanno da premessa alla dottrina dei diritti dell'uomo con i contesti culturali extra-europei non può essere presupposta acriticamente. Da questo punto di vista è significativa la polemica esplosa nel corso della seconda conferenza delle Nazioni Unite sui diritti dell'uomo, che si tenne a Vienna nel giugno del 1993. In quella sede ufficiale i delegati di buona parte dei paesi dell'America latina e dei paesi asiatici si opposero alla tesi sostenuta dai paesi europei e nordamericani dell'universalità e indivisibilità dei diritti fondamentali rivendicando la connotazione marcatamente occidentale delle dichiarazioni dei diritti e l'esistenza di una classe di valori specificamente asiatici (disciplina, ordine, coesione sociale), inconciliabili con l'individualismo universalistico e prevalenti sui valori occidentali (4). A partire dalla conferenza di Vienna il tema degli Asian values si è guadagnato spazio crescente nel dibattito internazionale sui diritti umani. E i contorni dell'opposizione asiatica al sistema di valori dell'Occidente sono diventati più precisi anche in seguito alle dichiarazioni di uomini politici come Lee Kuan Yew, il famoso leader-filosofo di Singapore, e Mahathir Bin Moahammad, primo ministro malese. Al di là della complessa stratificazione di motivi politici, economici e ideologici mi sembra che la polemica sugli Asian values sia sintomatica di una difficoltà radicale per la teoria dei diritti. La formulazione dei diritti umani implica l'universalità poiché i diritti sono attribuiti a un soggetto in base al suo status di essere umano. I diritti non possono non essere universali perché altrimenti perderebbero la loro connotazione di diritti dell'uomo. E questo non contrasta con il particolarismo delle loro origini storiche poiché l'universalità è una proprietà logica che non deve essere confusa con asserzioni fattuali intorno alla genesi storica e politica dei singoli diritti (5). Tuttavia, la formulazione universalistica dei diritti dell'uomo non può cancellare il fatto che, in ogni caso, la teoria dei diritti e lo stesso linguaggio necessario ad esprimerla sono prodotti di una specifica tradizione culturale, quella occidentale. Si pone quindi il problema di valutare in che misura il concetto di diritti umani e le complesse assunzioni filosofico-politiche intorno alla natura della persona che ad esso sono sottese siano comprensibili da parte di individui appartenenti a tradizioni culturali diverse. Questo è il tema che mi propongo di sviluppare. Così come è stata formulata, la questione sembrerebbe di natura fattuale e non normativa. L'interrogativo infatti non concerne la necessità etica e politica di una tutela a livello mondiale dei diritti fondamentali, coinvolgendo piuttosto il problema epistemologico del relativismo culturale e della comunicazione fra culture. Tuttavia, questa impostazione è senz'altro troppo semplificata. Domandarsi se certe assunzioni intorno alla persona umana siano comprensibili all'interno di tradizioni culturali diverse significa anche interrogarsi sulla possibilità che certi valori occidentali vengano riconosciuti come valori anche fuori dall'Occidente. Non è in gioco solo un problema di traduzione di un concetto giuridico da una lingua a un'altra; si tratta soprattutto di stabilire che posto occupano i diritti dell'uomo nei sistemi culturali asiatici o africani. Ma se si adotta questo punto di vista diventa importante, a mio giudizio, individuare quali contributi l'antropologia culturale può apportare alla riflessione sull'universalità dei diritti. Nelle pagine che seguono cercherò in primo luogo di formulare in maniera più accurata i termini della questione ripercorrendo criticamente il dibattito sugli Asian values e discutendo gli argomenti a favore dell'universalismo e dell'etnocentrismo. In seguito, proverò a tracciare un percorso attraverso la storia recente dell'antropologia culturale. La speranza è che questo diverso punto di osservazione possa arricchire con prospettive inedite la discussione sui diritti. 2. Valori asiatici vs. universalismo occidentaleSecondo Lee Kuan Yew "i popoli dell'Asia hanno pochi dubbi che una società con valori comunitari, in cui gli interessi della società vengono prima di quelli degli individui, è preferibile all'individualismo americano" (6). Analizzando i discorsi di Lee è possibile ricostruire due argomenti principali sugli Asian values. In primo luogo, si dice, in Asia i valori della tradizione confuciana, come la disciplina, l'ordine e la coesione sociale sono considerati prioritari rispetto alla libertà politica. Per questo motivo alle società asiatiche si addicono regimi moderatamente autoritari o forme molto limitate di democrazia. I vantaggi di questi assetti politici consistono sia nella superiore capacità di difendere i valori tradizionali, sia, e qui tocchiamo il secondo punto, nella migliore attitudine a promuovere il successo economico. La forte crescita nell'economia dei paesi dell'estremo Oriente infatti viene spiegata in base alla superiorità della cultura asiatica, confrontando le virtù della tradizione confuciana, artefice del successo - ordine, disciplina, responsabilità familiare, spirito di gruppo - all'individualismo indolente e lassista responsabile del declino occidentale. Dietro alla ostentata sicurezza di queste proclamazioni ci sono senza dubbio, come riconoscono Joanne Bauer e Daniel Bell (7), motivazioni di ordine politico e sociale. L'atteggiamento dei governi dell'estremo Oriente verso i diritti umani può essere letta come una forma di reazione alle pressioni occidentali per l'applicazione delle norme internazionali sui diritti e contemporaneamente come una legittimazione del modello politico esistente. Attraverso l'enfasi sulla comune matrice confuciana delle culture asiatiche si cerca di costruire un'identità post-coloniale da contrapporre alla colonizzazione culturale, politica ed economica americana. Tuttavia, anche ammettendone la natura di rivendicazione di autonomia politica, l'affermazione secondo la quale gli asiatici attribuiscono una priorità a valori contrastanti con quelli della tradizione occidentale non può per ciò stesso essere ritenuta priva di fondamento. E che questa difficoltà sia stata presa sul serio è