2009

Cultura e traduzione

Leonardo Marchettoni

Cultura e culture: un tentativo archeologico

Per capire se il linguaggio dei diritti può diventare un linguaggio universale, se può stabilirsi un'intesa completa intorno al loro contenuto e alla loro applicazione, dobbiamo identificare quali problemi comporti questa idea. Sotto questo aspetto la difficoltà più rilevante sembra essere quella del relativismo culturale, ovvero della dottrina che asserisce che culture diverse determinano "forme di vita" fra loro incommensurabili. Ovviamente, se il relativismo culturale dovesse rivelarsi fondato, la possibilità di una comunicazione tra culture differenti risulterebbe pregiudicata e con essa la prospettiva di un'intesa globale intorno ai diritti.

Dal momento che l'ipotesi del relativismo culturale richiede che la cultura rivesta il ruolo di fattore differenziante all'interno di un modello di spiegazione del pluralismo connotato secondo il paradigma comunitario, dobbiamo cercare di capire a quali condizioni la cultura può soddisfare questa richiesta, valutando quale conformazione assumono le diverse strategie di spiegazione del pluralismo quando vengono trasposte sul terreno della teoria della cultura. Questo significa porsi una serie di interrogativi intorno alle teorie della cultura per vedere in che modo ciascuna di esse definisce il proprio oggetto: se identifica le culture come elementi oggettivamente esistenti e perfettamente individuati, ma anche se le caratterizza come omogenee al loro interno, dotate di una seppur minima stabilità nel tempo. Di conseguenza, se vogliamo continuare ad analizzare il problema della riducibilità delle differenze culturali dobbiamo andare a indagare più da vicino il modo in cui è stato impiegato quel complesso di strumenti concettuali che orbita intorno all'idea di cultura come mezzo per distinguere comunità umane separate nello spazio e/o nel tempo.

L'aspetto probabilmente più significativo nella storia del concetto di cultura (culture, ingl. e franc., Kultur o Cultur, ted.) consiste nel fatto che la duplicazione moderna del significato di "cultura" - "cultura" come sinonimo di "formazione intellettuale" e "cultura" come "complesso delle conoscenze, credenze, modi di comportamento, convenzioni, aspettative proprie di una certa comunità umana" - deriva da una torsione semantica di un vocabolo che in origine era impiegato solo nel primo dei due sensi indicati. Questa origine "eteronoma" della seconda accezione, quella antropologica, di "cultura" condiziona sin dall'inizio la storia successiva del vocabolo e del concetto (1).

In effetti, fino al diciottesimo secolo il significato esclusivo di "cultura" fu quello classico: cultura come educazione dell'uomo in base alle discipline che sono proprie solo dell'essere umano e che possono svilupparne pienamente le potenzialità. Questo senso di "cultura" è strettamente connesso al greco "παιδεία" e al latino "humanitas" (2): designa un modello normativo di "coltivazione" - secondo una metafora agricola che si trova già in Cicerone (3) e che segnerà l'etimologia del vocabolo nelle lingue moderne - della personalità incentrato sull'esercizio delle sette arti liberali - le arti del Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica) - e soprattutto della filosofia, finalizzata al raggiungimento di una condizione di perfetta realizzazione delle capacità intellettuali.

Il concetto classico di cultura si caratterizza dunque per essere un concetto prescrittivo: è colto chi attua un certo modello imposto dalla tradizione; aristocratico: dal momento che esclude le attività manuali e si rivolge soltanto agli uomini liberi che possono disporre del proprio tempo; universalistico: nel senso che il processo formativo, immettendo l'individuo nella comunità universale dei dotti, lo sottrae ai mores locali e lo affranca da essi.

Questa concezione complessiva si conserva grossomodo fino alle soglie dell'illuminismo quando inizia a essere rivendicata l'idea che la cultura può appartenere a tutti, indipendentemente dalla posizione sociale, e anzi può costituire uno strumento di rinnovamento della vita sociale e individuale. Questo capovolgimento concettuale rappresenta indubbiamente l'esito di un processo graduale di allargamento del modello normativo compendiato nel lemma "cultura" in direzione di una maggiore integrazione della figura del dotto nel contesto sociale. L'esito è una riformulazione del concetto: "cultura" smette di designare soltanto un processo, un'attività che viene esercitata su un individuo per indurre su di esso una modificazione ma inizia a indicare anche un oggetto, o meglio un corpus di dottrine, conoscenze, valori, usanze che costituiscono il "prodotto" del processo di educazione.

Un passo della Critica del giudizio esemplifica chiaramente questa svolta.

La cultura [Cultur] è il produrre l'idoneità di un essere razionale a scopi arbitrari in genere (di conseguenza nella sua libertà). Dunque solo la cultura può essere lo scopo ultimo che si ha motivo di attribuire alla natura rispetto al genere umano (4).

Secondo Kant la cultura consiste nella capacità di un essere razionale di scegliere i propri fini. In quanto tale "cultura" rinvia immediatamente all'apprendimento progressivo attraverso il quale gli individui arrivano a modellare le proprie inclinazioni. Tuttavia, la cultura è più di questo processo: tende a fare corpo con le "scienze e le arti", e con le altre discipline, usanze e regole di condotta per mezzo delle quali si attua "lo sviluppo dell'umanità". Questa trasformazione semantica è collegata con l'idea illuministica di un progresso spirituale del genere umano: dal momento che la specie umana è in costante progresso morale, l'identificazione classica della cultura con la piena formazione dell'individuo diventa arbitraria. Al contrario, siccome le disposizioni razionali dell'uomo "hanno il loro completo svolgimento solo nella specie, non nell'individuo" (5), la cultura inizia a essere assimilata al risultato del processo di educazione morale del genere umano nel suo complesso e, per questo tramite, all'insieme dei modelli di comportamento che si stabiliscono nel corso di questo processo.

Ne risulta un rovesciamento quasi completo delle caratteristiche del concetto classico di cultura (6). Questa nuova accezione del termine non è strettamente normativa, perché tende a raggruppare sotto una denominazione comune un insieme eterogeneo di conoscenze, regole e convenzioni piuttosto che prescrivere un modello educativo; non è neanche aristocratica perché strettamente connessa all'idea che la cultura sia una prerogativa della società nel suo complesso e non di individui isolati - da qui l'impulso verso l'enciclopedismo e la diffusione della cultura.

Si conserva invece l'aspetto universalistico, legato all'enfasi razionalista sulla comune natura umana. Ma anche questo profilo è destinato a essere ribaltato rapidamente nel suo opposto. Di lì a pochi anni, infatti, la rivalutazione romantica dei caratteri specifici delle tradizioni nazionali, l'enfasi sul legame genetico tra lingua, usanze e visioni del mondo condurranno a una potente relativizzazione del concetto di cultura. Negli stessi anni in cui Kant stava lavorando alla terza Critica Herder scrive:

[l]'educazione del genere umano quindi è duplice, genetica e organica: genetica, mediante la comunicazione; organica, mediante la ricezione e l'applicazione di ciò che viene comunicato. Se vogliamo chiamare questa seconda genesi dell'uomo, che dura per tutta la sua vita, cultura, prendendo l'immagine dalla coltivazione dei campi, o lumi, valendosi dell'immagine della luce non ha importanza; ma la catena della cultura e dei lumi si estende fino alla fine della terra. Anche gli abitanti della California e della Terra del fuoco hanno imparato a fare e usare archi e frecce; hanno linguaggio e concetti, esercizi e arti che hanno imparato come li abbiamo imparati noi, e pertanto anch'essi sono veramente inculturati e illuminati, sia pure in misura minima. [...] Se noi prendiamo come base il concetto della cultura europea, allora la si trova certamente solo in Europa; [...]. Ma se rimaniamo sulla terra e consideriamo nel suo ambito più ampio quello che la natura ci presenta come formazione dell'uomo [...] allora è chiaro che questa formazione non consiste in altro che nella tradizione di un'educazione per una qualche forma di felicità e di modo di vita umana (7).

Non solo "cultura" per Herder ha acquistato ormai una significato pienamente descrittivo, che ricomprende non solo la filosofia, le scienze e le arti ma tutto l'insieme di conoscenze che informano il nostro abitare il mondo; non solo la cultura è vista come un fenomeno che coinvolge indistintamente tutti gli individui, indipendentemente dal loro status sociale; la novità decisiva che compare nel discorso di Herder consiste nel riconoscimento dell'esistenza di una pluralità - diacronica e sincronica - di culture che, se da un lato sono strutturalmente simili - tutti i popoli costruiscono archi e frecce, tutti adoperano parole e concetti - dall'altro sono anche, almeno in una certa misura, fra loro alternative (8).

Vero è che la riflessione di Herder appare ancora connotata da un teleologismo non troppo dissimile da quello kantiano: Herder non può fare a meno di notare, alla fine del periodo citato, che se i popoli della California e della Terra del fuoco sono "inculturati" lo sono pur sempre in una "misura minima", come se potesse esistere una "metrica comune" fra tipi di cultura diversi (9). E tuttavia, sotto questo profilo, il concetto di cultura continuerà a rimanere a lungo caratterizzato in senso marcatamente etnocentrico.

Le Idee per la filosofia della storia dell'umanità di Herder costituiscono il primo esempio di un filone di studi che fiorirà nella prima metà del diciannovesimo secolo in cui la storia dell'umanità viene ripercorsa accumulando un ricco materiale etnografico. Attraverso questi lavori, che culminano nella monumentale Allgemeine Culturgeschichte der Menschheit (1843-52) in dieci volumi di Gustav Klemm (10), si costruisce un nuovo concetto pluralistico di cultura, in opposizione alla nozione filosofica, saldamente ancorata a una concezione monistica e universalistica (11). Questo concetto prelude ormai direttamente alla prima definizione antropologica di "cultura" che viene universalmente attribuita a Edward Tylor e che segna la nascita di una nuova scienza, l'antropologia culturale appunto:

[l]a cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società (12).

Gli elementi essenziali di questa definizione sono quelli che condizioneranno tutta l'elaborazione antropologica successiva intorno alla categoria "cultura": a) fanno parte della cultura le abitudini acquisite che governano il comportamento degli individui. L'ambito della cultura è l'ambito dei comportamenti che non sono innati ma che sono frutto di apprendimento; b) ogni cultura è connessa a una struttura sociale. Sussiste una sorta di corrispondenza fra culture e società, nel senso che, come ciascuna società possiede una propria cultura, allo stesso modo ciascuna cultura è cultura di qualche società.

Con la definizione di Tylor giunge a compimento un processo di unificazione sotto il concetto comune di cultura di un insieme di elementi differenzianti che in precedenza si declinavano autonomamente. A partire dalla fine del diciannovesimo secolo le scienze sociali trovano nella categoria organica di cultura un nuovo e potentissimo strumento di classificazione che permette di creare uno spazio unitario, alternativo alle tassonomie razziste, entro il quale collocare le differenze identificabili al livello del comportamento sociale di individui appartenenti a comunità umane distinte.

Ora, è importante comprendere esattamente in che modo questa novità concettuale segni una discontinuità rispetto alla riflessione precedente intorno alle stesse tematiche. Per operare questo raffronto è necessario domandarsi in quali termini la diversità umana era articolata prima dell'introduzione del concetto antropologico di cultura. Una risposta generale è, credo, abbastanza agevole. La categoria che serve da classificatore principale prima di "cultura", da Erodoto a Montaigne fino a Voltaire, è quella di "costume" o "consuetudine" (νομός, mos, coutume).

Anche "costume", non diversamente da "cultura", è una categoria eterogenea, comprendendo non solo le consuetudini o le usanze in senso proprio, ma anche, se assunta in un senso più lato, la religione, le credenze, il diritto, ecc. Anche il costume, come la cultura, consiste in un insieme di modelli di comportamento sociale che possono essere comparati in modo da consentire un giudizio complessivo sulle comunità umane che li hanno prodotti. Un esempio paradigmatico è costituito dal celeberrimo saggio I cannibali in cui Montaigne mette a confronto le usanze dei nativi americani con quelle degli europei del tempo (13). Qual è allora la differenza che intercorre tra parlare di diversità di costumi e diversità di culture? Anche se per molti aspetti il concetto di costume anticipa il concetto moderno di cultura, tra le due nozioni esiste però una differenza essenziale. Il richiamo ai costumi come elementi differenzianti tra due società umane contiene una contingenza che la declinazione delle differenze in termini culturali non possiede. I costumi sono abitudini, sono regole di condotta che si sono stabilizzate con il trascorrere del tempo ma che non possiedono una necessità autonoma: allo stesso modo in cui si sono consolidate potrebbero in futuro modificarsi. Ciascun singolo costume non possiede, in generale, una propria ragion d'essere che lo renda oggettivamente preferibile rispetto all'insieme delle alternative disponibili. Da qui la varietà diacronica e sincronica delle usanze e il sentimento di meraviglia con il quale i viaggiatori di ogni tempo riportano le strane abitudini nelle quali si sono imbattuti.

Quando le stesse differenze vengono espresse in termini culturali il risultato è diverso. Al di là dei mutamenti di significato, nel concetto moderno di cultura agisce in profondità una traccia della nozione classica. Come sostiene Ugo Fabietti, nel concetto antropologico di cultura continua a echeggiare "il significato peculiare di crescita e di cumulatività già presente nella accezione individualistica del termine" (14). Le culture umane sono "oggetti" che si estendono temporalmente, che hanno una propria origine e un proprio accrescimento secondo tappe riconoscibili. Inoltre, secondo Francesco Remotti, l'aver dato a quei contenuti che in precedenza venivano rubricati sotto l'etichetta del costume la forma della cultura "ha significato il riconoscimento, almeno preliminare e ipotetico, dell'esistenza di un senso, di un ordine, di un fondamento, alla luce dei quali si dovrebbe considerare tanto la variabilità quanto la regolarità di costumi e abitudini" (15). Parlare di cultura invece che di costumi sembra comportare un cambiamento di prospettiva per cui, al posto della considerazione dei fattori di superficie, si punta lo sguardo direttamente su quegli elementi strutturali che forniscono le ragioni più profonde dei fenomeni che si stanno osservando.

In definitiva parlare di cultura e di diversità culturali introduce uno scarto rispetto alla declinazione delle differenze in termini di costumi, nella misura in cui ai tratti culturali si attribuisce una certa "organicità" che i costumi non possiedono. Questo carattere organico è probabilmente da riconnettere alla genesi del concetto moderno di cultura attraverso l'oggettivazione comunitaria del processo di formazione individuale. E d'altra parte il fatto che sia stato proprio il concetto tradizionale di cultura, con le sue ipoteche semantiche, a prestarsi per questa elaborazione concettuale è, a suo modo, significativo. Secondo alcuni autori, per esempio, fu una particolare congiuntura ideologica legata agli sviluppi tecnico-produttivi di un certo momento della storia europea a far sì che il concetto di cultura, impiegato nella sua accezione oggettiva, potesse essere assunto come idea centrale nello studio della diversità umana. L'adozione antropologica della categoria "cultura" rifletterebbe, secondo questa ricostruzione, gli orientamenti di una certa filosofia della storia, di matrice evoluzionista, imperniata sull'idea di progresso che raggiunge il suo acme nella seconda metà del diciannovesimo secolo. La circostanza che l'antropologia come disciplina autonoma sia sorta in questa temperie culturale ha determinato la costruzione di categorie capaci di rispecchiare la convinzione che lo sviluppo del genere umano sia (fosse) riconducibile allo svolgimento di un percorso unitario, all'interno del quale "incasellare" le diverse strutture sociali e le diverse forme di civiltà (16).

Nel complesso, dunque, la preistoria del concetto antropologico di cultura si presenta caratterizzata, da una parte, dai significati precedenti del vocabolo e dal carico di implicazioni che questo portava con sé, e dall'altra, simmetricamente, dalle assunzioni ideologiche che erano implicite nel lavoro dei primi antropologi e che hanno condizionato non solo lo sviluppo successivo della disciplina ma anche le categorie di cui questa si sarebbe servita. Il risultato di questo duplice condizionamento è stato la creazione di una prospettiva sul fenomeno della diversità umana marcatamente connotata in un senso essenzialistico e organicistico. In un certo senso l'itinerario intellettuale dell'antropologia culturale del novecento può essere letto come un prolungato tentativo di gestire questa eredità teorica.

L'oggetto dell'antropologia, come scrive Mondher Kilani è la descrizione dell'altro, del diverso, di chi "non è uno di noi": l'antropologia in quanto sapere della differenza, assume istituzionalmente come suo oggetto il "confronto con l'Altro" (17). L'aver impostato, al suo primo apparire, la questione della diversità in termini di cultura, vale dire nei termini di quella "cosa" - la cultura, appunto - che rende oggettivamente diverse due società umane ma che, tuttavia, è presente in ciascuna di esse, ha fissato immediatamente la tonalità fondamentale attorno alla quale si sarebbe giocata la persuasività della spiegazione antropologica. A partire dalle sue origini, il problema fondamentale dell'antropologia è diventato quello di trovare un compromesso accettabile tra differenza e identità, tra riconoscimento che le società umane sono diverse fra loro perché esprimono culture diverse e individuazione di un piano a livello del quale le differenze, in quanto differenze culturali sono ricomponibili in unità per il fatto di predicarsi di un fenomeno - la cultura - per ipotesi comune.

Dal relativismo allo strutturalismo e ritorno

Non è ovviamente possibile seguire nel dettaglio le vicende subite dal concetto di cultura nel dibattito antropologico del ventesimo secolo perché questo dibattito, con le sue pause e le sue riprese, ha attraversato tutto il secolo e sembra ancora lontano dall'essersi esaurito. Sarà sufficiente allora cercare di delineare le articolazioni più evidenti della discussione esaminando alcune posizioni esemplari per comprendere i problemi in gioco e i tentativi che sono stati fatti per risolverli.

