2011

Habermas, Pogge, e il diritto (ai mezzi) di sussistenza

Edoardo Greblo

1. Etica del discorso e diritti umani

La teoria politico-giuridica di Habermas si caratterizza per il fatto di considerare fonti giustificate di diritti e doveri soltanto le norme e gli ordinamenti istituzionali ricavabili dall'applicazione di particolari situazioni argomentative chiamate discorsi. Come nelle teorie contrattualistiche, l'idea è che le norme d'azione possano essere considerate come l'esito di legittimi processi di deliberazione. Tuttavia, diversamente dalla lignée di matrice hobbesiana, è anche necessario che la razionalità del consenso incorpori una nozione per lo meno minimale di imparzialità e si fondi sull'argomentazione piuttosto che sulla negoziazione: il ragionamento imparziale serve a fare in modo che nei discorsi - diversamente da quanto accade nelle trattative, in cui i partecipanti mirano a soluzioni di compromesso tra interessi divergenti - i partecipanti arrivino a posizioni comuni convincendosi vicendevolmente su qualcosa. Inoltre, diversamente dalla lignée di matrice kantiana, propone che il consenso imparziale derivi dai processi non coercitivi di formazione dell'opinione pubblica resi possibili dai media e dalle consultazioni strutturate discorsivamente, e non da un ipotetico esperimento di pensiero, come la "posizione originaria" di Rawls, dove l'imparzialità del giudizio sulle questioni di giustizia è assicurata dai vincoli imposti preventivamente ai decisori razionali. Per l'etica del discorso, la migliore approssimazione possibile all'ideale morale dell'imparzialità è quella raggiungibile nella deliberazione collettiva, intesa come un grande processo discorsivo istituzionalizzato da norme e procedure. La sfera pubblica è una sorta di tribunale imparziale che, grazie alla sua complessità, lontananza e sostanziale incontrollabilità, può fungere da modello di una procedura che assicura l'inclusione di tutti gli interessati e la pari considerazione di tutti gli interessi. Comunque, di approssimazione pur sempre di tratta: la qualità legittimante acquisita dalle norme non è una proprietà definitiva e data una volta per tutte, ma, nel migliore dei casi, è provvisoria e temporanea, passibile di revoca alla luce della conoscenza retrospettiva di esclusioni e disparità di trattamento praticate fino a quel momento. Nell'ipotesi che la norma in questione riguardi la vita di tutti gli individui in quanto esseri umani, come capita nel caso dei diritti umani, il processo di deliberazione collettiva deve allargare le prospettive inizialmente circoscritte e "sprovincializzarsi", affinché un confronto privo di barriere e accompagnato da un adeguato corredo informativo possa prestare ascolto a tutte le voci. La deliberazione pubblica si trasforma in un sorta di indefinito processo di apprendimento, che - certo solo a partire dal presupposto idealizzante che entrino in gioco tutte le ragioni disponibili - permette progressivamente di scoprire e correggere le violazioni, anche solo latenti oppure implicite, perpetrate ai danni delle capacità umane fondamentali.

Costruiti in questo modo, i diritti umani indicano degli obiettivi o degli standard in base ai quali i partecipanti o gli osservatori prendono posizione sulle politiche che decidono delle opportunità di vita dell'umanità su scala globale. La validità universale dei diritti umani è una proprietà che essi condividono con le norme morali, nel senso che si tratta di imperativi che additano la necessità di agire affinché l'importanza di certe libertà venga adeguatamente riconosciuta e promossa a prescindere da ogni appartenenza a un collettivo determinato. Con le parole di Habermas, "i diritti umani funzionano [...] da sensori per le emarginazioni che vengono compiute in loro nome". (1) Per contro, quando si tratta di ipotizzare una procedura di decisione orientata alla soluzione di conflitti normativi concreti, localizzati nel tempo e nello spazio, Habermas sembra propendere per una diversa interpretazione, che porta a distinguere i "diritti dell'uomo" fondati sul piano morale da quei "diritti dell'uomo" che, nelle nostre società, dispongono della garanzia di essere imposti anche grazie alle sanzioni dello Stato. Ciò traspare nell'idea che ai diritti dell'uomo spetti la forza giuridica che caratterizza i diritti codificati in legge, per cui essi designano delle pretese giuridiche. Come dice lo stesso Habermas, i diritti dell'uomo, in quanto diritti soggettivi, "hanno fin dall'inizio natura giuridica e, già a partire dal loro concetto, mirano a essere positivizzati da parte dei corpi legislativi". (2) Ciò significa che la loro funzione è essenzialmente quella di autorizzare gli individui a opporsi a leggi e disposizioni ingiuste all'interno del loro Stato, oppure, in altri contesti, a resistere ad autorità tradizionali, patriarcali o religiose che si dimostrano primitive, arretrate o incivili non secondo i "nostri" standard, ma secondo gli standard di coloro che quell'autorità opprime. (3) In sostanza, i diritti umani sono una freccia puntata contro le istituzioni (più o meno) giuridificate, ovvero contro gli organismi o gli ordinamenti istituzionali che dispongono di efficacia legale e sono dotati di codifica o di interpretazione in forma di legge.

Possiamo però domandarci se Habermas sfrutti fino in fondo tutte le implicazioni del suo modello di democrazia a doppio binario - concepita sia come un processo di apprendimento morale sia come una procedura di legittima produzione e imposizione giuridica - per la dottrina dei diritti umani. È vero cioè che nel passaggio dalla morale al diritto si compie un mutamento prospettico, nel senso che si passa dal livello dell'attore a quello del sistema istituzionale e che, almeno nei sistemi democratici, il principio di democrazia che regola la legislazione gode di un'ampia autonomia rispetto al principio morale. Ma la pregnanza morale dei diritti umani può davvero dirsi esaurita una volta che il nesso interno fra diritto e potere sia stato adeguatamente valutato - e valorizzato? Non è che quando ci si focalizza in maniera pressoché esclusiva sulle normative politicamente coerenti con la natura giuridica dei diritti umani e si lascia in ombra l'importanza fondamentale dei diritti considerati in termini di rivendicazioni morali, si lascia cadere proprio ciò che, in questo campo, vi è di più significativo nell'etica del discorso, ossia l'idea che la credenza nei diritti umani sia storica e sia legata a un processo collettivo di condivisione stabilmente conseguito, capace di tradurre progressivamente in realtà importanti libertà umane?

Come per la maggior parte dei teorici e degli attivisti, anche per Habermas i diritti umani si riferiscono a un insieme di aspettative, rivendicazioni e pretese connesse ai tipi di garanzia associati al concetto stesso di diritto. Vi può essere controversia riguardo ai fondamenti teorici della credenza nei diritti umani, per esempio se sia coerente parlare di diritti senza considerarli insieme ai doveri corrispettivi, oppure se sia più opportuno concepirli quali interessi, aspirazioni o aspettative. Ma le ragioni per credere nella loro funzione primaria, quella di proteggere la libera capacità di azione degli individui, non incontrano, almeno a parole, resistenze concettuali particolari. I diritti definiscono gli interessi universali di chi è privo di potere e garantiscono che il potere può essere esercitato sulle persone alla sola condizione di rispettare la loro libera capacità di agire (o di non agire). Questo non significa che al diritto di un individuo a un certo bene si debba accoppiare il dovere di qualcun altro di procurare quel bene a quella persona. Così, sebbene molti dei diritti elencati nella Dichiarazione universale possano essere concepiti come mere aspirazioni, i diritti che si è deciso di imporre mediante le operazioni di peacekeeping condotte sotto l'egida delle Nazioni Unite sono stati identificati con altrettante rivendicazioni politiche, aventi forza di legge e perciò azionabili, da parte dei cittadini, nei confronti dei rispettivi governi.

L'accelerazione del processo di transizione dal "diritto internazionale" al "diritto cosmopolitico" proposta da Habermas, che mira ad affidare alle Nazioni Unite poteri esecutivi e giudiziari in grado di promuovere una tutela effettiva dei diritti dell'uomo, riflette una interpretazione di questo genere. Che si applica, per evidenti ragioni di praticabilità, soprattutto ai "diritti negativi", ossia ai diritti che mirano a proteggere le persone da ciò che può loro accadere nello spazio del male e a creare le condizioni per usufruire delle protezioni che difendono la capacità di ogni individuo di perseguire scopi razionali senza ostacoli o intralci frapposti da autorità o istituzioni. Gli organismi internazionali più rilevanti cui Habermas demanda la loro applicazione - anche mediante la creazione di forze di polizia internazionale al servizio dei Tribunali penali internazionali già esistenti, per sanzionare i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità - devono avere il potere di accertare proprio le violazioni al diritto degli individui di scegliere la vita che essi ritengono opportuno condurre. Per spiegare la consonanza di indignazione morale e la solidarietà tra cittadini del mondo, le concordi reazioni negative ad atti di criminalità di massa percepiti come tali sono sufficienti. E gli "univoci doveri negativi di una morale di giustizia universalistica", (4) come il rifiuto di guerre d'aggressione e di crimini contro l'umanità, rappresentano anche il criterio che può ispirare la limitazione della sovranità statale in tutte le circostanze nelle quali è possibile accertare la responsabilità delle autorità politiche nazionali. In luogo di una solidarietà civica irraggiungibile su scala globale, basta un accordo negativo - suscitato, per esempio, dal comune orrore le pulizie etniche e i genocidi.

