2005

Sul futuro dello stato di diritto e dei diritti fondamentali (*)

Luigi Ferrajoli

1. Diritti soggettivi e diritti fondamentali.- Vorrei fare innanzitutto un'osservazione preliminare, di carattere terminologico, che riguarda il titolo del nostro convegno: "Stato di diritto e diritti soggettivi". Io credo che il tema di cui dobbiamo occuparci è non già quello generico dei "diritti soggettivi", bensì quello, più specifico, dei "diritti fondamentali" e del loro rapporto da un lato con la democrazia e dall'altro con lo Stato di diritto.

Le due espressioni - l'ho detto più volte a Danilo Zolo - non sono affatto sinonime. "Diritto soggettivo" è una figura classica della dottrina giuridica nella quale rientrano, oltre e ancor prima dei diritti fondamentali, tutti i diritti patrimoniali: il diritto di proprietà, i diritti di credito, che sono figure appartenenti alla nostra più antica tradizione - al diritto romano e al diritto comune - e che nulla hanno a che fare con lo "stato di diritto"; il quale, qualunque cosa s'intenda con questa espressione è un fenomeno moderno, legato non già come i diritti patrimoniali al diritto privato bensì al diritto pubblico sviluppatosi dopo la nascita dello Stato moderno.

Dunque non parliamo di "diritti soggettivi", ma di diritti fondamentali, o umani, o personalissimi o comunque li vogliamo chiamare (1), cioè di figure che con i diritti patrimoniali - gli iura in re, cioè i diritti reali su beni determinati, tanto per intenderci, o i diritti di credito - non hanno nulla a che vedere: tanto che personalmente ho sostenuto molti anni fa che non ha senso sul piano scientifico, ed è solo fonte di gravissime confusione usare la medesima parola - "diritto soggettivo" - per designare cose così diverse, addirittura opposte; e che sarebbe opportuno abbandonare la nozione di "diritto soggettivo" quale nozione di genere, riservandola ai soli diritti patrimoniali o ai soli diritti fondamentali, e comunque utilizzare due parole diverse per designare queste due diversissime figure. Ma tant'è. Non è possibile alterare fino a questo punto il linguaggio corrente. E dovrebbe quindi essere sufficiente, ma al tempo stesso necessario, distinguere radicalmente, come ho cercato di fare più volte, tra diritti fondamentali, che sono diritti universali, consistenti direttamente in norme, indisponibili e appartenenti a rapporti verticali della persona nei confronti della sfera pubblica, e diritti patrimoniali, che sono invece diritti singolari, non direttamente disposti ma solo predisposti da norme come effetti di ipotetici atti negoziali, disponibili, alienabili ed appartenenti a rapporti orizzontali di diritto privato nei confronti di privati.

Insomma, la tematica dello stato di diritto, inteso con questa espressione la soggezione al diritto dei pubblici poteri, non ha nulla a che vedere, né sul piano storico né su quello teorico, con i diritti soggettivi patrimoniali. Ha a che vedere soltanto con il principio di legalità, cioè con la soggezione dei poteri alla legge, e precisamente a leggi consistenti in norme generali ed astratte: e perciò non con qualunque diritto, ma solo con i diritti fondamentali, i quali consistono, per la loro forma universale, direttamente in norme, quelle che ho chiamato norme tetiche dato che dispongono immediatamente diritti o doveri, e precisamente, nei nostri ordinamenti, in norme costituzionali.

2. Normativismo e realismo.- C'è poi un secondo ordine di considerazioni che mi pare utile premettere a questa discussione.

So che Danilo Zolo, invitandomi a svolgere questa relazione insieme a Pier Paolo Portinaro, ha voluto mettere a confronto due posizioni antitetiche: normativismo e realismo; approccio normativo, prescrittivo all'analisi dei sistemi giuridici e politici, e approccio realistico, puramente descrittivo. Ora questa alternativa viene spesso proposta, ad opera soprattutto dei realisti, come alternativa tra approccio puramente prescrittivo, per così dire idealistico e magari utopistico, e approccio empirico-esplicativo e quindi scientifico ai fenomeni del diritto e della politica. Credo che Zolo intenda in questo senso l'approccio normativistico e precisamente in questo senso me lo ha spesso rimproverato: ricordo la sua critica, ovviamente benevola, di "ottimismo normativo" che mi rivolse nel suo scritto apparso nel volume "Le ragioni del garantismo" curato da Letizia Gianformaggio. Ma questa è un'immagine caricaturale delle posizioni normativistiche.

Naturalmente non intendo qui soffermarmi sugli enormi problemi epistemologici legati a questi diversi approcci: problemi che richiederebbero da soli ben più dello spazio di un'intera relazione. Mi limiterò a caratterizzare l'approccio normativistico principalmente sulla base di due elementi, che presuppongono entrambi un approccio descrittivo oltre che prescrittivo e che sono di solito ignorati dai realisti.