Il concetto antropologico di cultura si precisa, come si è visto, nei suoi tratti fondamentali nell'ultimo scorcio del diciannovesimo secolo. La cultura è costituita, secondo la definizione di Tylor, dal complesso dei comportamenti sociali di una determinata popolazione che sono frutto di apprendimento. Da questo punto di vista la definizione tyloriana è una definizione descrittiva: dice in cosa consiste la cultura ma non specifica con precisione cosa essa sia. Tylor, in effetti, non si poneva il problema di determinare la natura della cultura perché nella sua prospettiva, che è quella dell'evoluzionismo positivista, quella natura era sufficientemente chiara: la cultura è lo stesso che la civiltà, ovvero si identifica con il processo di educazione del genere umano che lo eleva dalla barbarie alla civilizzazione e, metonimicamente, con i "prodotti" - il linguaggio, le usanze, le credenze - di questa vicenda evolutiva.

Il concetto di cultura di Tylor è sufficientemente aperto da ricomprendere una molteplicità di culture diverse, tra cui anche le culture cosiddette "primitive". Al pari degli europei anche i popoli selvaggi hanno una propria cultura che include lingua, religione, conoscenze, tradizioni. Tuttavia, questo patrimonio di saperi non è altro che uno stadio preliminare rispetto alla "vera" cultura che è quella dei popoli civilizzati. Le culture primitive, nell'ottica dell'evoluzionismo tyloriano, costituiscono solamente degli stadi di passaggio nel percorso che conduce dalla barbarie alle forme più elevate di civiltà: il loro contenuto non è comprensibile al di fuori di questo schema evolutivo. Perciò Tylor, pur ammettendo l'esistenza di una pluralità di "culture", rimane fortemente ancorato all'idea di una fondamentale unità della cultura come processo complessivo di evoluzione dello spirito umano (18).

Il modello tyloriano era riuscito a conciliare l'unitarietà del concetto di cultura con l'ammissione dell'esistenza di culture primitive per mezzo del paradigma evoluzionistico. Individuando nella varie culture umane documentate dall'osservazione etnografica altrettanti stadi di un unico processo evolutivo, Tylor era in grado di affermare la sostanziale unità della cultura come processo. Questo tipo di spiegazione poteva apparire adeguato quando la conoscenza delle culture primitive era limitata e risultava relativamente semplice raggruppare culture diverse in un unico stadio della vicenda evolutiva. Ma con il passare del tempo e con l'accumularsi dei dati osservativi, incominciò a essere evidente che il percorso lineare di sviluppo della civiltà delineato dagli evoluzionisti era insostenibile. Quando infine l'evoluzionismo, tra la fine dell'ottocento e l'inizio del novecento, entra in crisi anche l'unitarietà del concetto di cultura viene meno, perché viene a mancare improvvisamente la cornice teorica entro cui sistemare il quadro delle differenze culturali. Il risultato sarà l'affermazione di un nuovo concetto di cultura che rinuncia a proporre un modello unico di ciò in cui ogni cultura consiste. "Cultura" diventa un concetto necessariamente pluralistico che raggruppa insieme una molteplicità non riducibile di "forme di cultura" differenti.

Tuttavia, questa ristrutturazione del concetto di cultura seguirà due strade diverse, esemplificate dalle due scuole, americana e inglese che, nella prima metà del novecento, si contendono il primato nel campo degli studi antropologici. Pur partendo da premesse teoriche del tutto diverse, entrambe le scuole concordano nel rifiuto del modello evoluzionista, introducendo, per vie differenti, una nozione pluralistica di cultura. Da una parte la scuola americana, che ha in Franz Boas il suo capostipite, concepisce l'antropologia come una scienza storica che ha come oggetto la cultura. Dall'altra, la scuola inglese vede nell'antropologia una scienza sociale impegnata a identificare la funzione delle istituzioni che caratterizzano ciascuna cultura. Questa duplicazione concettuale corrisponde, in un certo modo, alle due opzioni che si rendono disponibili una volta liberato il concetto di cultura dalle ipoteche dell'evoluzionismo: assumere come primitivo il "fatto del pluralismo", l'esistenza di culture radicalmente diverse e apparentemente incommensurabili fra loro e conseguentemente teorizzare la necessità di una comprensione interna, partecipante del culturale; oppure ricercare un nuovo punto di vista sulla diversità, tale da garantire quella profondità di sguardo e quelle capacità di sistemazione dei dati osservativi che l'evoluzionismo non era stato in grado di offrire.

Ma procediamo con ordine, analizzando in primo luogo le trasformazioni che il concetto di cultura subisce nell'elaborazione di Franz Boas e degli altri autori della scuola americana. Come si è visto, Tylor, nell'ottica evoluzionista, utilizzava il riferimento alla cultura come uno strumento descrittivo. La cultura era vista essenzialmente in quanto "complesso delle differenze culturali", vale a dire come insieme delle "abitudini" comportamentali, plasmate dall'interazione con l'ambiente, che contraddistinguono i membri di un certo sistema sociale. La cultura non possiede una dimensione propria come totalità. Continua a essere, sotto questo aspetto, qualcosa di molto simile al costume: una categoria eterogenea che serve come contenitore per raggruppare un insieme di fattori più specifici. In definitiva nel discorso di Tylor non sono ancora attivi tutti i nessi semantici che legano la declinazione delle differenze in termini culturali al riconoscimento che la cultura possiede una dimensione specifica. Questi nessi troveranno una risonanza decisamente maggiore nel lavoro teorico di Boas.

L'opera di Franz Boas, autentico fondatore degli studi antropologici in Nord America, ha un impatto assolutamente rivoluzionario sulla storia del concetto moderno di cultura (19). Boas, che era tedesco di nascita e che in Germania era stato influenzato da Dilthey, Windelband e Rickert e dal dibattito intorno alla distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, concepisce la cultura in una maniera che, da un lato è più vicina di quella di Tylor alla matrice classica del termine, dall'altro è però assai più moderna rispetto a quella dei suoi predecessori evoluzionisti. In primo luogo, secondo Boas il metodo privilegiato per lo studio della cultura - e delle culture - è il metodo storico, basato sulla ricostruzione delle singole tradizioni culturali e sulla loro successiva comparazione. Lo studio della cultura non può essere condotto impiegando i metodi - osservazione di regolarità ed elaborazione di leggi generali - che contraddistinguono le scienze della natura perché ciascuna cultura costituisce una totalità che deve essere analizzata a partire dalle sue proprietà specifiche. Solo quando si è raggiunta una articolata comprensione dei tratti di una cultura diventa possibile impiegare il metodo comparativo per approdare a una generalizzazione induttiva dei risultati raggiunti (20).

L'opzione a favore del metodo storico si accompagna alla convinzione che la cultura non può essere analizzata dall'"esterno". L'antropologo deve cercare piuttosto di immergersi nella cultura che intende studiare per riportarne una comprensione diretta. L'opera etnografica deve rispecchiare fedelmente il mondo degli indigeni, come lo vedono gli indigeni. Perciò all'antropologo è richiesto in primo luogo uno sforzo costante di comprensione linguistica dei nativi - esemplari sono a questo proposito le lunghe ricerche di Boas intorno alle grammatiche degli indiani americani che inaugureranno un filone di studi autonomo - che costituisce il primo passo nel processo di ricostruzione del mondo culturale dei soggetti che si vogliono studiare, e più in generale l'adozione di un atteggiamento simpatetico nei confronti dei soggetti che si intendono studiare.

L'insistenza sull'importanza delle scelte metodologiche è collegata direttamente alla concezione della cultura che Boas fa valere. Per Boas la cultura è una dimensione specifica dell'essere umano: è irriducibile all'azione di fattori extraculturali, perciò non può essere spiegata in base all'adattamento ambientale, alle caratteristiche biologiche dei popoli o al sistema economico. La cultura è l'ambito specifico dei tratti comportamentali che vengono acquisiti per apprendimento (21). In questo senso il modo in cui Boas intende la dimensione culturale risente della nozione classica di cultura come processo di formazione sociale dell'individuo. Boas vede nella cultura un tutto organico: parlare di cultura non rappresenta soltanto un espediente descrittivo per sintetizzare gli elementi che differenziano una certa comunità umana. La cultura è, prima di tutto, qualcosa in cui gli individui sono immersi, qualcosa che costituisce parte essenziale della loro umanità in quanto appartenenti a un gruppo sociale.

La cultura può esser definita come la totalità delle reazioni e delle attività psichiche e fisiche che caratterizzano, collettivamente e individualmente, il comportamento degli individui componenti un gruppo sociale in relazione all'ambiente naturale, ad altri gruppi, ai membri del proprio gruppo, nonché di ogni individuo in relazione a se stesso. Include anche i prodotti di queste attività e il loro ruolo nella vita dei gruppi (22).

Questa accezione sostanzialistica di "cultura" si accompagna però al riconoscimento del fatto che la cultura è essenzialmente plurale: non esiste una cultura unica, esistono tante culture quante sono le società umane e l'oggetto dell'antropologia è rappresentato precisamente dal loro studio. Sotto questo aspetto il lavoro di Boas segna realmente una svolta decisiva nella storia dell'antropologia culturale. Si tratta della prima affermazione del fatto che non esiste un sistema organizzante comune entro cui le diverse manifestazioni culturali possono essere disposte.

Dunque, la cultura secondo Boas è un sistema concreto che delimita con evidenza i confini di ciascun gruppo sociale, ma al tempo stesso è qualcosa che si dà in una pluralità di forme. Il problema che questa posizione lascia emergere è il seguente: se la cultura è per essenza plurale e se ciascuna cultura va studiata individualmente, adottando un'ottica particolarista, in che senso le singole espressioni del fenomeno "cultura" sono unificate dall'essere appunto "manifestazioni culturali"? In che senso ciascuna cultura appartiene al genus "cultura"?

La risposta di Boas a questo interrogativo è una risposta "antiriduzionista": il tratto distintivo del culturale consiste nel raggruppare quell'insieme di fattori che condizionano il comportamento di persone che integrano un gruppo sociale. La cultura è alla base delle manifestazioni comportamentali di una collettività, è espressione della comunità stessa. Come tale la cultura investe naturalmente un certo numero di ambiti: riguarda i comportamenti da adottare in relazione all'ambiente naturale, agli altri gruppi, ai membri del gruppo stesso. Ricomprende persino i prodotti generati per effetto di questi comportamenti. E tuttavia, non esiste una chiave d'accesso alla cultura che non passi attraverso l'approccio diretto alle singole espressioni culturali. Ciò significa che non esiste una cornice teorica entro cui sistematizzare le diverse manifestazioni del culturale.

Una risposta di questo tipo, che rivendica l'autonomia e l'irriducibilità della cultura e del suo studio, tende facilmente a scivolare verso esisti relativisti. Secondo Boas, infatti, esiste un legame immediato tra cultura e linguaggio: la cultura, in quanto ricomprende le forme della vita mentale degli individui, è condizionata dagli strumenti linguistici che vengono impiegati per esprimere i contenuti dell'"esperienza personale". Ma siccome

l'intera gamma dell'esperienza personale da esprimersi mediante la parole è infinitamente varia e deve essere espressa in tutta la sua ampiezza da un numero limitato di radici nominali, ogni linguaggio articolato deve implicare una vasta classificazione delle esperienze (23).

Inoltre, dal momento che queste classificazioni linguistiche non hanno un'origine cosciente e possono basarsi, in culture diverse, su principi fondamentalmente distinti e arbitrari, ne segue la relatività delle "forme di pensiero" alle categorie per mezzo delle quali, nella varie culture, viene classificata l'esperienza. L'idea che la dimensione culturale non sia comprensibile se non per mezzo di un'immersione diretta in essa rischia così di tradursi nell'affermazione dell'incommensurabilità delle culture, del legame necessario tra gli orizzonti culturali e le visioni del mondo. Non è un caso, d'altra parte, che l'ipotesi della relatività linguistica sia stata formulata da due autori come Sapir e Whorf che si richiamavano all'insegnamento di Boas (24).

La concezione antiriduzionista della cultura introdotta da Boas ha esercitato un'influenza durevole sull'antropologia americana. La teoria di Alfred Kroeber della cultura come "superorganico", per esempio, ne discende in maniera diretta. Secondo Kroeber la dimensione culturale è comprensibile solo invocando una distinzione tra livelli evolutivi di complessità crescente del tipo di quella tracciata da Herbert Spencer tra evoluzione inorganica, organica e superorganica. Il sorgere della cultura presuppone l'evoluzione organica, l'individuo, l'organizzazione sociale ma non è riducibile a nessuna di queste tappe intermedie. Nella sua essenza la cultura è non solo superorganica ma anche superindividuale e supersociale. Ne segue che i fenomeni culturali, essendo caratterizzati da un grado superiore di organizzazione - e quindi anche di individuazione e di complessità - rispetto ai fenomeni dei livelli precedenti, non possono essere studiati con i metodi propri di questi ultimi ma richiedono un approccio metodologico caratteristico (25).

Anche la teoria kroeberiana del superorganico conferma la preoccupazione principale della scuola di Boas: quella di definire la cultura come una realtà specifica e di stabilire un'equivalenza tra cultura e mondo umano. Da questo punto di vista la cultura è vista soprattutto come differenza. La cultura come luogo della differenza. Come la differenza non può essere interamente assimilata, a pena di cessare di essere differenza, così anche la cultura non può essere afferrata del tutto, perché se ciò fosse possibile verrebbe a mancare quel quid che rende ragione della distinzione tra culture diverse.

L'enfasi dell'antropologia particolarista, di ascendenza boasiana, sulla necessità di un avvicinamento idiografico alle singole culture corrisponde a un atteggiamento teorico che privilegia, come si è visto, la spiegazione che procede dal rilevamento delle differenze. In questo senso, ho sostenuto, la teoria di Boas esibisce un atteggiamento antiriduzionista rispetto al fatto della differenza culturale. È possibile tuttavia immaginare di compiere il percorso inverso, cercando di spiegare il dato del pluralismo culturale in base a fattori più fondamentali. In questo caso si cercherà di individuare un insieme di elementi comuni che determinano il contenuto di tutte le culture e che spiegano, attraverso le loro variazioni, le differenze fra sistemi culturali. Questa tendenza si manifesta per la prima volta nell'antropologia del novecento con il funzionalismo della scuola inglese di Bronislaw Malinowski e Alfred Radcliffe-Brown.

L'approccio funzionalista in antropologia propone di abbandonare recisamente i tentativi di spiegare le strutture sociali con la loro origine storica e nella loro particolarità geografica ed epocale, cercando di comprendere invece le funzioni che tali strutture svolgono a favore della società o di parti di essa. Soprattutto nell'opera di Malinowski questo metodo d'indagine si traduce in un nuovo atteggiamento verso il fenomeno della cultura (26). Anche Malinowski identifica la cultura con l'eredità sociale: culturale è ciò che si trasmette socialmente, vale a dire ciò che è oggetto di apprendimento. A partire da questo assunto l'antropologo britannico argomenta a favore dell'esistenza di una corrispondenza perfetta tra cultura e società. L'organizzazione sociale rientra nella cultura così come la cultura costituisce il patrimonio del gruppo. La novità decisiva concerne però il modo in cui viene concepito il nesso che lega cultura e società. Questo nesso viene caratterizzato da Malinowski guardando al significato pratico della cultura: la cultura è un mezzo attraverso il quale si provvede all'assolvimento di certi bisogni naturali. Da questo punto di vista la cultura si presenta come un sistema di istituzioni preposte all'esercizio di funzioni e l'analisi dei compiti assolti dalle istituzioni culturali, "in cui tentiamo di definire la relazione tra un'azione culturale e un bisogno umano, [...], può essere chiamata funzionale" (27).

La "funzione" della cultura nel suo complesso è quella di soddisfare i bisogni che si presentano agli individui, perciò essa varia in relazione alle caratteristiche del nucleo sociale e del rapporto che esso intrattiene con l'ambiente. Tuttavia, ciascuna cultura è accomunata a tutte le altre dalla fondamentale unità dei bisogni dell'uomo.

Nessuna cultura può continuare se il gruppo non viene reintegrato normalmente e continuamente. [...] Certe condizioni minime sono così imposte a tutti i gruppi di esseri umani, e a tutti gli organismi individuali all'interno del gruppo. [...] Per natura umana, perciò, noi intendiamo il determinismo biologico che impone a ogni civiltà e a tutti i suoi individui l'esecuzione di funzioni corporali come la respirazione, il sonno, il riposo, la nutrizione, l'escrezione e la riproduzione (28).

Per Malinowski le culture posseggono un significato fondamentale come determinanti del comportamento umano, tanto a livello collettivo che individuale, coordinando i bisogni primari umani, che provengono dall'organismo fisico-biologico sotto forma di stimoli e istinti. A questi bisogni la cultura risponde creando "un nuovo ambiente" che genera, a propria volta, nuovi bisogni.

In primo luogo, è chiaro che il soddisfacimento dei bisogni organici o fondamentali dell'uomo e della razza è una serie minima di condizioni imposte a ciascuna cultura. Si devono risolvere i problemi avanzati dai bisogni nutritivi, riproduttivi e igienici dell'uomo. Essi sono risolti con la costruzione di un ambiente nuovo, secondario o artificiale. Questo ambiente che non è né più né meno che la cultura stessa, deve essere continuamente riprodotto mantenuto diretto. Ne consegue ciò che potrebbe essere descritto nel senso più generale del termine come un nuovo livello di vita, che dipende dal livello culturale della comunità, dall'ambiente e dall'efficienza del gruppo (29).

La cultura consiste allora nell'organizzazione dei bisogni "secondari", che si sviluppano dalla trasformazione di bisogni primari in vista di una loro soddisfazione armonica e significativa. Muovendo da tale impostazione diventa possibile elaborare una "teoria scientifica della cultura", fondata sulla classificazione sistematica dei bisogni primari, delle risposte dirette a questi, dei bisogni derivati e delle risposte a questi ultimi.

Sotto questo aspetto la teoria funzionalista esemplifica perfettamente l'idea che sia possibile una riduzione del senso di cui sono portatrici le culture "altre" a un sistema di fattori - i bisogni - autenticamente universali, poiché correlati alle caratteristiche invarianti della costituzione psicofisica dell'uomo. Se il particolarismo boasiano rappresenta l'istanza antiriduzonista all'interno del dibattito antropologico, la teoria della cultura di Malinowski rappresenta invece l'impulso verso una riduzione del culturale come pluralità a una sfera di elementi anteriori a esso.