È in questa cornice che si inquadra l'interpretazione dei diritti umani in quanto diritti giuridici. I diritti "liberali", che costituiscono il nucleo difendibile dei diritti umani così come Habermas li concepisce e che consistono nell'avere titolo a vivere comunque la propria vita, sono concettualmente e funzionalmente incorporati nella forma giuridica tipica delle società moderne, nelle quali le decisioni decentralizzate di innumerevoli attori sociali non possono essere affidate alla contingenza di decisioni morali "private", ma dipendono dalla certezza intersoggettiva del diritto positivo. Non si tratta perciò di moralizzare, ma di legalizzare le relazioni internazionali. Concepire i diritti umani in quanto diritti morali significa infatti, in questa prospettiva, esporli a un'applicazione selettiva nelle decisioni da parte di un unilateralismo egemonico eticamente ispirato. Senza il controllo giudiziario della loro applicazione, affidato nell'esecuzione a un tribunale imparziale incaricato di decidere su fattispecie di reato chiaramente definite, il discorso dei diritti umani finisce per polverizzarsi rapidamente in un vortice di dispute senza fine. E senza l'efficacia indiretta assicurata dal sostegno e dalla costante presenza delle organizzazioni non governative, il dispendio di legittimazione può rivelarsi troppo oneroso per giustificare alle opinioni pubbliche nazionali i cosiddetti "interventi umanitari". Allo stesso tempo, però, va ricordato che per Habermas l'interpretazione dei diritti umani in chiave giuridica non è indipendente dalla loro interpretazione in chiave morale. I diritti dell'uomo, scrive Habermas, "hanno il volto ancipite di Giano": (5) se, in quanto diritti giuridici, sono subordinati a specifiche condizioni e dipendono dalla volontà politica di un legislatore e accolgono fini e programmi politici fondati su ragioni di natura (anche) pragmatica e strumentale, in quanto diritti morali incondizionatamente validi non possono invece scendere a compromessi con finalità politiche, per quanto giustificate.

C'è tuttavia un punto che rimane indefinito, ossia se i diritti umani siano diritti morali che incorporano le aspirazioni. L'adesione di Habermas alla concezione del diritto come "interpretazione" sostenuta da Dworkin suggerisce una risposta affermativa. Secondo Dworkin, il diritto è una pratica sociale che si caratterizza per la sua natura interpretativa: questo significa sia che l'interpretazione dei principi rimanda a un orizzonte complessivo di valori etico-politici, sia che i diritti degli individui vanno considerati in rapporto alla loro cornice morale. Ciò equivale ad accentuare l'importanza dell'attività interpretativa non solo sul piano giurisdizionale, ma anche e soprattutto al livello delle Corti costituzionali. Innestando questa concezione del diritto sull'etica del discorso, Habermas crea una connessione interna tra il diritto costituzionale e le regole discorsive che mutuano il loro contenuto normativo dall'agire orientato all'intesa, da un lato, e l'interpretazione del contenuto morale incorporato nei principi giuridici dibattuta nel più ampio pubblico formato da individui e gruppi interessati alle questioni pubbliche, dall'altro. Questo contenuto circola a sua volta attraverso i corpi istituzionali investiti di prerogative decisionali, per essere ulteriormente reinterpretato alla luce delle prospettive emerse nelle strutture comunicative della sfera pubblica. Il progressivo ampliamento della cerchia dei soggetti giuridici realizzato grazie alle procedure di inclusione democratica incrementa, infine, i processi di formazione della volontà e dell'opinione nella società civile guidando i cittadini a un nuovo ciclo di apprendimento morale e di riforme politiche. L'interpretazione dei diritti umani quali "sensori" reagenti all'esclusione richiama precisamente una dialettica di questo genere. Non è perciò implausibile riprendere la teoria di Habermas del diritto costituzionale - da lui stesso estesa al piano sovranazionale dei diritti umani da tutelare anche su scala globale - per sostenere che i diritti umani incorporano anche delle potenti istanze morali. Oppure, eventualmente, per affermare che non sono comunque incompatibili con una asserzione relativa a qualcosa di giuridicamente garantito.

2. Diritti umani e violenza "culturale"

La domanda da porsi, a questo punto, è la seguente: l'interpretazione dei diritti umani quali vincoli legali o istanze con pretesa di legge è in grado di fornire sostegno ai diritti umani - soprattutto i diritti di seconda e terza generazione - che non rientrano esattamente nel perimetro del classico modello liberale? Questo specifico punto può essere illustrato ricorrendo all'esempio della facoltà universale di disporre dei mezzi di sussistenza. I più elementari beni essenziali hanno un peso essenziale sia per il valore etico sia per quello personale della vita umana. Tutti questi beni di base dovrebbero essere riconosciuti come oggetto dei diritti umani, affinché chiunque possa disporre di un accesso relativamente garantito a una quota sufficientemente, o anche solo minimamente, adeguata, a tutti questi beni. È macroscopicamente evidente che il diritto alla sussistenza risulta largamente disatteso per centinaia di milioni di persone. Ma anche nell'eventualità che la sua esistenza venga formalmente riconosciuta e si disponga di una giustificazione filosoficamente convincente e pubblicamente condivisa, non per questo il diritto alla sussistenza dispone della forza giuridica che contraddistingue i diritti codificati in legge: può sempre trattarsi - com'è purtroppo verosimile - di un'esortazione ad avviare una nuova azione legislativa piuttosto di un appello a qualcosa che è già contemplato dagli ordinamenti positivi. Un diritto umano alle necessità di base, come postulato, per esempio, dall'articolo 25 della Dichiarazione universale, non si integra nelle strutture del diritto moderno con lo stesso grado di coerenza che caratterizza i diritti liberali. Ma, e soprattutto, le carenze nella sua attuazione non possono essere facilmente rubricate nella fattispecie delle "violazioni" della legge, domestica o internazionale, perpetrate dai governi e passibili di misure sanzionatorie o punitive.

L'esempio delle piccole aziende familiari, che lavorano con contratti di subappalto per trasformare o assemblare componenti destinati all'esportazione, illustra in che modo il diritto ai mezzi di sussistenza possa essere drasticamente ridimensionato, anche senza violazioni esplicite o formali, da strutture economiche e culturali che, a causa della loro impersonalità, impediscono l'individuazione di singole responsabilità personali. Nell'esempio (in parte idealtipico) offerto da queste aziende, è possibile disaggregare la violazione dei diritti giuridici secondo tre distinte linee di articolazione. A un primo livello vi sono le violazioni dei diritti riconducibili a una dimensione nazionale e perpetrate direttamente dai datori di lavoro in termini di salari minimi, sicurezza nei luoghi di lavoro e infrazione delle norme che disciplinano la contrattazione collettiva. A un secondo livello vi sono le violazioni dei diritti umani riconducibili più o meno direttamente ai governi o alle agenzie e ai funzionari governativi, oppure a coloro che occupano posizioni di autorità sul piano politico, nella misura in cui assistono in modo passivo alle violazioni massicce dei diritti umani oppure emettono ordinanze che autorizzano o richiedono la loro violazione anche sotto l'apparenza della legalità - per esempio disegnando in maniera ambigua o perversa le normative vigenti.

Tuttavia, oltre alle violazioni che (talvolta, ma non sempre) salvano la faccia della legalità, vi sono ulteriori fattori che contribuiscono a rendere incerto, instabile e insicuro il godimento dell'elementare diritto umano (ai mezzi) di sussistenza. Alcune delle violazioni sono ascrivibili alle (normali e legittime) pratiche economiche tipiche di un mercato deregolamentato, che costringono le piccole aziende a conduzione familiare a operare in un regime di distribuzione dei profitti che va a tutto vantaggio della committenza multinazionale. Ma ve ne sono altre da prendere in considerazione, e che hanno a che fare con la sfera delle relazioni personali e di genere, in particolare con la distribuzione fortemente asimmetrica dei ruoli e delle funzioni che regola le situazioni domestiche. Molto spesso infatti il luogo di produzione tipico di questa filiera produttiva nata su pressione delle corporation multinazionali è la famiglia, talvolta patriarcale, dove si lavora in subappalto e alla quale non si applicano le norme che garantiscono un accesso sicuro ai diritti che impediscono trattamenti al limite della schiavitù. In questo contesto le distinzioni usuali tra lavoratori e datori di lavoro diventano evanescenti: il capofamiglia governa la disciplina del lavoro familiare senza bisogno di ordinanze e verdetti, eventualmente decorati con firme, timbri e sigle ufficiali. Esercitando un'attività ai limiti della sopravvivenza, domina e sfrutta il coniuge e i figli anche perché è lui stesso dominato e sfruttato da coloro che gli subappaltano il lavoro. Dal momento che, com'è ovvio, in famiglia non si applicano le regole della contrattazione collettiva, i ruoli di genere tradizionali, consolidati e codificati, assicurano l'opportuna continuità del lavoro.

Questo esempio illustra in modo sufficientemente chiaro la duplice debolezza connaturata all'interpretazione puramente giuridica dei diritti umani: da un lato la sua tendenza a porre l'accento sulla concezione "interazionale" (6) dei diritti umani, che si scontra con insormontabili difficoltà quando si tratta, per esempio, di impedire che certi governi, pur impegnandosi giuridicamente a rispettare i diritti umani, non solo fanno poco o nulla in proposito, ma esentano dagli impegni formali alcune delle agenzie poste sotto la loro giurisdizione; dall'altro e in parallelo la sua tendenza ad abbracciare un modello di responsabilità che si concentra sulla punizione dei singoli responsabili piuttosto sulle riforme politiche in grado di incidere sulle strutture di socializzazione, di classe e di genere che, a causa dei sistemi di valori e delle convenzioni che regolano la divisione intrafamiliare del lavoro, hanno un impatto diseguale sulla vita delle singole persone.