Il primo elemento riguarda la natura del nostro oggetto di indagine e la conseguente, inevitabile dimensione pragmatica della teoria politica e della teoria del diritto. Diritto, stato di diritto e democrazia non sono fenomeni naturali, ma costruzioni artificiali. Sono, come scrisse Hobbes, "ragione e volontà artificiali" ("artificial reason and will") (2), cioè un prodotto della nostra stessa ragione, frutto della politica e della teoria (3). In altre parole, sono come noi li pensiamo, li progettiamo, li produciamo, li interpretiamo e li difendiamo. E questo conferisce un ruolo per così dire performativo alla teoria giuridica e politica: un ruolo, dunque, non semplicemente conoscitivo, ma per così dire costitutivo, del quale porta il merito e la responsabilità. E' sempre stato così: non solo, come è ovvio, nell'esperienza giuridica premoderna, allorquando diritto e scienza giuridica sostanzialmente coincidevano, ma anche nell'età moderna, così con riguardo all'edificazione dello stato di diritto, che ha nei filosofi illuministi e poi nei giuspubblicisti dell'Ottocento i suoi padri costituenti, come nell'interpretazione del diritto positivo, sia legislativo che costituzionale. I giuristi fanno infatti parte dell'oggetto che indagano e contribuiscono a formarlo. C'è insomma una circolarità tra diritto e istituzioni politiche da un lato e cultura giuridica e politica dall'altro: le istituzioni sono un prodotto della teoria, che a sua volta ne esplica e rafforza il senso e la portata normativa.

Il secondo connotato del normativismo è quello che può essere espresso con la bella formula di Dworkin del "diritto preso sul serio". Prendere sul serio il diritto vuol dire riconoscere il carattere normativo che esso, almeno nel paradigma del costituzionalismo novecentesco, ha nei confronti di se medesimo: e quindi leggere, nel divario - in una certa misura fisiologico, oltre una certa misura patologico - tra il dover essere del diritto e il suo essere effettivo, una violazione del primo da parte dei secondi. E' un connotato, aggiungo, che è iscritto, per così dire, nella struttura stessa del paradigma del costituzionalismo, caratterizzato appunto dalla positivizzazione di principi come la pace, l'uguaglianza e i diritti fondamentali quali norme che hanno come destinatari i supremi poteri e perciò dalla possibile esistenza del diritto illegittimo perché in contrasto - per commissione (ove si manifesti in antinomie) o per omissione (ove si manifesti in lacune) - con le norme giuridiche sulla sua produzione.

Ebbene, è chiaro che l'approccio descrittivo non è proprio soltanto dell'approccio realistico ma forma il presupposto di qualunque approccio scientifico, incluso quello normativistico. E questo perché il tema privilegiato di una teoria del diritto di impostazione normativistica, ciò che da essa deve essere soprattutto esplicato, è precisamente la divaricazione interna, propria di quegli ordinamenti complessi che sono gli odierni stati costituzionali di diritto, tra il diritto che è e il diritto che deve essere, tra il diritto come fatto - che dunque dev'essere descritto per come realmente è, anche nei suoi profili di invalidità e di illiceità - e il diritto come norma.

3. Stato di diritto, democrazia e crisi dello Stato nazionale.- Fatte queste precisazioni, vengo finalmente al nostro tema, quello del rapporto tra Stato di diritto e diritti (non già semplicemente soggettivi bensì) fondamentali.

E allora, la prima osservazione che dobbiamo fare in ordine a questo rapporto riguarda precisamente la divaricazione, non fisiologica ma patologica, intervenuta in questi anni tra il modello non semplicemente teorico, ma giuridico, costituzionale - tradotto appunto in norme di diritto positivo di rango costituzionale - dello stato di diritto e la realtà. Riguarda, in breve, la crisi dello stato di diritto di cui ha parlato Danilo Zolo nella sua introduzione: una crisi che si manifesta così nel diritto interno delle nostre democrazie, per la crisi del principio di legalità e per la tendenza di tutti i poteri, sia politici che economici, ad accumularsi e a rilegittimarsi in forme assolute, come nel diritto internazionale.

Ma che cosa vuol dire registrare realisticamente questa crisi e leggerla, secondo l'approccio normativistico, come divaricazione tra il dover essere normativo e l'essere effettivo dello stato di diritto medesimo? Vuol dire, ovviamente, rilevare gli innumerevoli strappi, violazioni e inottemperanze recate in questi anni dai pubblici poteri ai principi della democrazia costituzionale: dal principio di legalità, cioè della loro soggezione alla legge, alla separazione dei poteri, dal pluralismo nell'informazione, al principio della pace e all'insieme di diritti fondamentali. Ma vuol dire, ancor prima, una cosa ben più radicale. Vuol dire, se è vero che lo stato di diritto consiste nella soggezione del potere al diritto, che qualunque approccio teorico al nostro tema, sia esso realistico o normativistico, deve muovere da una rigorosa ricognizione empirica dei luoghi in cui si è dislocato il potere, o meglio i poteri, siano essi politici, o economici, o militari, o mass-mediatici e simili. Dunque il presupposto della nostra riflessione è un'analisi della fenomenologia del potere nell'età della globalizzazione. Ebbene, questa analisi ci dice, sommariamente, due cose.