Tuttavia, è importante notare che nella prospettiva di Malinowski l'adozione dell'approccio funzionalista non conduce a una ricostruzione impersonale delle culture altre. Il risultato finale non è una descrizione totalmente irrelata con la vita soggettiva degli individui che si intende studiare. Al contrario: riduzione scientifica del culturale e comprensione soggettiva sono profondamente interconnesse. Se da un lato il successo dell'analisi funzionale è condizionato all'abilità dell'antropologo di entrare in sintonia con i nativi, dall'altro il paradigma funzionalista è visto come un mezzo per realizzare una comprensione più profonda dell'altro, per afferrare, come scrive Malinowski in un passaggio celeberrimo, "il punto di vista del nativo, il suo rapporto con la vita, rendersi conto della sua visione del suo mondo".

Studiare le istituzioni, i costumi e i codici o studiare il comportamento e la mentalità senza il desiderio soggettivo di provare di cosa vive questa gente, di rendersi conto della sostanza della loro felicità è, a mio avviso, perdere la più grande ricompensa che possiamo sperare di ottenere dallo studio dell'uomo (30).

Secondo Malinowski il processo di comprensione etnografica richiede prima di tutto che lo studioso si impegni nella raccolta di tutti gli elementi costitutivi del sistema culturale della popolazione studiata. L'obbiettivo è quello di elaborare una rappresentazione olistica delle culture che si intende studiare, nella quale i vari elementi della descrizione siano connessi tra loro sistematicamente.

Una delle prime condizioni di un lavoro etnografico accettabile è che esso tratti dell'insieme di tutti gli aspetti - sociali, culturali, psicologici - della comunità, poiché questi sono così strettamente collegati che nessuno di essi può essere compreso senza prendere in considerazione tutti gli altri (31).

Ma la raccolta dei dati non è sufficiente se non viene corroborata dall'esperienza diretta dell'antropologo sul campo. Lo studioso deve seguire il metodo dell'"osservazione partecipante": deve cioè trascorrere in prima persona un lungo periodo di tempo a contatto con le popolazioni che sta studiando, immergendosi nelle loro attività quotidiane (32). Lo scopo della lunga permanenza consiste nel minimizzare l'effetto distorcente della partecipazione dell'antropologo, dissolvendo la presenza dell'osservatore fra gli osservati. Il fatto di prendere parte alla vita del villaggio azzera ogni possibilità "di essere un elemento di disturbo nella vita tribale", in modo da poter osservare il coinvolgimento diretto dei nativi nelle usanze o negli avvenimenti che si intendono studiare. L'obbiettivo finale è quello di porre l'etnografo in condizione cogliere "il punto di vista del nativo", ricorrendo alla propria esperienza empatica e soggettiva. Se l'identificazione riesce l'antropologo sarà anche in grado di intuire i nessi funzionali che legano fra loro i dati raccolti.

Dunque, tra teoria funzionalista e metodo dell'osservazione partecipante, tra organizzazione dei dati in vista della ricerca delle connessioni funzionali e identificazione empatica con il nativo, non esiste alcuna antinomia. Si può dire, anzi, che fra la dimensione teorica e quella pratica del lavoro antropologico esiste un legame di doppia implicazione, dal momento che il successo dell'osservazione partecipante, per un verso è reso possibile dal background di informazioni acquisite, per un altro deve permettere all'antropologo di "catalizzare" quei dati, introducendo delle connessioni sistematiche fra di essi. In questo senso la riduzione del culturale a sistema di funzioni e di bisogni è, al tempo stesso, possibile solo a condizione che si realizzi una comprensione - per certi versi mistica - dell'universo sociale, simbolico e psicologico dei soggetti studiati e, insieme, finalizzato al raggiungimento di quest'ultima.

Questa circostanza impone una certa cautela nel ricostruire il dualismo tra l'approccio della scuola americana di Boas e quello del funzionalismo malinowskiano. Sarebbe sbagliato, per esempio, sostenere che, mentre il particolarismo di Boas e dei suoi allievi ricerca una comprensione delle specificità culturali, l'impostazione funzionalista si accontenta di inquadrare i dati raccolti in un sistema predeterminato a tavolino. Non esiste un'antinomia tra teorie "soggettive" e "oggettive": il dualismo teorico sottende una fondamentale unità di intenti. La comprensione dell'altro è l'obbiettivo che accomuna Boas e Malinowski: le diversità insorgono quando si tratta di costruire una teoria della cultura e della differenza.

Per questo motivo l'opposizione tra le due scuole americana e britannica, che ho compendiato a prezzo di grandi semplificazioni nelle figure di Boas e Malinowski, va vista soprattutto come un'opposizione tra due epistemologie della cultura e del culturale. Da una parte l'antropologia boasiana conduce a un atteggiamento antiriduzionista riguardo alla cultura, sottolineando come la cultura non sia comprensibile a partire da fattori biologici e ambientali. Dall'altra la scuola funzionalista compie esattamente il percorso inverso, cercando di definire la cultura in relazione alla natura umana come sistema deterministico dei bisogni biologici fondamentali.

Per Boas la conoscenza della cultura non è riducibile a conoscenza della natura umana, dell'ambiente o del sistema sociale: non esiste un orizzonte di conoscenza oggettiva da proiettare sul culturale per illuminarne la conformazione. La cultura, in quanto differenza originaria, ipostatizza la radicale alterità fra le forme di vita. Un'alterità che richiede, per essere avvicinata, uno sforzo di ricostruzione del percorso evolutivo attraverso il quale quel particolare sistema culturale ha assunto la sua fisionomia odierna. Intraprendere questa opera di ricostruzione significa al tempo stesso entrare nell'universo cognitivo dei nativi: l'antropologo che vuole comprendere la vita dei nativi deve imparare a parlare e a pensare come loro, deve abbandonare le forme di pensiero consuete per acquistare dei meccanismi mentali nuovi. Ma questo significa riuscire a rimodellare le proprie reazioni di fronte all'ambiente adottando le categorie mentali dei nativi, classificare il mondo come i soggetti che si stanno studiando. Fino al paradosso: perché se un'effettiva comprensione dell'universo mentale dell'indigeno si dimostra possibile, allora non si capisce più in che cosa l'asserita alterità radicale tra il suo sistema di pensiero e il nostro debba consistere.

Secondo Malinowski, invece, la natura spiega la cultura: ciò significa che esiste un insieme di conoscenze oggettive e universali intorno all'uomo "in quanto natura" che possiamo assumere come livello di riferimento nella spiegazione dell'uomo "in quanto cultura". Ma la semplice conoscenza della natura umana non è sufficiente per conoscere la cultura, nella misura in cui la cultura è altro rispetto alla natura. La conoscenza dei bisogni organici non spiega immediatamente la cultura: è necessario introdurre un anello di raccordo che colleghi natura e cultura, bisogni e istituzioni. Questo anello, nella prospettiva di Malinowski, è rappresentato dal concetto di "funzione". La cultura è spiegabile e conoscibile, nella pluralità delle sue manifestazioni, a partire dalla conoscenza oggettiva della natura dell'uomo e delle relazioni teleologiche che collegano istituzioni culturali e bisogni naturali. In questo senso si può sostenere che la teoria malinowskiana della cultura assume un punto di vista realista riguardo sia alla natura umana sia per quanto concerne la possibilità di stabilire "nessi funzionali" tra usanze e caratteri organici.

Da questo punto di vista il funzionalismo malinowskiano sembra approdare a una teorizzazione dell'universale funzionamento della mente umana. L'insistenza dell'antropologo polacco sull'importanza dell'adozione del metodo empatico dell'osservazione partecipante, ai fini di una corretta comprensione dei nessi funzionali che regolano i sistemi sociali dei nativi, infatti, sembra riflettere l'idea che, per mezzo dell'osservazione partecipante e dell'identificazione con il nativo, si attivi una sorta di facoltà universale che sola permette una comprensione corretta della cultura degli indigeni. Con l'effetto di confermare ulteriormente il legame di mutua implicazione che sussiste tra la novità teorica e quella più strettamente metodologica dell'opera di Malinowski.

In definitiva nel dualismo tra particolarismo boasiano e funzionalismo malinowskiano si può cogliere in nuce l'alternativa tra due percorsi divergenti nella spiegazione della cultura: l'uno che assume come proprio oggetto la cultura nelle sue manifestazioni e procede da essa, l'altro che arriva alla cultura attraverso un percorso esplicativo che si dipana da un diverso punto di partenza. Potremmo essere tentati, a questo punto, di sovrapporre direttamente a questa classificazione la dicotomia tra relativismo culturale e antirelativismo. In questa ottica le teorie particolariste del genere di quella di Boas verrebbero classificate come teorie "relativiste" mentre le teorie universalizzanti come quella di Malinowski sarebbero facilmente etichettate come "antirelativiste". Una tassonomia di questo tipo non sarebbe probabilmente priva di ragioni - abbiamo visto del resto in che modo una parte significativa della riflessione di Boas abbia costituito l'antecedente diretto di un certo tipo di relativismo novecentesco (33). Tuttavia, indicando in che modo teorici di ispirazione realista e relativista tendono a mediare tra i due estremi, così credo che si debba riconoscere che, anche per quanto concerne l'ambito della riflessione antropologica, l'opposizione astratta tra teorie realiste e teorie relativiste vada confrontata con una realtà nella quale teorie e posizioni identificabili di volta in volta come relativiste o antirelativiste sono costantemente suscettibili di venire ribaltate nel loro opposto teorico.

L'esempio della teoria antropologica di Claude Lévi-Strauss risulta illuminante a questo proposito. Se seguiamo la griglia interpretativa che distingue tra "teorie relativiste" della cultura e teorie "antirelativiste" risulta quasi inevitabile collocare la teoria dell'antropologo francese nel secondo gruppo. D'altra parte una simile classificazione risulterebbe indubbiamente limitativa rispetto alla ricchezza della riflessione condotta da Lévi-Strauss in oltre cinquanta anni di attività. Tanto più che, nonostante il loro consolidato impianto realista, le teorizzazioni di Lévi-Strauss sono approdate, in alcuni casi, a esiti apertamente relativisti (34).

Come è noto, Lévi-Strauss ha elaborato la sua teoria antropologica fondendo tra loro suggestioni e influssi disparati, dalla sociologia di Durkheim e di Mauss, alla linguistica di Trubeckoj, Jakobson e Benveniste, dall'antropologia di Boas e Malinowski alla teoria psicoanalitica di Lacan, fino agli studi sulla mitologia indoeuropea di Dumézil e di Vernant. Tuttavia è indiscutibile come, al di là di questi incroci fecondi, l'obbiettivo che Lévi-Strauss pone alla propria indagine sia profondamente realista: scoprire quelle leggi universali che consentono di comprendere a un tempo l'unitarietà del genere umano e la molteplicità delle sue manifestazioni concrete.

L'approccio con il quale Lévi-Strauss affronta i problemi antropologici è indirizzato all'elaborazione di una teoria oggettiva della natura umana, vale a dire di una teoria che si proponga di spiegare la differenza a partire dall'individuazione di un piano comune, in relazione al quale le asimmetrie siano interpretabili come variazioni all'interno di un insieme di possibilità prestabilite. Il cammino verso questa teoria è concepito come una sorta di percorso che conduce dalla constatazione superficiale dell'apparenza delle cose al riconoscimento della loro natura profonda; dall'orizzonte del vissuto soggettivo, del particolare, del temporale e del contingente a quello della dimensione scientifica del sapere, dell'universale, dell'atemporale e del necessario:

[s]ono un teologo in quanto ritengo che l'importante non sia il punto di vista dell'uomo ma quello di Dio, ovvero cerco di capire gli uomini e il mondo come se fossi completamente fuori gioco, come se fossi un osservatore di un altro pianeta e avessi una prospettiva assolutamente oggettiva e completa (35).

Questa impostazione epistemologica è evidente sin dalla prima grande opera di Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, uno dei testi fondamentali dell'antropologia del novecento (36). In questo lavoro Lévi-Strauss si propone di determinare gli elementi comuni a tutti i sistemi di parentela conosciuti, in modo da svelarne l'uniformità al di sotto dell'eterogeneità apparente. Il punto di partenza della ricerca dell'antropologo francese è l'osservazione dell'universalità della norma che proibisce l'incesto. Presso tutte le società note esistono leggi che vietano l'unione dei consanguinei. Tuttavia, rimane da spiegare perché in concreto questa regola assuma formulazioni diverse da società a società e, in particolare, come mai l'elenco dei gradi di parentela fra i quali è interdetto il matrimonio muti sensibilmente in rapporto alle culture. Si rende necessario, in altre parole, individuare il principio esplicativo che chiarisce la logica alla quale fanno capo tutte le diverse prescrizioni in materia di incesto e dimostrare in che modo tutti i sistemi di parentela siano riconducibili a esso.

Questo principio cardine viene ritrovato nel meccanismo di reciprocità, già enunciato da Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono (37). La proibizione dell'incesto è collegata infatti, secondo Lévi-Strauss, alle modalità in cui si esprime l'integrazione sociale presso le società tradizionali. E queste modalità sono direttamente informate dall'azione della regola di reciprocità. Semplificando drasticamente, possiamo chiarire in questo modo il punto in questione. Nelle società tradizionali, organizzate in gruppi familiari patrilineari e patrilocali (38), il legame sociale è cementato da vincoli matrimoniali esogamici, contratti tra membri appartenenti a gruppi diversi. Questi vincoli sono governati dalla legge di reciprocità, dal momento che, per ciascun matrimonio contratto con una donna appartenente a un altro gruppo familiare, si produce un "debito" nel gruppo da cui proviene lo sposo che può essere estinto solo per mezzo di un vincolo matrimoniale inverso. In questo modo la dazione reciproca di donne appartenenti al proprio gruppo agli uomini di altri gruppi costituisce un legame stabile che unisce i membri dei due nuclei familiari. Al tempo stesso, ecco che l'obbligo di restituzione delle donne ricevute dai gruppi estranei genera una norma sociale che prescrive quali unioni matrimoniali sono permesse e quali non lo sono.

A partire da questa semplice regola di reciprocità fra scambi matrimoniali Lévi-Strauss riesce a ricostruire un apparato di variazioni estremamente complesso, capace di estendersi potenzialmente a ricomprendere tutti i sistemi di parentela conosciuti. Attraverso le sue molteplici possibilità di declinazione la legge di reciprocità domina le strutture della parentela decretando la necessità di imporre un ordine alla casualità delle contingenze naturali, un ordine specificamente culturale e simbolico, creato dall'esogamia, cioè da una serie di regole di scambio fra i gruppi. In questa prospettiva la reciprocità costituisce veramente il principio fondamentale della possibilità di una organizzazione sociale. Non è la società che fonda e determina la reciprocità fra i suoi membri, ma è la regola della reciprocità che apre la strada alla possibilità di costruire un insieme di norme sociali, perché rende possibili le diverse modalità dello scambio. Come scrive Marcel Hénaff,

la relazione iniziale e fondatrice è quella del dono reciproco: essa è in essenza agonistica, atto di riconoscimento del gruppo come tale, uscita dal cerchio naturale della consanguineità, manifestazione dell'ordine simbolico dell'alleanza (39).

La "scoperta" del principio di reciprocità permette di individuare la soglia che divide natura e cultura attraverso l'analisi del fenomeno del divieto dell'incesto. La proibizione dell'unione tra consanguinei, infatti, possiede tutte le caratteristiche per porsi come autentico spartiacque tra natura e cultura, essendo connotata sia dall'universalità - che per Lévi-Strauss è il contrassegno della genesi naturale - che dalla dimensione normativa - che invece denota i prodotti della cultura (40). Sotto questo aspetto, il principio di reciprocità emerge in tutto il suo significato di norma fondamentale che presiede all'istituzione del vincolo sociale. La regola dello scambio delle mogli esemplifica un meccanismo più vasto e più pervasivo intorno al quale si costruisce tutto il sistema sociale. In un certo senso, la reciprocità arriva a porsi come "forma pura dell'intersoggettività [...] come condizione di ogni pensiero o comportamento umano che voglia essere sociale, cioè comprensibile e comunicabile" (41).

In questo modo la ricerca attorno alle strutture della parentela ha condotto Lévi-Strauss, attraverso la spiegazione del divieto dell'incesto, a individuare una legge che ricorre presso tutte le società e tutte le epoche. Il principio di reciprocità, in quanto forma a priori della socialità, rappresenta una norma universale del comportamento sociale dell'uomo; in quanto tale costituisce, allo stesso tempo, una caratteristica naturale, nel senso che esprime un connotato fondamentale della natura umana. Ma sotto questo aspetto le strutture della parentela rivelano una sostanziale affinità con i sistemi linguistici. Come le regole matrimoniali, anche le norme del linguaggio sono, al tempo stesso, naturali e culturali. Questa affinità tra fenomeni sociali e linguistici appare a Lévi-Strauss paradigmatica di tutta una serie di analogie che è possibile stabilire tra le istituzioni sociali e il linguaggio. Analogie che è possibile spingere fino al punto di ipotizzare che, nello stesso modo in cui la fonologia ha cercato di determinare il sistema delle relazioni tra i costituenti fondamentali del linguaggio, a partire dal quale è possibile ricostruire la diversità linguistica, anche l'antropologia debba porsi l'obbiettivo di individuare un livello di analisi che lasci emergere le caratteristiche comuni alle diverse istituzioni sociali.

Siamo portati, infatti, a chiederci se diversi aspetti della vita sociale (comprese, l'arte e la religione) [...] non consistano per caso in fenomeni la cui natura si ricollega a quella stessa del linguaggio. Come verificare questa ipotesi? Che si limiti l'esame a una sola società o che lo si estenda a più società, bisognerà spingere le analisi dei differenti aspetti della vita sociale abbastanza a fondo da cogliere un livello in cui diventerà possibile il passaggio da un ambito all'altro; ossia elaborare una specie di codice universale, capace di esprimere le proprietà comuni alle strutture specifiche desunte da ogni aspetto. L'impiego di questo codice dovrà essere legittimo, oltre che per ogni sistema preso isolatamente, per tutti i sistemi quando si tratterà di paragonarli. Si sarà così in grado di sapere se si è raggiunta la loro più profonda natura e se la realtà sia o no dello stesso tipo (42).

