2009

La teoria dei diritti fondamentali di Luigi Ferrajoli
Considerazioni epistemologiche e politiche

Alfonso Liguori

1. Introduzione

Vorrei proporre alcune considerazioni sulla teoria del diritto di Luigi Ferrajoli, in particolare sulla teoria dei diritti fondamentali e della stessa democrazia. Sarebbe interessante discutere alcuni aspetti della tesi ferrajoliana non solo dal lato teorico-giuridico, ma anche in relazione della struttura economico-politica del capitalismo globale.

Il problema esterno dell'effettività del diritto sembra soltanto implicato dalla teoria del diritto di Ferrajoli, ma rivela una concezione in qualche modo ideologica che forse tende a sfuggire ad un'analisi complessiva della società. Invero, l'autore sembra evitare la questione "strutturale" del dominio economico-politico - ultimamente arricchita dai temi dello spettacolo e dell'informazione massmediatica -, attraverso il forte richiamo all'efficacia normativa del diritto costituzionale (e ciò in relazione sia allo stato-nazione che al piano globale, come dimostra la riproposizione del cosmopolitismo giuridico kantiano-kelseniano).

Come sarà argomentato, l'autore, in primis, si richiama ad un'impostazione teorico-giuridica formale ed iper-normativa, ovvero scarsamente attenta alla dimensione della effettività; inoltre, si appella classicamente al potere normativo del diritto, senza affrontare i più recenti mutamenti della società globale, ove si assiste all'egemonia dell'economico sul politico e sullo stesso medium giuridico. Si tratta di aspetti che, pur connotandosi in senso epistemologico - si pensi al carattere tendenzialmente postmoderno del sociale, scarsamente avvertito dall'autore -, presentano un rilievo anche politico e ideologico.

Paradossalmente, le tesi dell'autore meritano di essere discusse sia all'interno del "discorso politico moderno" - ad esempio in ordine ai rapporti tra il diritto, la politica e l'etica pubblica - sia, a fortiori, in considerazione della crisi della modernità. Nonostante la sua coerenza e lucidità, qualora riguardata in termini puramente teorico-generali, la proposta di Ferrajoli si espone comunque ad una legittima critica specie se giudicata sotto il profilo politico-culturale, ovvero sui "confini" delle diverse scienze sociali.

L'obiettivo sarà dunque quello di discutere importanti profili della concezione giuridica di Ferrajoli non soltanto all'interno della teoria del diritto, ma soprattutto in relazione alle discipline contigue, secondo una concezione complessa e sincretistica del contesto sociale (1).

2. I diritti fondamentali nella teoria giuridica di Ferrajoli

Ferrajoli propone una definizione teorica di diritti fondamentali: "sono 'diritti fondamentali' tutti quei diritti soggettivi che spettano universalmente a 'tutti' gli esseri umani in quanto dotati dello status di persone, o di cittadini o di persone capaci d'agire; inteso per 'diritto soggettivo' qualunque aspettativa positiva (a prestazioni) o negativa (a non lesioni) ascritta ad un soggetto da una norma giuridica, e per 'status' la condizione di un soggetto prevista anch'essa da una norma giuridica positiva quale presupposto della sua idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche e/o autore degli atti che ne sono esercizio" (2).

Nel recente trattato di teoria generale del diritto Principia iuris - nel quale si affrontano molti temi, soltanto parzialmente pertinenti al mio discorso -, Ferrajoli, sulla base anche della distinzione tra "persone naturali" e "persone artificiali" (3), modifica in parte la definizione de qua, tanto sostenendo: "I 'diritti fondamentali' sono i diritti di cui tutti sono titolari in quanto persone naturali, o in quanto cittadini oppure, ove si tratti di diritti potestativi, in quanto capaci d'agire o in quanto cittadini capaci d'agire" (4).

Si tratta d'una definizione propriamente teorica di "diritti fondamentali", sganciata dalla circostanza di fatto che in un determinato ordinamento quei diritti siano positivamente previsti entro carte costituzionali. Trattasi, inoltre, di una nozione formale o strutturale, nel senso che essa prescinde dagli interessi e dai bisogni effettivamente tutelati con il loro riconoscimento quali diritti fondamentali, basandosi unicamente sul carattere universale della loro imputazione: universale nel senso "puramente logico e avalutativo" della quantificazione universale della classe dei soggetti che ne sono titolari. Il carattere della universalità, peraltro, implica quello della indisponibilità o inalienabilità.

Inoltre, l'universalità dei diritti fondamentali non è assoluta, dipendendo dall'estensione delle classi di soggetti a cui la loro titolarità è normativamente riconosciuta. Tali classi sono indentificate dagli status determinati dall'identità di 'persona' e/o di 'cittadino' e/o di 'capace d'agire': come è noto, si tratta di qualificazioni storicamente oggetto delle più varie limitazioni e discriminazioni. Si può dunque argomentare che "personalità", "cittadinanza" e "capacità d'agire", proprio in quanto condizioni della pari titolarità dei diritti fondamentali, conseguentemente rappresentano i parametri sia dell'uguaglianza che della disuguaglianza "en droits fondamentaux". Per Ferrajoli, cittadinanza e capacità di agire oggi risultano le sole differenze di status che ancora delimitano l'uguaglianza degli individui; dunque, esse possono assumersi come i due parametri - il primo superabile, il secondo insuperabile - su cui fondare due grandi divisioni tra i diritti fondamentali: quella tra diritti della personalità e diritti di cittadinanza, spettanti rispettivamente a tutti o ai soli cittadini, e quella tra diritti primari (o sostanziali) e diritti secondari (o strumentali o di autonomia), spettanti rispettivamente a tutti o alle sole persone capaci d'agire.

Ferrajoli, dunque, incrociando le due distinzioni, individua quattro classi di diritti (5): i diritti umani, che sono i diritti primari delle persone, spettanti, indistintamente, a tutti gli esseri umani (ad esempio, il diritto alla vita e all'integrità della persona); i diritti pubblici, cioè i diritti primari riconosciuti ai soli cittadini (come, in base alla costituzione italiana, il diritto di residenza e circolazione nel territorio nazionale, ovvero il diritto al lavoro e quello alla sussistenza e previdenza dell'inabile al lavoro); i diritti civili, ossia i diritti secondari ascritti a tutte le persone umane capaci d'agire, come la potestà negoziale, la libertà contrattuale e imprenditoriale, ovvero tutti i diritti potestativi in cui si manifesta l'autonomia privata e su cui si basa il mercato; i diritti politici, che rappresentano, infine, i diritti secondari riservati ai soli cittadini capaci d'agire (come il diritto di voto, l'elettorato passivo, in generale tutti i diritti potestativi fondanti l'autonomia politica).

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Il nostro autore ritiene che la sua definizione di "diritti fondamentali" sia in grado di fondare quattro tesi da lui ritenute essenziali, peraltro, ad una teoria della "democrazia costituzionale" (6).

In concreto egli sostiene, innanzitutto, la radicale differenza strutturale tra i diritti fondamentali e i diritti patrimoniali, spettanti gli uni a intere classi di soggetti e gli altri a ciascuno dei loro titolari con esclusione di tutti gli altri.

In secondo luogo, a suo giudizio, i diritti fondamentali, in quanto corrispondono ad aspettative ed interessi tendenzialmente universali (di tutti), fondano il parametro dell'uguaglianza giuridica, cioè di quella che lo stesso Ferrajoli definisce la "dimensione sostanziale" della democrazia: una dimensione che consisterebbe esattamente nell'insieme delle garanzie assicurate dal paradigma dello "stato di diritto".

Ancora, egli rileva l'odierna natura sovranazionale di gran parte dei diritti fondamentali. Nella sua definizione, i cosiddetti "diritti di cittadinanza" formano soltanto una sottoclasse: molti di questi diritti, infatti, sono conferiti dalle stesse costituzioni statali indipendentemente dalla cittadinanza. Peraltro, avverte Ferrajoli, con la loro formulazione in convezioni internazionali, recepite dalle costituzioni statali o sottoscritte dagli stati, quei diritti sono divenuti propriamente sovrastatali. In tal senso, essi costituiscono limiti esterni, e non più solo interni, ai pubblici poteri, come base di una vera e propria democrazia internazionale.

Infine, Ferrajoli considera in modo peculiare i rapporti tra i diritti fondamentali e le loro garanzie. Come tutti i diritti, anche i diritti fondamentali consistono in aspettative negative o positive cui corrispondono obblighi o divieti. Egli definisce garanzie primarie questi obblighi e divieti, e garanzie secondarie gli obblighi di sanzionare o riparare, in sede giudiziale, le lesioni dei diritti (cioè le violazioni delle loro garanzie primarie). Il nostro autore rileva, peraltro, che le garanzie, anche se logicamente derivanti dallo "statuto normativo" dei diritti, oltre a risultare spesso violate, talvolta non sono neppure stabilite normativamente. Ma avverso la tesi della "confusione" tra i diritti e le loro garanzie - la quale implica, in sostanza, la negazione dell'esistenza dei primi in assenza delle seconde - egli sostiene la tesi della loro distinzione, "in forza della quale l'assenza delle relative garanzie equivale invece a un'inadempienza dei diritti positivamente stipulati e consiste perciò in un'indebita lacuna che è compito della legislazione colmare" (7).

In Principia iuris, peraltro, l'autore introduce una novità rilevante, oltre la distinzione essenziale tra diritti fondamentali e diritti patrimoniali, ossia i diritti comunitari: "va aggiunto che la distinzione tra diritti fondamentali e diritti patrimoniali non è esaustiva dell'intera classe dei diritti soggettivi. Esistono infatti diritti che non sono né fondamentali, né patrimoniali. Mi limito a identificarne una classe: quella dei cosiddetti diritti collettivi, che meglio possiamo chiamare, ove spettino unicamente a soggetti collettivi, diritti comunitari" (8).

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Le quattro tesi sostenute da Ferrajoli, inducono il nostro autore a confutare altrettante concezioni dei diritti fondamentali, invalse nella dottrina giuridica.

In primo luogo, Ferrajoli distingue nettamente, sul piano della teoria generale, i diritti fondamentali dal diritto di proprietà, contraddicendo, così, la concezione di John Locke, secondo cui di quei diritti fanno parte, oltre che la vita e la libertà, anche la stessa proprietà (9). Per Ferrajoli, nella teoria lockeana, includente la proprietà tra i diritti fondamentali, c'è un vero e proprio equivoco, dovuto al carattere polisenso del termine "diritto di proprietà": con cui s'intende, proprio a partire da Locke, al tempo stesso il diritto di divenire proprietario e di disporre dei propri diritti di proprietà. Il potere di disposizione circa i propri diritti di proprietà dovrebbe essere, invece, ricondotto alla capacità giuridica e a quella d'agire. I diritti fondamentali, in realtà, si oppongono nettamente ai diritti patrimoniali a causa delle loro profonde divergenze strutturali (10).

La prima differenza consiste in ciò che i diritti fondamentali, inclusi i diritti di acquisire e disporre dei beni di proprietà, sono "universali" (omnium) "nel senso logico della quantificazione universale della classe dei soggetti che ne sono titolari" (11); invece, i diritti patrimoniali - come i diritti reali e di credito - sono diritti singolari (singuli), nel senso che per ciascuno di essi vi è un determinato titolare, con esclusione di tutti gli altri. Insomma, il diritto di divenire proprietari, discendendo dalla capacità giuridica, e il diritto di disporre dei propri beni, derivante a sua volta dalla capacità d'agire, afferiscono ai diritti civili, i quali sono senz'altro "fondamentali". Se i diritti fondamentali, dunque, costituiscono, data la loro universalità, la base dell'uguaglianza giuridica, invece quelli patrimoniali fondano la disuguaglianza giuridica, proprio in quanto "excludendi alios". Inoltre, i diritti fondamentali sono indisponibili e personalissimi; all'opposto, i diritti patrimoniali, per loro natura risultano tipicamente negoziabili ed alienabili.

Peraltro - e questa è la terza differenza - i diritti patrimoniali, in quanto disponibili, sono soggetti a vicende, nel senso che sono destinati ad essere costituiti, modificati o estinti da atti giuridici; in altri termini hanno titolo in atti di tipo negoziale o comunque in provvedimenti singolari (ad esempio, il contratto o la sentenza). Viceversa, i diritti fondamentali hanno la loro fonte direttamente nella legge, risultando, cioè, tutti ex lege, conferiti tramite regole generali e di rango, peraltro, solitamente costituzionale. Insomma, come dice Ferrajoli, "mentre i diritti fondamentali sono norme, i diritti patrimoniali sono predisposti da norme" (12).

Infine, se i diritti patrimoniali sono per così dire orizzontali, i diritti fondamentali, per Ferrajoli, sono invece verticali. Innanzitutto, nel senso che i rapporti giuridici posti in essere dai titolari dei diritti patrimoniali sono di tipo intersoggettivo e civilistico, mentre i rapporti intrattenuti dai titolari di diritti fondamentali sono di natura pubblicistica, cioè dell'individuo nei confronti dello Stato. E, inoltre, nel senso che ai diritti patrimoniali corrispondono o divieti di non lesione ovvero obbligazioni debitorie, mentre ai diritti fondamentali, se inclusi entro norme costituzionali, corrispondono divieti e obblighi a carico dello Stato - la cui violazione, peraltro, è causa di invalidità delle leggi.

I diritti fondamentali, nella concezione di Ferrajoli, rappresentano anche quella che il nostro autore chiama - come si è veduto - "dimensione sostanziale" della democrazia. Opponendosi alle concezioni di Gerber, che qualifica i diritti come "effetti riflessi" del potere pubblico, e a quelle di Jellinek e Santi Romano (che li considerano come il prodotto di un'auto-limitazione dello Stato, sempre revocabili) -, Ferrajoli attribuisce ai diritti fondamentali il valore di vincoli costituzionali ai pubblici poteri. I diritti fondamentali circoscrivono l'agire di quei poteri, rappresentando la cosiddetta sfera dell'indecidibile, sottratta anche alle decisioni di maggioranza. I diritti fondamentali, in tal modo, imprimono una connotazione di tipo sostanziale allo stato di diritto e alla democrazia. Le norme che ascrivono i diritti fondamentali, infatti, sono propriamente sostanziali, risultano cioè relative al contenuto delle decisioni. In questo senso, per Ferrajoli, viene smentita la concezione corrente e formale della democrazia, per la quale essa consisterebbe meramente in un insieme di regole che "assicurano l'onnipotenza della maggioranza" (13). Le norme inclusive, a livello costituzionale, dei diritti fondamentali, vincolando a pena d'invalidità la sostanza delle decisioni al rispetto degli stessi diritti, invece corrispondono alla regole con cui è ben possibile caratterizzare la democrazia sostanziale. Il paradigma della "democrazia costituzionale", peraltro, è proprio la soggezione "del diritto al diritto" generata dalla dissociazione tra validità formale e validità sostanziale, tra mera e stretta legalità. La democrazia, inoltre, è qualificabile secondo quattro diverse dimensioni, anche in relazione al tipo di diritti fondamentali oggetto di garanzia costituzionale: democrazia politica, civile, liberale e sociale.

La storia del costituzionalismo - rileva Ferrajoli - è la storia di un progressivo allargamento della sfera pubblica dei diritti; una storia certamente non teorica, ma "sociale e politica", proprio nel senso che i diritti non sono mai calati dall'alto ma esattamente il frutto di lotte sociali e rotture istituzionali: a partire dalle rivoluzioni americana e francese, attraverso i moti ottocenteschi per gli statuti, infine le lotte operaie, femministe, pacifiste ed ecologiste del Novecento (14).