La concezione interazionale cattura certamente una classe significativa delle violazioni compiute ai danni dei diritti umani. Le violazioni moralmente più ripugnanti, come il genocidio, la pulizia etnica o il terrore da guerra civile si attuano in un contesto di interazioni faccia a faccia, dove alcuni gruppi organizzati di criminali tollerati o persino organizzati dai rispettivi governi riducono all'assurdo l'attribuzione di indifferenza sia morale che penale alle azioni dello Stato. In queste circostanze, le vittime hanno tutto l'incontestabile diritto di chiamare i rappresentanti, i funzionari e gli impiegati direttamente coinvolti a rispondere individualmente e personalmente dei loro crimini. Quando le violazioni dei diritti sono particolarmente efferate e crudeli, non c'è bisogno che le persone condividano una forma politica o una cultura comune per provare un'immediata sintonia morale con le vittime delle atrocità. Questa forma di solidarietà "negativa", sottolinea Habermas, non si estende allo stesso modo e nella stessa misura anche ai poveri del mondo, nei confronti dei quali proviamo una forma di solidarietà "positiva", ma assai più debole. (7) Per questa ragione Habermas suggerisce l'organizzazione di una polizia internazionale e invoca energiche misure militari quando si tratta di porre fine ai fenomeni più vistosi di repressione violenta, ma non propone di rinunciare al principio che presuppone l'innocenza dei soggetti sovrani del diritto internazionale quando invece si tratta di intervenire sulle strutture della deprivazione che, per esempio, condannano milioni di bambini a uno stato generale di denutrizione e fame cronica. In questo caso si limita a rinviare al progetto di una "politica interna del mondo" basata su trattati multilaterali a base volontaria.

Va inoltre osservato che per la concezione interazionale dei diritti umani le attribuzioni di colpa sono causalmente riconducibili alla responsabilità delle singole persone. La risposta giuridica prevista (e dovuta) in questi casi è la "risposta penale", e cioè il perseguimento e il giudizio penale degli autori materiali delle violazioni, anche allo scopo di prevenire il coinvolgimento dei singoli individui, in particolare di funzionari statali, nella perpetrazione continuata di analoghe fattispecie criminali. Oltre all'uso di strumenti coattivi e sanzionatori, questa strategia comporta meccanismi di compensazione per le vittime, dalle sanzioni economiche come il congelamento dei beni dei colpevoli al principio che impone di risarcire, se e quando è possibile, i danni e così via. L'obiettivo, nel complesso, è quello di ripristinare lo status quo ante, piuttosto che di promuovere un cambiamento profondo sui fattori che influenzano la generale incidenza di oppressione e povertà.

Se si focalizza l'attenzione su realtà come le aziende a conduzione familiare che lavorano in subappalto, salta all'occhio che il modello interazionale non cattura che un singolo aspetto dei fenomeni connessi alla violazione dei diritti umani. Se ci si lascia ispirare dall'idea che "l'essenza, il cuore della dottrina dei diritti umani è il concetto di dignità della persona", (8) la tolleranza dei governi per forme di lavoro che costringono le donne a essere le vittime di umilianti trattamenti durante il processo di selezione del personale, riservano un trattamento "discriminatorio" alla manodopera femminile rispetto a quella maschile e accentuano i fenomeni di redistribuzione squilibrata della ricchezza, non può non essere considerata come una violazione dei diritti umani. In realtà come queste, il modello interazionale, che ci presenta i diritti umani come rivendicazioni che non presuppongono l'esistenza di istituzioni sociali, sembra in effetti pertinente. Non lo è, invece, quando si tratta di concepire i diritti umani come rivendicazioni che si rivolgono direttamente alle istituzioni sociali coercitive e impersonali, come per esempio il mercato o certe consuetudini o tradizioni culturali, e solo indirettamente alle persone che sostengono tali istituzioni. Gli ostacoli strutturali al godimento ragionevolmente sicuro di un diritto umano alla sussistenza sono ascrivibili a una rete intricata e complessa di cause globali che solo in parte possono essere districate affidandosi al modello interazionale, che attribuisce la responsabilità delle violazioni solo a coloro che vi contribuiscono attivamente e personalmente.

In effetti, la responsabilità potrebbe essere ascritta ai cittadini che eleggono i leader cui spetta la nomina dei funzionari incaricati di stipulare i trattati multilaterali che, per esempio, favoriscono l'iniquo guadagno che noi ci assicuriamo attraverso l'appropriazione a buon mercato di risorse naturali. Ma chi dovrebbe invece essere considerato responsabile quando in "una società con forti obiettivi collettivi" (9), o in una "cultura societaria" nel senso di Kymlicka (10), vi sono pratiche materiali e simboliche che da un lato sono sature di oppressioni e violazioni dei diritti, ma dall'altro dipendono dagli effetti aggregati, inintenzionali e imprevisti di consuetudini protratte nel tempo? Se è vero che la "cultura" è un sistema impersonale "che vive e respira, e che distribuisce mandati, poteri e privilegi tra i suoi membri e al di là di essi", (11) risulta difficile procedere all'assegnazione di singole responsabilità individuali per il mantenimento di pratiche culturali che hanno conseguenze spesso pesantemente negative per le vite delle singole persone. (12) In casi come questi, nel quali la violazione al diritto di sussistenza assume spesso un profilo informale e privato e non raggiunge la soglia della visibilità pubblica, non è detto che la "risposta penale" sia sempre la risposta più opportuna.

3. Genealogia dei diritti

Ora, non è da escludere che, in linea di principio, l'etica del discorso possa addossarsi l'onere di giustificare il principio per cui tutti gli esseri umani possano soddisfare con dignità i propri bisogni di base. Lo stesso Habermas riconosce che il diritto alla sussistenza è un diritto umano e si oppone all'interpretazione interazionale dei diritti umani in nome di una concezione "istituzionale" come quella teorizzata da Pogge, che presenta i diritti umani come rivendicazioni verso istituzioni sociali coercitive - e che, per esempio, può essere chiamata in causa per discutere gli istituti giuridici, in particolare gli accordi multilaterali sul commercio che, prevedibilmente ed evitabilmente, riproducono una grave e diffusa povertà. Infatti, per quanto tenda a costringere l'intero ventaglio dei diritti umani entro lo spazio normativo dei diritti liberali che servono a usufruire delle protezioni date dalla libertà negativa, Habermas condanna la "seconda" modernità, quella liberisticamente allargata, che demanda all'efficienza del mercato non solo l'individuazione del rapporto ottimale tra costi e benefici, ma anche il compito di legittimare una distribuzione - su scala globale non meno che su scala nazionale - che produce povertà sistemica.

Il problema riguarda allora la giustificazione del diritto umano alla sussistenza. Diversamente da Rawls, Habermas non ritiene che la mera presunzione di un "consenso per intersezione" tra i popoli del mondo su "un sottoinsieme proprio dei diritti posseduti dai cittadini in un regime costituzionale liberal-democratico, oppure dei diritti dei membri di una società gerarchica decente", (13) offra ragioni sufficienti per garantire ai diritti umani il rispetto che è loro dovuto. Il consenso per intersezione serve a indicare il livello di utilizzabilità della teoria, ma non dice nulla riguardo la sua giustezza. La giustificazione filosofica resta necessaria. Non tanto per i classici diritti liberali, quanto per l'inclusione di alcune voci specifiche, quali la facoltà universale di avere mezzi di sussistenza e cure mediche, che in tempi piuttosto recenti hanno integrato le più antiche formulazioni dei diritti umani ampliandone decisamente il raggio d'azione. I cosiddetti "diritti economici e sociali" non dispongono del medesimo status normativo dei diritti liberali, civili e politici. Nella migliore delle ipotesi, il diritto dei cittadini a essere protetti dalle circostanze di vita che li condannano a drastiche diseguaglianze di reddito o a forme di marginalizzazione sociale è un diritto la cui garanzia, almeno nelle società liberali e democratiche, dipende dalla dialettica tra eguaglianza giuridica ed eguaglianza fattuale. Il principio della parità di trattamento esige cioè che tutti i cittadini abbiano le stesse opportunità di fare un uso anche fattuale delle libertà e diritti formalmente ripartiti in modo eguale.

Un diverso modo di porre la questione consiste nel distinguere e opporre i diritti civili e politici dai diritti sociali: mentre i primi rientrano a pieno titolo nel catalogo dei diritti elencati nelle classiche formalizzazioni dei diritti dell'uomo, come la Dichiarazione d'indipendenza americana o la Dichiarazione francese dei "diritti dell'uomo", i secondi sono in realtà "servizi sociali", prestazioni discrezionalmente offerte dal sistema politico per esigenze di integrazione sociale o di ordine pubblico. (14) Inoltre, dato che Habermas concepisce il percorso concettualmente possibile di un ordinamento cosmopolitico basato sui diritti umani come la logica continuazione di un regime costituzionale in cui i diritti liberali e politici valgono come incondizionati, è possibile interpretare questi diritti quali diritti umani incondizionati. Al contrario, in questa prospettiva, il diritto alla sussistenza risulta privo della giustificazione intrinseca che lo rende assimilabile a un incondizionato diritto umano universale, e può essere considerato strumentalmente come un diritto accessorio che può essere negato o sottratto ai potenziali beneficiari senza che ciò significhi violare la dignità umana.