Lo studio dell'antropologo non può arrestarsi alla superficie dei fenomeni sociali, in cui essi si presentano nella loro individualità e differenza. La ricognizione di ciò che contraddistingue le varie istituzioni deve servire da premessa per un'analisi di segno diverso, mirata alla ricostruzione dei meccanismi universali di funzionamento della mente che sottendono le molteplici manifestazioni della cultura dell'uomo. Questa direzione di ricerca si esprime soprattutto attraverso un'originale appropriazione e rielaborazione in chiave trascendentale della nozione freudiana di "inconscio" (43). Con il termine "inconscio" Lévi-Strauss designa l'orizzonte comune a livello del quale si collocano i fenomeni fondamentali delle vita dello spirito. Kantianamente l'antropologo francese concepisce questo orizzonte come una sfera deputata alla produzione e applicazione di regole formali: "l'attività inconscia dello spirito consiste nell'imporre delle forme a un contenuto" e "queste forme sono fondamentalmente le stesse per tutti gli individui, antichi e moderni, primitivi e civili" (44). L'immagine complessiva che ne emerge è quella di un dispositivo comune a tutti gli individui - l'inconscio, appunto, oppure, come scrive Lévi-Strauss in altri casi, lo "spirito umano" - che opera ordinando i contenuti materiali della vita mentale dei singoli soggetti e "trova il suo fondamento nelle proprietà funzionali del cervello, ma che si manifesta empiricamente soprattutto nelle creazioni sociali e culturali, nelle forme collettive, nell'esplicarsi di meccanismi comuni e generali" (45).

Le affinità con il criticismo kantiano sono evidenti, ma sono evidenti anche le differenze: il progetto di Lévi-Strauss mette capo, come ha sintetizzato felicemente Paul Ricoeur, a una sorta di "kantismo senza soggetto trascendentale", che al posto dell''io penso prevede una semplice organizzazione di strutture formali (46). Lo stesso Lévi-Strauss ha precisato in questo modo affinità e differenze:

[i]n che consiste in fondo la rivoluzione filosofica kantiana? Nel tentativo [...] di far poggiare tutta la filosofia sull'inventario delle costrizioni mentali. Ora, è proprio quello che intendo fare anch'io. Io cerco appunto di individuare un certo numero di "costrizioni" che si applicano alla mente umana nel suo complesso, ma, anziché muovere - come faceva Kant - da una riflessione intima, o magari da uno studio dello sviluppo del pensiero scientifico nella società e nella civiltà in cui sono nato, cerco invece di situarmi al limite, il più possibile, nelle società più diverse, e di cercare di enucleare una sorta di comune denominatore di ogni pensiero e di ogni riflessione (47).

Le opere successive di Lévi-Strauss testimoniano direttamente l'evoluzione di questo programma teorico. In particolare, nel volume Il pensiero selvaggio e nei saggi dedicati all'analisi dei miti l'antropologo francese si propone di dimostrare la fondamentale unità che si cela dietro alle differenze apparenti fra il pensiero dei popoli cosiddetti "primitivi" e quello proprio delle società moderne (48). Questo scopo è perseguito nel Pensiero selvaggio attraverso l'analisi dei sistemi di classificazione del mondo naturale. La comparazione dei modi nei quali i popoli "primitivi" ordinano i fenomeni naturali con i sistemi di classificazione scientifica elaborati dalla razionalità occidentale viene utilizzata per confutare l'opinione che "il pensiero selvaggio" rappresenti una fase anteriore o preliminare rispetto al completo dispiegamento delle possibilità di comprensione razionale del mondo incarnato dalla scienza occidentale. Esso costituisce piuttosto un modo alternativo di fare fronte alla stessa esigenza di costruzione e attribuzione di significati.

Pensiero selvaggio e scienza moderna non si collocano sullo stesso asse, nel quale l'uno sarebbe l'antenato dell'altra, ma si dispongono su due assi paralleli e svolgono due compiti comparabili al livello formale anche se profondamente divergenti nei loro presupposti per quanto concerne il mondo naturale (49).

In questo senso, il "pensiero selvaggio" è, allo stesso tempo, identico e diverso rispetto alla razionalità occidentale: identico perché costituisce l'instanziazione di un'unica facoltà, lo spirito umano; diverso, perché comunque questa instanziazione avviene nei due casi secondo modalità diverse, che corrispondono allo spettro delle possibili trasformazioni cui il sistema delle categorie dello spirito può andare incontro.

Questa doppia prospettiva si ritrova anche nelle lunghe indagini intorno alle origini dei miti amerindi condotte a partire dagli anni cinquanta. Ciò che preme sottolineare a Lévi-Strauss a proposito dei miti non concerne tanto il loro contenuto, la narrazione che essi riportano, quanto il modo in cui questa narrazione viene svolta. Non è la storia che viene raccontata nel mito che è importante ma la modalità specifica in cui questa storia è narrata. La semplice analisi del contenuto narrativo dei miti, infatti, non è in grado di fornirci alcuna informazione essenziale, né intorno alla natura dell'uomo, né intorno ai contesti culturali in cui il mito è stato prodotto. Invece se passiamo a considerare la forma in cui la storia viene raccontata, mettendola in relazione alle forme di altri miti che contengono elementi narrativi comuni, possiamo ricavarne delle informazioni importanti riguardo ai meccanismi fondamentali attraverso i quali opera la mente umana. Questi meccanismi agiscono secondo Lévi-Strauss organizzando le unità costitutive del racconto mitico, o "mitemi" (50). Il tratto caratteristico del mito consiste allora proprio in questa possibilità di riorganizzazione dei suoi elementi fondamentali secondo schemi di trasformazioni che rivelano il funzionamento della mente umana.

Nel tentativo di descrivere queste trasformazioni Lévi-Strauss si spinge fino a ideare una formula pseudomatematica che dovrebbe catturare i modi in cui i mitemi vengono ricombinati e a suggerire che il complesso delle variazioni possibili definisca una struttura di gruppo (51). L'obbiettivo è quello di mostrare come i racconti mitici vadano letti non singolarmente ma nel loro complesso, come illustrazione delle possibilità di articolazione di una logica unitaria che obbedisce a leggi oggettive. Per questa via l'analisi strutturale del mito si trasforma in una chiave d'accesso alla dimensione inconscia del pensiero e alle categorie mediante le quali esso opera.

La rivendicazione dell'origine inconscia e metasoggettiva dei miti si accompagna alla tesi della loro rigorosa autonomia e alla polemica contro quelle concezioni che tentano di ridurli a espressioni di sentimenti fondamentali, oppure a tentativi di spiegazione di fenomeni naturali, oppure ancora a un riflesso della struttura sociale e dei rapporti fra gli individui. A tutti questi schemi di lettura Lévi-Strauss contrappone l'idea secondo cui i miti significano sé medesimi, in quanto "ogni mito significa solo i suoi riferimenti ad altri miti, indefinitamente, in un circolare gioco di specchi" (52). In altre parole, i miti sono operazioni combinatorie di rilettura di quanto circonda l'uomo, in cui i termini della combinazione si collocano sul piano inconscio.

Questo modo di caratterizzare la natura dei racconti mitici appare connotato in maniera ambivalente. Da una parte, il radicamento dei miti nella dimensione inconscia dello spirito umano garantisce che la loro "essenza" sia afferrabile in modo oggettivo; dall'altra, Lévi-Strauss riconosce che, nella misura in cui attraverso il mito l'uomo instaura un rapporto con il mondo naturale che lo circonda, questo rapporto è sempre unico e irripetibile. Per quanto analizzabile e spiegabile per mezzo dell'analisi strutturale, il mito conserva il privilegio di "saper dire quello che non può essere detto in nessun altro modo", una significazione segreta carica di "sortilegi grazie ai quali può commuovere" (53).

A ben vedere, la situazione non differisce da quella che abbiamo incontrato a proposito dei sistemi di parentela e delle classificazioni del mondo naturale. In questi ambiti, così come avviene a proposito della riflessione intorno ai miti, il discorso di Lévi-Strauss si svolge sottolineando la compresenza di due dimensioni alternative. Tutte queste manifestazioni della vita sociale dell'uomo si fondano su certe strutture oggettive dello spirito umano, strutture che si presentano come conoscibili oggettivamente. E d'altra parte, ciascuna di queste caratteristiche si traduce, dal lato soggettivo, in un modo particolare e irripetibile di porsi in relazione con il mondo.

Più in generale, questo doppio profilo sembra costituire uno dei caratteri essenziali della dimensione culturale. Nell'ottica di Lévi-Strauss una cultura va concepita come un modo particolare di risolvere certi problemi generali connessi alla vita sociale:

[o]gni cultura può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici in cui, al primo posto, si collocano il linguaggio, le regole matrimoniali, i rapporti economici, l'arte, la scienza, la religione. Tutti questi sistemi tendono a esprimere taluni aspetti della realtà fisica e della realtà sociale e, ancora di più, le relazioni che intercorrono tra questi due tipi di realtà e quelle che intercorrono fra gli stessi sistemi simbolici (54).

In questa accezione "cultura" riassume, in un certo modo, il complesso di tutte le manifestazioni in cui si esplica lo spirito umano in quanto depositario delle possibilità di organizzazione e disciplinamento dell'esistenza dell'uomo come "animale sociale". Inoltre, dato che l'insieme dei possibili sistemi simbolici disponibili è finito e corrisponde alle possibilità offerte dallo spirito umano, ciascuna cultura rappresenta in un certo modo una selezione e combinazione di possibilità predeterminate. Ne segue che la differenza culturale consiste in una differenza oggettiva a livello dei sistemi di organizzazione simbolica, cui corrisponde una difformità tra istituzioni sociali e una parallela divergenza nella definizione delle relazioni intercorrenti tra queste ultime e la "realtà fisica".

Per questa strada, lo strutturalismo di Lévi-Strauss, pur prendendo le mosse da premesse epistemologiche indubbiamente realiste, approda a una parziale limitazione del realismo. Certamente, il punto di partenza della riflessione dell'antropologo francese è dato dalla convinzione che gli schemi di funzionamento della mente siano accessibili all'indagine antropologica a partire dall'analisi comparata delle forme concrete - sistemi di parentela, classificazioni del mondo naturale, racconti mitici - in cui si esprime la sfera culturale. Così ciascun particolare mito o sistema di parentela riflette una sorta di selezione inconscia entro un insieme di possibilità perfettamente definito. Tuttavia, l'adozione di una possibilità piuttosto che di un'altra comporta delle differenze: i vari miti non sono completamente equivalenti e interscambiabili fra loro, nel senso che ciascuno di essi possiede una propria identità e un proprio significato esclusivo che differisce da quello di tutti gli altri; lo stesso si può affermare dei diversi sistemi di parentela o delle tassonomie del mondo naturale. Una volta che i membri di una certa comunità si siano orientati inconsapevolmente verso una delle possibilità di organizzazione della vita sociale, questa scelta, investendo tutto l'ambito più vasto delle relazioni che intercorrono tra ciascun membro della comunità e la "realtà fisica", determina l'insorgere di una differenza cui è associata una modalità di esistenza specifica. Ciascuna di queste possibilità è equivalente a tutte le altre, di cui costituisce una trasformazione ricavata per mezzo dell'applicazione di una legge oggettiva, ma al tempo stesso ciascuna è anche diversa da tutte le altre, perché realizza una forma unica di esperienza del mondo.

Torna qui a manifestarsi quella distinzione di orizzonti nel pensiero di Lévi-Strauss cui ho fatto cenno in precedenza: al di là del sapere, atemporale, universale e necessario, che consiste nel riconoscimento delle strutture immanenti dello spirito umano, esiste un orizzonte di sapere più vasto che ricomprende tutta la sfera di ciò che si colloca nel tempo e si manifesta come particolare e contingente. A seguirlo negli sviluppi della sua riflessione Lévi-Strauss sembra suggerire che, mentre il primo tipo di conoscenza è oggettivo, l'orizzonte del secondo genere di sapere si rivela, a un'analisi più accurata, come modellato dall'intervento di quelle stesse strutture - eminentemente culturali - che l'indagine "trascendentale" dell'inconscio era stata capace di enucleare.

Si riproduce, attraverso questa distinzione, un tipo di assetto strutturato su due livelli come punto di convergenza degli approcci realisti e relativisti alla questione del pluralismo. Per Lévi-Strauss questi due livelli sono identificati rispettivamente dal piano dei meccanismi di funzionamento dello spirito umano e dal piano delle differenze che la selezione concreta all'interno delle possibilità aperte da quei meccanismi comporta. Il primo costituisce il livello dell'oggettività, perché i suoi elementi esistono in maniera oggettiva e sono completamente conoscibili e descrivibili. Il secondo, per contrasto, rappresenta il livello della relatività: a questo livello non esiste una metrica comune che fornisca un criterio generale di comparazione, nel senso che la scelta di una possibilità piuttosto che di un'altra comporta l'emergenza di differenze non riducibili rispetto all'esperienza del mondo.

Questo chiarimento dovrebbe spiegare anche come sia possibile che Lévi‑Strauss, nonostante le sue inclinazioni verso un'epistemologia di impronta realista, abbia legato il proprio nome a un'originale ripresa del relativismo culturale. La venatura relativista del pensiero di Lévi-Strauss, più ancora che nel Pensiero selvaggio e negli studi sui miti, emerge con chiarezza in un breve testo, il saggio Razza e storia, commissionato dall'Unesco negli anni immediatamente successivi alla conclusione del secondo conflitto mondiale (55). In questa sede Lévi-Strauss si sofferma sul significato della nozione di progresso: quali basi si possono invocare a sostegno dell'idea che la civiltà occidentale sia molto più progredita delle culture tradizionali? Perché certi meccanismi economici - il sistema di produzione capitalistica - e scientifici - il sorgere della scienza sperimentale - si sono innescati solo in Occidente? Forse questa differenza permette di formulare dei giudizi di valore da cui emerga la "superiorità" delle culture occidentali sui popoli "primitivi"?

La risposta di Lévi-Strauss è collegata direttamente alla tesi della dimensione culturale della costruzione delle immagini del mondo. Denunciando i limiti etnocentrici delle abituali classificazioni "evoluzionistiche", Lévi-Strauss afferma che le culture, nel loro complesso, non costituiscono un'unica linea evolutiva culminante nella cultura occidentale (esattamente come l'evoluzione biologica, di tappa in tappa, culmina nell'uomo). Infatti, la classificazione delle culture è un fatto relativo, che varia a seconda dei parametri valutativi prescelti, come dimostra la possibilità di "costruire più evoluzioni", almeno quanti sono i criteri adottati. E gli stessi criteri che vengono adottati come indici per la misurazione del progresso non possono che essere radicalmente contestuali, dal momento che si fondano sull'ipostatizzazione di valori dipendenti, in ultima analisi, dall'organizzazione culturale.

Per questo motivo sarebbe sbagliato sostenere che le altre culture sono tappe "arretrate" della nostra stessa cultura. Esse hanno quasi sempre la stessa età delle culture occidentali, pur avendo impiegato diversamente il tempo a disposizione: "non esistono popoli bambini, tutti sono adulti, anche quelli che non hanno tenuto il diario della loro infanzia e della loro adolescenza" (56). In realtà, ogni cultura realizza soltanto talune potenzialità della natura umana, generando un inevitabile senso di frustrazione e di sofferenza nostalgica per le possibilità perdute - nostalgia di cui la figura dell'antropologo si fa carico in maniera emblematica. Né potrebbe essere altrimenti, dal momento che l'essenza di ciascuna cultura è collegata a un'operazione di selezione entro un campo già dato, e dunque nessuna cultura da sola può esaurire tutte le possibilità dello "spirito umano". In questa ottica, la teoria "realista" della cultura formulata da Lévi-Strauss conduce direttamente all'elogio relativista del pluralismo culturale e della molteplicità di percorsi racchiusi nell'idea di progresso (57).

Questa conclusione, che sintetizza in un certo modo il lungo itinerario scientifico di Lévi-Strauss, può essere assunta come epitome del cammino compiuto dall'antropologia culturale dalla sua nascita fino al secondo dopoguerra. Si tratta di un percorso che significativamente procede dalla rilevazione di una differenza, della distanza che intercorre tra "noi" e "loro", e dalla oggettivazione di questa differenza in un nuovo ente teorico - la "cultura" -, per poi ricondurla all'operato di un termine comune - la natura umana, lo spirito umano - che appare modellato diversamente nei vari casi. Il dato che colpisce maggiormente in questo paradigma di spiegazione è costituito significativamente, da un lato nell'esigenza di reificazione cui la differenza, in quanto cultura, va soggetta: la cultura, termine che tende a compendiare lo spettro delle disuguaglianze non meramente fisiche fra le comunità umane, viene concepita come un "oggetto", ovvero come un qualcosa realmente esistente, di volta in volta riducibile o non riducibile a fattori più elementari; dall'altro, l'oggetto "cultura" possiede una controparte soggettiva che si esprime come divergenza nelle modalità di esperienza delle cose, per cui appartenere a culture diverse comporta una differenza in ciò che il mondo "è per me".

Diventa chiaro allora che per sottrarsi a questo paradigma teorico occorre mettere in questione uno dei due assunti su cui questo modo di riflettere intorno alla cultura si fonda: l'oggettivazione della cultura e l'associazione tra culture diverse ed esperienze del mondo divergenti. In pratica, tuttavia, dal momento che l'elemento corrispondente alla rilevazione delle differenze soggettive appare difficilmente contestabile - per il fatto stesso che il discorso antropologico ambisce a presentarsi come "sapere dell'Altro", nel duplice senso, oggettivo e soggettivo, di "sapere che concerne il diverso da noi" e di "restituzione del punto di vista del diverso" -, la revisione della teoria tradizionale della cultura passa attraverso la negazione della reificazione della cultura, ovvero conduce, da una teoria della cultura come "ente", a una concezione che tende a decostruire il culturale. Su questa strada il risultato più significativo sarà rappresentato dalle nuove teorie antropologiche elaborate a partire dagli anni sessanta, in primis dall'antropologia interpretativa di Clifford Geertz.