La prima è che i poteri - tutti i poteri, quelli pubblici e quelli privati, quelli politici e quelli economici - si sono dislocati, in gran parte, al di fuori dello Stato: i poteri pubblici in sedi istituzionali sovra-statali, i poteri privati in luoghi transnazionali ed occulte; gli uni e gli altri al di fuori dei confini e delle possibilità di controllo del diritto statale.

Il secondo aspetto della crisi è che questi poteri sono sempre più sregolati e illimitati. La crisi degli Stati nazionali e della capacità regolativa dei diritti statali non è stata compensata dallo sviluppo di nuove istituzioni e di un nuovo diritto all'altezza dei nuovi poteri. La globalizzazione infatti, sul piano giuridico, può ben essere letta come assenza, vuoto di diritto pubblico: non si badi di diritto, dato che il vuoto è riempito dalla legge del più forte - sul piano politico dal dominio degli Stati Uniti e su quello economico dalle norme elaborate dalle grandi società multinazionali -, ma un vuoto di diritto pubblico, di sfera pubblica, cioè di garanzia dei diritti fondamentali.

Io credo che questi siano dati di fatto, non contestabili. Due dati di fatto che si risolvono in una crisi delle forme tradizionali, statali, appunto, così della democrazia come dello stato di diritto; così della legittimazione politica proveniente ai poteri di governo dalla rappresentanza, come della legittimazione giuridica proveniente dalla garanzia costituzionale dei diritti fondamentali. Ne risultano due effetti, entrambi distruttivi: l'uno riguardo alla democrazia politica; l'altro riguardo allo stato di diritto.

Innanzitutto, infatti, la crisi della sovranità statale, in quanto crisi della sovranità popolare, trascina con sé le forme statali della democrazia politica. Se la democrazia consiste nel potere del popolo, nell'autogoverno, cioè nel fatto che le decisioni politiche - le leggi e gli atti di governo - sono prese, direttamente o tramite rappresentanti eletti con il suffragio universale, dagli stessi soggetti cui sono destinate, è evidente che essa viene meno se i luoghi decisionali si spostano al di fuori delle sedi della rappresentanza politica. Questo vale evidentemente per i paesi dell'Unione Europea, il cui deficit democratico consiste appunto nel fatto che oltre il 60% della legislazione in essi vigente è di origine comunitaria, cioè direttamente o indirettamente prodotta da organi non rappresentativi. Ma vale ancor più per i paesi poveri del sud del mondo, i cui destini - pensiamo all'Argentina, agli stati africani - sono decisi prevalentemente da istituzioni sovranazionali, come la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, l'Organizzazione mondiale del Commercio, il G8, la Nato e simili. Per moltissimi popoli l'elezione del presidente degli Stati Uniti ha sicuramente maggior importanza per il loro futuro che non quella dei loro governanti. E' possibile, di fronte a questo crollo del rapporto tra popolo e decisioni che contano, parlare ancora di democrazia politica in qualche senso di questa espressione?

In secondo luogo, ed è il tema che interessa il nostro convegno, la crisi dello stato quale monopolio della produzione giuridica, sia legislativa che giurisdizionale, trascina con sé le forme, ancor più inequivocabilmente statali, dello stato di diritto e perciò delle garanzie dei diritti fondamentali. In un assetto in cui la maggior parte delle norme vigenti sono di origine extra-statale, espressioni come principio di legalità, riserva di legge, soggezione del giudice alla legge, che fanno riferimento a una fonte tipicamente statale come è la legge, sia essa ordinaria o costituzionale, perdono di senso. E vengono meno perciò i due principali connotati dello stato di diritto: la soggezione al diritto dei pubblici poteri e il controllo giurisdizionale sul loro operato ad opera di giudici indipendenti. E viene meno, in particolare, il controllo di costituzionalità delle leggi, che dei diritti fondamentali sanciti nelle nostre costituzioni rigide rappresenta la principale garanzia.

Ora, io credo, la domanda cui dobbiamo rispondere è tanto semplice quanto fondamentale. I nessi stato nazionale-democrazia e stato nazionale-stato di diritto sono teoreticamente indissolubili, sicché il declino dello Stato implica inevitabilmente quello della democrazia e dello stato di diritto, nonché delle connesse garanzie statali dei diritti fondamentali? Oppure è possibile - non dico probabile, ma semplicemente possibile - rifondare la democrazia e lo stato di diritto e ancor prima la teoria dell'una e dell'altro all'altezza delle nuove forme - extra- o sovra-statali assunte dai poteri e dalle violazioni dei diritti fondamentali? Insomma, esiste un nesso tra Stato nazionale - ancorato a un "demos" o a una "nazione", o simili - e democrazia e stato di diritto, oppure è possibile una democrazia e uno stato di diritto senza Stato nazionale?

4. Rifondazione del diritto o guerra permanente?.- Insomma, ci piaccia o non ci piaccia, sono saltati e stanno comunque saltando, con la crisi dello Stato nazionale, i vecchi fondamenti della democrazia e dello Stato di diritto. E' saltato il rapporto tra popolo e istituzioni politiche di governo, che forma il fondamento di qualunque democrazia. E' saltato il rapporto tra poteri e diritto, che forma il fondamento dello stato di diritto.