Secondo Habermas, ogni sistema normativo che voglia essere coerente con le qualità formali del diritto moderno deve seguire una procedura che rinunci ad appellarsi ad argomenti sostantivi e che risponda piuttosto all'esigente forma comunicativa del discorso razionale. Il principio del discorso razionale (D) - che prescinde dal tipo di azioni che abbisognano di giustificazione - esprime proprio questa maniera di concepire la situazione: "possono pretendere validità solo quelle norme che nei discorsi pratici potrebbero trovare l'approvazione di tutti gli interessati". (15) Questo principio asserisce che le norme valide, per essere universalmente accettabili e acquisire forza vincolante, devono corrispondere alla forma comunicativa dei discorsi razionali che soddisfa almeno queste quattro condizioni: inclusività (nessuno dei partecipanti in grado di offrire un contributo rilevante deve essere escluso dalla conversazione); equa distribuzione delle libertà comunicative (tutti devono poter disporre delle stesse opportunità di fornire contributi); condizione di sincerità (i partecipanti devono credere in quel che dicono); assenza di costrizioni contingenti o insite nella struttura della comunicazione (le scelte dei partecipanti riguardo a pretese di validità concorrenti devono dipendere unicamente dalla forza di ragioni persuasive). (16) Ovviamente, tra discorso politico e discorso morale vi sono ampie zone di sovrapposizione, ma questo non significa l'assimilazione dell'uno all'altro. Nel discorso politico le rivendicazioni universalizzabili di giustizia devono coesistere con le ragioni relative agli attori e ai gruppi e con le considerazioni etiche culturalmente circoscritte proprie delle diverse comunità. Con il passaggio dalla morale al diritto, (D) agisce da principio di fondazione di un sistema dei diritti fondamentali che, in ordine decrescente di necessità, può essere così articolato:

  1. i diritti soggettivi, che garantiscono il margine di scelta entro il quale le persone sono libere da coercizioni esterne;
  2. i diritti di cittadinanza, definiti essenzialmente dall'unità di residenza, dalla soggezione amministrativa e dall'appartenenza politica;
  3. i diritti ad adire in giudizio per la tutela dei propri diritti;
  4. i diritti politici di partecipazione al processo discorsivo di creazione del diritto;
  5. i diritti alle condizioni sociogenerative che garantiscono sia l'autonomia privata sia l'autonomia pubblica, cioè i diritti a godere di condizioni di vita che consentano pari opportunità di utilizzo per i diritti elencati nel punti da 1 a 4. (17)

Riguardo al mondo delle norme giuridiche, il potenziale di razionalità insito in (D) fonda anzitutto la categoria dei diritti soggettivi, che autorizzano i singoli individui a perseguire fini personali liberamente scelti, e quindi a ritagliarsi sfere private di arbitrio e di autonoma progettazione della vita. La categoria dei diritti di cittadinanza deriva concettualmente dal fatto che i diritti di libertà hanno il significato di appartenenza a una comunità delimitata, come uno Stato nazionale, uno Stato multinazionale o un Commonwealth, e includono il diritto a modificare il proprio status di cittadinanza attraverso l'emigrazione. La categoria del diritto ad adire in giudizio per la tutela dei propri diritti è la figura giuridica ricavata dall'idea che il "procedimento" giudiziario dipenda per tutti i singoli casi dalla prevedibilità della decisione, in modo da garantire la sua funzione: stabilizzare le aspettative di comportamento.

Nel loro insieme, diritti di libertà, di cittadinanza e di adire in giudizio sono costitutivi, sia dal punto di vista genealogico sia dal punto di vista normativo, di un'idea del diritto orientata principalmente, ma non solo, alla liberazione degli ambiti privati della vita delle persone da ogni interventi arbitrario dei poteri pubblici. Ma si tratta, appunto, di un'idea del diritto: l'intreccio del diritto moderno con il potere politico costringe il sistema normativo orientato in senso giuridico ad accogliere fini e programmi che richiedono altri tipi di giustificazioni, di natura empirica, strumentale, etica, quando non di opportunità contingente. (D) viene così applicato a un secondo livello. Non più, cioè, per attribuire alle persone naturali lo status artificiale di persone giuridiche portatrici di diritti soggettivi, ma per fare in modo che il diritto coercitivo venga reso dipendente da una procedura democratica. Ciò implica la quarta categoria dei diritti, i diritti politici, che possono essere articolati sia come una sorta di "riserva di legge" intesa in senso negativo, per godere della protezione dello Stato nel perseguimento dei propri interessi entro i limiti fissati dalla legge, sia come la possibilità, intesa in senso positivo, di partecipare alla vita politica della comunità.

È questa la strategia argomentativa di cui si serve Habermas per motivare la parità di origine del principio democratico e dei diritti umani. Infine, dal momento che i diritti 1-4 non possono essere fattualmente esercitati da chi si vede condannato a vivere in condizioni di precarietà esistenziale, Habermas adduce una quinta categoria di diritti, fatti derivare dalla prospettiva di garantire il pari rispetto di ciascuno con misure eguali di autonomia privata e di autonomia pubblica. Mentre però le prime quattro categorie dei diritti sono "assolutamente" fondate, poiché dipendono dal concetto stesso del diritto moderno e devono trovare concreti equivalenti costituzionali, il diritto (ai mezzi) di sussistenza gode di una giustificazione solo "relativa" e contingente, quasi dovesse limitarsi a ristabilire o a riqualificare delle competenze che non è altrimenti possibile riottenere. In effetti, come si vedrà più avanti, è proprio il tentativo di Habermas di concepire i diritti umani globali come una forma di diritto costituzionale allargato a dimensioni generali a rendere problematica questa linea argomentativa.

È vero che alcuni diritti costituzionali, in particolare quelli che corrispondono ai diritti privati di libertà e ai diritti politici del cittadino, e le condizioni normative di inclusione e conferimento di potere tipiche della vita democratica, si presuppongono a vicenda. Vi sono però altri diritti costituzionali, come i diritti liberali che valgono come classici sin da Locke, dalla proprietà privata alla sicurezza personale alla libertà di movimento, ai quali è connaturato un contesto d'inserimento di tipo giuridico e istituzionale. Se infatti, da un lato, la loro universalità è tale da renderli passibili di giustificazioni morali, il fatto che siano collegati alla minaccia di sanzioni statali e dipendano dalla volontà politica di un legislatore è tale, dall'altro, da vincolarli a un retroterra istituzionale. E mentre perciò gli argomenti morali si appellano generalmente al rispetto che dobbiamo agli altri esseri umani in nome della comune umanità, gli argomenti addotti a sostegno dei diritti liberali che valgono come classici implicano un conflitto tra un detentore di diritti e una controparte istituzionale contro la quale sollevare giustificate rivendicazioni. (18) Perciò, diversamente dai diritti morali, i diritti umani di stampo liberale hanno il profilo delle libertà da una costrizione esterna, di autorizzazioni ad agire senza subire interferenze arbitrarie dai governi o da agenzie e funzionari governativi. Le libertà positive che ne derivano, e che ricadono nelle fattispecie dei diritti di cittadinanza e di adire in giudizio, vanno anch'esse nella direzione di una tutela che spetta alle istituzioni o a coloro che rivestono posizioni di autorità all'interno di una società.

4. Diritti assoluti e diritti relativi

Ora, è proprio la deduzione procedurale dei diritti costituzionali fondamentali, i quali rappresentano per Habermas la matrice genealogica e normativa dei diritti umani, a rendere problematica l'introduzione del diritto umano (ai mezzi) di sussistenza. Se vi è qualcosa come il diritto umano (ai mezzi) di sussistenza, non è necessario, e infatti di solito non accade, che venga ratificato a livello costituzionale. Ciò che deve trovare sostegno costituzionale è la caratteristica autolimitazione del diritto moderno, che considera lecito tutto quello che non è espressamente vietato. In termini di diritto positivo, ciò significa che legislatori, governi e giudici sono responsabili dell'applicazione e dell'esecuzione delle leggi che proteggono i diritti civili, politici e di proprietà ricompresi nel primo principio di giustizia di Rawls e Habermas, nel quale la priorità accordata alla libertà si accompagna allo status subordinato concesso ai diritti sociali che caratterizzano lo Stato di welfare e il suo modello giuridico.

L'equa distribuzione di risorse e opportunità necessaria all'esercizio degli eguali diritti privati di libertà non è né garantita a livello costituzionale né può essere consentita se tra suoi effetti collaterali figura una qualche riduzione delle libertà civili e politiche. Il che, in altre parole, equivale a sostenere che mentre bilanciamenti e compromessi tra le diverse libertà sono sempre possibili, non è invece possibile che l'incremento del benessere avvenga a spese della libertà. È solo dopo che la generalizzazione degli eguali diritti privati di libertà è stata giuridicamente garantita che si può cominciare a pensare a come soddisfare l'equo valore delle libertà civili e politiche, per esempio tutelando le condizioni di vita che permettono anche ai cittadini svantaggiati di poter esercitare concretamente le competenze loro attribuite. Invece di essere fondati assolutamente, come parte intrinseca dei diritti di appartenenza, i diritti (ai mezzi) di sussistenza possono persino essere sostituiti dai tradizionali obblighi di sussistenza, oppure essere fatti cadere paternalisticamente dall'alto sulla testa dei cittadini.

A disturbare non è qui il fatto che una democrazia liberale non è tenuta, in base ai principi costituzionali riconosciuti come "assolutamente" validi, a concedere ai diritti sociali lo stesso status giuridico riconosciuto ai diritti civili e politici - sebbene sia Rawls che Habermas ritengono che l'organizzazione socioeconomica della diseguaglianza vada temperata con una rete di sicurezza in grado di schermare dai rischi della vita lavorativa e dalle iniquità della lotteria sociale. L'esempio delle piccole aziende a conduzione familiare dimostra come alcuni dei fattori culturali che si frappongono al godimento del diritto alla sussistenza non siano passibili di regolamentazione giuridica. A disturbare è piuttosto il fatto che la derivazione giuridica del diritto (ai mezzi) di sussistenza crea una situazione di disparità rispetto ai diritti umani alla libertà civile, politica ed economica. Il risultato è che i decessi imputabili a situazioni di povertà sistemica e ascrivibili alle regole normative di un ordine economico globale - tutt'altro che incompatibile con i principi fissati nelle singole Costituzioni nazionali - fondato sulla sperequazione e l'ingiustizia non rappresentano una flagrante violazione dei diritti umani, ma dipendono piuttosto da sfortunate circostanze locali e contingenti, per esempio dai governi oppressivi dei paesi poveri e dalla corruzione delle élite al potere. (19) Il solo dovere che spetta alle nazioni ricche è di fornire aiuti e consigli, ossia qualcosa che non rientra nel novero dei diritti umani da applicare in modo cogente.