Dall'antropologia interpretativa alla decostruzione postmoderna della cultura

Secondo un punto di vista ingenuo una cultura consiste in un certo insieme di saperi, tradizioni, abitudini e istituzioni che permettono di determinare, in maniera abbastanza precisa, l'appartenenza di un individuo a una certa comunità umana. Una cultura, secondo questo punto di vista, è un qualcosa che identifica un soggetto come appartenente a un certo gruppo. Questo modo di riflettere intorno alla cultura sembra comportare alcune conseguenze: in primo luogo, che una cultura non sia unicamente un costrutto teorico ma possieda qualche sorta di correlato ontologico. Una cultura deve essere un oggetto esistente "in natura", dal momento che produce una demarcazione così netta tra individui diversi. In secondo luogo che sia possibile stabilire, almeno in generale, una corrispondenza biunivoca tra individui e culture, di modo che la cultura costituisca una risorsa per la ripartizione in gruppi umani tali che a ciascuno venga assegnata la "propria cultura".

Per quanto questa caratterizzazione possa apparire semplificatrice, il concetto di cultura utilizzato dall'antropologia culturale almeno fino agli anni sessanta si è mantenuto assai vicino a questo paradigma teorico. Pur nell'inevitabile episodicità del percorso che ho delineato, dovrebbe risultare infatti evidente come né l'originaria impostazione dell'evoluzionismo, né la scuola storica di Boas, né il funzionalismo di Malinowski, né, infine, l'approccio strutturalista di Lévi-Strauss tentino di sottrarsi a questo modello di spiegazione. In effetti, il discorso antropologico in questi autori, in quanto ambisce a proporsi come scienza della cultura e del culturale, finisce quasi inevitabilmente per incorrere in un processo di reificazione del proprio oggetto di studio, per cui, quando si parla di una certa cultura, si tende a ricercarne le manifestazioni tangibili, siano esse una certa strutturazione degli assetti sociali oppure un certo modo di categorizzare i dati dell'esperienza.

È chiaro che questo cortocircuito epistemologico poteva essere evitato solo rivedendo i paradigmi di scientificità dominanti all'interno dell'antropologia. In altre parole, per combattere la reificazione del culturale era necessario dismettere i presupposti epistemologici di derivazione neopositivista, chiaramente operanti in autori come Malinowski o Lévi-Strauss (58), per abbracciare dei paradigmi teorici maggiormente aperti alla rivendicazione della specificità delle scienze umane.

D'altra parte, questo non significava necessariamente, per le nuove generazioni di antropologi che nel secondo dopoguerra ambivano a contrapporsi al main stream della ricerca sociale, il recupero dell'impostazione boasiana, ancora pesantemente condizionata da un sostanzialismo di matrice idealistica che conduce, per vie diverse, a un'analoga reificazione del culturale. Una possibilità alternativa era offerta, in parallelo con le analoghe rivoluzioni di Berger e Luckmann, di Goffman e degli etnometodologi in sociologia, dalla rivalutazione della dimensione linguistica e comunicativa delle relazioni sociali e da una nuova attenzione per la sfera simbolica e la pratica interpretativa.

Questi elementi si ritrovano puntualmente sin dai primi lavori teorici di Clifford Geertz, i saggi successivamente confluiti nel suo epocale Interpretazione di culture (59). Geertz, che al tempo dell'uscita di questo volume aveva già alle spalle un'esperienza ventennale di ricerca sul campo, condotta prima in Indonesia e quindi in Marocco (60), così esordisce programmaticamente nel testo di apertura:

[i]l concetto di cultura che esporrò, e di cui i saggi seguenti cercheranno di dimostrare l'utilità, è essenzialmente un concetto semiotico. Ritenendo, con Max Weber, che l'uomo sia un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, affermo che la cultura consiste in queste reti e che perciò la loro analisi è, non una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato (61).

La rottura con i paradigmi epistemologici dell'antropologia precedente non potrebbe essere più netta. La cultura consiste in una rete di simboli e di significati. Con ciò viene esclusa la pertinenza delle analisi tradizionali incentrate sulla formulazione di leggi sperimentali. In altre parole, questo significa che la comprensione di una cultura non passa attraverso - o almeno non passa esclusivamente attraverso - l'osservazione di fenomeni misurabili e la correlazione di questi fenomeni con le caratteristiche fondamentali della natura umana.

Per capire più esattamente in che modo Geertz approdi al concetto semiotico di cultura è opportuno però partire dalla sua critica alla teoria tradizionale. Il punto di avvio del discorso di Geertz è la critica a un corollario della nozione abituale, "reificata", di cultura. Se si accetta questa nozione, ovvero se si è disposti a ritenere che le culture "esistano oggettivamente", bisogna trovare per esse una collocazione ontologica appropriata. Per sostenere che una certa comunità possiede una propria cultura e che questa cultura non costituisce soltanto un'astrazione, un utile modo di descrivere certe "somiglianze di famiglia", ma rappresenta qualcosa di reale, si deve essere in grado di spiegare in che modo la cultura si relaziona con gli aspetti invarianti della costituzione psicofisica dell'uomo.

Ora, la risposta ordinaria della riflessione antropologica consiste nel suggerire che la sfera culturale occupa un livello distinto rispetto a quello in cui si colloca la dimensione psicofisica. Al di sopra della costituzione biologica comune gli esseri umani presentano identità culturali diverse che si sovrappongono a quella costituzione e da essa risultano, in tutto o in parte, determinate. La cultura che sopravviene sulla natura. Possiamo ritrovare questo tipo di risposta al problema della "collocazione della cultura" in autori per il resto completamente diversi fra loro come Kroeber - in cui, come si è visto, la metafisica dei livelli di realtà viene esplicitamente teorizzata -, Malinowski e Lévi-Strauss - che, per parte sua, non ha mai fatto mistero di ritenere che i meccanismi trasformativi attribuiti allo spirito umano trovino un preciso corrispettivo nell'ambito dei processi neurali (62).

Secondo Geertz il problema con questa teoria del rapporto tra natura e cultura, che egli chiama teoria "stratigrafica" (63), consiste nel fatto che è manifestamente insoddisfacente. La concezione "stratigrafica" della cultura, da una parte richiede che sia possibile rintracciare una serie di "universali culturali", vale a dire di attitudini, comportamenti, istituzioni che sono universalmente diffusi perché riflettono le caratteristiche fondamentali della natura umana, dall'altra, si arena di fronte alla difficoltà di fornire una ricostruzione appropriata del "dualismo tra gli aspetti della cultura empiricamente universali radicati nelle realtà subculturali e gli aspetti empiricamente variabili non così radicati" (64). E le ragioni di questo fallimento possono essere utilmente compendiate in tre punti: a) non si è mai riusciti a caratterizzare gli universali culturali in maniera sufficientemente determinata da sopire l'impressione che si trattasse di categorie vuote, costruite per astrazione. Questa richiesta in realtà, continua Geertz, non è mai stata soddisfatta perché di fatto non può esserlo.

C'è un conflitto logico tra asserire, per esempio, che la "religione", il "matrimonio" o la "proprietà" sono universali empirici e conferire a essi un contenuto determinato, perché dire che sono universali empirici è dire che hanno lo stesso contenuto, e questo significa scontrarsi con il fatto innegabile che non è vero. [...] Che dappertutto le persone si uniscano e facciano dei figli, abbiano un certo senso del mio e del tuo, si proteggano dalla pioggia e dal sole in un modo o in un altro, non sono né idee false né, da un certo punto di vista, poco importanti, ma ci aiutano poco a tracciare un ritratto dell'uomo che abbia una vera e onesta somiglianza e non sia una specie di generico cartone animato (65).

La conclusione è che intorno all'uomo non ci sono molte generalizzazioni utili da fare, "tranne che è un animale molto vario". E questa conclusione si riflette naturalmente sulla seconda esigenza che la teoria stratigrafica non riesce a evadere: b) quella di fondare gli universali culturali su particolari processi biologici, psicologici o sociologici. In questo caso il motivo del fallimento consiste nel fatto che qualsiasi tipo di coerenza che si riesca a stabilire tra aspetti universali della cultura ed esigenze fondamentali della natura umana, non può che risultare vaga e indeterminata.

Non solo quasi ogni istituzione soddisfa una molteplicità di bisogni sociali, psicologici e organici [...], ma non c'è modo di stabilire in modo preciso e dimostrabile i rapporti che sono supposti esistere tra i vari livelli. Nonostante l'apparenza, non c'è qui nessun serio tentativo di applicare i concetti e le teorie della biologia, della psicologia e neppure della sociologia all'analisi della cultura [...], ma soltanto si giustappongono dei fatti dedotti dai diversi livelli subculturali e culturali, così da indurre la vaga sensazione che vi sia un certo rapporto fra di loro - un'oscura specie di "confezionamento" (66).

In altre parole, secondo Geertz, la concezione stratigrafica della cultura e la metafisica dei livelli da essa incorporata, sono incompatibili con l'idea di un fondamento degli universali culturali sul sostrato invariante della costituzione psicofisica dell'uomo, perché una volta che si è compiuto il passo di distinguere fra ciò che rientra nel dominio del culturale e ciò che invece è anteriore a esso, l'operazione di individuare delle leggi di transizione tra un livello e l'altro richiederebbe che fosse possibile compiere anche il percorso inverso, individuando un orizzonte sinottico capace di abbracciare i due domini in un unico sguardo, proprio quanto la concezione stratigrafica implicitamente nega.

Prese insieme, la critica delle generalizzazioni universali inconsistenti e quella delle connessioni generiche tra i livelli mettono capo a una piccola rivoluzione - siamo così giunti al terzo punto in questione, c) - nel modo in cui le discipline antropologiche si confrontano con il loro oggetto di indagine, l'uomo (67). Questa rivoluzione riguarda il problema se "l'essenza di ciò che significa essere umani" consista maggiormente negli aspetti della cultura umana che sono universali, oppure in quelli che sono specifici di un popolo. Naturalmente, i sostenitori della teoria stratigrafica, che sottolineano l'esistenza di categorie genuinamente universali, inclinano verso la prima risposta. Ma se le critiche di Geertz all'universalismo della concezione stratigrafica sono corrette, anche lo spazio teorico per individuare gli elementi costitutivi di una definizione generale di umanità tende a ridursi. Queste critiche producono così l'effetto di rivalutare, contro le generalizzazioni universali dell'antropologia tradizionale, l'importanza delle particolarità secondarie, dei tratti endemici, delle forme peculiari che i fenomeni più comuni assumono lontano da noi. Come scrive Geertz,

è forse nelle peculiarità culturali dei popoli - nelle loro bizzarrie - che si possono ritrovare alcune delle rivelazioni più istruttive su che cosa significa essere genericamente umani; e forse il maggiore contributo della scienza dell'antropologia alla costruzione - o ricostruzione - di un concetto di uomo può consistere nel mostrarci come trovarle (68).

E questo elogio del particolare e del bizzarro richiede, per essere convertito in dottrina, una parallela rivoluzione epistemologica. Da qui il rifiuto dell'antropologo americano dei paradigmi di scientificità neopositivisti e dell'idea che lo studio delle culture debba consistere in una serie di osservazioni che culminano nella formulazione di leggi generali. Al contrario, la comprensione di una cultura è una processo essenzialmente ermeneutico, connesso alla decifrazione di un universo simbolico estraneo e alla costruzione di significati. Questo indica che l'antropologo non deve proporsi di scoprire un insieme di leggi empiriche ma deve piuttosto impegnarsi in un'opera di traduzione, così da rendere accessibili i simboli che incontra a un pubblico di persone cui quei simboli non sono ancora familiari. Per questo motivo Geertz ritiene che per capire in che cosa consista il lavoro antropologico si debba partire da quello che fanno gli antropologi, ovvero dall'etnografia.

Nell'antropologia, o per lo meno nell'antropologia sociale, ciò che gli specialisti fanno è etnografia. E solo comprendendo che cosa sia l'etnografia, o più precisamente che cosa significhi fare etnografia, che si può cominciare ad afferrare in che cosa consista l'analisi antropologica come forma di conoscenza. [...] Ciò che la definisce è l'attività intellettuale in cui consiste: un complesso avventurarsi, per usare il termine di Gilbert Ryle, in una "thick description" (69).

"Thick" contrapposto a "thin" sottolinea - come nota anche il curatore dell'edizione italiana di Interpretazione di culture - la contrapposizione fra un modo di descrizione "denso", "spesso" e quindi "complesso", "stratificato" e una descrizione "sottile", "rada" e dunque più "superficiale" (70). La descrizione etnografica si presenta come una descrizione "spessa", vale a dire una descrizione che non si limita a riferire degli eventi ma cerca di convogliare il significato, più o meno profondo, più o meno nascosto, che quegli eventi posseggono. Lo scopo del lavoro etnografico, infatti, è quello di immergersi completamente nel fondo magmatico della vita delle popolazioni studiate per riportarne indietro combinazioni di significato perfettamente trasparenti; non, tuttavia, nel senso neopositivista di "trasparenza", incentrato sull'evidenza dell'osservazione ripetibile e delle correlazioni misurabili tra le grandezze osservate, quanto piuttosto nel senso, vagamente wittgensteiniano, di un resoconto immediatamente intelligibile da parte dei suoi fruitori. Da questo punto di vista la "complessità" del lavoro etnografico non è mai fine a se stessa ma è sempre diretta a ottenere un documento completo nei suoi molteplici livelli di lettura e, per questo motivo, perfettamente comprensibile.

Appare evidente, se si segue questa linea, come l'opera dell'etnografo si caratterizzi come un'attività di ricostruzione narrativa: a partire dagli sparsi frammenti di senso che riesce a ricavare dai suoi informatori l'antropologo deve ricavare delle spiegazioni complete del comportamento dei soggetti che sta studiando, in modo che motivazioni delle loro azioni, da enigmatiche che erano, diventino completamente chiare. Ne deriva l'insistenza sulla dimensione semiotica del concetto di cultura: nella misura in cui l'impresa antropologica consiste nella decifrazione di sistemi interconnessi di segni interpretabili, la cultura tende a presentarsi come un contesto entro il quale eventi sociali, comportamenti istituzioni possono essere descritti in maniera thick, intelligibile. Ne deriva, ancora, l'importanza in tutta la letteratura antropologica del "mettersi nei loro panni", del "vedere le cose dal punto di vista del nativo", come espediente metodologico per penetrare la superficie delle azioni e per attribuire a esse un significato direttamente apprezzabile.

Il famoso coinvolgimento antropologico nell'esotico [...] è pertanto essenzialmente un espediente per dislocare quell'ottundente senso di familiarità che ci nasconde il mistero della nostra capacità di relazionarci con gli altri in modo percettivo. Guardare le cose ordinarie nei luoghi dove prendono forme inusitate non rivela l'arbitrarietà del comportamento umano, come si è preteso tanto spesso [...], ma la misura in cui il suo significato varia secondo il modello di vita da cui è influenzato. Comprendere la cultura di un popolo ne mette in luce la normalità senza ridurne le peculiarità. [...] Le rende accessibili: ponendole nella cornice della loro banalità, ne dissolve l'opacità (71).

Il metro del successo del lavoro antropologico è quello della "riduzione dello sconcerto": se l'indagine dell'antropologo va a buon fine i documenti che egli ha prodotto devono contenere una chiave d'accesso al mondo dei nativi che ci permetta di relazionarci con essi "in modo percettivo". In questo senso l'antropologia è, per eccellenza, scienza dell'umano, disciplina intesa a portare alla luce il fondo di umanità comune che si cela al di sotto della apparenza destabilizzante dei costumi.

Quest'ultima annotazione permette di raggiungere un punto cruciale: l'antitesi tra il metodo dell'antropologia tradizionale, ispirato ai canoni di scientificità del neopositivismo, e quello dell'antropologia interpretativa di Geertz nasconde una continuità di fondo per quanto concerne gli intenti del discorso antropologico. Non diversamente dalla riflessione antropologica tradizionale, anche l'antropologia interpretativa ambisce a produrre un discorso complessivo sull'uomo. La differenza consiste negli strumenti concettuali per mezzo dei quali viene condotto questo discorso. Rifiutando le vuote generalizzazioni tipiche della retorica degli universali culturali, l'approccio interpretativo procede, per così dire, a una costruzione dal basso. Il raggiungimento del nucleo di umanità comune non deriva dalla formulazione di leggi generali ma dall'immersione nel particolare e dalla riconduzione di questo particolare a un orizzonte comune di familiarità.

Geertz esprime questo aspetto del suo lavoro sottolineando, fra le altre caratteristiche della descrizione etnografica, il fatto che essa è anche "microscopica", ovvero si avvicina alle analisi più generali e più astratte "procedendo da conoscenze molto estese di faccende estremamente piccole" (72), e incompleta. Per quanto concerne la prima proprietà, che la via d'accesso alla produzione di concettualizzazioni più estese passi attraverso l'indagine del particolare e dello specifico non significa che la ricerca locale possieda un qualche valore esemplare che ci permetta di formulare quadri più ampi, quanto piuttosto che ciascuna "micrografia" aggiunge un tassello a una conoscenza globale che rimane per sua natura plurale e diversificata.

La vocazione essenziale dell'antropologia interpretativa non è di rispondere alle nostre domande più profonde, ma di mettere a disposizione risposte che altri (badando ad altre pecore in altre vallate) hanno dato e includerle così nell'archivio consultabile di ciò che l'uomo ha detto (73).

