2005

What Are they Fighting for?
Diritti umani, valori americani e interesse nazionale nella politica estera degli Stati Uniti (*)

Luca Baccelli

Cosa contraddistingue l''americanismo di destra'? Si potrebbe sostenere che si caratterizzi per la costante e piena condivisione della politica estera degli Stati Uniti, a prescindere dai caratteri dell'amministrazione in carica e dalle sue scelte strategiche e tattiche. Più specificamente, si potrebbe sostenere che l'americanismo di destra presupponga un'adesione - più o meno acritica - ai 'valori americani' e la tendenza ad identificare l'interesse nazionale degli Stati uniti con quello dell'Europa e dell'Italia. Inteso in questo senso, l'americanismo di destra si è manifestato in forma particolarmente evidente nelle scelte dell'attuale governo italiano, a cominciare dalla partecipazione alla campagna militare angloamericana in Iraq; esso trova riscontro negli editoriali, più o meno virulenti, di una serie di giornali che include le fanzine berlusconiane come pure 'fogli' più pacati, almeno nella grafica. Con l'emergere sempre più evidente dei vicoli ciechi dell'occupazione dell'Iraq e con la recrudescenza del terrorismo fondamentalista, questa forma di americanismo si colora nei toni dello 'scontro di civiltà'. Alcuni interventi del presidente del Senato sono fra i migliori esempi di questa tendenza. Insomma, l'americanismo di destra si esprimerebbe in una scelta precostituita per particolari valori nazionali e perla condivisione di un particolare interesse nazionale.

Nell'ultimo decennio, tuttavia, si è manifestato e sviluppato un altro tipo di 'americanismo', un americanismo 'selettivo', o progressista. Un atteggiamento di questo tipo, nella diffusa consapevolezza dell'assenza di un'alternativa complessiva all'economia di mercato, nella convinzione che - a fortiori dopo il 1989 - le alleanze strategiche dell'Italia e dell'Europa non possono essere messe in discussione, sembra essersi definitivamente consolidato nella parte maggioritaria del ceto politico e dei commentatori di centro-sinistra. Parlo di americanismo selettivo perché la riaffermazione dei legami di amicizia con gli Stati Uniti, ed eventualmente del debito di gratitudine nei loro confronti, si collega ad una specificazione condizionale. L'idea è che noi abbiamo interessi comuni con gli Stati Uniti e siamo legati alla loro politica estera in quanto gli Stati Uniti sono la patria della democrazia e dei diritti umani. Se l''antiamericanismo' deve essere fuggito da ogni buon riformista, è tuttavia legittimo ed opportuno dissentire con le politiche estere di quei presidenti che, piuttosto che perseguire i valori della democrazia e dalla tutela dei diritti umani su scala planetaria, affermano in modo più o meno unilaterale il mero interesse nazionale degli Stati Uniti. Si potrebbe insomma parlare di un americanismo 'universalista' che prende le distanze da un americanismo 'particolarista'. Si potrebbe aggiungere che oggi molti riformisti collegano gli ideali dei diritti umani e della democrazia con il riconoscimento dell'esigenza di una governance sovranazionale e del ruolo delle Nazioni Unite. Ma questo non può essere considerato un tratto distintivo dell'americanismo progressista, perché in altre fasi tale collegamento è rimasto nell'ombra: l'appello universalistico ai diritti umani ha permesso di aggirare i vincoli del diritto internazionale.

Nel periodo successivo all'11 settembre, quando eravamo tutti americani, non era semplice distinguere fra i due americanismi. L'attuale fase della guerra in Iraq getta invece piena luce sui caratteri dell'americanismo di destra. Per contro, la memoria dell'entusiastica partecipazione del governo D'Alema all'intervento 'umanitario' della Nato in Kosovo rimanda l'immagine più nitida dell'americanismo fondato sui diritti umani.