testimoniato in maniera eloquente dal crescente numero di interventi critici prodotti sia da autori occidentali che orientali (8). Il problema dell'esistenza di valori asiatici può essere criticato da diversi punti di vista. Un primo approccio può essere quello di ricercare direttamente nel corpus delle tradizioni religiose orientali appigli per dimostrare la compresenza, accanto ai valori enfatizzati dai teorici degli Asian values, anche di principi compatibili con la tutela dei diritti (9). È la strada percorsa ad esempio da Amartya Sen, il quale sostiene che è possibile rintracciare nella tradizione buddista consapevoli teorizzazioni dell'importanza della tolleranza e della libertà individuale (10). Nella cultura indiana e cinese sono presenti gli stessi elementi costitutivi dell'idea di libertà individuale che ricorrono nella tradizione europea, elementi che solo l'autoritarismo dei regimi contemporanei cerca di mettere in ombra. Sen conclude affermando l'universalità 'di fatto' dei diritti: "le nostre idee sui diritti politici e civili hanno assunto la loro forma attuale in tempi relativamente recenti ed è difficile considerarle un impegno 'tradizionale' delle culture occidentali" (11). Argomentazioni simili a quelle svolte da Sen in riferimento alla tradizione buddista vengono avanzate da Norani Othman in relazione alla religione islamica. Secondo Othman la nozione coranica di fitnah che definisce la comune ontologia umana può essere invocata per sostenere la non estraneità alla cultura dell'Islam del principio di eguaglianza della tradizione occidentale. Othman, non diversamente da Sen, accentua le motivazioni politiche che stanno dietro all'interpretazione corrente dei precetti religiosi: le discriminazioni sessuali praticate nelle moderne nazioni islamiche del Sud-Est asiatico sono dovute al prevalere della fazione dei musulmani più conservatori, che si ispira all'ortodossia dettata dai paesi islamici del medio Oriente (12). Mi sembra che questo tipo di argomenti non provi molto: anche senza sollevare dubbi sulla correttezza dell'operazione esegetica condotta resta il fatto che il punto in questione non riguarda quali contenuti possano essere letti nei testi delle tradizioni religiose asiatiche. Ciò che conta sono i valori che vengono sentiti come operanti in un certo momento storico, le relazioni e le gerarchie che sono istituite fra questi valori e il modo in cui i valori stessi orientano l'azione sociale. Anche se si accetta l'idea dell'esistenza di tradizioni individualistiche e 'liberali' all'interno delle culture cinesi e indiane la presenza di queste tradizioni non costituisce un motivo sufficiente per ritenere che gli asiatici condividano lo stesso patrimonio di valori degli occidentali. Questa difficoltà è riconosciuta da autori come William de Bary e Joseph Chan nel caso della civiltà confuciana in Cina (13). Secondo de Bary ricercare negli Analetti di Confucio, nelle sutre buddiste oppure nelle massime dell'antico legislatore indiano Asoka agganci per dimostrare la presenza di valori prossimi a quelli espressi nei diritti umani è un'operazione che non centra il bersaglio. Queste formulazioni infatti "possono illustrare ideali o valori tradizionali ma non possono, in se stesse, essere prese come testimonianza della realtà storica della Cina più recente o delle vicende del ventesimo secolo in cui il dibattito contemporaneo sui diritti umani si inserisce" (14). Per de Bary la diffusa convinzione secondo la quale il concetto di un radicale individualismo è estraneo al confucianesimo non è completamente da respingere, purché si riconosca che la contrapposizione vale soprattutto per l'età contemporanea e molto meno se si fa riferimento all'Occidente premoderno, ancora pervaso da un forte spirito comunitario. D'altra parte sarebbe sbagliato sostenere che nel confucianesimo il valore dell'individuo risiede unicamente nel suo porsi in relazione con la comunità e nella sua capacità di assolvere il ruolo sociale che gli è imposto. Dalla lettura delle pagine di Confucio infatti è possibile ricostruire una dottrina della dignità della persona umana che de Bary chiama personalismo confuciano e che presenta tratti distinti rispetto all'individualismo occidentale (15). Al tempo stesso, ci sono altri aspetti della dottrina confuciana - l'atteggiamento di sfavore verso la legge rispetto alla coazione morale del rito, le limitazioni imposte alle donne dal rituale - che sono incompatibili con l'effettiva applicazione delle norme sulla tutela dei diritti. Per questo motivo l'esperienza storica del confucianesimo non può essere contrapposta in maniera netta alla tradizione occidentale dei diritti umani: semplicemente "alcuni dei diritti enumerati nella Dichiarazione Universale sono conciliabili con essa, altri no" (16). A conclusioni analoghe giunge anche Joseph Chan (17). Il punto centrale del suo discorso è che, per quanto molti elementi chiave del confucianesimo siano compatibili con l'idea di diritti dell'uomo, la comprensione confuciana del significato delle libertà civili differisce da quella dominante nel liberalismo occidentale. In alcuni casi gli asiatici tendono a restringere la portata dei diritti. Ad esempio, gli asiatici difendono la libertà di espressione per motivi strumentali piuttosto che per ragioni intrinseche: il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero è un mezzo con cui la società corregge gli atteggiamenti eticamente discutibili, etichetta i devianti, richiama i governanti alle loro responsabilità. Tutto ciò significa, sostiene Chan, che da una prospettiva confuciana è difficile riconoscere che i soggetti sono liberi di esprimere la propria opinione indipendentemente dalla natura sociale degli interessi che vengono promossi. E d'altra parte in altre aree la dottrina confuciana si serve dello strumento dei diritti in maniera completamente opposta, ampliandone i contenuti, come nel caso dei diritti che vengono riconosciuti agli anziani. Le riflessioni di de Bary e di Chan ci avvicinano, a mio giudizio, a una raffigurazione più realistica dei termini del problema. Le culture non sono statiche e monolitiche, non sono blocchi separati gli uni dagli altri (18) e non è possibile continuare a interpretarne le