Nella cornice offerta dall'etica del discorso il diritto (ai mezzi) di sussistenza è perciò giustificabile solo con ragioni di ordine pratico-strumentale. Serve a garantire le opportunità che permettono il pieno esercizio delle libertà civili, politiche ed economiche costituzionalmente garantite, ma non a tutelare un bene meritevole di protezione intrinseca. Inoltre, il suo statuto essenzialmente giuridico lo rende utilizzabile solo o prevalentemente in contesti "ufficiali", nel senso che può essere rivendicato contro le violazioni provenienti da alcune fonti, come governi o istituzioni, ma non da altre, come le strutture economiche o culturali. Nelle sue possibilità semantiche non rientrano le rivendicazioni contro le violazioni provenienti dai sistemi tradizionali di patriarcato o dalle strutture castali o razziali che, anche per effetto delle preferenze adattive, fanno valere come "normali" rapporti anonimi e spesso inintenzionali di subordinazione e sfruttamento. Non solo tali sistemi o tali strutture possono convivere anche nella cornice delle istituzioni giuridiche moderne, ma spesso la via delle riforme attraverso forme di iniziativa giuridica non è neppure la più efficace. In terzo luogo, e proprio in quanto diritto giuridico, il diritto (ai mezzi) di sussistenza dipende da variabili e fattori contingenti. Per esempio, in una società sufficientemente ricca e nella quale beni e opportunità risultano distribuiti in maniera sufficientemente egualitaria, guardare a questo diritto come a un'indicazione morale da accogliere nell'azione legislativa potrebbe non essere necessario. Infine, quando il diritto (ai mezzi) di sussistenza viene inteso come un dovere imposto ai governi, esso dipende dal fatto che i cittadini hanno coscienza di appartenere a una comunità tenuta insieme dai vincoli di solidarietà - altrimenti rischia di degenerare in una mera politica assistenzialista. Quando però la comunità dei popoli non si limita agli univoci doveri morali negativi, ma deve impegnarsi a seguire doveri morali orientati in senso attivo e positivo, viene a mancare proprio quella solidarietà civica che lega i cittadini di uno Stato a una cultura politica e a una forma di vita comuni.

La teoria dei diritti di Habermas incorpora tuttavia alcuni aspetti che potrebbero giustificare un diritto umano (ai mezzi) di sussistenza: da un lato i diritti umani sono fin dal principio inseriti in un contesto istituzionale, e ciò può trasformare delle affermazioni largamente condivise sulla dignità umana in una dottrina attiva dei diritti; dall'altro vi è un certo riconoscimento del loro valore "intrinseco", che prescinde dal loro valore "strumentale" per la formazione della volontà democratica. E vi è eventualmente il fatto che la complementarità tra diritti e doveri morali proclamata dall'etica del discorso può significare che il diritto umano (ai mezzi) di sussistenza è equioriginario rispetto agli altri diritti umani. È però soprattutto l'intuizione della pari origine dell'autonomia privata e dell'autonomia pubblica sviluppata nella proposta di fondazione del sistema dei diritti fondamentali elaborata in Fatti e norme a far valere il principio in base al quale i diritti che servono a proteggere la libertà negativa (assenza di vincoli) non hanno la priorità sui diritti che servono a proteggere la libertà positiva (capacità e conferimento di potere). Al liberalismo, risalente a Locke, che privilegia la libertà dei moderni su quella degli antichi, Habermas oppone l'idea che le libertà fondamentali non vengono garantite se, per esempio a causa di deficit economici o educativi, le persone non vengono messe in condizione di agire in modo coerente con le libertà che sono loro garantite sulla carta. Nonostante questa complementarità, la teoria deontologica della morale ha sempre privilegiato, da Kant in avanti, i diritti e i doveri negativi sui diritti e i doveri positivi. Alcune della ragioni addotte a sostegno di questa impostazione - che solo i primi sono incondizionatamente validi, determinati nel loro contenuto e privi di ambiguità riguardo ai loro destinatari - si sono rivelate poco convincenti. (20) E lo sono, in particolare, se ci si riconosce nell'idea che l'individuo va tutelato non in quanto astratta monade esistenziale, ma in quanto membro di una concreta forma di vita, nella quale ogni singola persona si alimenta del costante rinvio del singolo a rapporti e comunicazioni interpersonali, a relazioni sociali e a reti di reciproco riconoscimento.

Se poniamo mente al fatto che, almeno in parte, le istituzioni giuridiche assolvono al compito di esonerarci dai più gravosi doveri morali e dal relativo dispendio di motivazioni, il legame tra diritti positivi e diritti negativi può essere sfruttato per introdurre una concezione dei diritti umani in grado di fare in modo che il diritto (ai mezzi) di sussistenza possa essere considerato come complementare ai diritti alla sicurezza, alla libertà e al conferimento di potere politico. Anche se nessuna categoria di diritti può rivendicare una qualche forma di superiorità sulle altre, tuttavia, all'interno di una stessa categoria, vi sono alcuni diritti cui è possibile riconoscere una certa priorità. Se ci si sofferma sulla categoria dei diritti (ai mezzi) di sussistenza, il diritto alle risorse necessarie alla vita è ben più fondamentale (e quindi è prioritario) rispetto al diritto alla proprietà privata o all'autonomia negoziale. E può quindi accadere che, se i diritti di proprietà entrano in conflitto con il diritto (ai mezzi) di sussistenza, ai primi debba corrispondere un'effettività (relativamente) subordinata, soprattutto perché la capacità acquisitiva di cui, a certe condizioni, sono dotati, permette ai loro titolari di accumulare ulteriore potere economico - e quindi anche politico. E in effetti, la libertà di iniziativa economica può entrare in conflitto anche con un'altra categoria di diritti, i diritti di cittadinanza che garantiscono la partecipazione a una prassi comune. In generale, i diritti più importanti ruotano intorno alla necessità di garantire presupposti e condizioni dell'agire che siano regolati dalla reciprocità comunicativa e dalla solidarietà. Per questa ragione, secondo Habermas, i classici diritti liberali di proprietà non sono moralmente prioritari rispetto al diritti fondamentali di sussistenza, anche se sono più fondamentali dal punto di vista del diritto costituzionale.

Diversamente dagli aspetti salienti dell'istituto proprietario - in particolare il diritto riconosciuto a tutti gli individui di non incontrare ostacoli nell'accumulazione personale dei beni e degli strumenti produttivi, e quindi di esercitare un'attività economica privata -, che esigono giustificazioni di natura giuridica, (21) il diritto alla vita è un'idea essenzialmente morale. Il suo contenuto normativo non dipende dalla legittimazione fornita dal diritto positivo, quanto piuttosto dalle possibilità, innate in ogni essere umano, di condurre una "vita buona". In effetti, nella prospettiva di Habermas ogni appello alla natura umana non può che essere sospetto, dal momento che nell'epoca del pensiero postmetafisico la validità di regole morali generalmente vincolanti non può (più) radicarsi in una struttura dell'essere (umano) normativamente impregnata. La teoria morale deve invece giustificare il senso cognitivo intrinseco ai giudizi morali richiamandosi all'idea procedurale kantiana di autodeterminazione. (22) Non c'è però alcuna ragione che possa impedire di concepire la natura umana in termini non-metafisici, per esempio come un insieme complesso di capacità e funzioni che sono il risultato di rimaneggiamenti, inerzie evolutive, compromessi fra soluzioni adattative locali e vincoli storici, e cioè di espedienti imperfetti e fortunosi che però hanno funzionato e funzionano e che possono essere conosciuti, e modificati, per via empirica. (23)

Ma la ragione che induce Habermas a non associare il discorso dei diritti umani a una teoria dei bisogni e delle capacità può anche essere un'altra. Il linguaggio delle capacità può infatti essere impiegato per concettualizzare i diritti secondo una prospettiva extragiuridica, in quanto "sostiene molto chiaramente che i diritti più rilevanti sono prepolitici, non mere costruzioni delle leggi o delle istituzioni". (24) Il fatto che l'approccio delle capacità non comporti un'immediata interpretazione giuridica dei diritti quali vincoli legali o istanze con pretesa di legge, ma lasci anzi relativamente indeterminato il modo in cui tradurli in oggetto di disposizioni giuridiche coercitive, suggerisce che il concreto significato dei diritti umani non si esaurisce in una struttura rivendicativa minimalista. I diritti umani sono destinati a rimanere essenzialmente e inevitabilmente controversi e a configurarsi come una sorta di interminabile processo sociale di apprendimento, di per sé poco adatto a risolvere in un senso o nell'altro le incertezze del diritto positivo e della prassi decisionale giudiziaria. Poiché il consenso morale che fonda i diritti umani è ideale e controfattuale, essi servono a pronunciare affermazioni etiche volte a sottolineare la necessità di prestare la dovuta attenzione all'importanza di alcune specifiche libertà senza che la loro validità venga fatta dipendere da qualsiasi organismo governativo o da una soglia anche solo minima di riconoscimento istituzionale.