Luigi Ferrajoli ritiene che l'attuale internazionalizzazione dei diritti fondamentali - quasi una proiezione dell'inclusione costituzionale dei diritti a livello mondiale - produce due conseguenze precise: i diritti non sono più "fondamentali" esclusivamente entro la dimensione costituzionale statale, ma appunto ora anche a livello sovranazionale; e, inoltre, essi si configurano non più come "diritti di cittadinanza", ma diritti delle persone indipendentemente dallo status della cittadinanza. In tal modo Ferrajoli ritiene di dover superare la concezione del rapporto tra diritti e cittadinanza, così come intesa e sviluppata in special modo da Thomas Marshall, il che comporta, come si dirà, una concezione tendenzialmente cosmopolitica del diritto internazionale.

Infine, qui vorrei illustrare un'altra tesi (la quarta) proposta dal nostro autore, quella riguardante la distinzione tra i diritti e le loro garanzie. In virtù di quella distinzione, Ferrajoli ritiene di poter superare la stessa concezione, formulata da Hans Kelsen, a proposito della consistenza dei diritti soggettivi: al di là delle sue proclamazioni, anche a livello costituzionale, un diritto non garantito non sarebbe affatto un diritto. A suo avviso, peraltro, la confusione di diritti e garanzie squalificherebbe, sul piano giuridico, "quelle che sono le due più grandi conquiste del costituzionalismo novecentesco: l'internazionalizzazione dei diritti fondamentali e la costituzionalizzazione dei diritti sociali, ridotte l'una e l'altra, in difetto di adeguate garanzie, a semplici declamazioni retoriche o, al più, a vaghi programmi politici giuridicamente irrilevanti" (15).

Per Ferrajoli, in un sistema di tipo nomodinamico, come quello del diritto positivo, l'esistenza o l'inesistenza d'una situazione giuridica - un obbligo, un divieto, un permesso o un'aspettativa giuridica - dipende dall'esistenza di una norma positiva che la prevede, la quale è indotta semplicemente dal fatto empirico della sua produzione. In tal senso, è ovviamente possibile che, dato un diritto soggettivo, non esista, anche se dovrebbe, l'obbligo o il divieto corrispondente, a causa dell'inesistenza (indebita) della norma che li prevede. Può dunque esistere un diritto, senza che poi una norma provveda a stabilirne la garanzia, sia essa primaria o secondaria. Per il nostro autore, ciò rappresenta semplicemente la possibilità che, entro l'ordinamento giuridico, si diano lacune o antinomie, le quali peraltro, principalmente in virtù dei principi di completezza e di non contraddizione, andrebbero necessariamente colmate o eliminate. Sotto questo profilo, dunque, Ferrajoli si oppone decisamente ad Hans Kelsen, per il quale l'esistenza del diritto soggettivo è ricondotta a quella di due imperativi corrispondenti: non vi è diritto per qualcuno, senza un dovere giuridico per qualcun altro (garanzia primaria); il diritto soggettivo non consiste nell'interesse presunto, ma nella (sua) protezione giuridica (16) (garanzia secondaria).

I diritti fondamentali sono predisposti ex lege, cioè direttamente da norme (che Ferrajoli definisce "tetiche"); in tal senso, è chiaro che l'esistenza delle relative garanzie non è affatto scontata, in quanto dipende dalla loro espressa stipulazione ad opera di norme positive, ben distinte da quelle che ascrivono i diritti. Ferrajoli mostra alcuni esempi emblematici di questo discorso: "in assenza del diritto penale (...) non esisterebbe (...) garanzia primaria per nessuno dei diritti da esso tutelati, a cominciare dal diritto alla vita (...) Ancor più evidentemente, in assenza di norme sulla giurisdizione, non esisterebbero, per nessun diritto, garanzie secondarie. Ma ovviamente sarebbe assurdo negare per ciò solo l'esistenza dei diritti, in presenza delle norme che li dispongono, anziché, più correttamente, l'esistenza delle loro garanzie in assenza delle norme che le predispongono" (17).

Chiaramente, è questione diversa quella della realizzabilità concreta delle garanzie, ciò che si palesa assai difficile, come è noto, a proposito in particolare dei diritti sociali, anche se enunciati a livello costituzionale; sotto questo profilo, Ferrajoli denuncia l'inconsistenza dell'attuale "stato sociale di diritto", o Welfare State. Peraltro, il nostro autore, significativamente, evidenzia l'assoluto deficit di garanzie a sostegno dei "diritti umani" stipulati da carte internazionali, i quali sono praticamente contrassegnati da una pressocché totale ineffettività. Tuttavia, come si esprime Ferrajoli, "questo vuol solo dire che esiste una divaricazione abissale tra norme e realtà, che dev'essere colmata o quanto meno ridotta in quanto fonte di delegittimazione non solo politica ma anche giuridica dei nostri ordinamenti [evidentemente, anche internazionali]" (18).

Il nostro autore distingue tra il piano della realizzabilità tecnica e quello della realizzabilità politica. A suo avviso, sul piano tecnico, i diritti sociali potrebbero essere garantiti al pari degli altri diritti; in tal senso, egli suggerisce, al di fuori della logica assistenzialistica e clientelare, prestazioni gratuite, obbligatorie o automatiche (come l'istruzione pubblica gratuita ed obbligatoria, l'assistenza sanitaria gratuita o il reddito minimo garantito). Per Ferrajoli, inoltre, la tesi della non giustiziabilità di questi diritti è smentita dalla più recente esperienza giuridica, che per vie diverse (provvedimenti d'urgenza, azioni di danno e altre) ha visto ampliarsi le loro forme di tutela giurisdizionale. I diritti sociali, peraltro, a suo avviso, rappresentando principi informatori del sistema giuridico, possono essere, e già risultano, largamente utilizzati nella soluzione delle controversie dalla giurisprudenza delle corti costituzionali.

La questione della realizzabilità politica delle garanzie dei diritti sociali, ovviamente, si pone in termini diversi e, probabilmente, più complessi, sia dal lato interno che, ancor maggiormente, da quello internazionale. In primo luogo, la soddisfazione dei diritti sociali richiede notevolissimi costi, in termini di risorse, risultando così scarsamente compatibile con l'imperante logica del mercato; e, peraltro, prendere "sul serio" i diritti umani - secondo la bella e nota formula di Ronald Dworkin - così come proclamati in ambito internazionale "richiede che mettiamo in discussione i nostri livelli di vita che consentono all'Occidente benessere e democrazia a spese del resto del mondo" (19).

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Le considerazioni di Ferrajoli attorno ai diritti fondamentali gli consentono di concepire il costituzionalismo - "quale è venuto a configurarsi nel XX secolo negli ordinamenti statali democratici con la generalizzazione delle costituzioni rigide e, in prospettiva, nel diritto internazionale con la soggezione degli Stati alle convenzioni sui diritti umani" (20) - come un nuovo paradigma, in grado di rinnovare quello "paleogiuspositivistico".

Nel diritto moderno, inteso in senso positivistico, la giuridicità di una norma non dipende più dalla sua intrinseca razionalità, ma appunto dalla sua positività, cioè dal fatto di essere "posta" da un'autorità competente nelle forme previste per la sua produzione (auctoritas non veritas facit legem).

Il costituzionalismo, risultante dalla positivizzazione dei diritti fondamentali come limiti sostanziali alla legislazione positiva, corrisponde, per Ferrajoli, ad un'ulteriore "rivoluzione" della natura del diritto. Se in una prima fase del diritto in senso moderno si era affermata l'onnipotenza del legislatore, cioè del principio di mera legalità come fondante l'esistenza stessa delle norme, nella fase più recente si afferma il principio della legalità sostanziale: sulla base della sottomissione anche della legge ai vincoli non più solo formali ma sostanziali imposti dai principi e dai diritti fondamentali espressi dalle costituzioni.

Ferrajoli sottolinea il momento storico nel quale si colloca tale mutamento di paradigma, e cioè all'indomani della catastrofe della seconda guerra mondiale e della sconfitta del nazifascismo. Proprio in quella fase nasce l'odierno costituzionalismo (anche internazionale) - si pensi alla Carta dell'Organizzazione delle Nazioni Unite del 1945, alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, ovviamente alla Costituzione italiana del 1948, nonché alla legge fondamentaletedesca dell'anno successivo. Il principio di mera legalità era apparso, allora, insufficiente a garantire contro gli abusi del potere legislativo, ma anche della giurisdizione e dell'amministrazione; e si riscopre, in tal modo, il significato di "costituzione" quale limite e vincolo ai pubblici poteri, accogliendo nuovamente l'ispirazione della Dichiarazione dei diritti del 1789.

Peraltro, proprio la sottolineata proiezione dei diritti fondamentali entro ambiti ordinamentali sovranazionali pone il problema della configurazione di un "costituzionalismo internazionale" e, più contingentemente, la questione del principale criterio d'attribuzione dei diritti e cioè la "cittadinanza". Nella concezione di Luigi Ferrajoli i diritti di cittadinanza non esauriscono la categoria dei diritti. Già dal lato teorico-generale per Ferrajoli quei diritti costituiscono soltanto una sottoclasse della più generale classe dei diritti fondamentali. Inoltre, da un punto di vista giusdogmatico - che si propone a partire dall'analisi degli ordinamenti giuridici positivi - egli riconosce che le costituzioni statali e le Dichiarazioni e Convenzioni sovranazionali di diritti ascrivono la maggior parte dei diritti stessi agli uomini in quanto persone, e non in quanto cittadini. Sotto questo profilo, Ferrajoli solleva il problema politico costituito dalla necessità di adeguare le realtà sociali ed istituzionali a quanto contrariamente stabilito normativamente a livello sia nazionale che internazionale.

Al proposito, il nostro autore parla di una vera e propria "antinomia regressiva (...) tra diritti universali della persona e cittadinanza, destinata a divenire esplosiva, con la crescita delle disuguaglianze e delle pressioni migratorie, quale fonte permanente di pericoli per la pace e per la stessa credibilità del diritto sia internazionale che costituzionale. Ed è il superamento di questa antinomia, ossia l'attuazione del disegno universalistico tracciato non già da un'utopia ma dal diritto costituzionale e internazionale positivo, il vero problema, tra i più gravi dell'umanità (...)" (21). Allora, per Ferrajoli sarebbe non un'obiezione teorica, ma una "petizione di principio", la denuncia del carattere irrealizzabile e utopistico "della prospettiva di un ordine mondiale basato su istituzioni internazionali idonee a garantire l'uguaglianza di tutti gli esseri umani nei diritti della persona, a causa degli interessi politici ed economici che ad essa si oppongono e che sono evidentemente quelli dei paesi più ricchi e potenti che ben potrebbero realizzarla se solo lo volessero" (22).

Ma in Ferrajoli c'è anche una tensione assiologica, volta al superamento della cittadinanza statale o alla creazione della cittadinanza universale. Si tratta di un ordine di considerazioni assiologico, nella misura in cui esse sono orientate da valori etico-politici di tipo garantistico ed equalizzante, anche se opportunamente fondate sui processi istituzionali già in atto a livello mondiale. Va ammesso dunque che la cittadinanza dei Paesi ricchi dell'Occidente rappresenta oggi un privilegio di status, un fattore di esclusione e discriminazione, l'ultimo "relitto premoderno" delle disuguaglianze personali, in contrasto con la proclamata universalità e uguaglianza dei diritti fondamentali (23). Prendere sul serio quei diritti vuol dire "avere oggi il coraggio di disancorarli dalla cittadinanza in quanto 'appartenenza' (a una determinata comunità statale) e quindi dalla statualità" (24).

Il superamento della cittadinanza statuale, nel nostro autore, è strettamente dipendente dalla crisi della sovranità dello stato (25), la quale a sua volta è dovuta a plurime ragioni politico-istituzionali. Innanzitutto, a causa del massiccio trasferimento a sedi sovrastatali (ad esempio, l'Unione europea, la Nato, l'Onu) di gran parte di quelle funzioni che nel passato ne avevano motivato la nascita e lo sviluppo. In secondo luogo, in virtù delle spinte centrifughe e dei processi di disgregazione interna. Sotto questo profilo, Ferrajoli ritiene che addirittura proprio alla divisione del mondo in Stati sovrani, e in particolare all'arbitrarietà dei loro confini, sia addebitabile la responsabilità maggiore sia dei conflitti tra Stati che di quelli interni. Infine, a suo giudizio, lo Stato si rivelerebbe "troppo grande per le cose piccole e troppo piccolo per le cose grandi" (26). Nel primo caso, lo Stato risulterebbe "troppo grande" soprattutto a fronte delle sue attuali funzioni di tipo amministrativo, le quali richiederebbero forme di autonomia o addirittura di organizzazione federale (in contrasto con i modelli centralistici). Nel secondo, invece, lo Stato sarebbe "troppo piccolo", nel senso della sua incapacità a governare i processi di internazionalizzazione dell'economia e le interdipendenze globali.

Ferrajoli, peraltro, ritiene che il modello garantista dello stato costituzionale di diritto - inteso come sistema "gerarchizzato" di norme che condiziona la validità delle norme inferiori alla coerenza con quelle superiori e con i principi assiologici in essa stabiliti - abbia valore per qualunque ordinamento (27). In tal senso, la crisi degli Stati può essere risolta o superata tramite il loro "crescente depotenziamento" e dislocando anche a livello internazionale i luoghi tipicamente statali del costituzionalismo: non soltanto i luoghi della proclamazione dei principi, come è già avvenuto con la Carta dell'Organizzazione delle Nazioni Unite e con le Dichiarazioni e le Convenzioni sui diritti, ma anche quelli delle loro concrete garanzie.

In definitiva, il nostro autore - proponendo di sostituire "l'umanità" ai "vecchi stati" come riferimento unificante del diritto - sostiene possibile l'inveramento dell'ipotesi del "totus orbis" mediante "l'elaborazione di un costituzionalismo mondiale capace di offrire alle varie carte dei diritti fondamentali di cui già dispone la comunità internazionale quelle garanzie giuridiche dalla cui mancanza dipende la loro ineffettività" (28). Ciò implica che l'assenza di quelle garanzie venga ritenuta, a livello giuridico e politico, come una lacuna, da colmare da parte sia dell'Onu che degli stati che vi aderiscono. Ferrajoli, dichiaratamente, non fa riferimento a un "improbabile e non auspicabile" governo mondiale, ma "alla prospettiva, indicata da Kelsen esattamente cinquant'anni fa nel suo libro La pace attraverso il diritto, di un'effettiva limitazione della sovranità degli stati mediante l'introduzione di garanzie giurisdizionali contro le violazioni della pace al loro esterno e dei diritti umani al loro interno" (29).

E' chiara dunque la posizione internazionalista di Ferrajoli, favorevole ad un autentico cosmopolitismo giuridico, sia pure temperato da alcune realistiche considerazioni politiche, proposte ad esempio nei suoi lavori teorici più recenti (particolarmente in Principia iuris).

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Principia iuris rappresenta un ottimale compendio della teoria generale del diritto di Luigi Ferrajoli, ove comunque la teoria dei diritti fondamentali, in particolare, gioca un ruolo molto importante. Si può dire che le tesi sia teorico-generali sia politico-normative, cui ho accennato, costituiscano buona parte del discorso dell'autore. La novità principale, a mio avviso, consiste in una formulazione più rigorosa, anche dal punto di vista del linguaggio, delle definizioni e delle questioni proprie della teoria generale del diritto; in tal caso, attraverso persino il ricorso a formule logiche (così Ferrajoli conduce a buon fine, dal suo punto di vista, la cosiddetta teoria assiomatizzata del diritto (30)).

Nella parte introduttiva, l'autore, sulla scorta di Charles Morris, enuclea una metateoria semantica, una metateoria pragmatica ed infine una metateoria sintattica del linguaggio della teoria (generale) del diritto. Si occupa, inoltre, di descrivere la deontica delle relazioni normative, il diritto positivo, lo Stato di diritto ed, infine, nel secondo volume, il paradigma della democrazia costituzionale. Parte del primo libro può essere descritta anche attraverso una formalizzazione nel linguaggio della logica modale del primo ordine; invece, il secondo volume, che descrive la democrazia, non contiene "formule" ed ha una valenza più propriamente normativa, pur mettendo a frutto con coerenza apparente taluni assiomi della teoria giuridica.