La vocazione compilativa dell'antropologia spiega anche, in parte, la seconda caratteristica del lavoro etnografico - l'incompletezza - su cui Geertz richiama l'attenzione. L'impresa antropologica è incompleta perché non è terminabile; e questo in un duplice senso. In primo luogo, nel senso banale che la vastità del suo oggetto - un oggetto che oltretutto si arricchisce mano a mano che l'umanità "dice nuove cose" - le preclude la possibilità di un compimento. Ma dire che l'analisi culturale è intrinsecamente incompleta significa anche dire qualcosa di più specifico intorno al modo in cui essa procede: l'incompletezza implica, come scrive Geertz, che per quanto si rifletta su quei comportamenti, eventi, istituzioni che ne costituiscono l'oggetto non si arriva mai "a toccarne il fondo", perché, in ultima analisi, non esiste una verità ultima da portare alla luce. La peculiarità dell'analisi culturale consiste nel non essere diretta alla scoperta di una verità oggettiva - se mai vi sono discipline rivolte alla scoperta di una simile verità - ma di porsi come obbiettivo la produzione di resoconti esplicativi dichiaratamente provvisori e intercambiabili.

È allettante cercare di esprimere questo punto sostenendo che il lavoro etnografico, come lo raffigura Geertz, assomiglia molto a un'operazione di "interpretazione radicale", nell'accezione di Donald Davidson: l'autore del lavoro, l'etnografo, tenta di confrontarsi con il comportamento dei soggetti che sta studiando, ponendosi lo scopo di rendere ragione delle loro azioni, ovvero di costruire una cornice esplicativa e narrativa che presenti quelle azioni come naturali, immediatamente comprensibili. Per raggiungere questo scopo deve mettere in gioco se stesso, le proprie categorie - quello che si dice "adottare il punto di vista del nativo" -, cercando di adeguare un poco per volta le razionalizzazioni che applicherebbe al proprio comportamento al quadro alterato che gli riportano le sue osservazioni (74).

L'esito di questo processo consiste, se tutto si svolge nel migliore dei modi, nella produzione di una spiegazione esauriente, completa, thick, del comportamento osservato. Una spiegazione, tuttavia, che va posta in relazione, in un certo modo, con la figura di colui che l'ha prodotta, dal momento che riproduce indirettamente i tratti della fisionomia del suo autore, e dunque è incompleta perché essenzialmente mutevole: un autore diverso o una variazione nelle condizioni di lavoro o anche soltanto uno spostamento di tempi avrebbero potuto produrre un resoconto differente.

Possiamo approfondire questo parallelismo richiamando uno degli sviluppi successivi della riflessione di Geertz intorno ai metodi dell'antropologia interpretativa. Mi riferisco alla distinzione, introdotta in un saggio scritto verso la metà degli anni settanta, fra concetti "vicini all'esperienza" e concetti "distanti dall'esperienza" (75). Il saggio prende avvio dal tentativo di mettere in questione la nozione di "osservazione partecipante". In cosa consiste la capacità dell'antropologo di guardare le cose con gli occhi del nativo? La soluzione abituale di questo interrogativo, come si è visto, chiama in causa la capacità dello studioso di stabilire qualche forma di risonanza empatica con i soggetti che sta osservando. Ora, la nozione di empatia - o einfühlen - è sicuramente frutto di un processo di mitizzazione, come dimostrò lo scandalo seguito alla pubblicazione postuma dei diari di Malinowski, in cui il grande antropologo polacco rivelava che nei suoi soggiorni di studio nelle isole del Pacifico si era trovato assai meno in sintonia con l'ambiente circostante di quanto avesse pubblicamente lasciato a intendere. Ma se il concetto di "osservazione partecipante" è un mito come deve procedere l'etnografo nel suo lavoro? Come scrive Geertz, se

dobbiamo rimanere fedeli all'ingiunzione di vedere le cose dal punto di vista dei nativi, come la mettiamo quando non possiamo più sostenere di avere un'unica forma di vicinanza psicologica, di identificazione transculturale con i nostri soggetti? Cosa accade al verstehen quando l'einfühlen scompare? (76)

La risposta di Geertz è incentrata su una distinzione linguistica, quella tra concetti "vicini all'esperienza" e concetti "distanti dall'esperienza". Un concetto vicino all'esperienza è un concetto che chiunque, per esempio un informatore indigeno, "può utilizzare naturalmente e senza sforzo per definire ciò che lui e i suoi colleghi vedono, sentono, pensano, immaginano e così via, e che comprenderebbe prontamente quando utilizzato in modo simile da altri" (77). Viceversa, un concetto distante dall'esperienza è un concetto cui ricorrerebbero etnografi, sociologi, ideologi o analisti di qualche altro tipo "per far avanzare i loro obbiettivi scientifici, filosofici o pratici" (78).

In altre parole, la distinzione tra concetti vicini o distanti dall'esperienza mima in un certo modo il dualismo tra la terminologia del lessico quotidiano, impiegata da individui comuni per scambiarsi informazioni sul modo in cui stanno le cose, e quella del lessico teorico, per mezzo della quale si cerca di definire gli stessi avvenimenti in maniera più generale e astratta. Si tratta, ovviamente, di una questione di gradi - "'paura' è più vicina all'esperienza di 'fobia' e quest'ultima è più vicina di 'ego asintonico'" (79); il dato rilevante è che nel modo di operare dell'etnografo i due tipi di concetti devono entrambi trovare posto senza che gli uni prevalgano sugli altri. Infatti, il

limitarsi a concetti vicini all'esperienza lascia l'etnografo immerso nelle immediatezze, e intrappolato nel linguaggio comune. Il limitarsi a concetti distanti dall'esperienza lo lascia arenato in astrazioni e soffocato dal gergo. Il vero problema [...] è che tipo di ruoli giocano i due tipi di concetti nell'analisi antropologica. O, più esattamente, come, in entrambi i casi, bisogna utilizzarli per ottenere un'interpretazione di come vive una popolazione che non sia imprigionata né nei suoi orizzonti mentali, un'etnografia della stregoneria scritta da una strega, né sistematicamente sorda alle tonalità peculiari della sua vita, un'etnografia della stregoneria scritta da un geometra (80).

Quello che è necessario, quindi, è riuscire a cogliere i concetti vicini all'esperienza dei nativi in modo sufficientemente preciso da porli in relazione con i concetti distanti dall'esperienza della teoria. Ancora nelle parole di Geertz, ciò che l'antropologo deve fare "è procedere a zig zag tra i due diversi tipi di descrizione - tra osservazioni sempre più dettagliate [...] e caratterizzazioni sempre più sinottiche [...] in modo tale che considerate contemporaneamente, esse rappresentino un ritratto credibile e completo di una forma di vita umana" (81), evitando così gli estremi dell'appiattimento contemplativo dell'etnografia nelle immediatezze dei fenomeni che studia e della totale proiezione delle proprie categorie su di essi.

Posta in questi termini, l'antitesi tra concetti vicini e lontani dall'esperienza è rivelatrice dell'epistemologia di Geertz. Una volta che si sia smascherata la finzione del "mettersi nei loro panni", ormai completamente inaccettabile nei termini psicologistici in cui veniva prospettata - e con essa il mito di un'epistemologia "cartesiana", fondata sull'attivazione di qualche facoltà interna, delle scienze sociali -, non resta altro da fare all'antropologo che ammettere che tutta la delicatezza del suo lavoro consiste nel trovare le parole adatte per esprimere - nella maniera più ricca, persuasiva, intelligibile, thick - quelle connessioni che si possono leggere nell'armamentario concettuale impiegato dai suoi interlocutori. In ultima analisi, l'impresa di interpretazione culturale consiste soprattutto - in un'ottica quasi davidsoniana - in un'attività di traduzione, nel senso che è attraverso il modo in cui certe razionalizzazioni vengono tradotte, certi comportamenti identificati, certe istituzioni assimilate ad altre più note, che si decide se l'interpretazione di una cultura ha avuto successo.

L'idea di interpretazione culturale come traduzione ci riporta conclusivamente al punto da cui eravamo partiti, la concezione di Geertz della cultura in termini semiotici. Abbiamo visto come per Geertz il lavoro etnografico consista essenzialmente in un'operazione di traduzione, riformulazione, chiarificazione delle spiegazioni del comportamento che sono accessibili ai nativi. Sotto questo aspetto l'analisi culturale è "interpretazione di interpretazioni", "interpretazione di secondo grado", una descrizione formulata nei termini delle interpretazioni che, così come noi le ricostruiamo, i nativi attribuiscono al mondo in cui vivono. E gli scritti degli antropologi sono delle "finzioni", secondo il doppio significato di "finzione": "oggetti fabbricati, confezionati" e "blocchi narrativi che ricostruiscono un certo evento o contesto sociale" (82). Ma se questa è la caratterizzazione del lavoro etnografico, qual è lo status dell'oggetto che questo lavoro si propone di investigare, qual è esattamente la natura della cultura?

Interrogando i testi di Geertz si possono ritrovare, credo, due tipi di risposte a questa domanda: la cultura come insieme di "meccanismi di controllo" e la cultura come "sistema simbolico", o anche come "testo". È bene chiarire che le due risposte non sono in concorrenza fra loro perché affrontano il tema da due angolature diverse. La prima risposta, la cultura come meccanismo di controllo, si trova enunciata espressamente nello stesso saggio in cui Geertz conduce la sua critica della concezione stratigrafica.

Proponendo questa integrazione dal lato antropologico [...], voglio avanzare due idee. La prima è che la cultura è concepita meglio non come insiemi di modelli concreti di comportamento - costumi, usi, tradizioni, insiemi di abitudini - come è stato grossomodo finora, ma come una serie di meccanismi di controllo - progetti, prescrizioni, regole, istruzioni (quello che gli ingegneri informatici chiamano "programmi") - per orientare il comportamento. La seconda è che l'uomo è proprio l'animale più disperatamente dipendente da simili meccanismi di controllo extragenetici ed extracorporei, i programmi culturali appunto, per dare ordine al suo comportamento (83).

Il problema in esame è quello di precisare la natura dell'oggetto "cultura". In risposta a questo interrogativo, per così dire, "ontologico", Geertz offre una definizione funzionale, sostenendo che la cultura consiste in un insieme di meccanismi che agiscono orientando l'agire dell'uomo secondo schemi comportamentali trasmessi per apprendimento. In altre parole, la cultura non va intesa come un repertorio di modelli di comportamento empiricamente riscontrabili, magari riconducibili all'operato di fattori annidati nelle profondità della natura umana, ma come una serie di istruzioni che orientano le scelte d'azione, fornendo agli individui i punti di riferimento comportamentali di cui necessitano. D'altra parte, la derivazione dei modelli culturali dalla struttura della natura umana, non sarebbe nemmeno concepibile per Geertz, per il quale

[n]on esiste una cosa come una natura umana indipendente dalla cultura. Gli uomini senza cultura [...] sarebbero inguaribile mostruosità con pochissimi istinti utili, ancor meno sentimenti riconoscibili, e nessun intelletto: casi mentali disperati (84).

L'idea di cultura come meccanismo di controllo, Geertz la collega da un lato all'idea - sostenuta anche, per quanto Geertz non lo citi mai, da Arnold Gehlen (85) - della povertà istintuale dell'uomo, che lo costringe a ricorrere a un armamentario di strutture che si incaricano di governare il caos pulsionale; dall'altro, all'assunto - che Geertz riprende soprattutto da Dewey - del carattere pubblico e sociale del pensiero: il pensare come "traffico di simboli significanti" che vengono impiegati per fornire un'interpretazione degli avvenimenti di una vita.

Questo nesso chiarisce anche il rapporto con la seconda definizione. Infatti, nell'ottica di Geertz l'idea di cultura come insieme di funzioni di orientamento comportamentale tende a confondersi con la tesi secondo la quale queste funzioni trovano il loro supporto empirico in un sistema di segni pubblicamente fruibili, per cui, se dal punto di vista ontologico la cultura è meglio definibile come una serie di "programmi" comportamentali fondati nelle capacità di apprendimento e che vengono attivati da segnali esterni, quando si ha riguardo alla prospettiva del lavoro etnografico diventa ragionevole identificare tout court la cultura con quei simboli. Addirittura, se l'identificazione viene riassorbita in una teoria più generale dell'interpretazione come lettura - secondo una tradizione che rimanda all'interpretatio naturae medievale che tentava di leggere la natura come Scrittura -, diventa possibile equiparare la cultura nel suo complesso a un testo letterario, come fa Geertz in conclusione di uno dei suoi saggi più memorabili.

La cultura di un popolo è un insieme di testi, anch'essi degli insiemi, che l'antropologo si sforza di leggere sedendosi sulle spalle di coloro cui appartengono di diritto. Vi sono difficoltà enormi in questa impresa, trabocchetti metodologici tali da far tremare un freudiano, e anche alcune perplessità morali. [...] Ma considerare queste forme come se dicessero "qualcosa di qualcosa" e dirlo a qualcuno significa almeno schiudere la possibilità di un'analisi che si attenga alla loro sostanza, piuttosto che alle formule riduttive che pretendono di spiegarle (86).

Da complesso di meccanismi di regolazione, la cultura è diventata "un insieme di testi". Tale essa è soprattutto per l'etnografo, per il quale il sistema culturale della popolazione che sta studiando è qualcosa che deve essere ricostruito in modo da possedere significato. Da qui il tipico procedere delle analisi culturali di Geertz nelle quali la portata di un'usanza o di un'istituzione - il combattimento di galli a Bali oppure la concezione della persona a Giava - viene illustrato mettendone in rilievo il significato drammatico in rapporto al contesto sociale - il combattimento dei galli come trasposizione della riflessione balinese intorno alla violenza, le idee giavanesi sulla persona che traducono in concetti il temperamento riflessivo e "fenomenologico" degli abitanti dell'isola e, più indirettamente, l'intera struttura sociale -, come se si trattasse del contenuto di un'opera letteraria, rispetto alla quale l'interprete si assume il compito di svelare i nessi sottesi ai personaggi e all'azione.

Fare etnografia è come cercare di leggere (nel senso di "costruire una lettura di") un manoscritto - straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti tendenziosi, ma scritto non in convenzionali caratteri alfabetici, bensì con fugaci esempi di comportamento strutturato (87).

In definitiva il dualismo tra la concezione della cultura come insieme di programmi e la concezione della cultura come insieme di segni da interpretare si presenta soprattutto come duplicità di saperi intorno al culturale: la cultura consiste certamente di meccanismi di controllo - l'immersione del culturale nella dimensione biopsichica -, ma la circostanza che questi meccanismi si depositino su supporti segnici, in modo tale da presentarsi come accessibili a una considerazione esterna - etnografica - soprattutto, se non esclusivamente, a partire da questi ultimi, rende plausibile la sovrapposizione della prospettiva biocomportamentale con quella ermeneutica. I due ordini del discorso si saldano fra loro a definire una linea di attacco unitaria contro il tentativo dell'antropologia precedente, in primis quella di Lévi-Strauss, di unificare il piano dell'analisi del simbolo, del supporto che veicola il contenuto culturale, con quello della soggettività che opera manipolando il simbolo nel momento stesso in cui viene da esso plasmata. Con l'esito, come avevo anticipato, di una evidente desostanzializzazione della sfera culturale, che smette di essere una proiezione necessitata della natura profonda delle cose per diventare il frutto di un assemblaggio, del tutto contingente, di coordinate simboliche.

Tuttavia, se l'approccio interpretativo contribuisce potentemente a questa operazione di desostanzializzazione del culturale, per un altro verso resta intatta un'altra delle prerogative che il discorso antropologico tradizionale assegnava alla cultura. Infatti, nella misura in cui il lavoro etnografico identifica un insieme definito di segni come correlativo oggettivo di una cultura, rimane possibile operare una distinzione netta fra culture diverse, una suddivisione precisa fra "noi" e "loro", in accordo con i presupposti teorici ed epistemologici della tradizione antropologica (88). Il culturale, benché non più reificabile, continua ad agire come risorsa per la ripartizione del genere umano in comunità distinte. Ciò comporta anche la conservazione di una seconda caratteristica tradizionalmente attribuita alla cultura: la circostanza che la sfera culturale venga assunta come strumento di distinzione tra gruppi umani implica che essa sia concettualizzata in termini prevalentemente statici, che privilegiano le linee di continuità rispetto alle fratture e al cambiamento.

Perché anche questi ultimi dogmi siano messi in discussione bisogna attendere quell'autentica esplosione della nozione di cultura che ha segnato la storia più recente della riflessione antropologica, travolta dal confronto con il postmodernismo, la decostruzione e la globalizzazione. Ripercorrere nei dettagli le vicende di questa storia è un'impresa resa pressoché impossibile dalle continue interazioni con altri campi disciplinari come la sociologia, la filosofia, la psicoanalisi e la critica letteraria. Ai fini del nostro discorso, sarà sufficiente cercare di delineare le principali critiche che gli antropologi "postmoderni" (89) rivolgono ai metodi e agli assunti teorici dell'etnografia tradizionale e di vedere in che modo queste critiche conducano a una ennesima ristrutturazione del concetto di cultura.

Uno dei documenti più significativi in questo senso è costituito dall'introduzione di James Clifford a una fortunata raccolta di saggi curata dallo stesso Clifford e da George Marcus nel 1986 (90). Per molti versi Clifford sembra voler riprendere l'operazione di rinnovamento della disciplina antropologica nel punto in cui Geertz si era interrotto, radicalizzando alcuni degli assunti che l'autore di Interpretazione di culture non aveva sviluppato fino in fondo (91). Se Geertz aveva contribuito potentemente a desostanzializzare il concetto di cultura, infatti, attraverso la critica alla concezione stratigrafica e la metafora della cultura come testo, altri aspetti della sua teoria, come abbiamo visto, rimanevano saldamente imprigionati nella gabbia dei pregiudizi abituali che circondano l'analisi culturale. In particolare, la concezione geertziana dell'interpretazione etnografica come thick description, appare limitativa se la si intende, come sembra fare Geertz, come un procedimento che ha successo solo quando riesce a cogliere e a riprodurre un significato profondo già inscritto nell'azione sociale intepretanda.