E allora noi possiamo anche rimpiangere il vecchio stato nazionale sovrano. Ma non possiamo chiudere gli occhi di fronte a ciò che accade. Certamente dobbiamo difendere, ed anzi impegnarci per un rafforzamento delle garanzie di quel tanto di stato di diritto e di democrazia rappresentativa tuttora assicurati dal vecchio paradigma dello stato nazionale: innanzitutto le garanzie del pluralismo e della rappresentanza contro le degenerazioni maggioritarie, plebiscitarie e videocratiche della democrazia politica; in secondo luogo il ruolo di garanzia dei diritti fondamentali tuttora svolto dalle nostre costituzioni e delle nostre Corti costituzionali nazionali. E tuttavia dobbiamo riconoscere, realisticamente, l'irreversibilità della crisi: l'irreversibilità innanzitutto della globalizzazione, e perciò del carattere sempre più sovranazionale delle sedi del potere e, in secondo luogo, l'irreversibilità, che è l'altra faccia del fenomeno, del ruolo garantista e democratico del vecchio stato nazionale. Possiamo essere incerti su tutto, meno che sul fatto che i mercati non rientreranno mai più all'interno dei confini nazionali; e che gli Stati, con la sola eccezione degli Stati Uniti, non potranno più aspirare all'autarchia giuridica e neppure a una qualche forma di primato, se non di monopolio, nella detenzione delle fonti della produzione giuridica.

Dobbiamo allora rassegnarci, ripeto, a dire addio alla democrazia, allo stato di diritto e ai diritti fondamentali? Oppure è possibile prefigurare un allargamento a livello sovranazionale del paradigma della democrazia costituzionale, dello stato di diritto e delle garanzie dei diritti umani, oltre il vecchio schema statalistico?

Prima di rispondere a queste domande, io credo che dobbiamo renderci conto della portata della posta in gioco. Non si tratta, ripeto, di optare a favore o contro la difesa della sovranità degli Stati, come spesso sembra suggerire il dibattito italiano. Si tratta di prendere atto che quella sovranità, di fatto ancor prima che di diritto, non esiste più. Esistono piuttosto sovranità disuguali: un'unica sovranità in senso proprio, cioè nel senso letterale di potestas superiorem non recognoscens, che è quella della super-potenza statunitense; e poi tante sovranità disuguali e variamente dipendenti e dimezzate. Ed è chiaro che questa crisi delle sovranità statali in un mondo globalizzato e interdipendente, unitamente alla crisi che ne consegue della democrazia politica e dello stato di diritto, equivale a una regressione alla legge del più forte, a una condizione di guerra e di anarchia, in breve alla società selvaggia e sregolata. Giacché c'è un altro nesso - oltre a quelli già illustrati tra diritto, ragione, stato di diritto e democrazia - che ci viene suggerito, in questo caso non solo dalla tradizione normativistica ma anche da quella realistica, e precisamente da Thomas Hobbes: è il nesso indissolubile tra diritto e pace, tra diritto e sicurezza.

E allora dobbiamo rovesciare la domanda posta dai realisti. La questione è non già se sia realisticamente possibile - "possibile", si badi, non "prevedibile" - un allargamento del paradigma dello stato di diritto a livello internazionale, bensì se sia realisticamente possibile un governo del mondo, cioè un qualsiasi ordine internazionale - inteso per "ordine" un assetto di pace e non di guerra permanente - senza una rifondazione del paradigma dello stato di diritto a livello internazionale. Se sia possibile, in altri termini, che l'attuale dominio economico e militare del mondo da parte dell'Occidente, e in primo luogo degli Stati Uniti, sia in grado di garantire in futuro non diciamo i diritti fondamentali, ma semplicemente la pace e la sicurezza degli stessi paesi occidentali.

Io credo che quanto sta accadendo sotto i nostri occhi è sufficiente a suggerirci che questa ipotesi è del tutto irrealistica. Nel decennio seguito al crollo dell'Unione Sovietica e alla fine della guerra fredda i paesi occidentali, improvvisamente privati del Nemico e impegnati soltanto a celebrare i trionfi del libero mercato, hanno ignorato ed hanno anzi lasciato marcire e aggravato, tutti i grandi problemi del pianeta. Si è così approfondito il divario tra paesi ricchi e paesi poveri, passato da un rapporto da 3 a 1 all'inizio dell'800 e da 11 a 1 all'inizio del secolo scorso a una differenza da 1 a 72 nel 1992 (4). Si sono tollerati milioni di morti ogni anno per fame e malattie non curate. Si è lasciato libero corso alle devastazioni dell'ambiente, si sono chiuse ermeticamente le nostre frontiere a masse crescenti di affamati, senza minimamente curarsi dell'odio e della rivolta che frattanto montavano contro l'Occidente e delle minacce alla pace e alla sicurezza generate dalla nostra miopia. Infine, si è supplito a questa imprevidenza irresponsabile e a questa totale incapacità di governo con la politica delle armi. Le spese militari dei paesi occidentali, primi tra tutti gli Stati Uniti, sono state, nel decennio, più che raddoppiate e sono state installate basi militari in tutti gli angoli del pianeta. E' stata rifondata e rafforzata la Nato ed è stato escluso, nel documento del 24.4.1999, ogni limite ai suoi poteri di intervento. E' così che abbiamo avuto, anziché il decennio del diritto internazionale, il decennio delle guerre: la guerra del Golfo del 1991; la guerra nel Kosovo del 1999, la guerra in Afghanistan dell'anno scorso; infine, la guerra annunciata che incombe contro l'Iraq.