Dopo la definizione dei termini primitivi e dei postulati, l'autore passa in rassegna - con grande rigore concettuale - i modi deontici e i comportamenti, le modalità e le aspettative deontiche, i soggetti, gli status, fino ai precetti, alle prescrizioni e alle regole. Nei capitoli dedicati al diritto positivo, Ferrajoli descrive puntualmente, dal lato della teoria generale, gli atti, le situazioni, le persone e i beni, le norme. Il capitolo IX si rivela molto importante, specie per le implicazioni che presenta in ordine alla concezione del positivismo giuridico, in gran parte ereditata dall'autore. Ferrajoli, in tal caso, mette a frutto definitivamente la svolta paradigmatica dello stato costituzionale di diritto, il quale implica il passaggio al cosiddetto gius-costituzionalismo: si tratta della stretta legalità che prevale de iure sulla mera legalità (ma anche di una "razionalità sostanziale" che, istituzionalmente, supera la mera "razionalità formale" del diritto positivo). E' una sorta di "completamento" del positivismo giuridico, che tuttavia mette indubbiamente in discussione l'impostazione giuspositivistica classica, nella tradizione che va da Max Weber ad Hans Kelsen. Il Capitolo XI s'incentra, invece, sui diritti fondamentali - intesi anche come "sfera del non decidibile" - e sulle tesi essenziali ad una conseguente "democrazia costituzionale": si tratta di concetti già ampiamente discussi da Ferrajoli, con lievi modifiche ed aggiustamenti.

Il secondo volume si rivela, forse, politicamente più interessante. Ivi, la democrazia viene delineata, in relazione all'ordinamento vigente, come costituzionale e se ne studiano tutte le implicazioni normative e politiche. La sovranità popolare è identificata come garanzia (del potere del popolo) e altresì come "somma dei diritti fondamentali"; il modello diviene poi, da "bidimensionale" (democrazia formale e sostanziale), "quadridimensionale": democrazia politica, civile, liberale, sociale, alla stregua di tesi già sostenute dall'autore. In questo modo, la democrazia ottiene due fonti di legittimazione, l'una formale, l'altra sostanziale. Il rapporto democrazia-diritto, in questo quadro, diviene centrale; così come centrale è la posizione dei diritti fondamentali i quali, oltre ad essere stipulativamente definiti dalla teoria, rappresentano la "legge del più debole" (31).

Infine, la posizione internazionalistica di Ferrajoli è tendenzialmente globalista, in quanto l'autore, sulla scia di Kant e Kelsen, predilige una superiorità de iure del diritto sovrastatale su quello interno. E ciò a partire da quelli che lo stesso Ferrajoli, pur non rinunciando alla sua proposta teorica, sulla scorta del diritto internazionale vigente, sovente chiama "diritti umani" o "diritti dell'uomo". L'universalismo dei diritti umani, tuttavia, viene giocato dall'autore in chiave prevalentemente logico-giuridica, come se non presentasse particolari risvolti di tipo ideologico. Più precisamente, Ferrajoli sembra "superare" il problema del confronto interculturale implicato dall'universalismo dei diritti appellandosi, ricorsivamente, all'universalismo medesimo. Siccome, cioè, i diritti fondamentali sono universali, innanzitutto per la loro forma giuridica, allora essi riguardano (e proteggono) ugualmente tutte le persone (32), indipendentemente dalle diverse prospettive culturali di appartenenza. L'autore, inoltre, nel contrastare ogni forma di relativismo "metaetico", concepisce l'universalismo giuridico moderno come globalmente inclusivo, praticamente impermeabile ad obiezioni sia di tipo culturale che di tipo ideologico (33) (si pensi al nesso capitalismo-diritti soggettivi realizzatosi in Occidente). Per Ferrajoli, l'universalismo consente di apprezzare e tutelare le differenze e, concepito in termini di attribuzione di diritti, permette altresì di superare il "razzismo", ossia la principale tendenza politico-culturale che si oppone alla comunità morale e politica del genere umano. In tal caso, in modo forse discutibile, l'autore pensa che, in ragione di trasformazioni prevalentemente istituzionali, come l'allocazione dei diritti su scala globale, possa consumarsi il razzismo, che pure si rivela una tendenza più antropologica che politica.

In ogni caso, anche a fronte della globalizzazione - la quale si caratterizza per una forte deregulation -, la propensione dell'autore è, sia pure problematicamente, "cosmopolitica" (34).

In questo quadro - caratterizzato dalla irreversibile crisi dello stato nazionale e della sua sovranità -, Ferrajoli si chiede infatti se sia comunque possibile salvare tanto la democrazia politica quanto lo stato di diritto, nonostante essi, sul piano storico, costituiscano principi sorti proprio con lo stato moderno. L'autore ritiene in qualche modo indispensabile - se davvero non si voglia perdere il patrimonio di civiltà giuridica rappresentato da quei principi - rifondare la democrazia e lo stato di diritto (e la loro teoria) su basi e forme extra e sovra-statali, corrispondentemente alle forme assunte dai poteri politici ed economici e dalle violazioni dei diritti fondamentali nel nuovo contesto.

A fronte del vuoto di diritto pubblico, del neoassolutismo dei poteri economici e politici sovrastatali, delle conseguenze più preoccupanti della globalizzazione (come la crescente povertà, le immigrazioni di massa, la guerra) -, Ferrajoli insiste col ritenere ineludibile l'elaborazione e l'attuazione di un "costituzionalismo globale", di tipo federale. Più specificatamente, l'autore distingue - anche sul piano internazionale - istituzioni di governo (investite di funzioni politiche e discrezionali) e istituzioni di garanzia (volte, invece, alla tutela della pace e dei diritti fondamentali: funzioni giurisdizionali, dunque, ma anche di assistenza e previdenza). Orbene, a suo giudizio, le istituzioni di governo sono tanto più legittimate quanto più rappresentative e, dunque, vicine al corpo elettorale: in tal guisa, non avrebbe senso una "planetaria" democrazia rappresentativa. All'opposto, molto più utile sarebbe l'effettiva implementazione di adeguate istituzioni di garanzia (per la pace e i diritti umani). In particolare, si tratterebbe di corroborare le istituzioni di garanzia secondaria, ossia giurisdizioni volte a riparare e sanzionare le violazioni delle garanzie primarie (ossia delle norme che riconoscono i diritti fondamentali). Ma soprattutto - per Ferrajoli - sarebbe determinante dare luogo a operanti istituzioni di garanzia primaria, ossia di quegli enti volti in primo luogo alla garanzia della pace e della sicurezza e, in secondo luogo, alla garanzia dei diritti fondamentali, inclusi i diritti sociali, anche, se necessario, in sostituzione e contro gli stati.

Per quanto concerne la questione della pace, l'autore propone - anche a fronte delle fallimentari guerre condotte, in primis, dagli Stati Uniti - la riabilitazione dell'ONU e l'assoluto divieto della guerra; e, inoltre, la creazione di una forza di polizia internazionale sotto la "direzione strategica" del "Comitato di stato maggiore" previsto dall'art. 47 della Carta delle Nazioni Unite (e ciò in vista di un tendenziale monopolio della forza in capo all'ONU). Coerentemente, egli auspica altresì il rafforzamento della giurisdizione penale internazionale; ed ancora, a suo avviso, si dovrebbe attuare un progressivo disarmo globale degli stati, in vista della messa al bando, come beni illeciti, di tutte le armi.

Con riferimento, infine, ai diritti umani, occorrerebbe introdurre o rifondare numerose istituzioni di garanzia primaria. Innanzitutto, sarebbe necessario riformare le istituzioni di governo internazionale dell'economia (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, l'Organizzazione mondiale del commercio), oggi purtroppo funzionali soltanto all'arricchimento dei paesi più potenti. Bisognerebbe, inoltre, riformare istituzioni come la FAO e l'Organizzazione mondiale della sanità, per corroborarle soprattutto dal lato finanziario e renderle, quindi, maggiormente in grado di erogare ai paesi più bisognosi le necessarie prestazioni alimentari e sanitarie. D'altro canto, ai fini della costruzione di un'autentica sfera pubblica internazionale, dovrebbe introdursi, per l'autore, una fiscalità mondiale, volta a reperire tutte quelle risorse economiche necessarie alle istituzioni di garanzia nonché alle loro funzioni redistributive.

Ferrajoli, naturalmente, non nasconde le difficoltà insite in un progetto politico-istituzionale di tale sorta e di tale ampiezza; eppure, come si diceva, lo ritiene ineludibile se si voglia far fronte realisticamente alle gravi difficoltà indotte dai processi di globalizzazione.

3. Alcune note critiche sulla proposta teorica di Luigi Ferrajoli

Sarebbero innumerevoli i temi sollevati dalla teoria ferrajoliana dei diritti e della democrazia, la quale si colloca nel novero della teoria generale del diritto, pur incrociando inevitabilmente temi di ordine filosofico-politico, sociologico ed epistemologico. Mi sembra dunque opportuno circoscrivere gli argomenti critici da proporre a talune questioni, a mio avviso, particolarmente rilevanti, peraltro già dibattute da vari autori: il problema della neutralità scientifica (wertfrei) della proposta teorico-generale dell'autore, in relazione alla qualificazione "fondamentale" dei diritti soggettivi; il problema del fondamento delle tesi considerate essenziali da Ferrajoli, come conseguenza della sua teoria dei diritti fondamentali; la questione della democrazia cosiddetta sostanziale in uno con la "democrazia costituzionale"; la questione del "costituzionalismo" tra diritto e politica; infine, il problema epistemologico implicato dalla teoria ferrajoliana, con riferimento al rapporto tra la dimensione del diritto e gli altri sistemi delle complesse società capitalistiche, tra la normatività del diritto e la sua efficacia.

* * *

Riguardo al primo punto, va sottolineata in primis la coerenza di Luigi Ferrajoli il quale, a partire almeno da Teoria assiomatizzata del diritto, per giungere a Diritto e ragione ed, infine, a Principia iuris, ha ideato e proposto una teoria generale del diritto propriamente scientifica, intesa come una disciplina in grado di impostare in modo netto i problemi, le definizioni, i concetti del diritto, secondo un linguaggio chiaro, assai vicino a quello delle discipline scientifico-naturali. Partendo da un'idea artificialistico-normativa del diritto e, poi, della scienza giuridica, Ferrajoli approfondisce il discorso teorico-generale risentendo positivamente della lezione di autori come Hans Kelsen e Norberto Bobbio, arricchendola dei contributi indotti dalla "svolta linguistica" e introducendo notevoli innovazioni teoriche.

Da questo lato, lo studioso mette a frutto la distinzione tra la teoria generale del diritto e la filosofia del diritto (qualificata altresì come filosofia della giustizia), attribuendo alla prima disciplina una valenza propriamente scientifico-descrittiva e alla seconda un carattere tendenzialmente assiologico e di valore. Egli si muove, così, nel solco d'una certa tradizione, arricchendola di argomenti ancora più rigorosi, il che si nota chiaramente quando l'autore - anche nel ribattere ai suoi critici - ribadisce la distinzione dei piani e dei livelli di discorso, corrispondenti ad altrettante e diverse discipline.

Ciò riconosciuto, tuttavia non va esente da critiche l'importante proposta ferrajoliana laddove essa, a partire della teoria generale del diritto, definisce e qualifica proprio i "diritti fondamentali". Tale caratterizzazione dei "diritti soggettivi", infatti, se pure voglia presentarsi come wertfrei - in base a un'idea della teoria generale intesa come "una disciplina avalutativa e ideologicamente neutrale, secondo i canoni più ortodossi (carnapiani) del neopositivismo logico viennese" (35) -, finisce con l'assumere una valenza etico-politica, in tal caso non in linea con tale stessa disciplina. E ciò non solo perché dalla definizione teorica Ferrajoli fa discendere una serie di tesi chiaramente assiologiche; ma anche perché l'attribuzione del carattere fondamentale a un diritto soggettivo non sembra poter dipendere unicamente dal criterio formale della "quantificazione universale".

Al vantaggio di una definizione formalmente meno eccepibile e più elegante, in grado di riformulare il significato ed il linguaggio stesso dei "diritti soggettivi" - a tal punto una formula forse troppo generica -, corrisponde lo svantaggio di non chiarire bene il senso stesso della qualificazione "fondamentale".

Tanto è stato ben evidenziato da Michelangelo Bovero, il quale, tra l'altro, ha sottolineato la contraddizione di Ferrajoli laddove egli, pur valutando l'importanza storica del costituzionalismo nell'affermazione stessa del discorso dei diritti, sgancia il carattere fondamentale dei diritti soggettivi dall'appartenenza al "mondo moderno" (36).

Insomma, i "diritti fondamentali" sono tali non tanto, e certamente non principalmente, in quanto designabili secondo certe caratteristiche formali o teorico-generali; quanto e soprattutto perché la loro non-contingenza, ossia universalità - che ad esempio si coglie, nel linguaggio comune ed in quello filosofico-giuridico, nel lemma "diritti umani" -, corrisponde ad una svolta storica dal significato squisitamente etico-politico. Come sostiene Norberto Bobbio, in sede storica, "l'affermazione dei diritti dell'uomo deriva da un rovesciamento radicale di prospettiva, caratteristico della formazione dello stato moderno, nella rappresentazione del rapporto politico, cioè nel rapporto stato-cittadini o sovrano-sudditi: rapporto che viene sempre più guardato dal punto di vista dei diritti dei cittadini non più sudditi, anziché dal punto di vista dei poteri del sovrano in corrispondenza alla visione individualistica della società " (37).

Certamente non sarebbe giusto sottovalutare la consapevolezza storico-giuridica di Ferrajoli il quale, come filosofo del diritto e costituzionalista, ben conosce il nesso tra il costituzionalismo politico e l'affermazione dei diritti soggettivi. Ma in ogni caso l'idea dell'autore secondo cui i diritti sono qualificabili fondamentali innanzitutto per talune loro caratteristiche formali - universalità, indisponibilità - può creare uno sconcerto teorico, o quantomeno una notevole dissonanza concettuale ed assiologica.

Lo studioso insiste sulla preminenza della definizione teorico-generale su altre concettualizzazioni disciplinari dei diritti fondamentali. Infatti, essa è una definizione "formale o strutturale, nel senso che prescinde dalla natura degli interessi e dei bisogni tutelati con il loro riconoscimento quali diritti fondamentali, e si basa unicamente sul carattere universale della loro imputazione: inteso 'universale' nel senso puramente logico e avalutativo della quantificazione universale della classe dei soggetti che ne sono titolari" (38). A tal punto, un diritto è fondamentale, sotto questo profilo, soltanto se sia attribuito universalmente ad una classe - anche ristretta - di soggetti; tant'è che "se fosse stabilito come universale un diritto assolutamente futile, come per esempio il diritto ad essere salutati per strada dai propri conoscenti o il diritto di fumare, esso sarebbe un diritto fondamentale" (39).

In tal caso, si coglie un'astrattezza che mal si concilia con le stesse posizioni filosofico-giuridiche - sicuramente progressiste e garantiste - del costituzionalista Ferrajoli. Sembra notevolmente dissonante, anche in termini teorici, ritenere fondamentale un diritto futile, oppure un diritto attribuito ad una ristretta classe di soggetti, sol perché considerata quantitativamente universale (quasi un privilegio!). Sarebbe opportuno chiedersi, a tal punto, quale sia l'utilità euristica e pratica d'una tale concezione teorico-generale; perché se è vero che la teoria generale del diritto è una disciplina scientifico-formale, è altrettanto vero che essa non può, legittimamente, ignorare i presupposti storico-giuridici e politici dei concetti che vuole definire (pena una sua tendenziale inutilità). E' una nozione discutibile anche politicamente, quando il nostro autore soggiunge che la sua definizione dei diritti fondamentali "è valida qualunque sia la filosofia giuridica e politica condivisa: giuspositivistica o giusnaturalistica, liberale o socialista, e perfino illiberale e antidemocratica" (40).