tradizioni 'dall'esterno', senza cercare una posizione simpatetica. Soprattutto si deve ricordare che il linguaggio dei diritti è entrato ormai stabilmente nel lessico dei popoli asiatici e che i diritti sono riconosciuti nei documenti costituzionali dei paesi dell'estremo Oriente. Anche le differenze che si riscontrano nell'applicazione e nel contenuto dei diritti e che vanno messe in relazione con gli aspetti specifici della cultura locale, non possono essere etichettate aprioristicamente come deviazioni da uno standard fissato in maniera definitiva. Solo se accettiamo l'idea che le culture extraeuropee si servano dello strumento del diritto appropriandosene in maniera creativa il diritto può continuare a operare come un potente vettore di dialogo interculturale (19). In questo senso può tornare utile la nozione di "equivalente omeomorfo" introdotta da Raimundo Panikkar nel suo ben noto saggio sull'universalità dei diritti umani pubblicato nel 1982 (20). L'argomentazione di Panikkar partiva dal riconoscimento delle origini occidentali del linguaggio dei diritti, inseparabili dai postulati di una natura umana universale, razionalmente comprensibile e marcatamente distinta dagli altri domini della realtà. Queste premesse antropologiche non possono essere tenute ferme se si adotta la prospettiva della tradizionale visione indiana, caratterizzata dalla nozione di dharma, che radica l'individuo nel tessuto di relazioni in cui sono inseriti tutti gli enti del cosmo. L'universalizzazione del concetto di diritti umani, comportando l'universalizzazione della cultura che lo ha espresso, rischia in sostanza di tradursi in un'imposizione su scala mondiale. L'unica alternativa praticabile consiste, secondo Panikkar, in un'ermeneutica dialogica che si impegni in un confronto tra il linguaggio dei diritti e i suoi equivalenti omeomorfi in altre culture. La legittimità e la coerenza di ciascun apparato normativo non può essere valutata prescindendo dal contesto culturale e sociale in cui è immerso; perciò, concludeva l'autore indiano, "la fertilizzazione incrociata delle culture è un imperativo umano della nostra epoca" (21). Le tesi di Panikkar sull'urgenza del potenziamento del confronto interculturale sono state riprese in parte da Charles Taylor in un suo recente intervento sul tema (22). Taylor condivide l'opinione di Panikkar che la tradizione occidentale dei diritti riposa su assunzioni intorno alla natura umana che difficilmente possono essere accettate da tutte le società. Per questo motivo la possibilità di un "genuine, unforced international consensus on human rights" deve passare attraverso una triplice distinzione tra norme, assetti legali e giustificazioni filosofiche sottostanti. Tentare di esportare oltre alle norme anche le premesse filosofico-politiche sulla libertà individuale può essere controproducente in quanto impedisce la mutua comprensione dei differenti universi morali. L'intento di Taylor è quello di mostrare che è possibile e necessario arrivare a una sorta di rawlsiano consenso per intersezione, vale a dire un consenso generale sulle norme ottenuto seguendo percorsi diversificati nelle strategie di giustificazione. Ad esempio, nel caso del buddismo Theravada la norma che ingiunge il rispetto della persona non si fonda su una dottrina della dignità dell'essere umano ma segue dall'affermazione del valore fondamentale della non violenza, l'ahimsa (23). Inoltre, Taylor suggerisce che la protezione dei diritti può avvenire anche in forme diverse da quella legale. Mentre il concetto di legge ha una lunga tradizione nelle società occidentali e gli organi preposti alla sua applicazione hanno spesso giocato un ruolo cruciale nella tutela dei diritti, nella storia più recente della Tailandia i diritti umani sono stati garantiti da un sovrano che ha attinto all'immenso prestigio morale della sua dinastia per interrompere la dittatura militare e ripristinare la legge costituzionale (24). In una prospettiva più generale, Taylor pensa che il processo di universalizzazione dei diritti possa essere suddiviso in due fasi: nella prima si raggiunge un accordo sulle norme ma persiste "un profondo senso di differenza, un senso di estraneità, negli ideali, nelle nozioni di eccellenza umana, nelle figure retoriche e nei punti di riferimento concreti per mezzo dei quali queste norme diventano oggetto di un serio impegno per noi" (25). In questa fase l'accordo non è completo per il fatto che sussistono divergenze nell'applicazione e nell'ordinamento tra i vari diritti. Per questo motivo il consenso stesso deve venire continuamente rinegoziato ed è esposto al pericolo di spezzarsi. In un momento successivo, tuttavia, può intervenire una seconda fase, meramente eventuale, in cui inizia a verificarsi "un processo di apprendimento reciproco, in direzione di una 'fusione di orizzonti', per usare le parole di Gadamer, e in cui l'universo morale degli altri diventa meno estraneo" (26). Per Taylor il maggiore ostacolo che si frappone al perfezionamento dell'intesa reciproca è rappresentato dall'incapacità di europei e americani di guardare la propria cultura come "una fra le altre". Nella mentalità occidentale la dottrina dei diritti umani sorge in seguito all'eclissi di altre idee e valori precedenti. Gli occidentali ritengono che questo stesso cammino debba essere ripercorso anche dai popoli extraeuropei, abbandonando il loro sistema di valori tradizionale per abbracciare i principi universali della modernità. Ma questo modo di pensare deve essere abbandonato lasciando il posto a un atteggiamento più obbiettivo verso la storia, che non la riduca a un percorso lineare verso il progresso ma sappia ricostruirne le tortuosità e gli sbandamenti. Solo se sapremo accogliere questa lezione saremo preparati a comprendere in maniera simpatetica i sentieri spirituali degli altri in direzione di una meta convergente. Contrariamente all'opinione comune l'obbiettivo di un accordo mondiale non verrà raggiunto attraverso una perdita o una negazione delle tradizioni ma al contrario attraverso una creativa immersione da parte dei differenti gruppi nel proprio patrimonio spirituale, in modo da raggiungere, seguendo strade diverse, lo stesso traguardo. (27) Nonostante le