Quando Geertz contrappone a una nozione di traduzione culturale come "rimaneggiamento con le nostre parole di come altri esprimono le cose" l'idea che la traduzione debba consistere nel "mettere in luce la loro logica con le nostre parole" (92), oppure nel "formulare i presupposti, le preoccupazioni e le strutture d'azione" (93) che caratterizzano un certo tipo di sensibilità nei termini propri di un'altra, sembra sottintendere che l'interpretazione etnografica è sempre vincolata da una realtà oggettiva rispetto alla quale può e deve essere chiamata a rendere conto. Il lavoro etnografico è il risultato di un'interpretazione, dunque qualcosa di costruito, di artefatto, ma è pur sempre una costruzione che non può prescindere da una realtà oggettiva preesistente. L'etnografia è una finzione ma solo nel senso di "finzione" che rimanda all'attività di un creare, non nel senso di ciò che si discosta e si contrappone al vero (94). Per contro, secondo Clifford,

[c]hiamare finzioni le etnografie [... i]ndica la parzialità delle verità culturali e storiche, i modi in cui esse sono sistematiche ed esclusive. Si può correttamente chiamare la scrittura etnografica finzione nel senso di "qualcosa che è stato fatto o formato", senso che costituisce il nucleo della radice latina fingere. Ma insieme al significato di "fare" deve essere mantenuto anche quello di "inventare", creare cose che non sono propriamente vere (fingere in alcune accezioni implicava una componente di falsità) (95).

Una volta che si riconosca, come fa anche Geertz, che fare etnografia non può consistere nel mettersi sulle tracce di una ipotetica sostanza culturale ma si riduce a un insieme di tentativi di rendere accettabile secondo i nostri canoni un sistema di condotte a prima vista incomprensibile, non è possibile, se non a patto di contraddirsi, limitare il raggio dei tentativi di spiegazione ammissibili a quelli che, oltre a soddisfare le nostre aspettative, rispecchiano anche "la realtà delle cose". Se la cultura come realtà oggettiva non esiste, non esistono vincoli predefiniti cui le descrizioni etnografiche devono sottostare: la loro validità va misurata esclusivamente nei termini del loro successo esplicativo e del credito scientifico che riescono a raccogliere.

Questa assunzione, se da un lato preclude definitivamente la possibilità di impiegare il concetto di cultura come risorsa per distinguere tra "noi" e "loro", dall'altro apre tutta una serie di nuovi campi di indagine che ruotano intorno allo smascheramento dei pregiudizi, profondamente radicati nel lavoro antropologico, che orientano le modalità della descrizione dell'altro e delle strategie, più o meno occulte, che presiedono alla costruzione dell'autorità del resoconto etnografico.

L'etnografia si situa in posizione attiva tra potenti sistemi di significato. Pone le sue domande collocandosi ai confini tra civiltà, culture, classi, razze e generi sessuali. L'etnografia decodifica e ricodifica, rivelando le basi dell'ordine collettivo e della diversità, dell'inclusione e dell'esclusione. Descrive processi di innovazione e di strutturazione, ed è essa stessa parte di questi processi (96).

Questo è precisamente l'ambito in cui si muove la ricerca di Clifford e, più in generale, dell'etnografia postmoderna: rivelare i meccanismi di potere che si celano sotto la superficie del testo etnografico portando alla luce i criteri, socialmente costruiti, che spiegano come mai alcune rappresentazioni dell'alterità ottengano più successo di altre.

È chiaro che da questo punto di vista il documento etnografico viene assunto come prodotto che riflette un determinato sistema concettuale: l'ambito in cui si colloca non è quello delle verità assolute ma quello delle verità parziali (97), nel senso che il sapere che l'etnografia produce (e riproduce) è sempre costitutivamente limitato, provvisorio, rivedibile, ma anche organicamente riconducibile a quella parte che ha prodotto il testo nel quale esso si esprime. Lo scopo delle ricerca metaetnografica degli antropologi postmoderni diventa allora quello di individuare quelle caratteristiche del lavoro etnografico nelle quali si esprimono i rapporti di forza tra osservatori e osservati e per stabilire in che modo queste caratteristiche perpetuino assetti di potere preesistenti.

Assetti di potere che sono prima di tutto di natura politica, se è vero che alla radice del discorso critico dell'antropologia postmoderna si colloca la riflessione sul nesso che lega etnografia e colonialismo (98). In questo ambito più specifico, a partire dai contributi ormai storici di Michel Leiris, moltissimi lavori si sono proposti di illustrare in che modo i metodi e i canoni dell'antropologia debbano essere posti in connessione con gli obbiettivi e le tattiche del progetto coloniale (99). In questa ottica, soprattutto negli studi più recenti, si è osservato come il rapporto di dominio coloniale si sia concretizzato, a livello etnografico, non tanto in una soggezione materiale durante il lavoro dell'etnografo "sul campo", quanto in una specifica modalità di testualizzazione dell'incontro tra l'antropologo e il nativo (100).

Un esempio significativo in tal senso è costituito da quelle che Richard Fardon ha denominato "strategie di localizzazione" (101). Secondo questo autore una delle conseguenze delle peculiari condizioni politiche nelle quali si è svolto l'incontro tra gli antropologi e i nativi è stata la messa in atto nei resoconti etnografici di un insieme di tecniche, che Fardon definisce appunto "strategie di localizzazione", volte a presentare il proprio oggetto di ricerca come spazialmente situabile e riconoscibile. Questo perché i primi antropologi che si sono impegnati nello studio delle culture extraeuropee, muovendosi in uno scenario coloniale o immediatamente postcoloniale, hanno dovuto fare i conti con tutta una serie di definizioni del territorio e delle popolazioni residenti in esso direttamente generate dai poteri occidentali e improntate a una chiara definizione - e semplificazione - degli ambiti spaziali e delle strutture sociali. In questo modo, le coordinate "tassonomiche" imposte dalla razionalità coloniale, tradotte nella conoscenza dei territori sottoposti al dominio coloniale, hanno prodotto un potente effetto di precomprensione, in termini di essenzializzazione dell'oggetto della ricerca e di creazione di associazioni stabili fra forme sociali e aree geografiche.

Analogamente, si potrebbero ricordare i lavori di Johannes Fabian sui tempi del racconto etnografico. Fabian parte dall'osservazione che i testi etnografici tradizionali sono costantemente scritti al presente: i resoconti redatti dagli antropologi sono infarciti di formule come "i Nuer pensano", "i Bororo credono", e così via. Ora, questo modo di descrivere le culture e le società, il cosiddetto "presente etnografico", produce un effetto detemporalizzante, ossia tende a collocarle al di fuori dal tempo. Si crea così una frattura temporale fra l'universo dell'antropologo e quello del nativo, assunto come metonimia della cultura di appartenenza.

Il risultato è quello che Fabian chiama "allocronia", cioè il confinamento dell'altro in una temporalità alternativa alla nostra e del tutto cristallizzata (102). Anche in questo caso, simmetricamente a quanto osservato per i procedimenti di localizzazione nella dimensione spaziale, l'effetto di dislocamento temporale riflette un'attitudine catalogante e museale rispetto alle manifestazioni della diversità umana perfettamente in sintonia con le logiche del dominio coloniale. Saldandosi ai meccanismi di individuazione spaziale, la narrazione allocronica del resoconto etnografico contribuisce a riprodurre un'immagine statica, immobilizzata nello spazio e nel tempo, delle culture descritte; un'immagine completamente inscritta nel sistema di potere occidentale.

Le strategie di localizzazione e il dislocamento allocronico sono solo due esempi rappresentativi di tutta una serie di tecniche di esposizione che da sempre gli antropologi mettono in atto nel loro lavoro di testualizzazione delle culture. A questo proposito, alcuni studi hanno mostrato come il ricorso a queste tecniche abbia contribuito a perpetuare le logiche di dominio occidentali non solo attraverso un recupero immediato dell'immagine dell'altro elaborata nell'ambito del discorso coloniale ma anche in una maniera più indiretta. Per esempio, è stato evidenziato come, soprattutto nella fase iniziale dell'affermazione dell'antropologia come disciplina, l'adozione di un certo stile espositivo tendenzialmente distaccato e impersonale sia servito a differenziare il documento etnografico rispetto ad altri testi, precedenti o coevi, di argomento più o meno simile. In un momento in cui l'antropologo doveva imporre la propria autorità di "esperto in materia culturale", il rispetto di certi stilemi espositivi si è rivelato funzionale a costruire la monografia etnografica come testo scientifico, contraddistinto da una credibilità e oggettività maggiori rispetto ai resoconti dei missionari o degli amministratori coloniali, ai racconti di viaggio e ai reportage giornalistici (103). In questo modo, il discorso antropologico ha dovuto attingere a un repertorio di metafore e di concettualizzazioni già profondamente inserito nel sistema di potere coloniale, continuando così a riprodurre invariabilmente le gerarchie di dominio preesistenti.

Nel complesso, il riesame critico del discorso antropologico sviluppato dagli etnografi postmoderni tende a evidenziare come il privilegiamento di un certo stile descrittivo e la conseguente esclusione di altre forme di testualizzazione riflettano, in ultima analisi, interessi e valori collegati al sistema sociale che li ha prodotti e che ne riconosce l'autorità (104). Il risultato complessivo di queste indagini è quello, come si è detto, di mettere in questione la possibilità stessa di un discorso etnografico che documenti in maniera oggettiva le culture prese a oggetto senza riprodurre, nelle sue stesse convenzioni rappresentative, i rapporti di forza tra osservatori e nativi. Per questo tramite la critica alle forme dell'etnografia tradizionale, nelle sue palesi forzature epistemologiche e nelle sue manifeste compromissioni con un certo assetto politico, tende a sfociare nella critica dell'etnografia tout court, intesa come prospettiva di raffigurazione neutrale dell'altro (105).

Il progetto etnografico, nel suo impianto più generale, ha avuto il difetto di alimentarsi a un'epistemologia rappresentazionalista e fondazionale che è chiara espressione di un potere di tipo egemonico. Ne segue che per recuperare un ruolo positivo di critica sociale l'etnografia deve rinunciare all'ideologia della rappresentazione per abbracciare uno stile di comunicazione alternativo. In questa chiave è leggibile, per esempio, la proposta di un autore come Stephen Tyler a favore di un passaggio dalla logica del discorso rappresentativo a quella del discorso "evocativo".

Dato che il suo significato non risiede in se stesso ma in una comprensione di cui esso è solo un frammento logorato, il testo etnografico non è più obbligato a rincorrere la rappresentazione. Il termine chiave per comprendere questa differenza è "evocare": se di un discorso si può dire che "evoca", allora non deve necessariamente rappresentare ciò che evoca, anche se può divenire il mezzo per una rappresentazione. [...] Il testo post-moderno è andato oltre la funzione di rappresentazione dei segni e si è liberato delle pastoie della sostituzione delle apparenze, le "assenze" e "differenze" dei grammatologi (106).

Nella prospettiva di Tyler la rinuncia alla rappresentazione e alla mimesi - con tutti i loro correlati concettuali: "oggetto", "fatto", "descrizione", "verifica", "verità" - comporta l'abbandono dell'"ideologia di potenza" connessa alla significazione rappresentazionale a favore dell'avvicinamento a un modello di comunicazione non egemonico in cui il testo etnografico si presenta come strumento di "integrazione e terapia estetica". L'idea generale, dunque, ruota intorno alla sostituzione del lessico cartesiano della rappresentazione - messo sotto accusa secondo uno schema argomentativo che guarda esplicitamente a Rorty, Foucault e Derrida (107) -, con un altro sistema di figure di mediazioni simboliche. Tuttavia, non è ben chiaro come mai una comunicazione fondata, per esempio, sull'"integrazione estetica" dovrebbe risultare più rispettosa dell'alterità e meno soggetta alla distorsione del potere dell'ordinario modello di comunicazione imperniato sul concetto di rappresentazione. Il legame genetico tra capitalismo e scienza moderna non è naturalmente sufficiente per concludere che tutte le forme di comunicazione che guardano in qualche modo al premoderno o a una forma di conoscenza non scientifica risultino automaticamente immuni da rischi egemonici.

Inoltre, si potrebbe osservare che l'attacco degli etnografi postmoderni risulta scarsamente persuasivo anche per un altro motivo. Come tutti i tentativi di relativizzazione di un paradigma epistemologico a un contesto sociale, anche la denuncia delle connivenze occulte tra epistemologia cartesiana e potere politico non riesce a sottrarsi alla censura di ricadere nell'errore che pretende di stigmatizzare: in che modo i critici dell'antropologia rappresentazionalista identificano la correlazione tra epistemologie cartesiane e volontà di potenza? È chiaro che questo frammento di storia sociale delle idee non è affatto comprensibile se non lo si assume in termini strettamente rappresentazionali. Il che, per ipotesi, comporta che esso stesso risponda a una costruzione socialmente determinata. Sembra inevitabile concludere che, come segnalano i critici del rappresentazionalismo più accorti - Derrida, per esempio -, se c'è qualche difetto nel modello rappresentazionale della conoscenza, questo difetto è collocato abbastanza in profondità da renderne difficile l'estirpazione.

Anche al di là di questo impasse epistemologico, è abbastanza evidente che il genere di rinnovamento del discorso antropologico preconizzato da autori come Tyler difficilmente avrebbe potuto realizzarsi in concreto. Certamente, la scrittura etnografica ha conosciuto un periodo di intenso fervore, sperimentando forme di esposizione alternative alla monografia scientifica tradizionale. Si è assistito così, di volta in volta, all'elaborazione di testi in forma dialogica (108), in forma polifonica (109), a una nuova emersione della soggettività del ricercatore e degli informatori con i quali è entrato in contatto (110). Per un verso, questi tentativi hanno sicuramente contribuito a introdurre una percezione diversa del processo di testualizzazione: si è passati, infatti, da un modello in cui le culture venivano "scoperte" dall'antropologo e fissate impersonalmente in un testo, a uno che riconosce molto più apertamente il ruolo dell'interazione concreta fra lo studioso e i nativi. In questo modo, è diventato evidente come ogni singola costruzione culturale sia sempre il risultato di un incontro unico e irripetibile al quale contribuiscono, nella loro soggettività, entrambe le parti dello scambio etnografico.

Per un altro verso, tuttavia, credo che si debba riconoscere come, non solo i tentativi di etnografia dialogica o polifonica non siano riusciti a ripristinare una completa parità tra antropologo e nativi (111), ma che, anche sul versante della riflessione più propriamente teorica, non si sia andati molto al di là delle enunciazioni programmatiche. Attualmente, per esempio, sembra esistere una diffusa consapevolezza che ciò di cui abbiamo più bisogno non sono tanto velleità radicali - sempre necessariamente incompiute - di impermeabilizzazione del discorso antropologico alle logiche del potere, quanto il rinnovamento del vocabolario concettuale dell'antropologia e la critica contestuale di ogni nuova acquisizione. Alla prova dei fatti non è stata la nozione di cultura, con il suo carico di presupposti rappresentazionali e imperialisti a cedere il passo. Quello che si è verificato, invece, in molti testi teorici recenti è stata un'altra, estesa, ristrutturazione del significato di "cultura", pur nella consapevole insoddisfazione per l'eredità che il termine si trascina dietro (112), e un adeguamento del medium concettuale alle nuove esigenze del panorama contemporaneo.

Naturalmente, le riflessioni più recenti nell'ambito della "teoria della cultura" non possono non risentire dello scenario profondamente mutato e ancora in costante evoluzione che gli antropologi di oggi si trovano a fronteggiare. È chiaro che nel contesto di quei fenomeni che spesso si tende sbrigativamente a raggruppare sotto l'etichetta "globalizzazione", l'obsolescenza di un lessico teorico affermatosi in relazione allo studio di comunità umane relativamente isolate nello spazio e invarianti nel tempo, tende a divenire del tutto evidente. Per questo motivo, gli studiosi si sono orientati verso un impiego del termine che, se da un lato continua a preservare le funzioni differenziali tradizionalmente associate al concetto di cultura, dall'altro cerca però di riflettere la percezione profondamente attuale del comportamento dinamico delle identità di gruppo (113).

Archiviata l'immagine geertziana della cultura come testo, più per le sue implicazioni concettuali che per le prerogative di autorità attribuite all'etnografo-ermeneuta, la nozione di cultura ha iniziato a essere associata sempre più stabilmente a concetti di movimento e di trasformazione. In assenza di un'impalcatura teorica stabile - qualcosa che difficilmente si può sperare di ricostituire in epoca postmoderna -, si è ricorsi sempre più di frequente all'impiego di metafore, in funzione suggestiva di processi di metamorfosi e di dislocamento. Se una rassegna esaustiva di questi collegamenti teorici appare di difficile realizzazione, è però abbastanza chiaro contro quali assunti essi siano nel complesso diretti. Il nuovo impiego di "cultura", nel tentativo di tenere dietro alle condizioni attuali di mobilità delle formazioni sociali e delle strutture identitarie, tende a contrapporsi alle connotazioni di staticità spaziale e temporale tradizionalmente possedute dalla nozione antropologica. In questa ottica è possibile classificare le significazioni metaforiche della cultura globalizzata in relazione ai due assi del mutamento spaziale e temporale (114).

In relazione al primo di questi assi potremmo ricordare, naturalmente senza nessuna pretesa di completezza, l'idea di Clifford delle "culture in viaggio" come tentativo di ridefinizione del lessico culturale incentrato sulla "comprensione comparativa" della dimensione della permanenza e di quelle del viaggio e della interazione con l'esterno (115); l'insistenza di alcuni autori - per esempio Arjun Appadurai e Ulf Hannerz - sui concetti di "deterritorializzazione" e "delocalizzazione" della sfera culturale; (116) l'elaborazione, condotta dallo stesso Clifford e da altri, intorno al tema delle "culture diasporiche", vale a dire di quelle culture - per esempio le comunità transnazionali o quelle virtuali - che si perpetuano in assenza di un ancoraggio a un territorio definito (117). Per quanto concerne invece il versante della trasformazione rispetto all'asse temporale sarà sufficiente ricordare il ricorso diffuso all'idea secondo la quale la "linearità" della continuità culturale si frantuma per l'intervento di una serie di fattori di "contaminazione"/"distorsione", riprodotti attraverso le metafore biologiche dell'"ibridazione" e del "meticciato" (118), quella linguistica della "creolizzazione" (119), quelle tecnologico-informatiche della cultura come "articolazione", come "cyborg" e come "connessione" (120).