Se è giusto quanto afferma Bobbio sui "diritti dell'uomo", con riferimento alla loro appartenenza politica all'idea moderna di democrazia, non si capisce in che senso la definizione ferrajoliana dei diritti fondamentali sarebbe "valida" in una prospettiva illiberale e antidemocratica (ad esempio pre-moderna). Sussisterebbe un deficit culturale per cui il concetto stesso di diritto fondamentale sarebbe invero difficilmente formulabile.

Probabilmente, allora, i vantaggi della definizione teorico-generale di "diritti fondamentali", proposta da Ferrajoli, si relativizzano non poco. Sicuramente si tratta d'una definizione precisa ed anche formalmente elegante, in grado peraltro di favorire distinzioni molto puntuali all'interno della categoria dei diritti soggettivi. Permangono, tuttavia, le perplessità di ordine generale di cui si diceva. In realtà, la teoria generale del diritto è una disciplina il cui approccio "scientifico" si rivela ottimale allorquando si tratti di qualificare concetti invalsi entro un ordinamento giuridico positivo ideologicamente disimpegnati: si pensi, ad esempio, a dispositivi come "norma", "autorizzazione", "competenza", ed altri. Viceversa, sembra poco opportuno azzardare una definizione toto corde formale dei "diritti fondamentali", se è vero che il concetto stesso di "diritto soggettivo", specie se ritenuto fondamentale, assume inevitabilmente significati etico-politici e, dunque, ideologici. Forse in tal caso sarebbe meglio operare distinzioni di questo tipo nella più specifica dottrina civilistica, il cui carattere anche etico-politico, peraltro, appare innegabile (si pensi al collegamento tra gli istituti civilistici fondamentali e il sistema economico-sociale nel quale quegli istituti prendono forma).

* * *

La seconda questione, pur rilevante, è il fondamento delle tesi considerate essenziali da Ferrajoli, come conseguenza della sua teoria dei diritti fondamentali. In prima battuta, invero, l'autore ha sostenuto che la sua proposta teorico-generale è in grado di "fondare" quattro importanti tesi di tipo filosofico-giuridico e politico, che prima abbiamo veduto. Si tratta, per ricordarle brevemente, delle seguenti tesi: la netta distinzione tra i diritti fondamentali e il diritto di proprietà (contro il liberalismo classico, a partire da John Locke); il concetto di democrazia sostanziale, opposto alla versione corrente e formale dell'idea democratica (Schumpeter); la natura sovranazionale dei diritti fondamentali, in contrapposizione all'idea, anche sociologica, del nesso cittadinanza-diritti, come per esempio argomentata da Thomas Marshall; ed, infine, la distinzione ontologica tra la validità del diritto e la sua efficacia, rectius tra l'esistenza del diritto soggettivo e quella della sua garanzia (si pensi a Kelsen).

Siamo dinnanzi a tesi filosofico-giuridiche in gran parte ricalcate sull'odierno diritto positivo nazionale ed internazionale, sicuramente ben argomentate. Ferrajoli, in tal caso, sembra far convergere costituzionalismo e teoria generale del diritto, tra un atteggiamento che egli stesso definirebbe "giusdogmatico" e un approccio più tipico della filosofia giuridica e politica. Sia chiaro che non si tratta, qui, di argomentare ideologicamente contro le idee politiche di Ferrajoli; bensì di evidenziarne la loro natura normativa e non neutrale. In sostanza, non persuade certo l'idea di fondare le quattro tesi proposte da Ferrajoli sullo stesso concetto teorico-generale dei "diritti fondamentali".

Non convince, in particolare, il metodo seguito da Ferrajoli, il quale pretende di fondare teorie normative su di una inferenza logica, sia con riferimento ai diritti fondamentali che alla democrazia. Al proposito, Danilo Zolo si chiede: "una formulazione logica può fornire un 'fondamento essenziale' ad una teoria normativa? Si può pensare che una teoria normativa - tanto più se riferita all'esperienza politica - possa prescindere da assunzione di valore, da opzioni morali e da un implicito riferimento a conflitti, interessi, bisogni?" (41). In relazione alle tesi assiologiche sostenute dall'autore, Zolo così prosegue: "E che cosa può significare che, sulla base di una definizione logica, vengono 'confutate' concezioni di carattere normativo, come, ad esempio, il liberalismo di John Locke o l'organicismo statalistico di Karl Friedrich Gerber o il welfarismo di Thomas Marshall? Ci sono degli errori di carattere logico nelle teorie di questi autori? (...) E' possibile stabilire un nesso fondativo 'essenziale' fra la logica formale e la teoria normativa della politica, in particolare la teoria democratica?" (42).

Sul punto, conclude Zolo: "La mia opinione è che la logica formale classica - è la logica di cui Ferrajoli si serve - può essere utile come protesi sintattica per alcune argomentazioni elementari di una teoria della democrazia. Ma io penso che essa non possa fornire un 'fondamento essenziale' né ad una teoria della democrazia sufficientemente complessa, né ad una teoria normativa - una teoria non soltanto interpretativa o compilativa - dei diritti fondamentali" (43).

L'obiezione di Zolo mi sembra, invero, giusta ed opportuna. Peraltro, lo stesso Ferrajoli ha poi avuto modo di precisare che le tesi conseguenti alla sua teoria dei diritti fondamentali conservano un loro proprio statuto epistemologico, afferente a diversi livelli di discorso (44) (ad esempio, quello giusdogmatico oppure di filosofia della giustizia o assiologico). Tuttavia la difesa stessa di Ferrajoli indebolisce, ovviamente, le forti pretese epistemiche della primigenia proposta dell'autore.

Sarà dunque consentito di rilevare come in Ferrajoli vi sia una tendenza a considerare l'approccio giuridico - e, in particolare, quello proprio della teoria generale del diritto - come prevalente, se non esclusivo, nella descrizione di determinati concetti (come i diritti fondamentali e la democrazia). E' un'opinione sicuramente legittima che però, ad una verifica più attenta, mostra tutte le sue debolezze e parzialità cognitive; si tratta, infatti, di concetti chiaramente giuridici, ma pertinenti non soltanto al diritto: talché, una loro analisi più completa e credibile richiederebbe un approccio necessariamente più ampio.

Risalta una certa incongruenza metodologica tra il fondare, in primis, determinate tesi filosofico-giuridiche e politiche - magari condivisibili - su di una proposta di teoria generale, ed il rinnegare, poi, tale fondazione. Con ogni probabilità, l'analisi di questioni complesse implicherebbe un approccio altrettanto "complesso", caratterizzato da un certo grado di sincretismo metodologico; il che non vuol dire superare la distinzione tra le varie discipline, ma semplicemente cercare di cogliere, forse con un minor livello di "purezza" ma con più realismo, la fenomenologia di determinati sistemi sociali (45).

Si può dire, probabilmente, che il metodo dell'autore, ricalcato sulla prevalenza netta, se non esclusiva, dell'approccio della teoria generale del diritto, informi di sé anche le tesi di valore sostenute da Ferrajoli; per quanto, alla fine risulti evidente il loro fondamento assiologico e quindi, da questo lato, per nulla "neutrale".

Si noti, ad esempio, la distinzione tra i diritti fondamentali e il diritto di proprietà: invero, l'autore ha ragione nel mettere in luce quelle differenze concettuali e deontiche che effettivamente sussistono tra quei diversi tipi di diritti. Da questo lato, almeno nel quadro d'una certa metodologia, si comprende - ma, come vedremo, non si giustifica - la sua stessa polemica nei confronti del liberalismo classico e del marxismo. Senonché, superando una coerenza puramente formale ed analizzando la questione sul piano storico-sociologico, comincia a diventare meno chiaro delineare la filosofia politica del liberalismo - si pensi specialmente a John Locke -, e le relative idee sul diritto di proprietà, come frutto di un "equivoco semantico". Come pure è stato sottolineato, soprattutto da Danilo Zolo, l'endiadi "liberty and property" appare invero essenziale non soltanto ai fondamenti teorici del pensiero liberale ma anche al capitalismo occidentale. In tal caso, far prevalere un'analisi meramente scientifico-formale determina una concezione tendenzialmente irrealistica o astratta dell'evoluzione storico-politica dei diritti soggettivi.

Al di là delle distinzioni formali, sicuramente coerenti, almeno all'interno della teoria generale del diritto (rectius: di una certa proposta di teoria generale del diritto), tra i diritti fondamentali e il diritto di proprietà, tra il diritto di divenire proprietario ed il concreto esercizio del diritto di proprietà -, non si capisce cosa possa guadagnarsi, in termini di consapevolezza storico-giuridica, negando il carattere essenziale del diritto di proprietà entro gli ordinamenti civili capitalistici.

Invero, la polemica di Ferrajoli avverso il diritto di proprietà è motivata specialmente dall'adesione dell'autore a principi universalistici di eguaglianza e solidarietà nonché a quelli propri del cosiddetto stato sociale di diritto, peraltro condivisibili. A ciò si aggiunge un importante richiamo al kantismo e al cosmopolitismo giuridico, evidente nella prospettiva internazionalista delineata da Ferrajoli. Senonché, da un punto di vista teorico, è dunque doveroso sottolineare come il fondamento delle tesi filosofico-giuridiche di Ferrajoli, nella fattispecie del diritto di proprietà, non sia la proposta teorico-generale dei diritti fondamentali; il fondamento, in tal caso, è proprio nell'insieme di quei principi di valore cui si è fatto riferimento. A tal punto, sarebbe più giusto, da parte dell'autore, condurre una battaglia garantista e solidarista su basi esplicitamente politiche, senza pretendere di ottenere importanti risultati, in termini di eguaglianza sociale, attraverso la "critica giuridica dell'istituto proprietario". L'autore, infatti, ritiene che l'esercizio del diritto di proprietà costituisca fonte di diseguaglianza sociale; al contempo, considera i diritti sociali come fondamentali, meritevoli dunque di maggiori garanzie. In tal modo, egli sembra pensare che la distinzione strutturale tra i diritti fondamentali e il diritto di proprietà possa risultare foriera non solo di una migliore conoscenza teorica, ma anche di un autentico progresso sociale. Di nuovo, si colgono un formalismo ed un'astrattezza tipici delle argomentazioni di Ferrajoli, troppo schiacciate sulla preminenza del discorso teorico-generale; invero, come pure si dirà, il tema dell'eguaglianza sociale è un tema innanzitutto politico o economico-politico e soltanto secondariamente analizzabile secondo un approccio simpliciter giuridico o istituzionale.

L'insistenza stessa dell'autore sugli importanti traguardi raggiungibili, in termini di tutela dei diritti sociali, pur considerati fondamentali, nei nostri ordinamenti giuridici, attraverso più o meno innovative tecniche giurisdizionali di garanzia, appare, per un verso, troppo pretenziosa e, per altro verso, scarsamente realistica. Sembra pretendere troppo l'idea di assicurare una reale garanzia ai diritti sociali prevalentemente a mezzo di istituti giurisdizionali; non solo per la tendenziale inefficacia di tale tutela, ma anche perché l'attuazione degli obiettivi insiti in questi diritti dipenderebbe da un impegno primariamente politico ed amministrativo, più che giudiziale. Più in generale - come è stato intelligentemente notato da Danilo Zolo -, il problema di una maggiore eguaglianza sociale, obiettivo cui pure tende il garantista Ferrajoli, non sembra risolvibile simpliciter o prevalentemente attraverso il ricorso a forti tutele di tipo giudiziario. La questione richiederebbe un approccio politicamente più critico nei confronti dell'assetto economico-sociale del capitalismo globale: invero, la progressiva inefficacia delle prerogative stabilite dai diritti sociali - persino costituzionalmente proclamati - dipende dall'egemonia dei meccanismi del mercato, dall'erosione del politico, dal depotenziamento normativo del diritto, e certamente non dall'esercizio più o meno egoistico del diritto di proprietà ovvero dalla mancanza di adeguate garanzie. In questo caso emerge un contrasto non solo e non tanto tra una pretesa iper-normativistica, implicita nel discorso di Ferrajoli, e un atteggiamento giuridicamente più realistico: si tratta, come si dirà, di un deficit epistemologico nell'analisi dei nostri complessi sistemi sociali.

Anche le altre tesi sostenute da Ferrajoli non hanno un fondamento "scientifico", nel senso puramente formale implicato dalla sua proposta teorico-generale, bensì chiaramente assiologico. In questo caso, tuttavia, l'autore giustifica quelle tesi ancora una volta su osservazioni di carattere empirico o giusdogmatico - e perciò presuntivamente wertfrei -, facendole in buona parte derivare dalla mera efficacia normativa del diritto positivo, costituzionale ed internazionale.

Nella polemica avverso Thomas Marshall, il quale notoriamente fa dipendere l'ascrizione dei diritti soggettivi unicamente dallo status di cittadino, Ferrajoli argomenta sulla base del diritto positivo: i diritti fondamentali sono oggi attribuiti, sia dalle carte costituzionali che dal diritto internazionale, a tutte le persone, indipendentemente dalla cittadinanza nazionale. Quanto affermato dall'autore appare indiscutibile, sul piano che egli stesso chiama "giusdogmatico"; ma naturalmente non sembra affatto sufficiente a confutare, per così dire, la tesi di Marshall. E questo non soltanto perché la concezione marshalliana ha un rilievo primariamente sociologico e non di diritto; ma soprattutto perché l'attribuzione de iure dei diritti fondamentali indipendentemente dalla cittadinanza sembra, purtroppo, una petizione di principio, politicamente irrealistica e giuridicamente inefficace. In realtà, come lo stesso Ferrajoli chiaramente ammette, la critica a Marshall si fonda su di un'idea kantianamente universalistica sia dei diritti fondamentali che del diritto in generale (si pensi, in particolare, alla prevalenza del diritto cosmopolitico su quello statuale). Invero, l'idea secondo la quale dalla positivizzazione, sul piano del diritto costituzionale e di quello internazionale, dei diritti dell'uomo - potrebbe dirsi, nel linguaggio di Ferrajoli, dei diritti fondamentali tout court, in quanto prerogative della persona indipendenti dallo status civitatis -, discende l'universalità dei diritti soggettivi, ci sembra iper-normativistica. In altri termini, essa tende a rimuovere quelle condizioni economico-politiche, ma anche di etica pubblica, che rappresentano la possibilità stessa dell'esercizio dei diritti soggettivi (al di là della mera titolarità degli stessi); in definitiva, trattasi di una concezione che pretende troppo dall'efficacia del diritto positivo. Peraltro, l'ascrizione dei diritti in base alla cittadinanza politica risulta anche dal nesso democrazia-diritti, per cui i diritti individuali implicano quella partecipazione istituzionale alla societas che a sua volta dovrebbe fondare la legittimità costituzionale della sovranità (si pensi alle tesi di Habermas (46)). Prendere sul serio il costituzionalismo, dunque, non dovrebbe significare la rimozione della cittadinanza politica né, ovviamente, del problema istituzionale della garanzia dei diritti; da questo lato, occorrerebbe ben distinguere il diritto costituzionale da quello internazionale: il primo, oltre all'importante discorso sulla legittimità, è potenzialmente più realizzabile e "giustiziabile", mentre il secondo sembra tendenzialmente privo di efficacia, proprio in relazione al concreto esercizio degli status individuali.