Come si è già avuto modo di osservare, per Habermas la tensione tra diritto e morale può anche essere produttiva, poiché l'intreccio tra i processi formalizzati delle decisioni politiche e giuridiche e i processi informali di apprendimento che caratterizza il modello a doppio binario della democrazia (25) trova un corrispettivo nella somiglianza strutturale della legislazione politica con l'autodeterminazione morale - o meglio, nel fatto che la legittimità del diritto positivo dipende dalla sua capacità di incorporare le più radicate aspirazioni morali. Siccome non vi è, invece, alcuna analogia strutturale tra la costituzione di uno Stato sovrano e la costituzione di un'organizzazione mondiale dotata anche solo, eventualmente, di alcune funzioni ben definite, e vi è invece una "asimmetria tra l'evoluzione del diritto costituzionale e quella del diritto cosmopolitico", (26) una procedura di giustificazione teorica che si risolva in chiave morale potrebbe metterne a rischio il consolidamento giuridico faticosamente tentato da istituzioni come, per esempio, la Corte penale internazionale. Non è solo che una strategia di tipo fondazionale, che si appella a principi controversi e perciò di divisione, non sarebbe di nessuna utilità per le battaglie giuridiche nelle quali i tribunali internazionali debbono comunque decidere in un senso o nell'altro. Ma c'è anche che per proceduralisti come Habermas e Rawls qualunque concezione dei diritti umani basata su una concezione sostantiva della "fioritura" umana (27) è destinata a scontrarsi con il "fatto" della varietà e della divergenze, e cioè con il pluralismo, in quanto deve necessariamente incorporare una qualche idea religiosa, metafisica, etica o culturale del bene umano.

L'idea che il pluralismo religioso, morale e culturale non sia compatibile con l'universalismo dei diritti sembra però poco giustificata per chi considera le culture come comunità conversazionali che non possono irrigidirsi su se stesse se non vogliono cadere "vittima dell'entropia" (28) e che nelle varie forme di vita ritrova - incorporati nel telos del linguaggio - gli stessi principi fondamentali, la cui identità di senso non deve necessariamente disperdersi nella pluralità delle diverse interpretazioni. Come ha osservato Nussbaum, se Habermas riconosce che i diritti umani "hanno un valore intrinseco, o almeno non sono riducibili al loro valore strumentale per la formazione della volontà democratica", è proprio perché essi catturano intuitivamente delle libertà il cui valore è dato dal rappresentare l'esercizio di funzioni che sono proprie degli esseri umani, mentre la loro privazione segnala la mancanza di ciò che contribuisce a rendere una vita pienamente umana. (29) Ed è per questo che i diritti umani vengono formalizzati giuridicamente - poiché la loro codifica in forma di legge serve ad assicurare che alcuni tratti essenziali della natura umana divengano oggetto di intervento da parte della comunità internazionale. Non c'è ragione di aspettarsi che i diritti umani riscuotano una qualche forma di consenso universale se non a condizione di assumere che alcuni aspetti essenziali della vita umana siano in grado di fornire criteri di valutazione che non siano vulnerabili rispetto alle chiusure etnocentriche e quindi al relativismo. Alcuni sviluppi della storia dell'umanità hanno dimostrato che nella natura umana vi sono alcuni fini che troviamo buoni, e che lo sono proprio in quanto abbiamo imparato a tenere ad essi. "Questa concezione è in modo netto non metafisica; vale dire, non pretende di basarsi su alcuna fonte che sia esterna a quelle che sono le effettive autointerpretazioni e autovalutazioni degli esseri umani nella storia". (30) Si limita a procedere alla ricostruzione razionale delle intuizioni sostantive relative alle esperienze fondamentali in cui riconosciamo funzioni proprie degli esseri umani che consideriamo costitutive della loro stessa natura. Si tratta di una visione universalista delle funzioni umane cardinali, che è tutt'altro che lontana dai criteri di valutazione impiegati dai vari organismi della Nazioni Unite per valutare i progressi nella realizzazione dei diritti umani.

5. Diritti e povertà sistemica

È chiaro che introdurre una prospettiva che privilegia l'impegno volto a colmare l'evidente carenza di forza giuridica nel riconoscimento morale di diritti privi di codifica o di interpretazione codificata in legge non è senza conseguenze. La più importante è quella di contrarne la portata normativa nell'ambito dei diritti di prima generazione (liberali, civili e politici) e di escludere i diritti di seconda e terza generazione dalla forma positivizzata di diritti azionabili da soggetti individuali e collettivi nel quadro delle giurisdizioni nazionali e internazionali. Ciò tuttavia contraddice il sostegno di Habermas alla Dichiarazione universale e all'asserita complementarità tra i diritti umani morali, che valgono universalmente per tutti i soggetti capaci di linguaggio e di azione, e i diritti umani giuridificati, che servono a dare attuazione a preesistenti diritti morali. Queste incoerenze teoriche hanno però conseguenze pratiche, che emergono quando si tratta di spiegare la povertà degli individui in rapporto alla struttura delle istituzioni sociali, in particolare di quelle culturali.

In che modo la prospettiva giuridica condiziona la concezione dei doveri che si accompagnano all'impegno verso i diritti umani? Immaginiamo di prendere per buona l'assunzione che propone di circoscrivere l'effettiva portata dei diritti umani riconosciuti all'area della libertà a non essere ingiustificatamente ostacolati nella sfera delle libertà civili e politiche, per cui i doveri negativi che impongono di astenersi dall'infliggere un danno sono prioritari rispetto ai doveri positivi che impongono di intervenire per evitare che il danno venga arrecato. Qual è, in questa prospettiva, il dovere che dovrebbe prevalere nella lotta alla povertà sistemica? La risposta potrebbe essere la seguente: i nostri doveri prioritari sono di tipo politico e implicano la trasformazione delle istituzioni sociali che incidono in misura cruciale sulla povertà e sul mancato rispetto dei diritti umani nei paesi poveri, e perciò infliggono gravi e indebiti danni a un numero estremamente elevato di persone. Quando si afferma che i doveri prioritari sono di tipo politico e implicano azioni positive non se ne depotenzia la portata né si suggerisce una qualche gerarchia tra i doveri politici, che dipendono da molti e diversi fattori. Se non si sbaglia di molto nel pensare che le istituzioni culturali tendono a pregiudicare la realizzazione dei diritti umani, allora le persone disperatamente povere che ne subiscono le conseguenze hanno il dovere negativo di rompere i ponti con le tradizioni di appartenenza e muovere verso nuovi lidi.

Per cominciare, è opportuno prendere avvio dal più debole, anche se più scontato, dovere positivo di prestare assistenza alle persone in condizioni di povertà estrema, lasciando in sospeso la questione dei fattori, nazionali o internazionali, che tendono a generare la povertà. Thomas Pogge elenca cinque condizioni che militano nel senso di questo dovere: (1) la persistenza, in termini assoluti, di una condizione di grave o estrema povertà per la metà dell'umanità, che impedisce alle persone più povere di avere accesso sicuro a un'alimentazione minimamente adeguata; (2) il fatto, in termini relativi, che una grande percentuale dell'umanità continua ad avere a malapena lo stretto necessario per sopravvivere, in contrasto sempre più stridente con i nostri standard di vita; (3) l'incapacità delle persone svantaggiate e spesso ridotte alla fame di progettare alternative realistiche agli assetti sociali, istituzionali e culturali che forgiano le loro vite; (4) la pervasività della povertà, che si traduce in fattori, come la mortalità e morbilità più elevate, la maggiore denutrizione, la grave mancanza di cure mediche eccetera, che condizionano tutti gli aspetti dell'esistenza; e (5) gli oneri relativamente limitati che i cittadini dei paesi ricchi dovrebbero addossarsi per migliorare le condizioni degli svantaggiati. (31) E questo dovere non verrebbe meno neppure nell'eventualità che le persone disperatamente povere fossero direttamente responsabili della situazione in cui versano in conseguenza, per esempio, di una cattiva gestione delle risorse, di un tasso di natalità particolarmente elevato dovuto a una cultura patriarcale eccetera - anche se, dovendo scegliere tra l'aiutare i derelitti di un paese straniero oppure i nostri connazionali è probabile che la nostra solidarietà andrebbe a questi ultimi. Per dirla in termini morali, in una concezione interazionale dei diritti umani, che assegna una responsabilità diretta ad agenti individuali e collettivi, le persone in condizioni di indigenza estrema avanzerebbero una pretesa su ciascuno di noi, preso singolarmente o in quanto membro della propria comunità privilegiata. Per i teorici di ispirazione utilitaristica questa pretesa sarebbe altrettanto stringente quanto ogni altra pretesa, e ciò comporterebbe un progetto di redistribuzione egualitaria della ricchezza in grado rendere la "loro" qualità della vita sostanzialmente comparabile con la "nostra".