concessioni a una retorica talvolta fastidiosa le tesi di Charles Taylor contengono sicuramente interessanti spunti di riflessione. La prima conclusione generale che possiamo trarne è che il problema dell'universalizzazione dei diritti è in sostanza il problema della comunicazione interculturale, vale a dire il problema delle modalità e dei limiti entro i quali è possibile arrivare a una comprensione di concetti estranei al nostro sistema culturale e al riconoscimento di valori diversi dai nostri. Il diritto è già diventato un veicolo di scambio, non diversamente dall'economia, dalla politica, dai beni di consumo, nel dialogo tra Oriente e Occidente e come tale è soggetto a un processo di appropriazione creativa che ne adatta i contenuti ai contesti locali, pur conservandone certe prerogative funzionali. E tuttavia nel caso del diritto questo fenomeno di 'creolizzazione' può incontrare resistenze più forti che nel caso di altri oggetti. Questo per il semplice fatto che il diritto è intrinsecamente connesso a una sfera di valori Questi valori possono variare nella consistenza o nell'ordinamento quando il diritto viene 'appropriato' da parte di culture non occidentali. Ma questa modificazione non è indolore dal momento che, come si riconosce generalmente a partire da Hare, i valori morali sono tendenzialmente espansivi nel senso che aspirano a una formulazione universale e 'soverchiante' (28). Nel caso del diritto ci sono buoni motivi per dubitare che il riconoscimento della relatività storica e geografica dei valori occidentali invocato da Taylor possa rapidamente condurre all'auspicata comprensione simpatetica dei "sentieri spirituali degli altri". Nonostante la convinzione ormai sempre più diffusa della loro infondabilità i diritti conservano intatta una forza speciale che deriva dal fatto che sono attribuiti sulla base dello status di essere umano. Nelle parole di Jack Donnelly, che dice di sostenere una forma di 'relativismo culturale debole', affermare l'esistenza dei diritti dell'uomo è affermare che tutti gli esseri umani per il semplice fatto di essere uomini, hanno diritti. Questi diritti sono universali dal momento che appartengono a tutti gli uomini. Sono uguali: si è esseri umani o non lo si è e così si hanno o non si hanno gli stessi diritti umani, egualmente. E inoltre sono inalienabili: non è possibile perdere questi diritti dal momento che non è possibile cessare di essere un essere umano, indipendentemente da ogni trattamento. (29) Non è facile sfuggire alla tentazione di assolutizzare la propria cultura e i valori che essa difende. E questo proprio in conseguenza della portata espansiva e universalizzante di quei valori. Qui sta la difficoltà nel vedere la propria cultura come 'una fra le altre'. 3. Percorsi nella storia recente dell'antropologia culturaleSecondo Mondher Kilani l'antropologia, "è storia nella misura in cui si costituita in Occidente, a partire dalla fine del quindicesimo secolo, come discorso che parla degli altri. È dunque una modalità particolare e moderna della relazione storica che l'Occidente, da allora in poi intrattiene con gli altri" (30). L'antropologia dunque, in quanto sapere della differenza, assume istituzionalmente come suo oggetto il 'confronto con l'Altro' (31). La necessità di una disciplina che concettualizzi l'alterità presuppone un meccanismo di generazione delle differenze e delle somiglianze. Questo meccanismo è dato dalla cultura nella misura in cui la cultura è il luogo in cui gli individui vanno incontro a un doppio processo: di 'culturalizzazione' e di 'umanizzazione'. Il riconoscimento di appartenenza a una cultura comporta anche la formazione di un'idea specifica di che cosa sia l'uomo, di una certa concezione dell'umanità e di conseguenza anche di ciò che differisce dall'umano e viene identificato come 'l'Altro' (32). In questo senso la cultura si costruisce come fuoco in cui convergono due opposti vettori che convogliano rispettivamente forze inclusive ed esclusive. Se l'etnocentrismo è un tratto comune a tutte le società umane la questione del rapporto tra il discorso e contesto culturale di appartenenza è cruciale anche per la possibilità del sapere antropologico. Il paradosso dell'antropologia infatti è quello di una disciplina che parla degli altri e del nostro modo di rapportarci con essi ma nel fare ciò non può consumare la differenza originaria che fonda la stessa possibilità e significanza del discorso. La dicotomia tra noi e loro si riproduce continuamente nelle ambivalenze del discorso antropologico, nelle ripetute oscillazioni tra la tentazione a identificarsi con l'occhio di Dio o con uno 'sguardo da nessun luogo' e le ricadute di consapevolezza che restituiscono al qui e ora e alla prospettiva di un dialogo interculturale 'dal basso'. E il contenuto stesso dell'antropologia è esposto alla mutazione, alla riduzione prospettica, caratterizzandosi, a seconda delle premesse epistemologiche prescelte, come conoscenza generale sull'uomo oppure come studio di ciò che in specifici contesti sociali e culturali significa essere umano. Se si prende sul serio la definizione dell'antropologia come sapere della differenza, lasciando agire la duplice valenza, soggettiva e oggettiva, del genitivo, è possibile decidere di seguire l'andamento di queste oscillazioni e cercare così di descrivere un percorso nella storia recente dell'antropologia culturale che passi attraverso l'individuazione di alcuni modelli epistemologici dell'interazione con l'altro. In questo senso la prima opzione di cui occorre rendere conto, che corrisponde al punto più basso dell'oscillazione, è quella del relativismo culturale. Il relativismo culturale nasce negli Stati Uniti, in opposizione alle pretese legiferanti e generalizzanti dell'evoluzionismo positivista, ed è legato alla figura di un allievo di Franz Boas, Melville Jean Herskovits. Secondo Herskovits i molteplici aspetti della cultura - produzione e distribuzione di beni, organizzazione sociale e politica, valori religione, tecniche, arti - sono presenti in ogni gruppo umano ma assumono presso ogni popolo caratteri specifici: ogni società è unica e la sua specificità è anche il presupposto che premette di affermare che le valutazioni sono possibili