5. La negazione dei diritti umani e il nuovo razzismo.- Il principale effetto politico di questa dissennata assenza di politica è il crollo, di fronte al restro del mondo, della credibilità dell'Occidente e di tutti i suoi valori: della democrazia, dato che gran parte dell'umanità si sente di fatto governata e discriminata dalle democrazie di una minoranza della popolazione mondiale; dello stato di diritto, per l'aperto disprezzo delle regole, a cominciare da quelle del diritto internazionale, manifestato dai leaders delle grandi potenze; per i diritti fondamentali, infine, giacché questa nostra "età dei diritti", come l'ha chiamata Norberto Bobbio, sta trasformandosi nell'età della loro più massiccia violazione e della più profonda e intollerabile disuguaglianza: un'età nella quale gli uomini sono sul piano giuridico incomparabilmente più uguali che in qualunque altra epoca grazie alle tante carte e dichiarazioni dei diritti ma sono anche, di fatto, incomparabilmente più disuguali in concreto; un'età, inoltre, nella quale l'umanità è nel suo insieme enormemente più ricca che in passato ma è anche, per quanto riguarda masse sterminate e crescenti di esseri umani, enormemente più povera.

Ma è evidente che questo sviluppo esponenziale della disuguaglianza non è solo un fattore di discredito dei nostri conclamati valori occidentali. Esso è il segno di una nuova, radicale asimmetria tra "noi" e "loro", di un nuovo razzismo espresso dalle attuali politiche dell'Occidente, che dà per scontata la miseria, la fame, le malattie e la morte di milioni di esseri umani senza valore come il prezzo dei nostri ricchi tenori di vita e delle nostre incontaminate identità nazionali e culturali. Giacché il razzismo, come scrisse Foucault 25 anni fa, consiste precisamente nell'"introdurre una separazione, quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire". Esso è "la condizione d'accettabilità della messa a morte..., la condizione in base alla quale si può esercitare il diritto di uccidere" (5).

In tanto è possibile infatti all'opinione pubblica occidentale tollerare le decine di milioni di morti ogni anno per fame e mancanza di cure, in quanto questa tolleranza, questa rimozione siano sorrette dal razzismo. In tanto è possibile che vengano accettate le attuali politiche contro l'immigrazione e sia rimossa dal nostro orizzonte la tragedia di migliaia di persone respinte ogni anno alle nostre frontiere e di decine di altre che per muoiono ogni anno affogati prima di approdare sul nostro territorio, in quanto si condivida il latente razzismo sul quale si basa il nostro sistema di vita. In tanto, infine, possiamo tollerare e perfino applaudire le odierne guerre dal cielo "senza perdite di vite umane" dalla nostra parte e con migliaia di vittime innocenti nei paesi bombardati, in quanto queste guerre sono legittimate da un senso comune razzista, che in quelle vittime vede degli esseri diversi da noi, "inferiori" a noi.

Solo il razzismo, in altre parole, consente di promuovere e di praticare queste politiche di morte, le sole del resto con cui l'Occidente si illude di governare il mondo: sia che le vittime siano gli immigrati che tentano di penetrare nelle nostre fortezze di benessere, oppure i miliardi di esseri umani esclusi dai nostri paradisi democratici, oppure le popolazioni civili bombardate dalle nostre guerre magari in difesa dei loro diritti. E il rapporto tra politiche di morte e razzismo è un circolo vizioso: le une sono legittimate e assecondate dall'altro. Le nostre leggi con cui migliaia di immigrati ogni anno vengono espulsi o respinti alle nostre frontiere, non diversamente dalle nuove guerre, vengono decise per soddisfare le pulsioni razziste e le richieste di vendetta indiscriminata dell'opinione pubblica (e dell'elettorato) occidentale, che da quelle politiche, a loro volta, vengono legittimate, alimentate e rafforzate.

La domanda che dobbiamo porci è allora se sia realistica, ancor prima che legittima giuridicamente e tollerabile moralmente, una simile politica di governo del mondo; se sia verosimile o non invece illusorio, che il mondo possa essere governato con la guerra e con politiche razziste, di mortificazione della dignità e dell'identità di interi popoli e culture, in grado soltanto di provocare un aumento dell'odio, della rivolta, del terrorismo.

E' la stessa Dichiarazione dei diritti del 48, del resto, che istituisce, realisticamente, un nesso indissolubile tra pace e diritti: la pace, essa dice nel preambolo, è possibile solo se saranno garantiti i diritti fondamentali di tutti e livelli minimi di uguaglianza, la cui garanzia è necessaria "se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione".

E non c'è altra strada, per realizzare l'uguaglianza e la convivenza pacifica, che il riconoscimento di uguali diritti fondamentali. Giacché sono i diritti fondamentali la tecnica attraverso cui vengono garantite, oltre all'uguaglianza, le differenze e il pluralismo culturale. Non caso la prima libertà fondamentale fu la libertà di coscienza, la cui affermazione pose fine alle guerre di religione.