Ma discriminare fra americanismo di destra e di sinistra, pregiudiziale e selettivo, in termini di universalismo e di particolarismo, di tutela dei diritti umani da un lato e di adesione ai valori e agli interessi americani dall'altro, è sempre corretto? Per tentare una risposta può essere utile una breve analisi dei documenti ufficiali della politica estera degli Stati Uniti. Può essere interessante analizzare in che misura i differenti elementi della tutela dei diritti umani e della democrazia, dell'affermazione dei 'valori americani' e della difesa dell'interesse nazionale abbiano di volta in volta prevalso nella retorica di tali documenti.

1. In principio era il realismo. Fino a buona parte degli anni settanta l'interesse nazionale sembra il valore-guida della politica estera statunitense. L'agenda di Nixon e Kissinger - dalle aperture con la Cina al Golpe in Cile - mostra una chiara consapevolezza del ruolo egemonico degli Stati Uniti, dei limiti che esso incontra nell'epoca dell'equilibrio bipolare e della conseguente necessità di articolare una complessa strategia. Realpolitik significa l'adozione di strumenti differenziati, dalla diplomazia alla guerra, dalle partite di Ping-pong allo sterminio degli oppositori. Certo, fin dagli anni cinquanta la retorica della difesa della democrazia e della libertà contro la minaccia globale del comunismo veniva ampiamente utilizzata per giustificare guerre 'pulite' e 'sporche'. Ma non c'è dubbio che la presidenza di Jimmy Carter segna una svolta: il discorso della politica estera statunitense si moralizza, adottando diffusamente il linguaggio dei diritti umani. Ronald Reagan, a sua volta, pur con obiettivi in larga parte differenti, non si risparmia in termini di retorica etica: introduce nel discorso politico concetti assoluti di 'bene' e di 'male', ed individua con precisione gli Imperi in cui essi hanno cittadinanza. Ma è nell'epoca successiva alla fine della guerra fredda, in particolare con l'amministrazione di Bill Clinton, che il riferimento ai valori, ed in particolare alla protezione dei diritti umani, diviene un tema ricorrente, mentre nel dibattito pubblico e nelle risoluzioni delle organizzazioni internazionali si legittimano gli 'interventi umanitari' che violano il principio tradizionale della sovranità statale.

Se la principale campagna politico-mediatica contro Clinton si è basata su accuse di immoralità sessuale, alla sua politica estera si è piuttosto attribuito un eccesso di moralismo. I critici conservatori hanno sostenuto che l'amministrazione Clinton è stata priva di una visione strategica, ha proceduto caso per caso e soprattutto ha mancato di una definita gerarchia dei fini e delle priorità. Secondo questi critici, piuttosto che rincorrere le aree a rischio umanitario, occorreva ridefinire una nozione di interesse nazionale adeguata nel nuovo scenario post-1989 e ispirare ad essa la politica estera della superpotenza (Glennon 1999, Nye 1999). Da questo punto di vista un articolo di Condoleeza Rice, pubblicato alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2000, può essere visto come una sorta di manifesto politico. Rice accusa l'amministrazione Clinton di non aver saputo approfittare delle straordinarie opportunità aperte alla politica estera americana dal collasso dell'Unione Sovietica e dalla nuova economia globalizzata; la presenta come incapace di definire un'agenda di priorità e di distinguere "ciò che importante da ciò che è triviale". Di rinunciare, insomma, a focalizzare l'interesse nazionale per rimpiazzarlo con gli 'interessi umanitari' o con gli interessi della 'comunità internazionale'. Secondo Rice "non c'è niente di male nel fare qualcosa di benefico per tutta l'umanità, ma questo è, in un certo senso, un effetto secondario. Sarà il fatto che l'America persegue l'interesse nazionale a creare le condizioni che promuovono la libertà, il mercato e la pace" (Rice 2000). Anziché fare questo, l'amministrazione Clinton ha mostrato una frenesia patologica nel promuovere accordi simbolici o nel sottomettersi a norme internazionali illusorie, come nei casi del protocollo di Kyoto e del trattato CTBT, come se le istituzioni e gli accordi internazionali fossero un fine in sé. D'altra parte, precisa Rice, il problema della tensione fra gli interessi degli Stati Uniti e i valori universali non si pone:

Qualcuno si preoccupa che questa visione del mondo ignori il ruolo dei valori, in particolare dei diritti umani e della promozione della democrazia [...] I valori americani sono universali. La gente vuole dire quello che pensa, praticare la religione come crede, ed eleggere chi la governa; il trionfo di questi valori è senza dubbio più facile quando i rapporti internazionali di potere favoriscono quelli che credono in essi (Rice 2000)

Pertanto, continua Rice, occorre maggiore saggezza nel valutare l'opportunità di intervento delle truppe americane. Nel caso del Kosovo è stato giusto intervenire perché erano in gioco interessi strategici americani: "Certo, si profilava anche un disastro umanitario, ma in assenza di preoccupazioni basate sugli interessi dell'alleanza, i motivi per intervenire sarebbero stati meno consistenti" (Rice 2000).

Alla luce di queste affermazioni della futura consigliera per la sicurezza nazionale, si potrebbe ipotizzare che la presidenza di George W. Bush abbia ridefinito radicalmente le priorità della politica estera degli stati Uniti: in una battuta, l'interesse nazionale al posto dei diritti umani. Ma una breve analisi dei documenti/manifesto della politica estera statunitense che si sono succeduti dopo il 1989 sembra dare un'altra impressione.

2. Nell'agosto 1991, all'indomani di Desert Storm, l'amministrazione di George Bush senior pubblica National Security Strategy of the United States. Gli Stati Uniti rivendicano orgogliosamente la vittoria nella Guerra Fredda ma affermano anche che alla fine della minaccia sovietica si accompagna l'insorgere di pericoli di carattere più ambiguo che nel passato: non si tratta di fronteggiare un nemico definito, ma "la minaccia nascente dei vuoti di potere e delle instabilità regionali". (The White House 1991, p. 24). Proprio per questo, gli Stati Uniti, rimasti "l'unico Stato con una vera forza globale", non possono evitare le proprie responsabilità. In un'epoca nella quale "la democrazia sta conquistando terreno, come pure i principi dei diritti umani e della libertà politica ed economica", le finalità della politica estera americana saranno la sicurezza nazionale, la potenza economica in un sistema economico internazionale aperto, l'affermazione di "un mondo stabile e sicuro, dove fioriscono la libertà politica ed economica, i diritti umani e la democrazia".

E' in questo quadro che sono delineati gli obiettivi nelle varie aree del globo, che prevedono comunque riferimenti a "valori che si sono dimostrati universali - diritti politici, diritti umani, limiti democratici al potere dello Stato, indipendenza del potere giudiziario, libertà di stampa e di parola". La strategia di costruzione di "a new world order" (ivi, p. 12) prevede la leadership americana nel contesto di una "truly global community", nella quale le Nazioni Unite svolgano finalmente il ruolo per il quale erano state progettate, a lungo impedito dalla competizione fra le superpotenze e dall'"antiamericanismo rituale che ha indebolito così spesso la loro credibilità" (ivi, p. 13).

L'Amministrazione Clinton è ricorsa massicciamente al linguaggio dei diritti umani nella giustificazione dei suoi atti di politica estera. Mentre all'inizio del suo mandato il governo britannico di Tony Blair annunciava l'epoca della 'politica estera etica', le truppe statunitensi applicavano il principio dell'interventismo umanitario, più o meno autorizzato dalle Nazioni Unite, dalla Somalia ad Haiti, a Timor Est, fino al bombardamento di un impianto farmaceutico in Sudan nel 1998 e alla 'guerra umanitaria' per il Kosovo nel 1999. Tuttavia i documenti quadro dell'amministrazione - come A National Security Strategy of Engagement and Enlargement, del febbraio 1996, e A National Security Strategy for a New Century, del dicembre 1999 - non sembrano segnare una drastica rottura rispetto all'impostazione di quelli della precedente amministrazione repubblicana. I riferimenti ai valori-chiave - la costellazione democrazia, diritti umani, libero mercato - sono ben presenti ma non risultano drammaticamente aumentati. C'è senza dubbio un'enfasi strategica sui temi della protezione dell'ambiente e dello sviluppo sostenibile. Ed emerge, soprattutto nel documento del 1999, un'apologia acritica della globalizzazione economica e finanziaria, vista unilateralmente come una straordinaria apertura di possibilità, senza che si lasci trapelare alcun sospetto relativo ai suoi costi economici ed umani.