La teoria utilitaristica delinea una concezione controintuitiva dei nostri doveri morali nei confronti del diritto (ai mezzi) di sussistenza degli altri. Resta il fatto che le cinque condizioni sopra indicate definiscono quanto meno i doveri negativi, cioè i diritti di non nuocere che impongono vincoli specifici minimi, e particolarmente minimi nel caso dei diritti umani, sulle condotte che peggiorano la situazione degli altri. (32) È possibile riconoscere un dovere negativo più incisivo assumendo le tre ulteriori condizioni menzionate da Pogge: (6) l'esistenza di un ordine istituzionale progettato dagli avvantaggiati e imposto agli svantaggiati; (7) il contributo causale fornito da questo ordine istituzionale nella perpetuazione della diseguaglianza radicale di cui ai punti (1)-(5); l'esistenza di un'alternativa istituzionale praticabile in grado di far cessare o di ridurre la diseguaglianza che genera povertà endemica, e (8) l'assenza di fattori extrasociali, come calamità naturali o handicap genetici, all'origine di questa situazione. (33)

L'aggiunta dei punti (6)-(8) ci spinge nella direzione di una teoria istituzionale dei diritti umani - di una teoria, cioè, che concepisce i diritti umani come uno scudo destinato a proteggere le persone contro le violazioni provenienti soltanto da alcune fonti. In questo caso, contro le violazioni provenienti da un ordine istituzionale che non assicura a tutti i membri della società un accesso garantito ai mezzi di sussistenza. Sebbene una situazione di questo genere possa essere interpretata anche in termini interazionali, per esempio incolpando i cittadini dei paesi ricchi, il fatto è che l'ordine globale coercitivo che fa persistere la povertà grave e produce un modello stabile di diffusa malnutrizione e fame tra i poveri è una realtà indipendente dalla volontà deliberata delle singole persone. Ciò è ancora più evidente se si prendono in considerazione due condizioni aggiuntive menzionate da Pogge: (9) gli avvantaggiati traggono una guadagno significativo dall'uso di risorse naturali di cui gli svantaggiati vengono largamente privati e senza ricevere alcun indennizzo, e (10) le posizioni sociali di partenza degli svantaggiati e degli avvantaggiati sono emerse da un processo storico solcato da profonde ingiustizie sociali. (34)

Tuttavia, anche se i punti (6)-(10) si spingono in direzione di una teoria istituzionale dei diritti umani, il linguaggio addotto a sua giustificazione rimane improntato in senso interazionale e giuridico. Per esempio, il punto (10) fa riferimento a una storia passata di colonialismo, schiavitù e imperialismo delle cannoniere, cioè a pratiche e comportamenti che ricadono attualmente nella fattispecie delle violazioni del diritto internazionale. I governi dei paesi ricchi si macchiano di queste colpe quando, in collaborazione con le élite dei paesi poveri, escludono coercitivamente gli svantaggiati dalla loro quota proporzionale di risorse, delegando il lavoro sporco ai loro complici privilegiati, che fanno uso della propria libertà torturando e assassinando i propri oppositori interni, censurando l'informazione eccetera. Ciò induce Pogge a convertire il dovere negativo di astenersi dal causare attivamente la povertà in un dovere positivo, che incombe su coloro che continuano a beneficiare dei misfatti del passato e che serve a compensare tutti coloro che continuano a esserne danneggiati. In altre parole, il dovere di stabilire un Dividendo Globale delle Risorse (DGR) viene concepito nella prospettiva di un modello giuridico di responsabilità, che demanda a un agente mandatario o a un'istanza patrocinante il compito di fissare le compensazioni destinate a ripristinare lo status quo ante. Anche i punti (7) e (8) generano doveri negativi, che sembrano essere indirizzati ai leader individuali, ai funzionari e ai negoziatori dei paesi sviluppati, che - attraverso negoziati intergovernativi condotti a senso unico - impongono accordi sul commercio a condizioni capestro grazie al vantaggio schiacciante di cui godono in termini di potere e capacità contrattuale.

Ora, può darsi che una concezione interazionale dei diritti umani possa giustificare una chiamata di correo nei confronti di coloro che rappresentano i cittadini dei paesi ricchi alla WTO e al Fondo monetario internazionale, poiché il loro sostegno alle élite corrotte e oppressive nei paesi poveri attraverso aiuti, prestiti e vendita di armi li trasforma in "volonterosi carnefici della fame". (35) Ma in che modo il modello giuridico si applica a tutti noi, che non ci riteniamo coinvolti nel sostenere delle norme ingiuste e la loro imposizione coatta? Anche noi singoli individui siamo causalmente o moralmente responsabili per la povertà che si sarebbe potuto impedire? Forse, sostiene, Pogge, i cittadini dei paesi sviluppati sono complici del male arrecato anche solo con la loro acquiescenza verso la povertà nel mondo, come quando, per esempio, votano per i leader nazionali che appoggiano l'insediamento di governi oppressivi nei paesi poveri, vendono armi a dittatori e giunte militari, o quando beneficiano di norme che permettono di acquistare legalmente un diritto di proprietà sulle risorse delle nazioni meno svantaggiate senza chiedersi se chi le controlla abbia realmente titolo per farlo. E anzi, persino i complici e i beneficiari "innocenti" dell'ingiustizia sarebbero tenuti non solo a porre fine a ogni forma di collusione, anche involontaria, con tutte le pratiche che portano alla deprivazione e all'assoggettamento dei poveri del mondo, ma anche ad attuare pratiche risarcitorie volte a compensare o a ripristinare ciò che, anche a loro insaputa, è stato ingiustamente prelevato o estorto.

Tuttavia, come dimostra l'esempio delle piccole aziende a conduzione familiare, le matrici causali della povertà possono essere ben più estese, ramificate e profonde delle istituzioni giuridiche e economiche citate da Pogge, in misura tale, per esempio, da ridimensionare l'efficacia di un modello giuridico che si affidi alla sola "risposta penale" e demandi a tribunali o a organismi giudiziari il compito di imporre una tutela coercitiva dei diritti dell'uomo - con tutti i rischi di potenziale enforcing militare connaturati a una prospettiva del genere. (36) Pogge fa inoltre riferimento ai risultati cumulativi di decenni e secoli in cui le società e i gruppi più abbienti si sono serviti del loro vantaggio per incrementarlo ulteriormente. Vi è un ordine istituzionale globale, che riguarda istituzioni come gli Stati nazionali, un sistema giuridico e diplomatico internazionale e un sistema economico di diritti di proprietà e mercati di capitali, beni e servizi, che è il prodotto di un processo storico macchiato da crimini orrendi. Ma in che modo i singoli individui possono responsabilmente porre fine al "proprio" coinvolgimento nella povertà degli "altri"? E soprattutto: in che modo è possibile giustificare il diritto (ai mezzi) di sussistenza una volta che si sia sostituito il modello della responsabilità di tipo giuridico con il modello dei legami sociali di tipo etico-morale?

Se si focalizza l'attenzione sulle piccole aziende domestiche che lavorano in subappalto sotto la supervisione di un capo patriarcale e che praticano condizioni estreme di sfruttamento, salta all'occhio che vi sono molti modi con cui la consuetudine, la paura, le scarse aspettative e le ingiuste condizioni socioculturali plasmano i comportamenti delle persone svantaggiate e i loro stessi desideri riguardo alle scelte di vita. In situazioni come queste, non basta che persone si battano per modificare istituzioni giuridiche ed economiche che danno adito a pratiche discriminatorie; esse devono modificare istituzioni culturali consolidate dalla tradizione, dall'intimidazione e dalla cieca consuetudine e che favoriscono l'acquisizione di preferenze capaci di stratificarsi nei vissuti individuali anche senza essere state deliberatamente scelte, e neppure approvate, dagli interessati. Tuttavia, per quanto ciò spieghi i limiti intrinseci agli interventi giuridici in questo campo, è opportuno non accentuare questi limiti al di là del necessario. La famiglia, per esempio, non esiste "per natura": (37) le leggi che regolano il matrimonio e il divorzio, l'istruzione obbligatoria e l'eredità sono tutte quanto di più interno alla famiglia vi sia. E l'intervento del sistema giudiziario penale è spesso necessario per prevenire o punire le violazioni più macroscopiche dei diritti umani inflitte alle donne e ai bambini: coercizione, percosse, stupro, sfruttamento, schiavitù e prostituzione, per citare solo alcune delle violazioni più macroscopiche.

La regolamentazione giuridica ha però dei limiti. Nella famiglia, la capacità di penetrazione dell'influenza culturale è profonda e pervasiva, e ciò spiega perché lo Stato incontri resistenze così forti quando si tratta di modificare i diritti e i privilegi dei suoi membri, per esempio rimuovendo pratiche o consuetudini che attribuiscono alle femmine diritti di proprietà inferiori rispetto ai maschi. La famiglia è un'istituzione sociale che risponde, per una parte non trascurabile, a una logica diversa da quella che regola i sistemi giuridici ed economici: è infatti un'associazione, più o meno volontaria, basata sul mutuo riconoscimento, o su ciò che Habermas definisce come "reciprocità comunicativa". Gli argomenti addotti a sostegno di una concezione della famiglia pensata come un'istituzione "privata" in cui si realizza la possibilità di coltivare rapporti di affetto e dedizione, solidarietà e cure, giocano un ruolo importante nell'idea che il nucleo familiare sia la cornice in cui si sviluppano rapporti di simmetria tra i membri che lo compongono, e che perciò l'intervento dello Stato debba essere pensato come l'extrema ratio, cui ricorrere solo quando sia venuta meno ogni altra alternativa. Ciò nonostante, l'intervento pubblico nella famiglia quale ipotetico centro della sfera privata degli affetti e delle cure non è difficile da giustificare: la famiglia può infatti essere un luogo di giurisdizione autonoma dove gli equilibri interni di potere impongono rigide gerarchie di potere e spietate divisioni nelle condizioni di vita, soprattutto nelle comunità caratterizzate da una forte identificazione tradizionale e religiosa.