6. Istituzioni di governo e istituzioni di garanzia.- Ebbene, se questa è la portata della crisi in atto, dobbiamo leggere in essa una sfida nei confronti della ragione giuridica e della ragione politica che non può non essere raccolta. Ovviamente non possiamo fare previsioni. Né mi pare che abbia alcuna rilevanza o interesse, sul piano teorico, il nostro personale pessimismo o ottimismo. Ma certamente non possiamo considerare aprioristicamente impossibile, irrealistica, la prospettiva di una rifondazione dello stato di diritto all'altezza delle sfide in atto. Una simile idea equivarrebbe a un'abdicazione della ragione. E varrebbe di fatto a confortare, se non a legittimare, i processi di dissoluzione in atto. Di più: equivarrebbe a una fallacia naturalistica che confonde ciò che accade con ciò che non può non accadere ed ignora precisamente quei due connotati dell'approccio normativistico che ho all'inizio indicato: la consapevolezza che il diritto è fatto dagli uomini e che dipende anche dalla cultura giuridica il senso comune che si sviluppa intorno ad esso e perciò il fatto che esso sia o meno preso sul serio.

Dobbiamo invece essere consapevoli che l'esito della crisi dipenderà - come sempre, del resto - dal ruolo che sarà in grado di svolgere il diritto e ancor prima la politica e prima ancora la cultura giuridica e politologica. Precisamente, la transizione verso un rafforzamento anziché un tracollo della sicurezza, della democrazia e dello stato di diritto dipenderà da una rifondazione della politica e della legalità, tramite istituzioni politiche e giuridiche all'altezza dei grandi e drammatici problemi sollevati dalla crisi qui illustrata.

Quali sono queste istituzioni? Voglio qui richiamare una distinzione che ho più volte operato e che propongo alla vostra discussione: la distinzione, a mio parere ben più fondata della classica distinzione che è alla base della separazione dei poteri, tra istituzioni di governo e istituzioni di garanzia. Le istituzioni di governo sono quelle investite di funzioni discrezionali, politiche, di scelta in ordine a quella che ho più volte chiamato la sfera del decidibile. Le istituzioni di garanzia sono invece quelle investite delle funzioni di tutela della pace e dei diritti fondamentali, cioè di tutte quelle funzioni strettamente vincolate alla legge: le funzioni giurisdizionali innanzitutto, ma anche quelle deputate alla garanzia in via primaria dei diritti fondamentali, come le istituzioni scolastiche, quelle sanitarie, quelle previdenziali e simili.

E' chiaro che la costruzione di un ordine mondiale informato ai principi dello stato di diritto richiede la creazione, ben più che di funzioni e di istituzioni di governo, di funzioni e istituzioni di garanzia. Le funzioni di governo infatti, riguardando la sfera della discrezionalità politica, sono tanto più legittimate quanto più rappresentative, cioè vicine al corpo elettorale, ed è bene perciò che rimangano quanto più possibile di competenza degli Stati nazionali ed affidate alle forme della democrazia politica. Non avrebbe senso, del resto, una democrazia rappresentativa planetaria, basata sul classico principio una testa/un voto. Ciò che occorre creare, a livello internazionale, sono le funzioni e le istituzioni di garanzia, in primo luogo della pace e in secondo luogo dei diritti umani, in sostituzione e se necessario anche contro gli Stati.

7. Una sfera pubblica internazionale.- Sotto il primo aspetto, quello relativo alla pace, occorrerebbe pervenire, sia pure progressivamente, a quel monopolio giuridico della forza in capo alle Nazioni Unite prefigurato dal capitolo VII della Carta dell'Onu. In questa prospettiva dovrebbe essere ripreso il processo di progressivo disarmo, interrottosi negli anni 90 dopo le Conferenze di Vienne e di Parigi, attraverso rigide convenzioni internazionali sul divieto della produzione, del commercio e della detenzione di armi. Le armi, essendo destinate comunque ad uccidere, dovrebbero finalmente essere considerate quali beni illeciti, ben più delle sostanze stupefacenti, e come tali messe al bando della convivenza civile. La loro disponibilità è infatti la causa prima delle guerre, oltre che del terrorismo e dalla criminalità.

Naturalmente il divieto di produrre e detenere armi - ne cives ad arma veniant - non esclude, ma anzi comporta il monopolio giuridico della forza di cui ho appena detto in capo a un'istituzione internazionale quale è la forza di polizia prevista dal capo VII della Carta dell'Onu: la quale, se fosse stata creata all'indomani della caduta del muro di Berlino con la cooperazione di delle diverse polizie nazionali, sarebbe intervenuta in tutte le crisi degli anni passati con ben maggior forza e credibilità e senza le inutili devastazioni provocate dalle guerre dal cielo dei paesi occidentali. Occorrerebbe poi rendere quanto prima operativa la competenza della Corte penale internazionale anche in ordine al crimine, previsto dalla lettera d) dell'art.2 del suo statuto, della "guerra di aggressione", pervenendo rapidamente a una sua definizione che delimiti rigorosamente l'ipotesi della "legittima difesa", oggi pericolosamente invocata anche a titolo preventivo in caso di semplice sospetto di aggressione.