I documenti dell'Amministrazione Clinton parlano il linguaggio di una nazione sicura di sé, che enumera i successi riportati negli ultimi anni. L'idea-guida della politica estera di Bush senior - nel nuovo scenario delineato dalla fine della Guerra fredda gli Stati Uniti devono e non possono non mantenere e consolidare la loro leadership, con tutti i costi che questo comporta - non è affatto abbandonata, è semmai sviluppata ed articolata. E già nel 1996 si parla della minaccia rappresentata dai rogue states e si tematizza la 'controproliferazione' per le armi di distruzione di massa.

D'altra parte, è chiaro che in questi documenti non si ammette alcuna subordinazione della sovranità nazionale americana ad istanze 'superiori', come quelle delle Nazioni Unite. Si dichiara anzi, esplicitamente, che in caso di minaccia ai loro interessi vitali di Stati Uniti avvieranno azioni militari unilaterali. Clinton afferma chiaramente che la sicurezza nazionale è "il compito più importante ed il principale dovere costituzionale" della sua amministrazione (The White House 1996). Per quanto, rispetto agli anni della Guerra fredda, siano cambiate le minacce alla sicurezza - rappresentate ora dei conflitti etnici, dai rogue states, dal terrorismo, dalla criminalità internazionale, dal traffico di droga - "L'America deve guidare il mondo per proteggere in patria il nostro popolo e il nostro stile di vita" (The White House 1999), assumendosi i costi di tale leadership.

I tre 'core objectives' della strategia di sicurezza nazionale sono "Accrescere la sicurezza dell'America, sostenere la prosperità economica dell'America, promuovere la democrazia ed i diritti umani nel mondo. Interessi e valori sono posti sullo stesso piano. O meglio, viene definita una gerarchia di priorità: in primo luogo vi sono gli "interessi vitali", che sono fondamentali per "la sopravvivenza, la sicurezza e la vitalità della nostra nazione"; in secondo luogo vi sono gli "interessi nazionali importanti", che riguardano "il nostro benessere nazionale e i caratteri del mondo in cui noi viviamo" (ivi, p. 1); infine gli "interessi umanitari e gli altri interessi", dato che diffondere i valori della democrazia, dei diritti umani e del rule of law "non solo riflette i valori americani, migliora anche la nostra sicurezza e la nostra prosperità" (ivi, p.4). La gerarchia degli obiettivi si traduce in una differenziazione dei mezzi per perseguirli. Per la difesa dei primi "il nostro uso della forza sarà risoluto e, se necessario, unilaterale" (ivi, p. 19)]; per i secondi, una volta valutati i mezzi alternativi, è opportuno un uso selettivo e limitato della forza militare, commisurato agli interessi in campo e bilanciato sui costi e benefici; per contro, l'intervento militare non è in genere il migliore strumento per proteggere gli interessi umanitari; un uso della forza militare deve essere in ogni caso limitato ed avere uno scopo ben definito (questo, ça va sans dire, è stato per Clinton il caso dell'intervento NATO in Iugoslavia). Le risorse della diplomazia saranno usate finché sarà possibile, la forza quando sarà necessario, con moderazione e saggezza; questo, se possibile, avverrà sotto l'autorità delle Nazioni Unite, ma gli Stati Uniti hanno dimostrato di "essere preparati ad agire da soli, se è necessario" (The White House 1996, p. 4, cfr. pp. 14-15, 22-23). D'altronde la decisione sull'uso della forza militare "sarà dettata in primo luogo e principalmente dal nostro interesse nazionale" (ivi, p. 22).