solo sulla base dei valori e principi interni all'oggetto da valutare (33). L'approccio relativista contiene dunque una critica del razionalismo e di tutte le teorie che includono una concezione universalista della natura umana, in favore di un privilegiamento della dimensione culturale, come depositaria di significato e di valore. È evidente che il relativismo culturale, se assunto coerentemente, è autocontraddittorio in quanto, nel momento stesso in cui afferma la contestualità di ogni discorso all'orizzonte culturale di appartenenza genera un meta-discorso che si pretende assolutamente valido (34). Nelle parole di Clifford Geertz "se le forme verbali, lo schema degli accampamenti o il rituale per avvelenare i polli producono in qualche maniera modi specifici di funzionamento mentale, diventa assai oscura capire come individui racchiusi in una cultura siano in grado di penetrare nel pensiero di individui chiusi in un'altra" (35). In questo modo inoltre il relativismo finisce con il coincidere con il suo opposto, vale a dire con una posizione epistemologica che pretende di cogliere elementi invariabili e universali della natura umana. Questa posizione nell'ambito dell'antropologia novecentesca è esemplificata essenzialmente dallo strutturalismo di Lévi-Strauss e dei suoi epigoni. Lévi-Strauss, recependo la lezione dello strutturalismo linguistico, ipotizza l'esistenza di strutture trascendentali, non coincidenti cioè con astrazioni di costanti e varianti nei sistemi empirici, ma condizioni del riconoscimento di tali varianti e ricorrenze. In altri termini, le strutture sono il frutto di una capacità innata, chiamata ora 'inconscio' ora 'spirito umano' ora 'pensiero simbolico', comune a tutti gli uomini di ogni epoca e regione del mondo, che consente loro di comunicare mediante segni convenzionali. La struttura, dunque, non è una realtà concreta da osservare in maniera diretta ma consiste piuttosto con un complesso di trasformazioni in cui ogni sistema locale è logicamente inserito, venendo così a coprire tutte le possibilità logiche di trasformazione di ogni sistema (36). Secondo Lévi-Strauss se si vogliono studiare scientificamente le culture umane si devono ricercare le loro strutture inconsce comuni. Questa assunzione comporta una rinuncia all'indagine della successione diacronica degli eventi per privilegiare una riflessione, l'analisi strutturale, che si concentri sui sistemi sincronici di relazioni soggiacenti alle culture diverse dalla propria (37). L'analisi strutturale procede attraverso le fasi della costruzione di modelli semplificati dei fatti osservati e della elaborazione di regole di trasformazione che governano la transizione tra i diversi modelli, in modo da portare alla luce la struttura, cioè il sistema di relazioni tra gli elementi dei singoli modelli (38). Relativismo e strutturalismo nella loro irriducibile opposizione finiscono per condividere una pretesa di verità in relazione alla natura umana. Per il relativista questa verità consiste nel confinamento del significato e del valore entro l'orizzonte intrascendibile degli schemi concettuali di appartenenza, dei processi mentali e dei prodotti culturali che ad essi corrispondono, per lo strutturalista invece consiste nel riconoscimento della fondamentale unità del pensiero umano come processo, che si manifesta, se pure in modo criptico, nei suoi prodotti eterogenei. Entrambi gli atteggiamenti sono insostenibili e non ci forniscono una cornice teorica affidabile per affrontare il problema della comunicazione interculturale. Se si accetta il relativismo si è portati a concludere che non c'è alcuna alternativa alla pluralità dei valori e la stessa possibilità di una comunicazione costruttiva fra culture diverse tende a svanire. Invece dal punto di vista dello strutturalista, essendo possibile rintracciare anche nelle differenze le tracce di una matrice unitaria, la stessa molteplicità culturale si riduce ad un'apparenza, al di sotto della quale si intravede la autorappresentazione della ragione occidentale. La mia impressione è che ciò di cui abbiamo bisogno sia un approccio antropologico che sia più vicino alla comunicazione individuale e che soprattutto apra uno spazio per il confronto su significati e valori. Un candidato interessante può essere forse trovato nell'antropologia interpretativa di Clifford Geertz. Al centro del lavoro di Geertz si situano disparati influssi e suggestioni da molteplici campi disciplinari: la semiotica, la sociologia (soprattutto Goffman), la filosofia (Gadamer e Wittgenstein), la critica letteraria. Geertz riprende l'impostazione individualizzante e particolaristica di Boas e la inserisce in una più ampia concezione della pratica etnologica come interpretazione di testi. L'opzione di metodo a favore del particolarismo si fonda sulla convinzione che le generalità non hanno molto da insegnarci; occorre piuttosto concentrarci sulle differenze e sulla intrinseca variabilità dell'uomo. Il soggetto infatti non è un ente "neutro" ma è costantemente collocato in una dimensione storica, inserito in una forma di vita, una cultura e un sapere: non esiste una cosa come una natura umana indipendente dalla cultura. Gli uomini senza cultura sarebbero inguaribili mostruosità con pochissimi istinti utili, ancor meno sentimenti riconoscibili e nessun intelletto: casi mentali disperati. (39) Geertz, seguendo Goffman, assume il carattere pubblico del pensiero e dei fenomeni culturali. Ne deriva una concezione contestuale e plurale del soggetto in cui acquista una portata centrale la nozione di significato e in cui la pratica antropologica non è vista consistere in una raccolta di fatti che si presteranno a successive sistemazioni e generalizzazioni ma in una scienza interpretativa che ha nei testi etnografici il proprio oggetto. L'antropologo deve confrontarsi direttamente con gli eventi e le occasioni sociali concrete, cercando di leggere le esperienze degli altri dall'interno, alla scoperta dei significati che gli attori sociali conferiscono alle loro azioni. Aprirsi all'alterità non significa né un'obbiettiva neutralità né un oblio di se stessi. Il lavoro dell'etnografo consiste piuttosto nel trovare nel proprio linguaggio le risorse per capire i fenomeni