Sotto il secondo aspetto, quello che riguarda la tutela dei diritti umani, la costruzione di una sfera pubblica internazionale passa attraverso la creazione o il rafforzamento di quelle che possiamo chiamare istituzioni internazionali di garanzia. In questa prospettiva, l'avvenimento indubbiamente più importante è l'entrata in funzione, l'1 luglio 2002, della Corte penale internazionale per i crimini contro l'umanità che ho appena ricordato. Dipenderanno peraltro dal sostegno dell'opinione pubblica internazionale la sua efficienza, la sua credibilità ed anche la sua futura accettazione da parte delle potenze che fino ad oggi, temendo di vedere incriminati loro cittadini o governanti, si sono rifiutati di approvarla: come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e Israele. Ma sono molte altre le istituzioni di garanzia che occorrerebbe introdurre. La più importante, in vista di un tendenziale monopolio della forza in capo all'Onu, sarebbe l'istituzione, di cui ho già detto, di una forza di polizia internazionale sotto la "direzione strategica" del "Comitato di stato maggiore" previsto dall'art.47 della Carta. Andrebbero poi organizzate, di fronte ai giganteschi problemi sociali della fame e della miseria generati da una globalizzazione senza regole, istituzioni deputate alla soddisfazione dei diritti sociali previsti dai Patti del 1966. Talune di queste istituzioni, come la Fao e l'Organizzazione mondiale della sanità, esistono da tempo, e si tratterebbe soprattutto di dotarle dei mezzi e dei poteri necessari alle loro funzioni di erogazione delle prestazioni alimentari e sanitarie. Altre - in materia di tutela dell'ambiente, di garanzia dell'istruzione, dell'abitazione e di altri diritti vitali - dovrebbero invece essere istituite.

Ma l'innovazione più decisiva, ai fini della costruzione di una sfera pubblica internazionale, sarebbe l'introduzione di una fiscalità mondiale, cioè di un potere sovrastatale di tassazione volto a reperire le risorse necessarie a finanziare le istituzioni di garanzia: che è il presupposto necessario di una politica internazionale redistributiva fondata sui diritti anziché sugli aiuti. E' in questa direzione che si orienta la proposta della Tobin tax sulle transazioni internazionali fatta propria dai movimenti cosiddetti "no-global". Ma ancor più giustificata, sulla base di principi elementari del diritto privato, sarebbe l'imposizione di un risarcimento, o meglio di un adeguato corrispettivo per l'indebito arricchimento proveniente alle imprese dei paesi più ricchi dall'uso e dallo sfruttamento, quando non dal danneggiamento, dei cosiddetti beni comuni dell'umanità: come le orbite satellitari, le bande dell'etere e le risorse minerarie dei fondi oceanici, attualmente utilizzate a titolo gratuito come se fossero res nullius anziché, secondo quanto stabilito dalle convenzioni internazionali sul mare e sugli spazi extra-atmosferici, "patrimonio comune dell'umanità" (6).

Io credo che la prospettiva di un simile allargamento alle relazioni internazionali del paradigma dello stato costituzionale di diritto - in breve la costruzione di una sfera pubblica mondiale - sia oggi la principale sfida lanciata dalla crisi dello Stato alla ragione giuridica e alla ragione politica. Tale prospettiva, infatti, è non soltanto implicata e perciò normativamente imposta, se prendiamo il diritto sul serio, dal disegno normativo della Carta dell'Onu e delle Dichiarazioni e convenzioni sui diritti umani, ma rappresenta la sola alternativa razionale a un futuro di guerre, di violenze e di fondamentalismi. Per quanto l'odierna anarchia internazionale equivalga di fatto al primato della legge del più forte, essa non giova, nei tempi lunghi, neppure al più forte, risolvendosi in una generale insicurezza e precarietà: giacché sempre "il più debole", come scrisse Thomas Hobbes, "ha forza sufficiente per uccidere il più forte o con una macchinazione segreta o alleandosi con altri" (7).