3. Sarebbe fuorviante ed irresponsabile sottovalutare la - tragica - novità rappresentata da The National Security Strategy of the United States of America emanato nel 2002 dall'amministrazione di George W. Bush. Opportunamente, molti commentatori hanno messo in rilievo il carattere provocatorio del documento, nel quale "una superpotenza si attribuisce il privilegio di lanciare attacchi preventivi contro chiunque sia sufficientemente sospetto; essa dichiara, per di più, la sua determinazione di impedire ad ogni concorrente di avvicinarsi al suo stesso status di potenza" (Habermas 2002). L'amministrazione Bush si considera parte combattente nella guerra contro il terrorismo globale, nella quale "our best defense is a good offense" (The White House 2002, p. 5). In particolare, nel famigerato paragrafo V:, l'obiettivo di combattere i rogue states (i quali, fra l'altro, "ripudiano i diritti umani e odiano gli Stati Uniti"), ed i terroristi "prima che siano capaci di usare armi di distruzione di massa o di minacciarne l'uso" (ivi, p. 8) porta all'elaborazione della dottrina della controproliferazione e della difesa preventiva. Data la natura delle nuove minacce, i fini degli stati canaglia e dei terroristi, e le dimensioni dei danni che essi possono causare, gli Stati Uniti non si possono limitare a mantenere "a reactive posture". Se nel corso dei secoli - azzarda il documento - i teorici del diritto internazionale hanno considerato legittima difesa gli interventi preventivi di fronte a "una visibile mobilitazione di forze terrestri, navali ed aeree pronte ad attaccare, oggi la nozione di "minaccia imminente" va adattata, nella consapevolezza che le armi di distruzione di massa possono essere facilmente nascoste. "Più grande è la minaccia, maggiore è il rischio dell'inazione". Dunque, "per anticipare o prevenire tali atti ostili da parte dei nostri avversari, gli Stati Uniti, se necessario, agiranno preventivamente (ivi, pp. 9-10). L'amministrazione Bush, dunque, non si limita a considerare scontata la legittimità dell'azione preventiva in caso di evidente minaccia - ignorando le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite - ma considera legittimo anticipare gli avversari. E in seguito Bush non solo ha perseverato nel sostenere questa tesi ma l'ha estremizzata. Nel Discorso sullo stato dell'unione del 20 gennaio 2004, Bush aveva sostenuto che senza l'intervento "i programmi per le armi di istruzione di massa del dittatore sarebbero continuati" (Bush 2004a). E il 7 ottobre, dopo che il rapporto Duelfer ha definitivamente accertato che il regime iracheno non aveva alcuna possibilità di minacciare la sicurezza degli Stati Uniti, Bush ha sostenuto che la guerra è stata legittima perché Saddam Hussein aveva "l'intenzione di far ripartire il suo programma di armamento" (Bush 2004c).

Se il documento sovverte le disposizioni del diritto internazionale vigente, sembra esprimere d'altra parte un'impostazione tutt'altro che universalista quando afferma un principio di diseguaglianza giuridica, proclamando l'immunità dei cittadini americani dalla legislazione della Corte penale internazionale. A proposito di universalismo, sono ormai tristemente noti gli effetti delle politiche antiterrorismo promosse dall'amministrazione Bush, a cominciare dal Patriot Act approvato dal Congresso nel 2001, in termini di violazione dei diritti umani dei prigionieri e dei sospetti, di negazione delle garanzie procedurali, di generalizzata deroga ai principi del rule of law e dell'eguaglianza di fronte alla legge (cfr. ad es. Falk 2003). Ma tutto questo non significa che i riferimenti universalistici ai diritti umani si siano rarefatti nelle prese di posizione dell'amministrazione Bush jr., anzi. Ancora più enfaticamente che i suoi precedenti, il documento del 2002 si apre annunciando la vittoria della libertà nella sua secolare lotta contro il totalitarismo:

Le grandi lotte del ventesimo secolo fra libertà e totalitarismo sono finite con la vittoria decisiva delle forze della libertà, e di un unico modello sostenibile per il successo nazionale: libertà, democrazia e libera impresa. Nel ventunesimo secolo, solo le nazioni che condividono l'impegno per la protezione dei diritti umani fondamentali e per garantire la libertà politica ed economica saranno capaci di liberare le potenzialità dei loro popoli e di assicurare la loro futura prosperità. Dovunque la gente vuole poter parlare liberamente, scegliere chi la governa, praticare la religione come preferisce, educare i propri figli - maschi e femmine -, possedere proprietà e godere dei frutti del proprio lavoro (The White House 2002, p. 1)