Chiaramente, non si vuole certo contrastare una tutela anche internazionalistica dei diritti; in primis, il problema sembra essere più economico-politico che giuridico: siamo certi che un'assistenza efficace di tipo universalistico - per esempio agli immigrati irregolari - dipenda soltanto o prevalentemente da un certo tipo di legislazione internazionale? Pur senza accedere necessariamente a posizioni marxiste, non sarebbe il caso di evidenziare il problema strutturale del capitalismo globale? In altri termini, io penso che le ineguaglianze e le profonde ingiustizie che sussistono con riferimento, ad esempio, alle migrazioni di massa, siano il frutto di un certo sistema economico-sociale, il quale andrebbe affrontato materialmente e non appellandosi simpliciter alla Carta delle Nazioni Unite. Anche senza ritenere di dover fare la rivoluzione hic et nunc, è lecito ipotizzare (e lottare per) una società più giusta? Oppure, l'adesione pedissequa ai principi assiologici del diritto positivo internazionale - purtroppo largamente ineffettuale - ci esime da una possibile critica dell'economia politica? Invero, mi sembrerebbe ingenuo e concettualmente povero sopravvalutare l'efficacia normativa del diritto positivo, a fronte dei grandi mutamenti della società capitalistica, in cui ad esempio si assiste ad una generalizzata mercificazione del lavoro, senza porre innanzitutto il problema di una trasformazione anche strutturale dell'economia globale e del suo modello di sviluppo.

Ma, d'altronde, la questione si porrebbe anche rimanendo su di un terreno primariamente giuridico e "liberale", ossia senza necessariamente criticare, magari marxisticamente, il capitalismo globale. Dal lato della filosofia del diritto, è stato di recente notato, con acume, che la divaricazione tra il dichiarato universalismo dei diritti, sulla scala del diritto internazionale, e la loro inefficacia, non può qualificarsi come una mera "lacuna" - da deprecare e da colmare richiamandosi simpliciter alla normatività del "giuridico". Si tratta, invece, di un problema strutturalmente concettuale, che la teoria del diritto deve affrontare con realismo, se non voglia rischiare di proporsi inutilmente sul panorama delle scienze sociali (47).

Argomentazioni in parte analoghe, quanto al problema della fondazione, valgono per le successive due importanti tesi sostenute da Ferrajoli: quella riguardante la democrazia sostanziale e quella riferibile alla distinzione ontologica tra i diritti e le loro garanzie.

Quanto alla prima, sostenere che la natura costituzionale della democrazia vigente si desume dalla mera lettura della carta fondamentale - sarebbe frutto cioè di un'analisi che Ferrajoli chiama giusdogmatica - non significa fondare in modo scientifico, ossia wertfrei, l'idea stessa di democrazia costituzionale (che nell'autore diviene poi sostanziale). E ciò per due essenziali motivi. In primis, perché la costituzione stessa non è neutrale: la prevalenza della norma costituzionale su quella ordinaria è implicata da una certa idea del potere, il quale deve essere limitato e legittimo, nonché coerente con la garanzia dei diritti dei cittadini (è dunque il portato del costitituzionalismo contemporaneo, il quale a sua volta è anche un'ideologia e non solo un "paradigma giuridico"). In secondo luogo, perché la concezione della democrazia costituzionale non è soltanto dogmatica ma anche normativa, rappresentando altresì l'idea della democrazia come dovrebbe essere, o si vorrebbe che fosse, e non la mera "fotografia" della costituzione positiva.

In più, l'autore non si limita a esporre le ragioni che fondano il modello della democrazia costituzionale: egli chiama la democrazia vigente come sostanziale, ritenendo il potere politico impossibilitato a rompere gli argini costituzionali e a non garantire i diritti, inidoneo a cambiare l'assetto costituzionale. La democrazia sarebbe sostanziale fino al punto di non essere più qualificabile come un "metodo per pretendere le decisioni"; nel quadro ferrajoliano, le decisioni debbono rispecchiare i principi e i diritti costituzionali, quasi consumando lo spazio discrezionale del politico. Senza dilungarmi su questa tesi, è appena il caso di avvertire che essa rappresenta un'ulteriore forzatura normativa non giustificabile scientificamente: non sarà certo la democrazia costituzionale vigente a distruggere le prerogative della politica, né tantomeno a eliminare il problema della legittimità della stessa costituzione. Riservandomi di ritornare su tale questione, qui è sufficiente ribadire che la democrazia sostanziale è a sua volta un'idea politico-normativa della democrazia, non ricavabile né dalla mera lettura della costituzione vigente né tantomeno dalla proposta teorico-generale di Ferrajoli sui diritti fondamentali.

Infine, vi è l'importante tesi dell'autore sulla distinzione ontologica tra i diritti e le loro garanzie. La mancanza di garanzia di un diritto costituisce soltanto una lacuna che il legislatore deve colmare, in quanto la statuizione positiva di un diritto è la sua indiscutibile validità. Di nuovo, Ferrajoli argomenta sulla scorta del diritto positivo e, su basi apparentemente scientifiche, "confuta" persino Hans Kelsen, il quale identificava il diritto individuale con la sua garanzia, facendo in sostanza coincidere, sotto questo profilo, validità ed effettività. Indipendentemente dalla diatriba con Kelsen, e anche al di là del confronto tradizionale tra l'approccio normativistico e quello giusrealistico, su cui occorrerebbe dilungarsi con più attenzione, qui mi interessa semplicemente sottolineare come il fondamento della tesi ferrajoliana non consista nello ius positivum, bensì nel solido garantismo dell'autore. Non pare che si possa pretendere di sostenere questa tesi su diritti e garanzie argomentando in termini puramente giusdogmatici; forse non si tratta nemmeno di un atteggiamento iper-normativista, ma probabilmente del riflesso teorico-giuridico del garantismo. Certo, l'idea di attribuire efficacia normativa a un diritto soggettivo privo di garanzia dovrebbe rafforzare questo diritto; rimane da capire, però, quale valenza politica possa avere tale concezione. In tal caso, è come se la normatività dell'ordinamento giuridico, inclusi i diritti individuali positivi, costituisca il riflesso dell'ordo formalizzato, quasi more geometrico demonstrata. Ma in questo modo non solo si fa prevalere, anche disciplinarmente, la teoria del diritto sulla sociologia del diritto; più pericolosamente, si rischia di sganciare completamente il diritto dalla sua efficacia, un rischio che neppure il "formalista" Hans Kelsen era disposto a concedere: così si spiega, invero, le tesi kelseniana secondo cui la validità dell'ordinamento dipende dalla sua efficacia, la quale dunque costituisce conditio sine qua non della stessa normatività del giuridico.

Certamente, in relazione alla singola norma, non ha da trattarsi di un'efficacia totalizzante: quasi come se il diritto fosse già realizzato nel contesto sociale, come se non avesse una sua propria forza orientativa ed istituzionale. Tuttavia la normatività del giuridico, se non si riduce a pura forma, sta in un certo rapporto con il mondo sociale, in quanto - come ci ricorda, ad esempio, Herbert L. A. Hart - determinante per l'ordinamento è anche l'uso della norma da parte dei consociati, dunque l'ethos che è alle spalle del diritto (48). Inoltre qui non si discute tanto o soltanto della norma giuridica tout court, ma di quella che ascrive un diritto, magari fondamentale. In questo caso, una sistematica inefficacia non può che ripercuotersi sul diritto positivo: se il costituzionalismo, come sembra pretendere Ferrajoli, va "preso sul serio", allora non sarebbe serio parlare di validità o imperatività della norma che ascrive un diritto quando l'ordinamento ne disattende regolarmente la sua garanzia e realizzazione. E si badi che Ferrajoli non fa riferimento soltanto alla garanzia giurisdizionale o secondaria di un diritto soggettivo, ma anche alla garanzia primaria, ossia all'obbligo corrispondente al diritto. La mancata previsione dell'obbligo non si ripercuote minimamente sulla validità e la normatività del diritto soggettivo: francamente, mi sembra un'affermazione alquanto azzardata, sia sul piano logico che su quello giuridico (49). Un conto è una certa quota di fisiologica inefficacia del diritto; altro una sistematica ineffettività; ed altro ancora è addirittura la mancata stipulazione normativa della garanzia o dell'obbligo corrispondente al diritto.

Per molta dottrina, anzi, al diritto deve corrispondere la previsione dell'obbligo altrui e della sua garanzia: pena l'insussistenza del diritto statuito. E questo vale persino per Hans Kelsen, il quale è il padre del normativismo novecentesco e certamente non un radicale "giusrealista".

Dunque, proiettare la forza normativa del diritto soggettivo totalmente oltre la sua efficacia non favorisce la garanzia di quel diritto, se non in termini puramente formali. In più, qualificare come una semplice "lacuna" la mancanza di garanzia giuridica lascia pensare che il legislatore sia meramente obbligato a costruire la garanzia, quasi si trattasse di ingegneria istituzionale e non di volontà politica. Infine, sarebbe utile distinguere tra i vari tipi di diritti e chiarire che la garanzia di un diritto è un fenomeno complesso, non ascrivibile soltanto all'amministrazione o alla giurisdizione, ma anche a quelle molteplici condizioni sociali che possano davvero consentire di realizzare una prerogativa giuridica individuale. In fondo, il diritto non è soltanto ordine giuridico, ma è anche un medium sociale: circostanza "realistica" che tuttavia il giurista Ferrajoli non sembra né cogliere né argomentare adeguatamente.

In definitiva, al di là dell'approfondimento di merito che certamente richiedono le tesi di Ferrajoli, e nonostante i chiarimenti da lui aggiunti, può dirsi che il nostro autore si richiami assiologicamente a principi in gran parte condivisibili, facendoli però giocare su di un terreno epistemologico poco accettabile. Come ha scritto Ermanno Vitale, il quale pure assume come giuste le implicazioni ideali del discorso ferrajoliano (finanche la sua indignazione, il suo "côté filosofico"), "ciò che non [è] condivisibile è il proporre come implicazioni di una teoria generale del diritto more geometrico demonstrata questa indignazione, questi giudizi, questi indicazioni" (50). In tal modo, come sottolineato da Vitale, è come se il costituzionalismo rettamente inteso - alla stregua di un discorso teorico-generale illuminato dalla recta ratio - rendesse inutile la discussione politica sul "che fare": invero, la democrazia rischierebbe di essere semplicemente esecutiva di un disegno non solo e non tanto "costituzionale", quanto immaginato a tavolino dal filosofo del diritto, rectius: dal teorico generale.

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Il terzo e il quarto tema che vorrei brevemente discutere - la questione della democrazia cosiddetta sostanziale; la questione del "costituzionalismo" tra diritto e politica - possono delinearsi insieme, data la loro contiguità argomentativa.

Ferrajoli, così come altri autori, a partire da Diritto e ragione per giungere ai suoi ultimi lavori, ha ben delineato i tratti essenziali del modello della democrazia costituzionale. Il nostro autore "prende sul serio" il costituzionalismo, tematizzandolo in modo da configurarlo come un nuovo paradigma giuridico-istituzionale che dà forma e sostanza al contemporaneo stato di diritto. In più, egli ha il merito di argomentare intorno al costituzionalismo in relazione alla filosofia giuridica del positivismo, cui pure aderisce. Ad ogni modo, quel che convince di meno del magistero ferrajoliano, sotto il profilo della teoria democratica, non è l'idea di democrazia costituzionale - peraltro in gran parte desumibile dalla legislazione positiva -, quanto quella di democrazia sostanziale.

Nella democrazia costituzionale, il potere normativo è sottoposto ai vincoli della costituzione rigida, ed è a tal proposito che Ferrajoli discorre di validità sostanziale della legge, il che a suo giudizio rappresenta un completamento, se non un rinnovamento radicale, del paradigma giuspositivistico. Il diritto è a sua volta soggetto al diritto (costituzionale), tanto da poter parlare, ad esempio in Principia iuris, di gius-costituzionalismo (51). Nel nuovo paradigma statuale, la democrazia non può più essere intesa in senso meramente formale o procedurale; non tanto perché essa presuppone - ad esempio come avviene in Habermas - l'esercizio di determinati diritti, quanto perché non può decidere sui diritti fondamentali ed anzi deve compiersi nella realizzazione di tali diritti (peraltro costituzionalmente previsti). Di qui, il tema della democrazia sostanziale: la democrazia è ora vincolata anche alla sostanza delle sue decisioni, pena l'invalidità o illegittimità della deliberazione.

Si avverte, però, uno scarto tra i concetti di democrazia costituzionale e democrazia sostanziale: mentre la prima è un dato non controvertibile, a legislazione vigente, data la natura rigida della costituzione e il nuovo assetto tra le fonti del diritto, la seconda invece si rappresenta come una concezione fortemente normativa e certamente più criticabile. I problemi posti dalla democrazia sostanziale, in realtà, sono almeno i seguenti: la questione dell'auctoritas; l'erosione dello spazio decisionale del potere democratico; l'indiscutibilità del costituzionalismo nella sua applicazione legislativa, quasi si trattasse della recta ratio trasferita al diritto.

Un'autrice come Anna Pintore ha sollevato vari temi critici a proposito della concezione democratica ferrajoliana. In primis, l'autrice rileva come i diritti fondamentali, in Ferrajoli, pur avendo un significato assiologico, sono posti dal potere, dall'auctoritas; siccome, tuttavia, essi vengono compresi nella costituzione, la quale è sovraordinata alla legislazione ordinaria, gli stessi sarebbero non suscettibili di decisione avversa: la legge deve conformarsi ai diritti. In questo modo, Ferrajoli, sia pure in un quadro giuspositivista, sembra superare per sempre il contrasto tra ius e lex, conformando definitivamente l'autorità al diritto. Tuttavia, il ragionamento di Ferrajoli, per quanto apparentemente confortato dal quadro giuridico vigente, non sembra così pacifico: una difesa così totalizzante dei diritti fondamentali pretenderebbe, ad esempio, una fondazione di valore, giusnaturalistica o etico-cognitivisica, il che però non avviene nel discorso dell'autore. I diritti sono posti dall'auctoritas, ma, al contempo, ne sarebbero immuni: invero, non ci sembra affatto un'affermazione indiscubile o realistica. Condivisibilmente, rileva Pintore: "I teorici del radicamento oggettivo dei diritti spesso cadono nell'errore di scambiare la realtà giuridico-politica con le teorizzazioni su di essa, nel senso che talora paiono ritenere sufficiente la pura e semplice critica alla teoria (giuspostivistica) che riduce il diritto all'auctoritas per considerare in tal modo risolto anche il problema politico-giuridico dell'autorità storica. Ma, ovviamente, questo è solo un wishful thinking; ovviamente non basta negare il principio cardine del giuspositivismo, auctoritas non veritas facit legem, per dissolvere l'autorità politica in carne ed ossa, la quale esiste a dispetto di qualunque critica al principio, ed è poi quella che dovrà svolgere, in modi da determinare, il necessario compito di conferire (o riconoscere) i diritti e di provvedere alla loro amministrazione nel mondo reale, non in quello armonioso della teoria" (52).

Se il costituzionalismo non è il giusnaturalismo, e se la costituzione non è il diritto naturale, allora le legge costituzionale a sua volta è frutto dell'auctoritas e non può dunque prescindere dal problema del potere e della decisione. Ferrajoli, invece, aderendo ad una filosofia neo-contrattualistica, sembra pensare che il patto costituzionale sia una sorta di ragion pratica applicata al potere e al diritto, logicamente giustificato e tendenzialmente irreversibile. Si tratta, comunque, di mera teoria, perché in tal modo, come avverte Pintore, non si elimina affatto il problema storico dell'auctoritas, la quale peraltro non va vista necessariamente in contraddizione con il diritto e i diritti. Si pensi a Hobbes e alla portata artificiale, ma anche razionale e regolativa dell'autorità (53); e si pensi, più semplicemente, al dato storico delle costituzioni: queste rappresentano comunque una decisione, ad esempio da parte dell'assemblea costituente, e di certo non un contratto stabilito all'unanimità, valido una volta e per sempre.

Non solo Ferrajoli sembra superare indebitamente il problema dell'auctoritas; ma tende a rimuovere anche l'esigenza di ancorare i diritti alla democrazia, ossia al substrato di discussione pubblica e alla successiva decisione, che è poi l'essenza della democrazia. I diritti fondamentali, nel quadro del nostro autore, albergano nella costituzione, ma non nell'autonomia morale e politica dei loro titolari. Alla tesi di Anna Pintore, secondo cui "crediamo nei diritti perché crediamo nell'autonomia degli individui" (54) -, Ferrajoli risponde: "niente affatto: l'autonomia è solo uno dei diritti, per di più sottoposto alla legge e non certo più importante del diritto alla vita o della libertà di coscienza o dell'immunità da torture" (55).