senza imporre su di essi i propri pregiudizi. L'antropologo deve usare i significati appartenenti alla propria cultura per ricostruire i modi in cui i soggetti appartenenti a differenti culture danno significato a se stessi. Secondo Geertz l'antropologo e il nativo sono presi in una circolarità ermeneutica: le interpretazioni dell'uno e quelle dell'altro si richiamano e non possono essere comprese isolatamente. L'attività dell'etnografo allora è quella di prodursi in un paziente 'va e vieni' tra il polo delle interpretazioni che i nativi danno della loro vita e l'altro polo, quello delle interpretazioni che l'antropologo è in grado di produrre attorno a tali interpretazioni. Ma questa comprensione richiede una relazione dialettica fra le nostre precomprensioni e le forme di vita che stiamo cercando di capire, richiede, in sostanza, che l'etnologo sia in grado di "cogliere la loro 'visione' con il nostro vocabolario" (40). La centralità della circolarità ermeneutica emerge con chiarezza nel concetto di traduzione che Geertz definisce come interpretazione dell'alterità. Tradurre significa stare nella differenza, mettere a confronto il significato del traduttore con quello del tradotto. Più in generale tradurre significa apprendere un'altra forma di vita, imparare a parlare un'altra lingua. Il lavoro antropologico consiste dunque anche in un'opera di mediazione tra categorie e concetti culturali che interagiscono. In questa attività l'etnografo si serve sia di concetti 'vicini all'esperienza' - quelli che molto spesso gli attori utilizzano in maniera inconsapevole - che di concetti 'lontani dall'esperienza' - quelli impiegati dagli specialisti per costruire categorie generali (41). La compresenza di entrambe le categorie di concetti è essenziale secondo Geertz per individuare un punto intermedio tra l'esperienza dell'altro e la propria. Questo punto intermedio, che talvolta Geertz indica ricorrendo all'espressione gadameriana 'fusione degli orizzonti', rappresenta la comprensione del ruolo di entrambi i concetti e della loro interrelazione. Rappresenta soprattutto il luogo in cui è possibile produrre un resoconto aderente ai significati, una narrazione che non sia la descrizione delle premesse dei nativi "imprigionata nei loro orizzonti mentali, un'etnografia della stregoneria scritta da una strega, né sistematicamente sorda alle tonalità peculiari della loro vita, un'etnografia della stregoneria scritta da un geometra" (42). Il modello epistemologico che sottende il lavoro di Geertz può richiamare il realismo interno del secondo Putnam o il Wittgenstein delle Philosophische Untersuchungen. Non diversamente da Putnam o da Wittgenstein Geertz difende una forma debole di relativismo concettuale che non sfocia in una teorizzazione dell'incommensurabilità ma si limita a sostenere, in termini wittgensteiniani, la non-costrittività delle regole e la radicale incompletezza della grammatica. Per Geertz il pensiero "è una questione di scambi nelle forme simboliche disponibili nell'una o nell'altra comunità" (43), è confinato negli schemi forgiati dalla cultura di appartenenza e tuttavia viene rivendicata la possibilità di una traduzione dei concetti estranei, una capacità di interpretazione simile all'attività di cui ci parla Wittgenstein, che consiste nell'immaginare giochi linguistici e forme di vita diverse (44). Per questi motivi l'antropologia interpretativa geertziana può forse fornire un supporto alle tesi di Charles Taylor. Taylor, citando Gadamer, auspicava un processo di fusione di orizzonti che rendesse meno estranei gli universi culturali di occidentali e orientali e l'antropologia interpretativa sembra precisare il quadro concettuale delle modalità in cui la comunicazione tra culture può effettivamente verificarsi. Tuttavia, per un altro verso, il concetto di cultura di Geertz sembra eccessivamente statico per adattarsi al mondo contemporaneo, specialmente in rapporto alla percezione attuale dei fenomeni di globalizzazione e di ibridazione delle culture (45). Nel mondo contemporaneo il significato, come sostiene Ulf Hannerz, non può più essere considerato inerente alle pratiche di una singola cultura ma deve essere inseguito attraverso il flusso delle interconnessioni globali (46). Geertz, al contrario, sembra ancora concepire le culture come blocchi separati, blocchi tra i quali è possibile gettare ponti interpretativi ma che rimangono tuttavia fondamentalmente isolati gli uni dagli altri. Per Geertz, come per Wittgenstein, è possibile immaginare forme di vita diverse dalla nostra, applicazioni delle regole del linguaggio che divergono da quelle di cui abbiamo esperienza, ma ciò che non viene mai meno è lo sfondo comunitario su cui quelle forme di vita e quelle applicazioni si stagliano. In questo modo Geertz finisce con il restituire alla comunità culturale una posizione di priorità logica e assiologica. Come tutti i relativismi, anche il relativismo di Geertz ha bisogno di individuare un punto di volta che consenta di parlare ed eventualmente di confrontare i diversi schemi concettuali e questo punto di volta è identificato nel linguaggio, nell'attività ermeneutica dell'antropologo che, servendosi dei 'concetti vicini' e dei 'concetti lontani', arriva a occupare uno spazio intermedio tra l'esperienza dell'altro e la propria. Suggerisco che questa ipostatizzazione del linguaggio, che fatalmente coincide con il linguaggio della razionalità occidentale, rappresenta l'ultimo baluardo in cui si ripropone la divisione noi/loro. Come notano Ugo Fabietti e Francesco Remotti le tradizioni intellettuali non sono oggetto di analisi antropologiche: anche quando Geertz sostiene di voler assumere il punto di vista del nativo quello che effettivamente fa è ricorrere ai concetti teorici delle grandi tradizioni per illuminare i più umili e nascosti concetti indigeni (47). Forse la cultura non sta in un qualche altrove in attesa di essere scoperta: attende piuttosto di essere reinventata. E in questa operazione di creazione e invenzione l'antropologia "non ha da porsi in mezzo come un sapere neutro e mediatore già precostituito" (48). L'alternativa che propongo consiste in una radicalizzazione del concetto di traduzione di Geertz in direzione della