L'universalità di questi valori è proclamata chiaramente. Se da David Hume in poi i filosofi morali si sono arrovellati nel chiedersi se sia legittimo attribuire la verità e la falsità alle proposizioni normative, tali preoccupazioni metaetiche sono estranee agli estensori del documento: i valori della libertà sono dichiarati "right and true for every person, in every society". Gli Stati Uniti intendono approfittare dell'opportunità storica di diffonde la libertà a livello globale in collaborazione con altri Stati e con organizzazioni come le Nazioni Unite, la WTO, la NATO e con benvenute "coalitions of the willing". La strategia di sicurezza degli Stati Uniti è "basata su un peculiare internazionalismo americano che riflette l'unione dei nostri valori e del nostro interesse nazionale". "Champion aspiration for Human Dignity" è ora il primo obiettivo di tale politica. Peraltro, in tale costellazione di valori il "rispetto della proprietà privata" si pone sullo stesso piano del rule of law, della libertà di parola e di religione, dell'eguaglianza. D'altronde il "free trade" è un principio morale e si identifica con la "libertà reale" (ivi, p. 11).

Il passaggio dagli interessi nazionali ai valori americani, ai principi universali, ai diritti umani appare lineare. Sembra non segnare alcuna discontinuità. Se Condoleeza Rice, in termini 'realistici', sosteneva nel 2000 "perseguite l'interesse nazionale americano e i diritti umani seguiranno", ora i differenti principi ispiratori della politica estera si identificano l'uno con l'altro.

Nel corso dell'aggressione all'Iraq, via via che la debolezza militare del regime si rivelava sempre più evidente e che si perdevano le residue speranze di individuare un qualche sito di armi di distruzione di massa, l'accento dei discorsi di Bush e dei suoi collaboratori si spostava sulle gravissime violazioni dei diritti umani commesse da Saddam Hussein e lo scopo della guerra veniva presentato la 'liberazione' e la democratizzazione del paese (Nye 2003). Questa presenza pervasiva del linguaggio dei diritti nei documenti ufficiali della Casa Bianca e nel discorso pubblico da essa ispirato non è passato inosservato. All'indomani della conquista dell'Iraq, l'editoriale di Foreign Affairs poteva essere intitolato "The Rise of Ethics in Foreign Politics". Il linguaggio della democratizzazione e dei diritti umani "è spesso proferito persino più da autori tradizionalmente realisti che da quelli tradizionalmente liberal" (Gelb, Rosenthal 2003, pp. 5); "alcuni di quelli che mettevano in ridicolo i presidenti Clinton e Carter e i loro clan per il loro sostegno alla causa della democrazia ora adottano questo ideale" (ivi, p. 6). I neoconservatori sono stati definiti 'Wilsonians of the right' per la loro "enfasi sulla democrazia e sui diritti umani" (Nye 2003). E d'altra parte un pensatore dal pedigree progressista come Michael Ignatieff, che in un volumetto di grande successo ha proposto un'apologia della politica dei diritti umani, ha appoggiato l'intervento in Iraq come conseguenza del 'fardello' imposto agli Stati uniti dal loro ruolo imperiale (Ignatieff 2003). Altri intellettuali progressisti - a cominciare da Michael Walzer - con il documento What we're Fighting For fin dall'indomani dell'11 settembre avevano contribuito ad affermare l'idea che fra valori americani e diritti universali non vi sia alcuna tensione. Il meglio dei valori americani, basati su "verità morali universali" costituisce l'eredità condivisa dell'umanità e pertanto un possibile motivo di speranza per una comunità mondiale nasata sulla pace e la giustizia". E la guerra per difendere questi valori dal terrorismo è una 'guerra giusta'.

4. Almeno a giudicare dai documenti ufficiali, nella politica estera degli Stati Uniti non è possibile contrapporre un linguaggio progressista della democrazia a un linguaggio conservatore dell'interesse nazionale. Tantomeno, si può contrapporre l'universalismo dei diritti umani al particolarismo dei valori americani. I neocons non basano le loro argomentazioni solo sul richiamo al fondamentalismo evangelico o sulle diagnosi di Leo Strass. Molti di loro parlano con disinvoltura il linguaggio dei diritti universali.