Sfugge all'illustre giurista, a mio avviso, che l'autonomia di cui discorre la Pintore ha un significato non soltanto giuridico, ma altresì morale ed etico-politico, ed essa corrisponde a quella "rivoluzione copernicana" che ha caratterizzato la modernità e il suo discorso dei diritti, come limpidamente riconosciuto da Norberto Bobbio. Perciò sganciare i diritti dall'autonomia morale ed etico-politica - e quindi anche giuridica, come sostiene Habermas in Faktizität und Geltung - dei cives, equivale fondamentalmente a misconoscere il portato culturale e politico della modernità. L'autonomia degli individui non è soltanto un diritto o un diritto-potere sì come configurato dall'ordinamento positivo (magari costituzionale): è altresì una caratteristica etico-politica, per cui si è modernamente alimentata la "lotta per i diritti" e senza la quale difficilmente si sarebbe giunti alla positivizzazione di tali importanti prerogative giuridiche. Ferrajoli, di nuovo, nonostante alcuni riferimenti "realistici" presenti in Principia iuris, sembra concepire il diritto e i diritti come sconnessi dal substrato etico-politico di fondo.

Più in generale, ci sembra che l'autore non tematizzi adeguatamente i nessi storici e teorici tra il sistema del diritto e le altre dimensioni sociali, in particolare la politica e l'etica pubblica. Sicuramente in buona fede e mosso da un autentico garantismo, Ferrajoli, pur di salvaguardare determinati diritti, arriva persino a sostenere la inopportunità di vagliare la reale volontà politica dei cittadini. In un rilevante passaggio, l'autore si oppone alla tesi secondo cui i diritti fondamentali "presuppongano di fatto" la loro condivisione morale, anche soltanto della maggioranza dei cittadini; i diritti umani stessi non esprimerebbero alcuna "etica condivisa". La stessa Dichiarazione dei diritti del 1789 sarebbe stata supportata da un'esigua minoranza e sarebbe decaduta se "messa ai voti"; e, specialmente, "ancor oggi sarebbe da temere un referendum sulle garanzie penali e processuali" (56). L'autore, così, non soltanto, come si diceva, salta completamente il nesso democrazia-diritti; ma sembra disinteressato persino al rapporto tra l'etica pubblica di una societas e la civiltà giuridica che essa esprime. Per Ferrajoli sarebbe pericoloso, "da temere", il sondare le idee dei cittadini circa i loro stessi diritti. In tal modo, la garanzia dei diritti assume un valore chiaramente paternalistico, che cade dall'alto sulle teste dei consociati. Ignorare peraltro l'ethos sociale comporta anche ignorare l'importanza del ruolo dei consociati nell'uso del diritto e, in particolare, delle norme che ascrivono i diritti soggettivi (si pensi, di nuovo, alle lucide tesi di Herbert L. A. Hart (57)). Rimarrebbe, inoltre, da capire in qual modo opererebbe la garanzia giuridica degli status individuali in una società nella quale non vi sia un consenso, almeno maggioritario, nei loro confronti: sarebbero essi imposti dal potere? E il potere avrebbe interesse a far valere questi diritti sganciati dall'autonomia dei cittadini? Ed ancora: per quanto tempo durerebbe una legislazione, ordinaria o costituzionale, che disciplini i diritti soggettivi se essa non risulti in sintonia con l'etica pubblica della società? Una normativa di questo tipo sarebbe poi immutabile? Si evidenzia nuovamente un'idea apparentemente neo-contrattualistica della costituzione, la quale in Ferrajoli sembra rivestire gli aspetti di una ragion pratica non più discutibile - forse nel nome del garantismo -, magari immodificabile persino a dispetto dell'evoluzione sociale.

Pertanto il riferimento dell'illustre giurista al carattere storico del costituzionalismo e all'importanza politica della "lotta per i diritti" - aspetti che dunque intende riconoscere come essenziali - sembra invero dissonante, sul piano epistemologico ma non soltanto. Lucidamente ha rilevato Anna Pintore: "Sotto il profilo psicologico, vale la pena di notare il tasso di sfiducia che questa teoria implica nei confronti di quegli stessi movimenti sociali, razziali e d'opinione a cui pure si accredita il merito di aver determinato il riconoscimento giuridico dei diritti fondamentali, favorendo l'imporsi di un'opinio comune, che i nostri ordinamenti sono stati costretti presto o tardi a recepire. C'è una certa dissonanza psicologica tra la simpatia morale per le lotte 'dal basso' che hanno prodotto i diritti, e l'atteggiamento in fondo aristocratico e paternalista, quantunque illuminato, di chi vuole oggi sottrarli alle scelte di coloro che li hanno scelti, e affidarli interamente alla oculata amministrazione del filosofo o, il che è la stessa cosa, alla occulta amministrazione dell'interprete. C'è una certa dissonanza pragmatica tra questa esaltazione ultimativa dei diritti e la loro estromissione dalla sfera dell'autonomia morale, e dunque politica, dei loro titolari" (58).

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Infine, vorrei sottolineare alcuni aspetti epistemologici del discorso di Ferrajoli poco convincenti, i quali si evidenziano ove l'autore offre un'analisi nettamente formale o formalistica del diritto, evitando un approccio più complesso e "realistico" nei confronti del giuridico (e del sociale).

Tanto si manifesta, innanzitutto, già nell'ambito della teoria del diritto. Come rilevato da Danilo Zolo, Ferrajoli sembra aderire ad una teoria generale intesa come "una disciplina avalutativa e ideologicamente neutrale, secondo i canoni più ortodossi (carnapiani) del neopositivismo logico viennese". Questo significa che l'autore considera la disciplina della teoria generale del diritto come totalmente wertfrei, in contrapposizione, ad esempio, alla filosofia del diritto che, non certo casualmente, egli qualifica sovente come filosofia della giustizia. Ma i concetti descritti dalla teoria generale non sempre si prestano ad essere definiti unicamente per i loro aspetti formali e strutturali; è proprio il caso, ad esempio, dei diritti fondamentali. Si è veduto, infatti, alla stregua del discorso di Michelangelo Bovero, che la qualifica di "fondamentale" del diritto soggettivo è carica di valenze etiche e politiche - derivanti peraltro dall'esperienza storica - e mal si presta ad una descrizione formalistica. Ferrajoli giunge persino a considerare valida in assoluto, sul piano logico-giuridico, la sua proposta teorico-generale, indipendentemente dal carattere etico-politico dell'ordinamento; mi sembra, invero, un ragionamento poco fondato, se si consideri che il concetto di diritto fondamentale sarebbe persino difficilmente formulabile in un contesto diverso da quello moderno e occidentale. Chiaramente, Ferrajoli è libero di proporre la sua idea formale dei diritti fondamentali; ma non sarebbe giusto offrire una tale definizione, prescindendo dalle condizioni storiche per cui hanno preso forma quei diritti soggettivi, così qualificati dall'autore.

Non casualmente l'autore sovente si riferisce alla filosofia del diritto qualificandola come filosofia della giustizia. In tal modo, Ferrajoli lascia ritenere che la filosofia del diritto abbia ad oggetto unicamente i valori (evidentemente non razionali) della giustizia, mentre soltanto la teoria generale può descrivere scientificamente (ossia razionalmente) il diritto. Indipendente dalla diatriba, di pertinenza della filosofia morale, circa la conoscibilità razionale dei valori ("cognitivismo etico"), è comunque certo che il diritto, ontologicamente, intreccia fatti e valori; com'è noto, si tratta d'una fenomenologia sociale complessa, certamente "impura". La stessa Reine Recthslehre di Hans Kelsen ha rappresentato un tentativo (un grande tentativo, in gran parte riuscito) di descrivere scientificamente, e quindi in modo "puro", quel fenomeno così complesso che chiamiamo diritto; come ha sottolineato Alfonso Catania, nel caso di Kelsen "è la concezione che vorrebbe essere pura, non l'oggetto" (59). Ne consegue che un approccio attento ai valori è altrettanto scientifico di un'analisi presuntivamente wertfrei (si pensi alla teoria giuridica di un Habermas). Per questo, sarebbe opportuno discorrere ancora, in termini disciplinari, di filosofia del diritto e non meramente di filosofia della giustizia: un approccio teorico-generale non presuntivamente wertfrei al diritto è tout court "filosofia del diritto", e non "filosofia della giustizia", perché non ha ad oggetto soltanto i valori, ma i fatti e i valori del diritto. In definitiva, ritengo che l'uso, da parte di Ferrajoli, della terminologia "filosofia della giustizia" non sia un dato solo formale, ossia concettualmente innocente: è un'implicazione, da un lato, della sua adesione ad una versione formale ed "ortodossa" della teoria generale e, dall'altro, di una considerazione tendenzialmente irrazionalistica della filosofia del diritto.

Un ulteriore fattore critico della teoria giuridica ferrajoliana risiede nella discutibile idea del rapporto tra il diritto e gli altri sistemi sociali, in particolare l'economia. Con notevole rigore semantico, l'autore ben distingue, ad esempio, il diritto di divenire proprietario dal diritto di proprietà: l'uno è universale, dunque fondamentale; l'altro è excludendi alios, e pertanto non sarebbe fondamentale, consistendo, in pratica, nell'esercizio del diritto di proprietà. Su di un piano puramente teorico-analitico, e coerentemente col pensiero dell'autore, la distinzione parrebbe giusta; sul piano pratico, invece, tende ad avere scarsa rilevanza. Ed infatti, al diritto (fondamentale) di divenire proprietario consegue - a certe condizioni - il diritto di proprietà, nel suo concreto esercizio. Scindere i due diritti, dal lato pratico-giuridico, è dunque abbastanza specioso; e lo diventa soprattutto qualora si ritenga, come ritiene l'illustre giurista, che l'esercizio del diritto di proprietà - diversamente dal diritto di divenire proprietario - genererebbe diseguaglianza sociale ed economica. I due diritti si implicano a vicenda e perciò non è ben comprensibile perché da essi dovrebbero derivare, rispettivamente, diverse conseguenze sociali. Da questo lato, discorrere, da parte di Ferrajoli, di "equivoco semantico" in relazione alla teoria lockeana ovvero, specularmente, alla concezione marxista della proprietà mi sembra, invero, surreale: quasi come se il carattere storicamente fondamentale, anche de iure, del diritto di proprietà nelle società occidentali - e in particolare di un certo tipo di "proprietà" - sia il frutto di un errore terminologico, in cui sarebbero incorsi il liberalismo e il marxismo, e non, invece, il portato stesso del capitalismo e della sua ideologia.

Ma poi: è proprio vero che la diseguaglianza economica, anche giuridicamente riguardata, è principalmente l'effetto del dispiegarsi dell'istituto proprietario (ad esempio di un qualunque diritto di credito)? Sembra emergere, dal lato di Ferrajoli, una polemica nei confronti della proprietà, in quanto foriera di diseguaglianza, politicamente fuori bersaglio; non, infatti, la proprietà come tale determina iniquità bensì altri meccanismi dell'economia capitalistica, in cui si esercita un particolare tipo di proprietà, ad esempio quella che ha ad oggetto i "mezzi di produzione". Come ci ricorda Danilo Zolo, lo stesso Marx non ha mai criticato la proprietà in se stessa, bensì "la proprietà privata dei mezzi produttivi, che a suo giudizio era l'architrave dell'economia capitalistica". Prosegue l'autore: "la sua critica riguardava proprio quella illimitata facoltà di possedere - non più proporzionata alla (limitata) capacità di consumo del proprietario e, soprattutto, alla sua (limitata) capacità di lavoro - che è teorizzata e moralmente giustificata dal padre fondatore del liberalismo, John Locke. (...) Marx rifiutava in sostanza quegli aspetti dell'istituto proprietario - essenzialmente il diritto attribuito a tutti gli individui di divenire senza limiti proprietari di beni e strumenti produttivi e di esercitare quindi un'attività economica privata - che (...) Ferrajoli assimila ai 'diritti fondamentali'" (60).

Danilo Zolo considera, condivisibilmente, ancora attuale questo aspetto della critica marxiana della "società liberale", ossia il problema della tensione tra libertà ed eguaglianza in un'economia capitalistica. A suo parere, tale problema rimane insoluto non perché l'origine della povertà sia la struttura esclusiva della proprietà privata, ma perché ad operare in senso antiugualitario sono i potenti meccanismi capitalistici. La diseguaglianza sociale, in tal senso, dipende da una diseguale attribuzione della ricchezza e delle opportunità di accesso alle risorse economiche (e certamente non dalla fruizione egoistica dei beni implicata dal diritto di proprietà). In più, l'autore sottolinea che, oggi, "i meccanismi economici e finanziari dell'economia di mercato operano sempre più efficacemente a livello globale, all'ombra dell'egemonia politico-militare delle grandi potenze industriali che controllano il commercio internazionale, i grandi mezzi di comunicazione di massa, lo sviluppo di nuove tecnologie, la produzioni delle armi da guerra e così via" (61).

D'altronde, lo stesso Zolo sottolinea un'ulteriore questione, ossia la diseguaglianza generata dall'esercizio di alcune "libertà fondamentali": alcuni diritti, come l'autonomia negoziale, la libertà di associazione, la libertà di stampa e la libertà di iniziativa economica nel settore dei mezzi di comunicazione di massa, presentano una notevole "capacità acquisitiva", in quanto, a certe condizioni, il loro esercizio produce potere politico-economico e comunicativo a vantaggio dei loro titolari. Peraltro, in un'economia basata sulla concorrenza, spesso "selvaggia", solo determinate élites dispongono delle risorse organizzative necessarie per sfruttare le proprietà acquisitive di questi diritti: e ciò contribuisce ad incrementare libertà e ricchezza per pochi e, corrispondentemente, disuguaglianza e povertà per la maggioranza dei gruppi sociali. Sul punto, conclude significativamente Zolo, "ne deriva che non solo la soddisfazione delle aspettative sociali ma la stessa tutela delle libertà fondamentali rischia di dipendere per ciascun soggetto non dal suo essere titolare di 'diritti fondamentali' ma dal suo potenziale di affiliazione corporativa. E quanto più potente è l'élite cui il soggetto è affiliato e più elevato è il rango che vi occupa, tanto più efficace è la soddisfazione delle sue aspettative di protezione e l'esercizio dei suoi diritti" (62).

Questo ragionamento riguarda anche i diritti sociali, per Ferrajoli "fondamentali", in particolare il diritto al lavoro, spesso costituzionalmente e solennemente proclamato (si pensi al primo articolo della Costituzione italiana). Richiamando, in parte, tesi di Jack Barbalet, Danilo Zolo sostiene che "in un ordinamento giuridico che opera in sinergia con un sistema di economia di mercato, il 'diritto al lavoro' non può essere inteso come una pretesa giuridica garantita dalla possibilità di agire efficacemente in giudizio per la sua soddisfazione. Il diritto al lavoro, anche quando è sancito a livello costituzionale, resta nei sistemi ad economia di mercato un diritto non justiciable - e cioè non applicabile dagli organi giudiziari con procedure definite - perché nessuna autorità giudiziaria è in grado di comandare ad alcuno, si tratti di un soggetto pubblico o di un soggetto privato, di offrire un posto di lavoro a qualcun altro. (...) Rebus sic stantibus la disoccupazione e l'inoccupazione non sono problemi che possano essere affrontati con strumenti giudiziari senza forzare le regole più elementari dell'economia di mercato. (...) Si tratta dunque di un'incompatibilità fra i codici funzionali di due sottosistemi sociali primari: quello del diritto e quello dell'economia" (63).