È proprio però nei contesti culturali in cui la famiglia è solcata da radicali differenze sostanziali in termini di potere e di vantaggi tra uomini e donne che si può forse trovare la più diretta applicazione dell'etica del discorso nel campo dei diritti umani. Le forme più evidenti di dominio familiare si basano su rapporti personali, dipendono da vincoli di interazione e sono spesso a rischio di coercizione fisica e psicologica. Lo sfondo culturale, molto meno visibile, che legittima il dominio patriarcale è tuttavia di tipo istituzionale, fondato su aspettative condivise riguardo all'educazione dei figli e alla distribuzione asimmetrica dei ruoli, delle risorse e delle opportunità all'interno della famiglia. Non è neppure insolito che una forma ulteriore di sostegno alla disparità nell'assegnazione dei ruoli venga offerto dalla religione o dalle autorità religiose più conservatrici, che negano alle donne la possibilità di procurarsi un reddito indipendente, di trovare un impiego extradomestico o di godere dei diritti di proprietà, condannandole così a una vita segnata dalla passività, dalla vulnerabilità e dalla degradazione.

Quando l'adesione - volontaria o involontaria - a ruoli gerarchicamente precostituiti impedisce di fatto l'accesso ai beni fondamentali necessari alla sussistenza, è possibile parlare di violazione dei diritti umani. In casi come questi i singoli attori che subiscono gli abusi sono raramente in condizioni di fare pressioni affinché le loro preferenze vengano soddisfatte, sia perché le preferenze interiorizzate o stratificate per ragioni di adattamento possono entrare in conflitto con norme universali anche al livello elementare della nutrizione e della salute, sia perché non è nemmeno sempre chiaro quale sia l'interlocutore cui rivolgersi. Una concezione istituzionale dei diritti umani può porre rimedio a questa difficoltà: i diritti umani sono rivendicazioni morali rivolti alle strutture patriarcali o alle autorità religiose tradizionaliste che sostengono e legittimano ruoli che tolgono alla persona la facoltà di scegliere e di vivere la sua vita alla luce delle sue personali priorità.

La funzione dei diritti umani non si esaurisce nell'azione legislativa, ma può trovare molte altre applicazioni. Se lo strumento giuridico si rivela incapace di modificare abitudini, tradizioni e costumi consolidati nel tempo, occorre prendere atto che in molte situazioni può essere più opportuno fare appello a elementi come la comunicazione, le pressioni e un dibattito pubblico bene informato, in modo che i membri più vulnerabili del gruppo arrivino a percepire il senso dell'ingiustizia di quanto sta loro accadendo acquisendo il concetto di sé come persone, titolari di diritti che possono essere violati. Poiché il bisogno di appartenenza a una comunità che provveda i suoi membri di stili di vita dotati di senso nella gamma completa delle attività umane sia nella sfera pubblica sia nella sfera privata è probabilmente inestirpabile, suona irrealistico appellarsi a un generico diritto di exit. L'etica dei diritti umani può essere resa più efficace mediante il controllo e la pressione dell'opinione pubblica, per esempio contribuendo a fare in modo di spostare l'interesse degli attivisti dei diritti umani dal benessere al ruolo attivo delle donne. (38) Valorizzare l'azione delle donne, nel senso di ruolo attivo, significa trasformarle da beneficiarie passive di aiuti in protagoniste attive del mutamento, modificando la loro posizione sociale sia in famiglia che nella società. E ciò dovrebbe avvenire anzitutto nella sfera delle aziende a conduzione familiare, dove i ruoli di genere contribuiscono a fare in modo che la donna deprivata non sia neppure in grado di valutare il proprio contributo produttivo e di percepire con chiarezza la misura della sua deprivazione relativa.


Note

1. J. Habermas, "Zur Legitimation durch Menschenrechte", in Id., Die Postnationale Konstellation, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1998, pp. 170-192; trad. it. "Legittimazione tramite diritti umani", in Id., L'inclusione dell'altro, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 223.

2. Ivi, p. 225.

3. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton, Princeton University Press, 2001; trad. it. Una ragionevole apologia dei diritti umani, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 79. Sulla prospettiva di Michael Ignatieff, si veda il "Forum Ignatieff", a cura di L. Marchettoni, all'indirizzo <http://www.juragentium.org/it/forum/ignatief/index.htm>.

4. J. Habermas, Der gespaltene Westens, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2004; trad. it. L'Occidente diviso, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 139.

5. J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 221.

6. T. Pogge, World Poverty and Human Rights. Cosmopolitan Responsabilities and Reforms, Cambridge, Polity Press, 2008 (I ed. 2002); trad. it. Povertà mondiale e diritti umani. Responsabilità e riforme cosmopolite, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 82. Su Pogge, cfr. A. Jaggar (a cura di), Thomas Pogge and his Critics, Cambridge, Polity Press 2010.

7. J. Habermas, L'Occidente diviso, cit., p. 139.

8. A. Cassese, I diritti umani oggi, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 54.

9. C. Taylor, The Politics of Recognition, Princeton, Princeton University Press, 1992; trad. it. Multiculturalismo: la politica del riconoscimento, Milano, Anabasi, 1993, p. 59.

10. W. Kymlicka, Multicultural Citizenship: A Liberal Theory of Minority Rights, Oxford, Oxford University Press, 1995; trad. it. La cittadinanza multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1999.

11. B. Honnig, "My Culture Made Me Do It", in S. Moller Okin, Is Multiculturalism Bad for Women?, Princeton, Princeton University Press; trad. it. "Me l'ha fatto fare la mia cultura", in S. Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, Milano, Raffaello Cortina, 2007, p. 38.

12. I. Young, "Responsibility, Connection, and Global Labor Justice", in Ead., Global Challenges: War, Self-Determination, and Responsibility for Justice, Cambridge, Polity, 2007, pp. 159-186.

13. J. Rawls, The Law of Peoples, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1999; trad. it. Il diritto dei popoli, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, p. 107.

14. D. Zolo, "Libertà, proprietà ed uguaglianza nella teoria dei 'diritti fondamentali'", in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Roma- Bari, Laterza, 20022, p. 66.

15. J. Habermas, "Eine genealogische Betrachtung zum kognitiven Gehalt der Moral", in Id., Die Einbeziehung des Anderen, cit.; trad. it. "Una considerazione genealogica sul contenuto cognitivo della morale", in Id., L'inclusione dell'altro, cit. p. 56.

16. Tra le molte affermazioni simili, cfr. per esempio J. Habermas, Zwischen Naturalismus und Religion, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2005; trad. it. La condizione intersoggettiva, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 108.

17. J. Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstats, Frankfurt a.M., Suhrkamp. 1992; trad. it. Fatti e norme, Milano, Guerini e Associati, 1996, pp. 148-149.

18. T. Pogge, Povertà mondiale e diritti umani, cit., p. 71 ss.

19. J. Rawls, "The Law of Peoples", in S. Shute e S. Hurley (a cura di), On Human Rights, New York, Basic Books, 1993; trad. it. "La legge dei popoli", in I diritti umani, Milano, Garzanti, 1994, p. 92. La spiegazione di Rawls andrebbe però corretta: se le élite locali possono permettersi di essere e rimanere oppressive e corrotte è perché trovano molto più conveniente soddisfare gli interessi dei governi e delle corporation straniere piuttosto che i bisogni dei loro connazionali.

20. A. Sen, The Idea of Justice, London, Penguins Books, 2009; trad. it. L'idea di giustizia, Milano, Mondadori 2010.

21. D. Zolo, "Libertà, proprietà ed uguaglianza nella teoria dei 'diritti fondamentali'", in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, cit., , p. 59 ss.

22. Habermas, Wahrheit und Rechtfertigung. Philosphische Aufsätze, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1999; trad. it. Verità e giustificazione, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 265-308.

23. G. Marcus, Kluge. The Hapharzard Construction of the Human Mind, Boston, Houghton Mifflin, 2008; trad. it. Kluge. L'ingegneria approssimativa della mente umana, Torino, Codice Edizioni, 2008.

24. M. Nussbaum, Frontiers of Justice. Disability, Nationality, Species Membership, Cambridge (Mass.-London), Harvard University Press, 2006; trad. it. Le nuove frontiere della giustizia Bologna, Il Mulino, 2007, p. 304.

25. Cfr. S. Benhabib, The Claims of Culture: Equality and Diversity in the Global Era, Princeton, Princeton University Press, 2002; trad. it. La rivendicazione dell'identità culturale. Eguaglianza e diversità nell'età globale, Il Mulino, Bologna 2005.

26. J. Habermas, L'Occidente diviso, cit., p. 129.

27. Cfr. T. Pogge, "Fioritura umana e giustizia universale", in Id., Povertà mondiale e diritti umani, cit., pp. 41-68.

28. J. Habermas, Kampf um Anerkennung im demokratischen Rechtsstaat, Frankfurt a.M., Suhrkamo, 1996; trad. it. "Lotte di riconoscimento dello stato democratico di diritto", in J. Habermas e C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 92.

29. M. Nussbaum, Women and Human Development. The Capabilities Approach, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2000; trad. it. Diventare persone, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 206 n. 83; cfr. Ead., Women and Cultural Universals, in Sex and Social Justice, New York, Oxford University Press, 1999, p. 39.

30. Ead., Human Functioning and Social Justice: In Defense of Aristotelian Essentialism, "Political Theory", 20 (1992), 2, p. 215.

31. T. Pogge, Povertà mondiale e diritti umani, cit., p. 236.

32. Ivi, p. 19.

33. Ivi, p. 237.

34. Ivi, p. 240 e p. 242.

35. Ivi, p. 39.

36. Cfr. D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; Id., I signori della pace, Carocci, Roma 1998; L. Baccelli, I diritti dei popoli, Laterza, Roma-Bari 2009, cap. 4.

37. M. Nussbaum, Diventare persone, cit., pp. 304 ss.

38. A. Sen, Development as Freedom, New York, Alfred A. Knopf, 1999; trad. it. Lo sviluppo è libertà , Milano, Mondadori, 2000, p. 192 ss.