teoria davidsoniana dell'interpretazione e del rifiuto del dualismo tra schema concettuale e contenuto. Come è noto Donald Davidson ha sostenuto una teoria semantica che finisce con il dissolvere il linguaggio in una intersezione di teorie interpretative provvisorie. Tra le altre cose questa teoria implica che le differenze fra noi e gli altri non sono blocchi fissi che derivano dall'esistenza di schemi diversi; sono piuttosto variazioni di contenuto che è possibile comprendere facendo uso del principio di carità, in relazione alle nostre credenze condivise. Per l'interprete di Davidson l'attività di traduzione comincia sempre a casa nostra e capire culture diverse non è diverso, nel genere, da capire l'uomo della porta accanto. Davidson scrive: pensare che ci sia una differenza di genere ci porta lontano dal cercare, molto più semplicemente, di mettercela tutta per accettare la visione del mondo di qualcun altro. Se infatti pensiamo che capire sia aver bisogno di qualche magico salto dell'immaginazione, non stiamo più facendo appello a noi stessi per scoprire il terreno comune sul quale possiamo dare un senso l'uno all'altro. (49) 4. ConclusioniNella prima parte di questo lavoro ho riformulato il problema dell'universalizzazione dei diritti umani come un problema di comunicazione interculturale: un problema cioè che coinvolge le modalità e i limiti nei quali è possibile approdare a una comprensione e a un riconoscimento di concetti e valori estranei al nostro sistema culturale. Nella seconda parte ho cercato di considerare il problema della comunicazione interculturale attraverso il contributo della riflessione antropologica più recente. Lo scopo era quello di individuare un modello epistemologico che potesse servire da cornice teorica per valutare la possibilità della comunicazione tra culture diverse e della traduzione di concetti da un ambito culturale a un altro. In questa direzione mi sono soffermato particolarmente sulla proposta di Clifford Geertz di un'antropologia interpretativa, centrata sulle nozioni di significato e traduzione. L'approccio di Geertz presenta senz'altro il vantaggio di privilegiare l'aspetto della comprensione dei significati a quello dell'elaborazione di generalizzazioni esplicative, e, in questo senso, può essere utile per stabilire le condizioni di un autentico dialogo interculturale. E tuttavia il limite dell'antropologia di Geertz mi sembra consistere nell'assunzione di un concetto eccessivamente statico di cultura, inadeguato rispetto alle condizioni attuali del mondo globalizzato, in cui i significati tendono a smarrirsi nei flussi di informazioni da un capo all'altro del pianeta. La mia opinione è che occorre correggere la teoria interpretativa della cultura di Geertz in modo da poter tenere conto di questa mutata situazione. Occorre un'antropologia che assuma come proprio oggetto lo spazio in cui si costruiscono le formule linguistiche, gli slogan, le immagini che fluiscono attraverso le reti di informazione, quella che Hannerz chiama 'ecumene globale' (50). In questo senso, può risultare opportuno un investimento nei concetti davidsoniani di interpretazione radicale, principio di carità interpretativa e triangolazione. Nella misura in cui restituisce centralità alla posizione dell'interprete, con i suoi valori e i suoi significati, e alle sue interazioni con l'altro, riposizionando sullo sfondo la comunità come sistema culturale e totalità di senso, la teoria davidsoniana dell'interpretazione può rappresentare un importante punto di partenza per un'antropologia della contemporaneità. Se si vuole riflettere sull'universalizzazione dei diritti umani, sulla portata e sul significato di un processo che, se pure a livello formale, è già in atto dal momento che i diritti fondamentali sono ovunque riconosciuti, almeno nominalmente, è necessario indagare le forme della comunicazione a livello globale, prendere atto del fatto che non è più possibile come un tempo fare affidamento su un concetto forte di cultura come sistema e deposito di significati. Parlare di culture nel mondo contemporaneo rischia così di rivelarsi anacronistico perché le culture tendono a esplodere sotto la pressione dei messaggi e delle immagini che si accumulano dall'esterno, lasciando emergere la solitudine dell'individuo, obbligato a costruirsi un proprio ed esclusivo percorso attraverso i simboli e le figure della modernità. Ma allo stesso tempo questo vuoto brulicante di presenze che circonda il soggetto, questo isolamento paradossale che deriva dallo sfaldarsi dei confini culturali può diventare forse lo spazio più idoneo per instaurare un rapporto con l'altro, con i suoi mondi e i suoi valori. Bibliografia
Note1. N. Bobbio, L'età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, pp. 49-50. 2. Ivi, pp. 5-14. 3. Ivi, pp. 18-19. 4. Sulla conferenza di Vienna cfr. S.P. Huntington, The Clash of Civilization and the Remake of the World Order, Simon and Schuster, New York, 1996, trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997, pp. 280-289. 5. Sull'origine storica dei diritti si può vedere L. Baccelli, Il particolarismo dei diritti, Carocci, Roma, 1999. 6. Citato in J.R. Bauer, D.A. Bell, (eds.), The East Asian Challenge for Human Rights, Cambridge University Press, Cambridge, 1999, p. 6. 7. J.R. Bauer, D.A. Bell, Introduction, in J.R. Bauer, D.A. Bell, (eds.), op. cit., pp. 3-4. 8. La bibliografia sugli Asian values si va ampliando in maniera esponenziale. Per un primo inquadramento critico sul problema si può indicare la citata raccolta di saggi curata da Joanne Bauer e Daniel Bell e, dello stesso Bell, East meets West: Human Rights and Democracy in East Asia, Princeton University Press, Princeton, 2000. 9. Sul rapporto tra diritti soggettivi e religioni extra-europee si possono vedere L.S. Rouner, (ed.), Human Rights and the World's Religions, Notre Dame University Press, Notre Dame, Ind., 1988 e N. Rouland, I fondamenti antropologici dei diritti dell'uomo, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", IV/LXXV, 2, 1998. 10. A. Sen, Human Rights and Asian Values, Morgenthau Memorial Lecture, 1997, trad. it. in Id., Laicismo indiano, Feltrinelli, Milano, 1998. 11. Ivi, p. 165. 