In tal caso, le condivisibili obiezioni di Zolo rivelano un'analisi non adeguata, da parte di Ferrajoli, del rapporto tra il diritto e il sistema economico ma anche della relazione tra i diritti fondamentali e l'ethos delle nostre società. Per un verso, l'egemonia del capitale globale implica la dislocazione del potere e la svalutazione del diritto; per altro verso, la conformazione etico-sociale del capitalismo si orienta nella direzione di un nuovo "corporativismo" e non verso l'acquisizione equa e liberale dei diritti soggettivi. Naturalmente, Ferrajoli è consapevole di queste difficoltà (64); ma la sua risposta non sembra affatto convincente, perché si appella meramente al costituzionalismo, ad esempio "globale", e non mira ad una trasformazione anche materiale e ideologica di un contesto ormai avverso ai principi della costituzione.

Pertanto, mi sembra discutibile la mancata attenzione di Ferrajoli, laddove pure descrive la crisi indotta dalla globalizzazione, alla cultura politica marxista; l'autore si limita a deprecare i regimi del "socialismo reale", crollati per il loro scarso rispetto delle regole e del diritto, ma non si confronta con il contributo critico del marxismo in ordine all'analisi delle società capitalistiche. Peraltro, lo scarso rispetto della norma giuridica, anche costituzionale, è oggi un tratto tipico proprio del capitalismo globale; dunque sarebbe opportuno che i giuristi di formazione liberale affrontassero con decisione questo problema, magari mettendo in discussione alcune "certezze moderne" di un'ideologia (il liberalismo) rivelatesi ormai largamente inefficaci. Sorprende dunque che un autore come Ferrajoli, pure tipicamente militante "a sinistra" - ma Bobbio lo definiva "liberale in politica" (65) -, non si rapporti in modo adeguato, almeno a mio giudizio, con la cultura politica socialista.

D'altronde, l'epistemologia dell'autore non consente di affrontare realisticamente, ad esempio, i limiti strutturali del capitalismo globale, i suoi tratti non solo iniqui ma anche illibertari (si pensi alle nuove forme di mercificazione e sfruttamento), il procedere di un potere biopolitico in certi casi di marca schiettamente "imperiale" e postmoderna (66), sovente supportato da una discutibile informazione massmediale, nel contesto più generale della "società dello spettacolo". E non ci sembra, questa, un'obiezione fuori tema, pur essendo Ferrajoli un giurista, in quanto le tesi del nostro autore, partendo dal diritto, si rivelano chiaramente filosofico-politiche; si tratta, invero, di argomentazioni culturalmente discutibili, in quanto descrivono il sociale, anche in chiave normativa, appellandosi semplicemente alla recta ratio del costituzionalismo e del diritto costituzionale.

Peraltro, data la portata in qualche modo legittimante dell'ordinamento giuridico, specie di quello costituzionale, con riferimento al contesto economico di fondo, si rivela, in Ferrajoli, anche un rischio ideologico: se il costituzionalismo contemporaneo, più o meno effettuale, non contrasta o addirittura legittima politicamente un determinato status quo, anche nella prospettiva globalista, allora richiamarsi meramente ai principi costituzionali implica un atteggiamento scarsamente critico, se non paradossalmente acquiesciente, nei confronti del sistema economico-sociale.

4. Considerazioni conclusive

Nel delineare alcune considerazioni conclusive - in realtà l'approdo di un discorso critico aperto, sicuramente una traccia per ulteriori riflessioni - va innanzitutto ribadito che, in ogni caso, il magistero teorico-giuridico di Luigi Ferrajoli è degno di ammirazione e rispetto, specie per la lucidità ed il rigore teorico. Peraltro, la proposta ferrajoliana sui diritti fondamentali, unitamente alle ulteriori tesi, riguardate dal lato della teoria generale del diritto, rappresentano una summa culturale imponente, di cui il trattato Principia iuris è degnamente esemplare.

Non si discute quindi il valore della concezione di Ferrajoli, la quale mi sembra possa definirsi come una sorta di neo-illuminismo giuridico e politico applicato alla tarda modernità, teoricamente coerente e moralmente nobile; ma quegli aspetti della sua teoria che, considerati dal punto di vista di altre scienze sociali e discipline contigue alla teoria generale del diritto - la filosofia del diritto e la filosofia politica in primis -, suscitano quei dubbi e quelle perplessità, di ordine teorico-pratico, che prima abbiamo incontrato.

Volendo brevemente ricordare il significato delle obiezioni proposte, si può dire che convince poco del quadro ferrajoliano, all'interno dello stesso discorso moderno, innanzitutto la concezione del nesso sovranità-diritto. Ove per sovranità va intesa non soltanto l'auctoritas - di cui ha discusso brillantemente Anna Pintore - ma anche la politicità, ossia il carattere conflittuale, talvolta polemogeno, sia del diritto che dei diritti soggettivi. Nel nostro autore, invece, il costituzionalismo, inteso come recta ratio, sembra fagocitare sia la democrazia - si pensi ai temi del consenso e dell'autonomia, sicuramente sottovalutati da Ferrajoli -, sia il conflitto politico-democratico (la conquista costituzionale dei diritti sembra dar luogo, nella teoria giuridica ferrajoliana, ad un contratto sociale perennemente valido e immodificabile).

Peraltro, il rapporto sovranità-diritto si ripropone, problematicamente, in Ferrajoli, anche in chiave internazionalistica, soprattutto con riferimento alla questione dell'effettività dei diritti umani. La netta critica dell'autore alla sovranità - considerata addirittura come opposta al diritto - sembra rimuovere il problema dell'amministrazione politica dei diritti, specialmente su scala globale; allo stesso modo, l'ostilità di Ferrajoli all'istituto della cittadinanza, ritenuta come un mero privilegio di status, sottovaluta l'importanza della partecipazione dei cives alla res publica, la quale dovrebbe legittimare sia il potere politico che gli stessi diritti soggettivi. Al proposito, Alfonso Catania, nel ricordare l'idea di Ferrajoli di superare la cittadinanza come "tradizionale contenitore di diritti", in favore di un mondo che abbia come unico riferimento giuridico la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, tanto ha avuto modo di notare: "ovviamente, questo dover-essere che viene opposto alla piatta effettività delle cittadinanze nazionali, 'supera' il problema delle garanzie e delle sanzioni che la giuridicità autentica e positiva collega necessariamente all'idea di diritti, attraverso il nesso sovranità-diritto che viene sciolto nell'organizzazione giuridica, senza però che sia indebolito" (67).

Anche il rapporto etica pubblica-diritto mi sembra non ben definito in Ferrajoli, se si pensi alla sua scarsa considerazione - forse di origine kelseniana - del ruolo dei consociati nella costruzione del diritto (si tratta del consenso, ma anche dell'uso della norma da parte dei cittadini). In tal caso, il garantismo dell'autore, con lo scopo di "riparare" i diritti dalla maggioranza e da ogni altro "potere sociale", finisce per sganciarli dall'autonomia dei loro titolari e, in definitiva, per sottovalutarne la loro genesi politico-conflittuale.

Non del tutto condivisibile è anche, in Ferrajoli, la relazione diritto-morale. Coerentemente, in quanto giuspositivista, l'autore ne ribadisce con acume la distinzione, finanche nel quadro della democrazia costituzionale: dopo tutto, il gius-costituzionalismo di Principia iuris non è il giusnaturalismo. Tuttavia, argomenti come la "validità sostanziale", oltre il mero vigore della norma, la razionalità sostanziale opposta a quella formale, la considerazione del carattere morale dei diritti fondamentali positivi - "la legge del più debole" -, implicati dal costituzionalismo, dovrebbero consigliare maggiore attenzione metodologica sul rapporto tra il diritto e la morale. All'opposto, Ferrajoli non sembra tematizzare adeguatamente la questione, limitandosi ad aggiornare il giuspositivismo al gius-costituzionalismo, come se tale passaggio non determinasse necessariamente riflessioni ulteriori sulla relazione tra il diritto e l'ethos sociale. Da questo lato, è più apprezzabile, a mio avviso, lo sforzo teorico di Habermas o degli stessi neo-costituzionalisti i quali, almeno, hanno proposto interessanti analisi - per quanto non sempre condivisibili - circa le trasformazioni del diritto contemporaneo. A mio giudizio, si tratta di riflessioni non eludibili attraverso il mero richiamo al divisionismo giuspositivista, proprio tenuto conto delle modificazioni del diritto vigente: senza cadere nel giusnaturalismo, è comunque all'ordine del giorno della filosofia del diritto una più adeguata considerazione del nesso tra le due ricordate dimensioni normative, che non si limiti a ribadire una formalistica, quanto inattuale, metodologia positivista (68).

Il problema etico-politico del diritto si ripropone, in termini discutibili, anche nella concezione internazionalistica di Ferrajoli, fautore di un rinnovato cosmopolitismo giuridico - inteso come costituzionalismo globale e federale -, e fondato sull'universalismo dei diritti. L'aspetto più criticabile di tale proposta è il modo in cui l'autore intende l'universalismo, al fine di controbattere alle obiezioni di carattere etico e culturale dei "realisti": l'universalismo giuridico e dei diritti fondamentali non è connotato in senso etico e politico, non è semplicemente frutto della cultura occidentale e può tranquillamente applicarsi globalmente su scala internazionale. Ferrajoli fonda questa argomentazione sul carattere puramente, o primariamente, logico dell'universalismo. Come è stato già ricordato, secondo l'autore, :"[Vi è] infatti un altro significato (...) di 'universalismo': quello, qui adottato nella definizione D11.1, risultante dalla forma logicamente universale dei diritti fondamentali, cioè dal fatto che essi sono conferiti a tutti in quanto persone o cittadini o capaci d'agire. In questo senso logico, l'universalismo dei diritti fondamentali equivale unicamente all'uguaglianza, appunto, in tali diritti dei quali forma perciò il tratto distintivo: formale e non sostanziale, descrittivo e non normativo, strutturale e non culturale, oggettivo e non soggettivo" (69). Questo significato logico dell'universalismo, evidentemente l'unico o comunque il più importante per l'autore, si oppone a quello assiologico o di valore ed a quello sociologico; peraltro, l'universalismo "logico" impedirebbe l'imperialismo culturale, non pretendendo né verità né consenso, pur implicando l'eguaglianza globale del genere umano (con riferimento alla titolarità dei diritti fondamentali).

Mi domando: è metodologicamente serio ritenere l'universalismo giuridico moderno, in particolare quello caratterizzante i diritti soggettivi, come privo (necessariamente) di valore "assiologico" e di significato "sociologico"? Può tale universalismo considerarsi in senso meramente logico? Ritorna, a mio avviso, il rischio di una fondazione neo-formalistica della proposta dell'autore, che sfugge al significato etico dei "diritti universali". Invero, sembra disorientante connotare in senso puramente formale e non sostanziale, descrittivo e non normativo, strutturale e non culturale, oggettivo e non soggettivo, l'universalismo giuridico; in realtà, il carattere universale dei diritti fondamentali ne implica necessariamente un aspetto anche sostanziale, normativo, e soggettivo-culturale. Anzi, si tratta dei connotati più evidenti e controversi dell'intero discorso dei diritti, i quali implicano un fondamento anche etico-politico (e perciò sostanziale: la "legge del più debole"); una proiezione normativa (i diritti pretendono normativamente una loro realizzazione: il tema delle garanzie); una valenza soggettivo-culturale (è l'ineludibile tema del consenso, che è il substrato della discussione pubblica e della democrazia, a meno che non si voglia imporre l'intero set dei diritti occidentali, imperialisticamente, a tutto il mondo). L'autore si appella all'universalismo "logico" per superare - ma non per risolvere - i nodi dell'universalismo dei diritti, riproponendo, sia pure in maniera implicita, un costituzionalismo inteso come una sorta di illuministica recta ratio (si pensi alle giuste critiche di Ermanno Vitale) da applicare alla politica e al diritto, anche su scala globale.

In tal modo, Ferrajoli sembra fondare veritativamente, in senso logico (!), l'universalismo dei diritti, sfuggendo tra l'altro al problema di una fondazione etico-cognitivista dei diritti - esigenza tipica di ogni discorso universalista -, nonostante i saltuari richiami dell'autore alle tesi di Immanuel Kant.

Infine, ribadisco la mia perplessità in ordine all'approccio analitico di Luigi Ferrajoli in ordine al rapporto tra il diritto e l'economia politica del capitalismo. Tanto si evidenzia, come si è veduto, nella considerazione poco realistica del diritto di proprietà e del suo carattere "fondamentale" (misconosciuto dall'autore); ma anche nella posizione di Ferrajoli circa i diritti sociali, pure ritenuti fondamentali: in tal caso, l'autore sembra poco avvertito del contrasto tra il sistema sociale diritto e l'economia (si pensi alle condivisibili obiezioni di Danilo Zolo). Da questo punto di vista, è esemplare il tema del diritto al lavoro, certamente non "giustiziabile" in un'economia di mercato. Più in generale, il traguardo di una maggiore eguaglianza sociale non sembra raggiungibile per il tramite del diritto vigente o di nuove tecniche giurisdizionali; in realtà, dovrebbe affrontarsi con forza il tema delle iniquità strutturali di un capitalismo globale praticamente senza freni, che prevale tanto sulla dimensione etico-politica quanto su quella giuridica (determinando, ormai, una crisi netta della modernità).

Peraltro, il carattere tendenzialmente postmoderno della società, alla luce della globalizzazione capitalistica, verificabile sia sociologicamente che politicamente, dirompente persino da un punto di vista culturale - si pensi allo sgretolamento delle ideologie, all'egemonia massmediatica ed alla "società dello spettacolo" -, richiederebbe forse un'analisi più critica di quella proposta, in termini prevalentemente giuridico-normativi, dal nostro autore. Vi è la questione, in proposito, di una sorta di "impero" del capitale globale e postmoderno che tende a "spazzar via" il politico e a subordinare il diritto alle mere esigenze del "biopotere". Si tratta di trasformazioni davvero imponenti e, in parte, inquietanti, non facilmente controllabili o prevedibili a partire da strumenti concettuali ancorati alla modernità giuspolitica. Si pensi non soltanto al depotenziamento del diritto o all'egemonia della lex mercatoria; ma anche, dal lato dell'economia, alla mercificazione, allo sfruttamento, al precariato della forza-lavoro. Sarebbe, invero, consigliabile un'apertura a filosofie politiche più pronte a cogliere il postmoderno: certamente non per aderire pedissequamente al trend egemone, ma, al contrario, per criticarne gli effetti e proporre una lotta politica più efficace e all'altezza della posta in gioco.

Non persuade, pertanto, il richiamo di Ferrajoli al costituzionalismo quale chiave di volta per risolvere la crisi della modernità. Sarebbe forse maggiormente necessario un approccio più critico verso la struttura del capitalismo globale; e, in tal senso, un aiuto potrebbe derivare da un rinnovato discorso marxista in funzione di critica dell'economia politica. Sotto questo profilo, a mio modesto parere, dovrebbe riflettere quella parte della cultura liberale sistematicamente ostile ad ogni forma di analisi anche marxiana del sistema sociale.

E' un'esigenza importante, a mio giudizio, anche sotto il profilo culturale. Uno dei pericoli insiti, infatti, nel costituzionalismo di Ferrajoli, è uno scivolamento ideologico, di valorazione del diritto positivo il quale, tutto sommato, se talora si rivela largamente ineffettuale, negli altri casi non collide affatto con le iniquità sociali del sistema vigente. Il discorso dei diritti umani, sovente, sembra scarsamente critico e normativo rispetto alla prassi ed anzi, talvolta, viene usato strumentalmente per sconcertanti disegni egemonici e di potere, persino su scala globale (70). Anche dal lato filosofico-giuridico, pur in presenza di costituzioni formalmente ineccepibili, è necessario dunque conservare un punto di vista critico, all'opposto di quanto sembrano implicare teorie come quella di Ferrajoli e, ancor di più, come quelle neo-costituzionaliste. Giustamente, ha sottolineato Alfonso Catania: "se queste correnti giusfilosofiche spostano il dibattito della giustificazione [, della legittimazione dell'obbligo giuridico] al livello della Costituzione, allora non si vede perché questo stesso dibattito, la cui natura è squisitamente etico-politica (....), non debba essere fatto con tutta l'ampiezza di prospettive e la libertà possibili, senza ritenere che la formulazione dei diritti umani incorporata nella Costituzione (tradizione liberale) (....) oppure la modalità di produzione degli stessi (tradizione democratica) siano, di per se stesse, la morale sottratta alla discutibilità e alla critica" (71). Prosegue, condivisibilmente, l'autore: "Se la norma di riconoscimento applicata alla Costituzione ha il carattere del consenso e non più della conoscenza di ciò che è diritto, conoscenza cui può o può non accostarsi il consenso - e questo negli ordinamenti liberal democratici è probabile - non sarà possibile avere nei riguardi del dettato costituzionale e del prodotto della deliberazione democratica alcuna riserva critica. E questa è invece indispensabile" (72).