D'altra parte, conservatori e progressisti concordano nel porre in primo piano l'interesse nazionale. Per entrambi i casi l'interesse nazionale e la sovranità nazionale prevalgono sui vincoli del diritto internazionale, sugli obblighi derivanti dai trattati e dall'appartenenza ad organizzazioni internazionali, Nazioni unite comprese. Come ha scritto Michael Ignatieff, "l'impero non può esser legato a terra come Gulliver con mille lacci giuridici" (Ignatieff 2003, p. 7).

Con queste considerazioni, non voglio sostenere che la morale sia necessariamente quella di Carl Schmitt: non sempre "chi dice umanità cerca di ingannarti". Dalla conquista delle Indie ad oggi, il linguaggio dei diritti umani è stato usato per legittimare interventi imperiali e per facilitare sul piano ideologico l'affermazione dell'unilateralismo egemonico, ma costituisce comunque un prezioso lascito della modernità politico-giuridica. Un linguaggio che permette di esprimere e formalizzare giuridicamente le istanze di emancipazione, le 'leggi del più debole' (Ferrajoli 2001) contro potentati pubblici e privati è una risorsa a cui non ci si può permettere di rinunciare. Si tratta di uno strumento potente, ma non è semplice utilizzarlo e non è semplice distinguere a che scopo viene utilizzato. In particolare, occorre rendersi conto che per contrassegnare l'uso virtuoso del linguaggio dei diritti l'universalismo non è un indicatore affidabile: è sempre possibile scivolare dai principi universali ai valori e agli interessi nazionali. D'altra parte, neppure la secolare ricerca di un solido fondamento è di molto aiuto:l'assolutezza del fondamento non mette al riparo dagli effetti perversi. Anzi, se i diritti umani vengono concepiti come "giusti e veri per ogni persona, in ogni società", appare più legittimo esportarli nelle ogive dei missili Tomahawk e nelle fusoliere dei B-52.

Riferimenti

  • AA.VV. (2002), What We're Fighting For. A Letter from America, The Washington Post, 12 febbraio 2002
  • Bush, G.W. (2004a), "State of the Union Address".
  • (2004b), "President Speaks to the United Nations General Assembly".
  • (2004c), "President Bush Discusses Iraq Report".
  • Falk, R. (2003), "L'eclisse dei diritti umani", in l. bimbi (a cura di), Not in my Name. Guerra e diritto, Editori Riuniti, Roma.
  • Ferrajoli, L. (2001), [et. al], Diritti fondamentali, Roma-Bari, Laterza
  • Gelb, L.H. - Rosenthal, J.H. (2003), "The Rise of Ethics in Foreign Policy", Foreign Affairs, 82, 3, pp. 2-7.
  • Glennon, M.J. (1999), "The New Interventionism. The Search for a Just International Law", Foreign Affairs, 78, 3, pp. 2-7.
  • (2003), "Why the Security Council Failed", 82, 3, pp. 16-35.
  • Habermas, J. (2002), "Letter to America", The Nation, December 16, 2002
  • Ignatieff, M. (2003), "The Burden", New York Times Magazine, 5 gennaio
  • Nye, J.S. Jr. (1999), "Redefining the National Interest", Foreign Affairs, 78, 4, pp. 22
  • (2003), "U.S. Power Strategy After Iraq", Foreign Affairs, 82, 4
  • Rice, C. (2000), "Promoting the National Interest", Foreign Affairs, 79, 1.
  • The White House (1991), National Security Strategy of the United States.
  • (1996), A National Security Strategy of Engagement and Enlargement.
  • (1999), A National Security Strategy for a New Century.
  • (2002), The National Security Strategy of the United States of America.

*. Pubblicato su Il ponte, a. LXI nn. 2-3, febbraio-marzo 2005; si ringrazia la Direzione e la Redazione della rivista per aver autorizzato la pubblicazione su Jura Gentium.