Purtroppo ciò che sta accadendo non consente nessun ottimismo. Ma occorre quanto meno evitare la fallacia naturalistica nella quale incorre buona parte della filosofia politica e giuridica "realistica". Nei processi in atto non c'è nulla di naturale, né di necessario, né perciò di inevitabile. Questi processi sono il frutto di scelte politiche, o se si preferisce di un vuoto di politica, che è parimenti il frutto di una scelta, e richiedono perciò alla politica e ancor prima alla cultura giuridica e politica, se li si vuol contrastare, la progettazione delle nuove e specifiche garanzie di uno stato di diritto internazionale in grado di fronteggiarli. E' sempre stato così, nella storia delle istituzioni. Non confondiamo quindi problemi teorici con problemi politici. Non presentiamo come utopistico o irrealistico, occultando le responsabilità della politica, ciò che semplicemente non si vuole fare perché contrasta con gli interessi dominanti, oltre tutto di cortissimo respiro, e che solo per questo è inverosimile che si faccia. Giacché questo tipo di "realismo" finisce per legittimare e assecondare come inevitabile ciò che resta comunque opera degli uomini, e di cui portano gran parte della responsabilità i poteri economici e politici più forti. Non ha nessun senso, in particolare, sostenere che, realisticamente, il disegno universalistico dell'Onu è un'utopia ed è comunque fallito dato che i suoi passati insuccessi ne hanno dimostrato l'impotenza, per carenza di mezzi e di poteri. L'Onu non è un'istituzione extra-terrestre. La sua attuale impotenza, così come il suo futuro e con esso il futuro della pace e dei diritti umani, non dipendono dalla sua natura, ma unicamente dalla volontà delle grandi potenze dell'Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, e dalla loro disponibilità a rinunciare al loro ruolo incontrastato di dominio militare, economico e politico e ad assoggettarsi anch'esse al diritto internazionale. Sarebbe nell'interesse di tutti - non solo del Sud del mondo ma anche dell'Occidente - riabilitare l'Onu e rafforzarne le funzioni di garanzia della pace e dei diritti: se non per ragioni morali o giuridiche, a tutela della nostra sicurezza e sopravvivenza e perciò dei nostri stessi interessi.


Note

*. Intervento al convegno internazionale Stato di diritto e diritti soggettivi. Questioni aperte, Firenze, 6 dicembre 2002.

1. Su questa varietà terminologica, cfr. G.Peces-Barba Martinez, Curso de drechos fundamentales (1991), tr.it. a cura di V.Ferrari, Teoria dei diritti fondamentali, Giuffrè, Milano 1993, pp.10-24; M. del Carmen Barranco Avilés, El discurso de los derechos. Del problema terminológico al debate conceptual, Dykinson, Madrid 1996. Giustifico la scelta dell'espressione "diritti fondamentali" con due ordini di ragioni: in negativo, con il significato più ristretto che ho associato a termini come "diritti umani", "diritti pubblici", "diritti della persona" o "diritti di cittadinanza" (nel mio Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E.Vitale, Laterza, Roma 2001, pp.282-288); in positivo, con il fatto che tali diritti formano, a mio parere, altrettanti "fondamenti" della democrazia costituzionale (ivi, pp.318-332).

2. T.Hobbes, Leviatano, con testo inglese del 1651 a fronte, tr. it. a cura di R.Santi, Bompiani, Milano 2001, Introduzione, 1, p.15

3. "La filosofia civile, come la geometria", scrive Bobbio a proposito di Hobbes, "rivolge la propria conoscenza ad un oggetto che noi stessi produciamo. Rimane a domandarsi: in che senso si può dire che noi produciamo l'oggetto della filosofia civile o, con le parole stesse di Hobbes, formiamo lo Stato? Lo Stato, risponde Hobbes, non è per natura ma per convenzione. Appunto perché soddisfa ad un'esigenza elementare dell'uomo sono gli stessi uomini che lo vogliono e gli danno vita con un reciproco accordo" (N.Bobbio, Introduzione a T.Hobbes, Opere politiche, a cura di N.Bobbio, I, Utet, Torino 1959, p.23)

4. UNDP. Rapporto 1999 sullo sviluppo umano. La globalizzazione, Rosenberg e Sellier, Torino 1999, p.55. Più esattamente, il divario di reddito tra il quinto della popolazione mondiale che vive nei paesi più ricchi e il quinto che vive nei paesi più poveri era di 30 a 1 nel 1960, di 60 a 1 nel 1990 e di 74 a 1 nel 1997 (ivi, p.19).

5. M.Foucault, Corso del 17 marzo 1976, in Il faut défendre la societé (1997), tr.it. a cura di M.Bertani e A.Fontana, "Bisogna difendere la società", Feltrinelli, Milano 1998, pp.200 e 221.

6. L'art.1 del Trattato sugli spazi extra-atmosferici del 27.1. 1967 qualifica tali spazi come "appannaggio dell'umanità intera", imponendone l'"utilizzazione per il bene e nell'interesse di tutti i paesi, quale che sia lo stadio del loro sviluppo economico o scientifico". Analogamente, gli artt.136-140 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10.12.1982 affermano che "l'Area (di alto mare) e le sue risorse sono patrimonio comune dell'umanità", che "le attività nell'Area sono condotte a beneficio di tutta l'umanità, tenuto particolarmente conto degli interessi e delle necessità degli Stati in via di sviluppo" e che va "assicurata l'equa ripartizione dei vantaggi che ne derivano su base non discriminatoria". Su queste basi, è stata proposta una tassazione internazionale per lo sfruttamento delle risorse minerarie dei fondi oceanici (cfr. D.E.Marko, A Kinder, Gentler Moon Treaty: a Critical Rewiew of the Treaty and proposed Alternative, in "Journal of Natural Resources and Environmental Law", 1992), nonché per l'uso delle orbite satellitari intorno alla terra e delle bande dell'etere (cfr. G.Franzoni, Anche il cielo è di Dio. Il credito dei poveri, EdUP, Roma 2000, pp.91-113).

7. T.Hobbes, Leviatano, cit., cap.XIII, 1, p.203.