E' la stessa esigenza di libertà, a mio parere, propria di una coerente critica dell'economia politica, la quale sarebbe fondamentalmente misconosciuta alla luce di un costituzionalismo globale ideologicamente indiscutibile e di un approccio classicamente "liberale": si tratta di dispositivi che, oggi, non sembrano neanche porre il problema di una legittima critica, anche strutturale, dello status quo.

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Note

1. Nel far questo, anche per la parte ricostruttiva, avrò come riferimento bibliografico principale il noto volume L. Ferrajoli, a cura di E. Vitale, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Roma-Bari, Laterza, I ed., 2001, recentemente riedito nel 2008, ove accanto alle tesi di Ferrajoli figurano importanti contributi critici. Chiaramente, vi saranno cenni anche ad altri saggi dell'autore, in modo da integrare la parte ricostruttiva del suo pensiero. Infine, importante è il riferimento al recente saggio di Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, 2 Voll., Roma-Bari, Laterza, 2007. Di questo libro proporrò soltanto alcuni accenni, riservandomi di ritornarci, al fine di precisare alcune tesi di Ferrajoli, peraltro già ben delineate nel suo magistero. Per la nozione di "complessità sociale", vedasi D. Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Milano, IIa ed., Feltrinelli, 1996, specie pp. 17-34.

2. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 5.

3. Cfr. L. Ferrajoli, Principia iuris, vol. I, cit., pp. 361-367: si tratta del "terzo postulato del positivismo giuridico".

4. L. Ferrajoli, Principia iuris, vol. I, cit., p. 727, corsivo mio.

5. Cfr. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 8. L'autore ripropone tali distinzioni in Principia iuris, vol. I, cit., pp. 731-742.

6. Sin da ora, va ricordato che, in seguito alle efficaci critiche di vari studiosi che si sono confrontati con la proposta teorica di Ferrajoli, l'autore ha rinunciato ad usare - nella fattispecie - il termine (e il concetto di) fondare, ossia a prospettare un nesso di tipo puramente logico tra la sua definizione dei diritti fondamentali e le successive tesi da lui ritenute "essenziali" alla democrazia costituzionale. L'autore, dunque, ritratta la sua primigenia, e probabilmente eccessiva, pretesa epistemologica, già in Diritti fondamentali, tanto da non più riproporla in Principia iuris. Si veda infra.

7. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 11.

8. L. Ferrajoli, Principia iuris, vol I., cit., p. 765. Vanno ricordati, altresì, i diritti culturali: "Un discorso in parte diverso va fatto per i cosiddetti diritti culturali, come per esempio i diritti di talune minoranze o comunità linguistiche o religiose all'insegnamento della loro lingua nelle scuole pubbliche o al rispetto dei loro costumi o ricorrenze religiose. (...) [Tuttavia, diversamente dai diritti comunitari,] tali diritti sono attribuiti universalmente, quali diritti fondamentali, ai componenti della minoranza o della comunità in quanto persone o cittadini, in applicazione del principio di uguaglianza. In altre parole, ove non consistano in privilegi, tutti questi diritti altro non sono che i medesimi diritti di libertà (...) conferiti agli appartenenti alla maggioranza; sicché il loro riconoscimento quali diritti (anche) delle minoranze equivale all'assenza di discriminazioni": L. Ferrajoli, Ivi, 766, specificazione mia.

9. Cfr. J. Locke, Two Treatises of Government, a cura di P. Laslett, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, trad. it. Secondo trattato sul Governo, a cura di L. Formigari, Roma, Editori Riuniti, 1992.

10. L'autore ribadisce, in modo sostanzialmente analogo, l'opposizione diritti fondamentali-diritti patrimoniali in Principia iuris, vol. I, cit., pp. 759-766. Forse la novità, anche terminologica, maggiormente degna di nota è la distinzione "tra il diritto di proprietà come diritto reale patrimoniale e il diritto di proprietà come diritto civile fondamentale": L. Ferrajoli, Ivi, p. 769; in ogni modo, "le differenze strutturali sono le stesse che passano tra diritti fondamentali e diritti patrimoniali": L. Ferrajoli, Ibidem.

11. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., pp. 13-14.

12. L. Ferrajoli, Ivi, p. 16.

13. L. Ferrajoli, Ivi, p. 19.

14. Cfr. L. Ferrajoli, Ivi, cit., p. 22.

15. L. Ferrajoli, Ivi, p. 27.

16. Cfr. H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Wien, 1960, trad. it. di M.G. Losano, La dottrina pura del diritto, Torino, Einaudi, 1966, pp. 77 ss..

17. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 30.

18. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 31 (specificazione mia).

19. L. Ferrajoli, Ivi, pp. 32-33.

20. L. Ferrajoli, Ivi, p. 33.

21. L. Ferrajoli, "I fondamenti dei diritti fondamentali", in Id., Diritti fondamentali, cit., p. 316.

22. L. Ferrajoli, Ibidem.

23. Cfr. L. Ferrajoli, "Dai diritti del cittadino ai diritti della persona", in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 288.

24. L. Ferrajoli, Ivi, p. 289.

25. Cfr. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello Stato nazionale, Roma-Bari, Laterza, 1997, particolarmente pp. 47-59.

26. L. Ferrajoli, Ivi, p. 49.

27. Cfr. L. Ferrajoli, Ivi, p. 51.

28. L. Ferrajoli, Ibidem.

29. L. Ferrajoli, Ivi, p. 52; cfr. anche H. Kelsen, Peace trough Law, New York, Chapel Hill, 1944, trad. it. La pace attraverso il diritto, Torino, Giappichelli, 1990.

30. Al proposito, vedasi già L. Ferrajoli, Teoria assiomatizzata del diritto, Milano, Giuffré, 1970.

31. Cfr., ad esempio, L. Ferrajoli, Principia iuris, vol. II, cit., pp. 57-62.

32. Così Ferrajoli: "[Vi è] infatti un altro significato (...) di 'universalismo': quello, qui adottato nella definizione D11.1, risultante dalla forma logicamente universale dei diritti fondamentali, cioè dal fatto che essi sono conferiti a tutti in quanto persone o cittadini o capaci d'agire. In questo senso logico, l'universalismo dei diritti fondamentali equivale unicamente all'uguaglianza, appunto, in tali diritti dei quali forma perciò il tratto distintivo: formale e non sostanziale, descrittivo e non normativo, strutturale e non culturale, oggettivo e non soggettivo [!]": L. Ferrajoli, Principia iuris, vol. II, p. 58. Si tratta d'una tesi abbastanza discutibile, come si vedrà infra.

33. Per una critica di queste tesi, vedasi L. Baccelli, "Diritti senza fondamento", in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., pp. 201-216. Cfr, inoltre, D. Zolo, "Libertà, proprietà ed eguaglianza nella teoria del diritti fondamentali", in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., specie pp. 68-73.

34. Si veda, in particolare, L. Ferrajoli, Principia iuris, vol II, cit., pp. 552-526 (è il paragrafo "Dal diritto internazionale al diritto cosmopolitico. Il paradigma del costituzionalismo e del federalismo globale").

35. Così Danilo Zolo, "Libertà, proprietà ed eguaglianza nella teoria del diritti fondamentali", in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 52.

36. Lo sostiene Michelangelo Bovero, "Diritti e democrazia costituzionale", in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., specie p. 238.

37. N. Bobbio, L'età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, p. XI.

38. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 6.

39. L. Ferrajoli, Ibidem.

40. L. Ferrajoli, Ibidem.

41. D. Zolo, "Libertà, proprietà ed eguaglianza nella teoria del diritti fondamentali", in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., pp. 53-54.

42. D. Zolo, Ibidem.

43. D. Zolo, Ibidem.

44. L. Ferrajoli, "I diritti fondamentali nella teoria del diritto", in Id., Diritti fondamentali, cit., specie pp. 121-134. Cfr. anche, L. Ferrajoli, "I fondamenti dei diritti fondamentali", ult. op. cit., pp. 277-335.

45. Cfr., esemplarmente, D. Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, cit., specie pp. 17-34.

46. Cfr. J. Habermas, Recht und Moral (Tanner Lectures), 1988, trad. it., a cura di L. Ceppa, Morale, Diritto, Politica, Torino, Einaudi, 1992. Si veda anche J. Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des democratischen Rechsstaats, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1992, trad. it., a cura di L. Ceppa, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, Guerini e Associati, 1996.

47. Si veda l'ottima relazione di Geminello Preterossi al Seminario "Il futuro dei diritti: minimalismo o proliferazione?", Ferrara, giugno 2007. Una versione successiva di questo testo è stata pubblicata su Ragion Pratica, 28 (2008), pp. 279-289. Tra l'altro, nota Preterossi: "Il punto decisivo, soprattutto a livello internazionale, è rappresentato invece dalle ragioni strutturali, e perciò teoricamente rilevanti, delle lacune. Ovvero concerne i presupposti concettuali, teorico-giuspolitici e istituzionali della costruzione delle garanzie. Cioè la tenuta, e l'intendimento, dell'analogia domestica e di una terzietà efficace 'oltre lo Stato'. Oppure l'ipotizzazione di alternative credibili a tale paradigma, non solo perché realizzabili, ma perché in grado di assicurare una prestazione in termini di efficacia paragonabile a quella fornita dal modello giuspubblicistico calcato sullo Stato. I diritti presuppongono un assetto di potere in grado di eseguirli. Così come, genealogicamente, una matrice generativa agonistica, fatta di lotte socio-politiche e culturali, dell'avanzamento di pretese di riconoscimento e della costruzione di discorsi egemonici su di esse. Ovvero, ancora, presuppongono uno 'spazio pubblico' non desertificato. Tanto più ciò vale per i progetti di 'realizzazione dei diritti' su scala globale, così come nelle promesse del globalismo giuridico liberal. Essi non a caso entrano in crisi, solitamente, sulla mancata consapevolezza critica della insuperabile genesi politica anche dei diritti (non solo del diritto o dell'ordine in generale). Una teoria non irrealistica e astrattamente autoreferenziale, o ideologica e strumentale, dei 'diritti presi sul serio' dovrebbe presupporre invece prioritariamente l'interrogativo - e la sua previa risoluzione concettuale, modellistica - sulla costruibilità, la natura, la legittimazione, i vincoli di un ordine internazionale dotato di effettività". La citazione è da G. Preterossi, "I diritti alla prova del 'politico'".

48. H. L. A. Hart, The Concept of Law, 1961, II ed. con un Postscript dell'autore, a cura di P. A. Bulloch e J. Raz, Oxford, Clarendon Press, 1994, trad. it. Il concetto di diritto. Nuova edizione con un poscritto dell'autore, Torino, Einaudi, 2002. Sul ruolo dei consociati in generale nell'uso del diritto vedasi anche A. Catania, Decisione e norma, Napoli, Jovene, 1987.

49. A quel punto, invero, la pretesa indifferenza del diritto positivo all'ineffettività farebbe comunque dipendere la normatività del diritto statuito dalla politica, o più in generale dalle condizioni esterne della sua efficacia.

50. E. Vitale, "Teoria generale del diritto o fondazione dell'ottima repubblica?", in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., pp. 109.

51. Cfr. L. Ferrajoli, Principia iuris. vol. I, cit., specie pp. 488-493.

52. A. Pintore, "Diritti insaziabili", in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 180.

53. Cfr., per una critica della concezione farrajoliana della sovranità moderna, A. Amendola, I confini del diritto. La crisi della sovranità e l'autonomia del giuridico, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2003, specie pp. 74-81.

54. A. Pintore, "Diritti insaziabili", in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 194.

55. L. Ferrajoli, "I fondamenti dei diritti fondamentali", in Id., Diritti fondamentali, cit., p. 332.

56. L. Ferrajoli, Ivi, p. 342, corsivo nostro.

57. Cfr., di nuovo, H. L. A. Hart, The Concept of Law, 1961, II ed. con un Postscript dell'autore, a cura di P. A. Bulloch e J. Raz, Oxford, Clarendon Press, 1994, trad. it. Il concetto di diritto. Nuova edizione con un poscritto dell'autore, cit.; cfr. anche, con riferimento al diritto nella globalizzazione, A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell'età globale, Roma-Bari, Laterza, 2008.

58. A. Pintore, "Diritti insaziabili", in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 194.

59. Cfr. A. Catania, La validità giuridica, Salerno, Gentile Editore, 1992, p. 7, corsivo nostro.

60. D. Zolo, "Libertà, proprietà ed eguaglianza nella teoria dei diritti fondamentali", in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p 61.

61. D, Zolo, Ivi, p. 62.

62. D. Zolo, Ibidem, corsivo mio.

63. D. Zolo, Ivi, pp. 65-66, corsivo mio.

64. Cfr., ad esempio, L. Ferrajoli, Principia iuris. vol. II, cit., specie pp. 481-653.

65. Cfr. N. Bobbio, "Prefazione", in L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. VIII.

66. Il riferimento è alle tesi di Michel Foucault. Cfr., inoltre, M. Hardt, A. Negri, Empire, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2000, trad. it., Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, Rizzoli, 2002. Si veda, anche, A. Negri, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica, Milano, Feltrinelli, 2008.

67. A. Catania, "Cittadinanza e sovranità", in Id, Stato, cittadinanza, diritti, Torino, Giappichelli, 2000, p. 99. Più avanti prosegue l'autore: "l'utopia di un universalismo dei diritti ascrivibili all'uomo in quanto uomo [costituisce] una sottovalutazione del momento giuspositivo, per cui il riconoscimento di un diritto significa che qualcuno è obbligato a tenere un certo tipo di comportamento per la soddisfazione di quel diritto. Un diritto rivendicato deve portare alla possibilità procedurale del riconoscimento del diritto stesso e quindi deve essere possibile individuare la struttura giuridica che 'sovranamente' si fa carico di tutelarlo": A. Catania, Ivi, p. 100, specificazione mia.

68. Dal mio lato, è più condivisibile la posizione del cosiddetto positivismo giuridico inclusivo, che argomenta in favore di un possibile nesso concettuale diritto/morale, come per esempio argomentato da Hart. Vedasi H. L. A. Hart, The Concept of Law, 1961, II ed. con un Postscript dell'autore, a cura di P. A. Bulloch e J. Raz, Oxford, Clarendon Press, 1994, trad. it. Il concetto di diritto. Nuova edizione con un poscritto dell'autore, cit.. Cfr., anche, W. J. Waluchow, Inclusive Legal Positivism, Oxford, Clarendon Press, 1994.

69. L. Ferrajoli, Principia iuris, vol. II cit., p. 58, specificazione mia.

70. È il tema della cosiddetta "guerra umanitaria", condotta in nome dei diritti dell'uomo dall'Occidente e, in particolare dagli Stati uniti d'America, cogliendo a pretesto il cosiddetto global terrorism, con il fine d'instaurare una determinata egemonia economico-politica e ideologica su tutto il mondo. Cfr. D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000.

71. A. Catania, "Diritto naturale e diritto positivo nella tradizione occidentale", in Id., Stato cittadinanza, diritti, cit., p. 129.

72. A. Catania, Ibidem, specificazione mia.