12. N. Othman, Rights of Women in Modern Islamic State, in J.R. Bauer, D.A. Bell, (eds.), op. cit., pp. 169-191. 13. W.T. de Bary, Neo-Confucianism and Human Rights, in L.S. Rouner, (ed.), op. cit.; Id., Asian Values and Human Rights. A Confucian Communitarian Perspective, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1998; J. Chan, A Confucian Perspective on Human Rights for Contemporary China, in J.R. Bauer, D.A. Bell, (eds.), op. cit. Sul tema dei diritti in Cina si possono vedere anche Chung-Sho-Lo, Human Rights in the Chinese Tradition, in UNESCO, Human Rights: Comments and Interpretations, Columbia Univerrsity Press, New York, 1949, J.C. Hsiung, (ed.), Human Rights in the East Asian Perspective, Paragon House Publishers, New York, 1985. 14. W.T. de Bary, Asian Values and Human Rights, cit., pp. 10-11. 15. Ivi, pp. 17-30. 16. Ivi, pp.15-16. 17. J. Chan, A Confucian Perspective on Human Rights for Contemporary China, cit., pp. 212-239. 18. Cfr. J. Clifford, The Predicament of Culture, Cambridge University Press, Cambridge, Mass., 1988, trad. it. I frutti puri impazziscono, Boringhieri, Torino, 1993, pp. 17-29; J. Breidenbach, I. Zukrigl, Tanz der Kulturen. Kulturelle Identität in einer globalisierten Welt, Kunstmann, München, 1998, trad. it. Danza delle culture. L'identità culturale in un mondo globalizzato, Boringhieri, Torino, 2000, pp. 67-71. 19. Cfr. J. Breidenbach, I. Zukrigl, op. cit., trad. it. cit., pp. 49-53. 20. R. Panikkar, Is the Notion of Human Rights a Western Concept?, "Diogéne", 120, 1982. 21. Ivi, p. 110. 22. C. Taylor, Conditions of an Unforced Consensus on Human Rights, in J.R. Bauer, D.A. Bell, (eds.), op. cit. 23. Ivi, pp. 133-136. Sul tema della fondazione dei diritti nella prospettiva della dottrina buddista si possono vedere anche K.K. Inada, A Buddhist Response to the Nature of Human Rights, in C.E. Jr Welch, V.A. Leary, (eds.), Asian Perspectives on Human Rights, Westview Press, Boulder, Co., 1990 e D. Keown, Are there 'Human Rights' in Buddhism?, "Journal of Buddhist Ethics", 2, 1995. Mentre Inada deriva i diritti umani dalla nozione di pa.ticca-samuppaada, che designa il carattere relazionale dei processi di esperienza di ogni individuo, Keown collega i diritti e le libertà fondamentali alla teoria buddista della virtù e dell'autorealizzazione umana. Keown sembra poi seguire il Rawls di Political Liberalism quando aggiunge che la Dichiarazione Universale e le altre convenzioni sui diritti non offrono una visione complessiva del bene umano e che il compito di elaborare questa visione spetta alle dottrine religiose e filosofiche. In questo senso i diritti fondamentali andrebbero visti come precondizioni per la realizzazione degli obbiettivi proposti dalle ideologie e dalle religioni concorrenti. 24. C. Taylor, op. cit., pp. 132-133. 25. Ivi, p. 136. 26. Ibidem. 27. Ivi, p. 144. 28. R.M. Hare, The Language of Morals, Clarendon Press, Oxford, 1952, trad. it. Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma, 1968. 29. J. Donnelly, Human Rights and Asian Values: A Defense of "Western" Universalism, in J.R. Bauer, D.A. Bell, (eds.), op. cit., p. 61. 30. M. Kilani, L'invention de l'autre, Payot, Lausanne, 1994, trad. it. L'invenzione dell'altro, Dedalo, Bari, 1997, p. 267. 31. U. Fabietti, R. Malighetti, V. Matera, Dal tribale al globale. Introduzione all'antropologia, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p. 3. 32. Ivi, p. 11. La polivalenza della cultura in termini di inclusione ed esclusione è riconosciuta anche dall'etologia umana in termini pseudo-speciazione culturale. Cfr. I. Eibl-Eibesfeldt, Die Biologie des menschlichen Verhaltens. Grundriss der Humanethologie, Piper, München, 1984, trad. it. Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, Bollati-Boringhieri, Torino, 1993, p. 192. 33. M.J. Herskovits, Cultural Relativism: Perspectives in Cultural Pluralism, Random House, New York, 1972. Herskovits stilò il documento presentato nel 1947 all'ONU, all'indomani della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, dall'American Anthropological Association nel quale si raccomandava il rispetto delle diverse culture dei vari popoli e dei valori professati dai singoli individui. 34. Inoltre, il rispetto per le differenze predicato dai relativisti tende facilmente a slittare nell'elogio della separazione e del 'differenzialismo' più escludente e razzista. Cfr. T. Pitch,L'antropologia dei diritti umani, in A. Giasanti, G. Maggioni, (a cura di), I diritti nascosti. Approccio antropologico e prospettiva sociologica, Cortina, Milano, 1995, pp. 181-184. 35. C. Geertz, Local Knowledge, Basic Books, New York, 1983, trad. it. Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna, 1988, pp.189-190. 36. C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, Plon, Paris, 1958, trad. it. Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 1966. 37. C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Plon, Paris, 1962, trad. it. Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano, 1964, pp. 271 e ss. 38. C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, cit, trad. it. cit., pp. 311 e ss. 39. C. Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York, 1973, trad. it. Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna, 1987, p. 93. 40. C. Geertz, Local Knowledge, Basic Books, New York, 1983, trad. it. Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna, 1988, p. 14. 41. Ivi, p. 73. 42. Ibidem. 43. Ivi, p. 194. 44. L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Blackwell, Oxford, 1953, trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, p. 299. 45. Cfr. J. Clifford, op. cit., trad. it. cit. 46. Cfr. U. Hannerz, Cultural Complexity: Studies in the Organization of Meaning, Columbia University Press, New York, 1992, trad. it. La complessità culturale. L'organizzazione sociale del significato, il Mulino, Bologna, 1998. 47. U. Fabietti, F. Remotti, C. Montaleone, L'antropologia culturale: dalle certezze ottocentesche alle sfide del mondo contemporaneo, in L. Geymonat, (a cura di), Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. XI, Garzanti, Milano, 1996, p. 280. 48. Ibidem. 49. D. Davidson, Intervista biografico teorica, "Iride", 15, 1995, pp. 330-331. 50. Cfr. U. Hannerz, op. cit. |
-A A A+ |