In tutti questi casi è abbastanza evidente l'obbiettivo comune verso il quale tendono, con sfumature diverse, tutti questi esperimenti di metonimia. L'idea generale è quella del carattere intrinsecamente relazionale delle culture. Le culture come "networks di prospettive", la cui autonomia e i cui confini devono essere intesi come caratteristiche "esistenti in grado variabile" (121), immerse in uno spazio globalizzato - l'"ecumene globale" di Ulf Hannerz - in cui qualsiasi criterio di individuazione sparisce e nel quale le identità consolidate si rivelano per quello che sono: astrazioni dipendenti dall'assunzione di qualche punto di vista parziale. Non solo non esistono "sostanze" culturali, ma non è nemmeno possibile isolare certe costellazioni di simboli e di significati e metterle in corrispondenza con una certa comunità umana. Al contrario, dal momento che il dominio culturale è per natura aperto nei suoi confini spaziali e variabile nel tempo, l'idea differenziale che tradizionalmente presiede all'impiego del lemma "cultura" deve cedere il passo a una comprensione olistica delle dinamiche culturali. In questa cornice teorica il culturale si lascia intuire soprattutto come processualità, come insieme di meccanismi che trasferiscono significati senza che sia possibile ricostituire un contenuto comune sottostante a essi.

Il rischio di questo genere di approcci è, a mio avviso, duplice. Da un lato se intendiamo le diverse metafore proposte - deterritorializzazione, creolizzazione, ibridazione, ecc. - in un senso più debole, vale a dire come allusive a un mutato contesto nel quale l'integrità delle culture tradizionali si frantuma ricombinandosi secondo schemi inediti, allora la validità dei modelli esplicativi proposti dipende da una comprensione precedente della cultura come sostanza. Altrimenti, se, come la maggior parte degli autori sembra più propensa a ritenere, l'idea di culture pure o localizzate è da sempre un'astrazione, imputabile alle convenzioni della disciplina etnografica, e dunque la nozione di cultura non è comprensibile se non in termini relazionali, coinvolgenti il flusso di comunicazioni fra una molteplicità di ambiti spaziali e temporali, diventa poco chiaro quali siano i tratti distintivi del dominio culturale, in che cosa i flussi comunicativi che appartengono a esso si diversificano all'interno dell'insieme di trasmissioni di simboli che in ogni momento ci attraversano. In altre parole, l'ambito della cultura tende a identificarsi con l'attività di manipolazione simbolica; i sistemi di riferimento ereditati, con la consapevole costruzione identitaria (122). Con l'esito, in ultima analisi, di generare contesti culturali così nebulosi e aperti verso l'esterno da annullare la stessa attitudine differenziale che il rinvio alla sfera culturale doveva preservare.

In definitiva se non ci sono molti dubbi che per descrivere la situazione del mondo globalizzato sia necessario trovare delle immagini inedite, che cerchino di restituire la sensazione di fluidità dell'ambiente sociale contemporaneo, resta da capire in che misura esse siano conciliabili con la conservazione delle motivazioni storiche che stanno alla base dell'impiego del concetto di cultura. Come scrive James Clifford,

[p]uò darsi che il concetto di cultura abbia fatto il suo tempo. Forse, sulla scorta di Foucault, dovrebbe essere sostituito da una visione di potenti formazioni discorsive dispiegate globalmente e strategicamente. Tali entità almeno non sarebbero più strettamente legate alle nozioni di unità organica, di continuità tradizionale e di un permanente substrato linguistico e locale (123).

Contrariamente a quanto sembra ritenere lo stesso Clifford, però, può anche darsi che l'abbandono della nozione di cultura segni la fine della possibilità - e magari della stessa necessità - di operare raggruppamenti e distinzioni fra le comunità umane e di tutto quel modo di rapportarsi all'evento della differenza che il ricorso alla cultura ha organizzato. La mia impressione, infatti, è che una teoria del "dispiegamento strategico di formazioni discorsive", quando non presupponga un riferimento a strutture - culturali? - all'interno delle quali tali formazioni si inseriscono, conduca invariabilmente a un esito atomistico: soggetti irrelati che si servono di certi strumenti discorsivi per conseguire i loro obbiettivi strategici. In questo senso l'eclissi della cultura comporterebbe la fine di un certo modo di concepire la differenza, incentrato sulla contrapposizione di identità comunitarie particolari, non individuali ma nemmeno universali.

Forse allora l'obbiettivo di una teoria sociale e di una pratica etnografica più rispondenti alle sfide della contemporaneità richiederà il sacrificio non solo del lessico culturale, quantomeno nelle forme che ci sono più familiari, ma anche di tutto quell'insieme di articolazioni concettuali che si raccolgono intorno a una concezione particolaristica di identità. Per il momento, tuttavia, e nonostante le sperimentazioni di autori come Clifford, una recessione "generalizzata" dal particolarismo sembra ancora abbastanza lontana nel tempo: nel migliore dei casi, si continua a lavorare con un concetto di cultura che è esso stesso un ibrido, segnato da una profonda antinomia tra continuità e trasformazione, tra fedeltà alla sua matrice organicista e particolarista e apertura verso nuovi scenari. Il che significa che questa eredità problematica delle discipline antropologiche è ancora qualcosa con cui dobbiamo fare i conti.

Cultura, relativismo e traduzione

La storia della nozione di cultura nelle scienze sociali del ventesimo secolo può essere vista come la vicenda di una risorsa concettuale, introdotta per garantire una migliore comprensione del fatto della diversità umana, che incomincia gradatamente a generare un problema teorico. All'inizio, l'introduzione del riferimento alla cultura nel settore degli studi antropologici si presenta come un brillante adattamento di un plesso concettuale già esistente a una problematica nuova, quella di una trattazione scientifica della diversità umana. La cultura come spazio della diversità umana. Naturalmente, questa introduzione richiede, dopo una prima fase di assestamento del campo semantico del vocabolo, un'analisi più dettagliata della nozione. Diventa necessario comprendere più precisamente di cosa si sta parlando quando si chiama in causa la cultura. Da qui l'intensificarsi del dibattito intorno allo statuto teorico della cultura, dibattito che raggiunge il suo acme intorno alla metà del secolo, come testimonia la raccolta di definizioni redatta da Kluckhohn e Kroeber nel 1952 (124).

È in questo momento che la cultura inizia a diventare un problema per la teoria antropologica. E non può non diventarlo perché le aspettative di cui la nozione è stata caricata non possono essere soddisfatte. Alla teoria della cultura viene demandato un compito ineseguibile, quello di racchiudere "l'essenza" di una comunità umana. La cultura dovrebbe fornire il corredo fondamentale di un gruppo umano organizzato, in modo da renderne possibile l'identificazione differenziale rispetto ad altre comunità. Ma alla prova dei fatti, non è stato possibile condurre a termine questo progetto se non al prezzo di un'inammissibile ontologizzazione della cultura stessa o della natura umana. Da qui l'apertura della "questione culturale": una costellazione di problemi irrisolti che la teoria antropologica continua a portare con sé.

Cerchiamo di chiarire meglio questo passaggio. Per offrire una teoria della cultura che risponda al duplice compito di esprimere i tratti differenziali di un gruppo umano in rapporto a un insieme di configurazioni culturali universali, è necessario redigere un inventario delle istituzioni culturali e una tassonomia delle forme specifiche che queste istituzioni possono assumere. Questo schema esplicativo, tuttavia, solleva la questione di quale sia l'ontologia del dominio culturale. A questo interrogativo si è cercato di rispondere sostanzialmente in due modi: la prima soluzione consiste nell'ipostatizzare la cultura in quanto aspetto distintivo di una comunità. Se si segue questa strada, il risultato è quello di attribuire alla sfera culturale un livello di realtà distinto e irriducibile. Altrimenti, si può cercare di ridurre la cultura a espressione di caratteristiche più fondamentali della natura umana nelle sue manifestazioni sociali ed ecologiche. Questo programma può essere articolato in maniera da determinare i tratti generali della socialità umana e dei dispositivi di adattamento ambientale in modo da dedurne i corrispondenti tratti culturali. Il dato comune alle due soluzioni consiste nell'idea che i problemi della teoria della cultura siano risolvibili per mezzo di un disciplinamento ontologico dell'elemento culturale e di una definizione precisa dei suoi ambiti.

Il metodo storico boasiano, da una parte, la teoria "scientifica" della cultura di Malinowki, fondata sull'analisi dei bisogni imposti dalla natura, e l'approccio strutturale di Lévi-Strauss, con la sua ingombrante postulazione di uno spirito umano universale, dall'altra, esemplificano perfettamente questi due percorsi possibili. In entrambi i casi, il fatto che questi modelli necessitino per poter funzionare di un impegno ontologico che molti oggi ritengono eccessivo e di un'adesione a una forma di realismo epistemologico difficilmente condivisibile, è la ragione più evidente del riflusso avvenuto nella seconda metà del ventesimo secolo dai tentativi di spiegazione del culturale più marcatamente essenzialisti verso un modo diverso di articolare il concetto di cultura.

Certamente, a produrre questo risultato ha contribuito in maniera determinante anche la circostanza che l'impatto della cultura tenda a rendersi percepibile nel mondo contemporaneo secondo modalità assai differenti da quelle nelle quali si presentava fino a qualche decennio fa. Pochi anni sono stati sufficienti per passare da uno scenario nel quale le differenze culturali si presentavano ancora fortemente localizzate a uno in cui i panorami appaiono decisamente più confusi. In questo senso l'emergenza di un nuovo modo di intendere il culturale ha coinciso con una perdita di interesse per le funzioni differenziali che il riferimento al concetto di cultura poteva ricoprire.

Ma l'esito complessivo di queste trasformazioni si è sommato a un insieme di istanze critiche già presenti nel dibattito antropologico. Dall'attacco di Geertz alla teoria stratigrafica della cultura, all'aperto anticulturalismo degli etnografi postmoderni, fino ai tentativi più recenti di recuperare la presa sulla dimensione culturale attraverso l'impiego sempre più frequente di rappresentazioni metaforiche e allusive e, più in generale, attraverso uno spostamento di interesse dal "che cosa" della cultura alla descrizione dei processi che si verificano nella sfera culturale, le linee di tendenza della discussione sono andate convergendo verso il rifiuto degli eccessi teorici e delle ipostatizzazioni dell'antropologia precedente e in direzione di una liberalizzazione del concetto di cultura. A mutare profondamente, insieme ai contesti della società globale, sono stati anche gli orientamenti epistemologici degli antropologi, passando dalla fascinazione per i metodi delle scienze naturali alla critica dei loro presupposti teorici e politici.

Messa in questi termini - senz'altro eccessivamente schematici -, la storia della riflessione intorno al concetto antropologico di cultura finisce per coincidere con la contrapposizione di due diverse attitudini verso il problema in questione. Da una parte, il paradigma "essenzialista", che consiste nel tentativo di spiegazione secondo una strategia di "diagnosi ontologica": identificazione del dominio culturale o riduzione della cultura all'attivazione di facoltà e di dispositivi più fondamentali. Dall'altra, il paradigma "antiessenzialista", che si accontenta di dissolvere la cultura e le sue manifestazioni in una rete di processi descritti in riferimento allo spazio del mondo globalizzato. In una posizione intermedia fra questi due estremi, l'antropologia interpretativa di Geertz, con la sua insistenza sul ruolo dell'etnografo come interprete dell'alterità e mediatore fra universi differenti, continua a preservare l'aspirazione a un impiego differenziale della nozione di cultura pur avendo dismesso la vocazione ontologizzante degli approcci essenzialisti.

A questo punto occorre riprendere l'interrogativo intorno alla relazione che lega teorie della cultura e modelli teorici del pluralismo. In primo luogo, sembra abbastanza chiaro che il problema si pone in termini differenti per quanto riguarda le teorie essenzialiste e quelle antiessenzialiste. L'idea guida delle teorie essenzialiste, incentrata sulla possibilità di una definizione ontologica del quid che costituisce l'elemento "cultura" suggerisce una possibilità di identificazione tra fattori differenzianti e dati culturali elementari. In effetti, una volta che si assume che la cultura corrisponde a qualcosa di reale - una certa modalità di fare fronte ai bisogni imposti dalla natura umana, un certo modo di operare delle facoltà inconscie, oppure una dimensione specifica dell'essere umano - diventa difficile resistere alla conclusione che essa non determini l'insorgere di una differenza soggettiva. Questa circostanza è evidente, per esempio, sia nel caso della teoria boasiana, in cui la differenza culturale è assunta programmaticamente come differenza primitiva, sulla cui base si organizzano le geometrie del pluralismo, sia in quello dello strutturalismo di Lévi-Strauss, in cui le modalità di funzionamento dello spirito umano, date oggettivamente, presiedono alla genesi della differenza culturale. Tutto ciò comporta che l'interpretazione sostanzialistica della cultura che ha prevalso fino al secondo dopoguerra abbia spesso prodotto esiti analoghi a quelli del relativismo concettuale.

Il discorso assume contorni ben diversi quando si passa a considerare le discussioni più recenti intorno al culturale. In questo caso la desostanzializzazione dell'oggetto "cultura" introduce uno slittamento rispetto alle teorie precedenti. Finché la cultura veniva interpretata come una sostanza l'impegno verso l'individuazione ontologica consentiva che essa fosse assunta come vertice della differenza. Nel momento in cui la cultura diventa un epifenomeno di realtà definitivamente non culturali - formazioni discorsive dispiegate strategicamente, reti di prospettive, flussi di significato -, invece, il peso della gestione della differenza viene trasferito sulle nuove entità introdotte. In questo modo il fatto del pluralismo viene spiegato a partire da una scelta di fattori relativizzanti che non individuano univocamente una certa comunità umana.

Nel complesso, l'adozione di una teoria della cultura essenzialista comporta la riproduzione del modello comunitario, in cui è implicita una deriva verso il relativismo culturale; al contrario, l'approccio antiessenzialista, comporta uno spostamento verso un modello non comunitario che neutralizza l'idea della relatività delle culture. Questo risultato possiede un riflesso immediato per il tema da cui eravamo partiti. Il problema in discussione era quello della possibilità di riduzione, a vari livelli, del pluralismo culturale. A sua volta, questo problema chiama in causa la tesi del relativismo culturale in base alla quale una tale riduzione non è possibile perché ciascuna cultura contiene una modalità unica di conoscenza e di giudizio. Adesso è possibile esprimere una valutazione più accurata del relativismo culturale affermando che la dimensione relativistica della differenza culturale emerge soltanto se si assume una nozione essenzialista, di cultura. Diversamente, nell'ottica delle teorie interpretative e delle teorie postmoderne della cultura, la relatività culturale tende a svanire. Pertanto, a seconda del modo in cui si fa riferimento alla materia culturale, si modificano anche i termini della riflessione intorno al tema dell'universalizzabilità dei diritti. Da questo punto di vista, il fatto che nel campo degli studi antropologici permanga la più grande incertezza su quale sia l'ipotesi teorica più fertile per affrontare le questioni connesse alla sfera della cultura si ripercuote direttamente anche su queste tematiche, introducendo un'ulteriore variabile di cui è necessario tenere conto nel momento in cui si cerca di tracciare un bilancio complessivo della questione (125).


Note

1. Sulla storia del concetto di cultura si possono vedere: C. Kluckhohn, A.L. Kroeber, Culture: A Critical Review of Concepts and Definitions, Papers of the Peabody Museum of American Archaeology and Ethnology, Harvard University, vol. XLVII, n. 1, Peabody Museum, Cambridge, Mass., 1952, trad. it. Il concetto di cultura, Bologna, il Mulino, 1972; G.W. Stocking, Race, Culture, and Evolution: Essays in the History of Anthropology, New York, Free Press, 1969, trad. it. Razza, cultura, evoluzione. Saggi di storia dell'antropologia, Milano, Il Saggiatore, 1985; N. Abbagnano, "Cultura", in N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, UTET, 1971, pp. 203-7;F.M. Barnard, "Culture and Civilization in Modern Times", in P.P. Wiener et al. (a cura di), Dictionary of the History of Ideas, New York, Charles Scribner's Sons, 1973, pp. 613-21; P. Rossi, Cultura e antropologia, Torino, Einaudi, 1983; F. Remotti, "Cultura", in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. II, Roma, Istituto per l'Enciclopedia Italiana, 1992, pp. 641-60; D. Cuche, La notion de culture dans les sciences sociales, Paris, Éditions La Découverte, 2001, trad. it. La nozione di cultura nelle scienze sociali, Bologna, il Mulino, 2003.

2. Cfr. Aulo Gellio, Noctes Atticae, XIII, 17.

3. "[C]ultura animi philosophia est" (Cicerone, Tusculanae disputationes, II, 5, 13). Il recupero della metafora agricola ciceroniana, che prelude al trapasso semantico del vocabolo italiano "cultura" dal senso più antico di "coltivazione dei campi" a quello moderno di "educazione dello spirito" è testimoniato efficacemente da questo passo di Leon Battista Alberti: "[e] se pure il vizio abbonda, vuolsi dirivare il corso delle giovinili volontà non per mezzo il campo dove si semina la virtù, non interrompere gli ordinati virili essercizii, ma da lato concederli qualche loco, in modo che quelle abbino il corso suo senza nuocere alla cultura tua" (L.B. Alberti, I libri della famiglia (1433-7), Torino, Einaudi, 1972, I, 62).

4. I. Kant, Kritik der Urteilskraft (1790), in Kant's gesammelte Schriften, vol. VIII, Berlin und Leipzig, de Gruyter, 1913, trad. it. Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Torino, Einaudi, 1999, § 83 (corsivo dell'autore).

5. I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), in Kant's gesammelte Schriften, vol. VIII, Berlin und Leipzig, de Gruyter, 1923, trad. it. Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, UTET, 1965, pp. 123-39, p. 125.

6. Va detto che il tedesco "Kultur" era un termine abbastanza recente che non possedeva l'ingombrante retroterra classico dell'italiano "cultura" e del francese "culture". Questa circostanza è sicuramente determinante nel passaggio dal concetto classico a quello moderno di cultura. L'influenza di Kant, infatti, è decisiva per la storia del termine francese "culture" che, attraverso questa mediazione acquista il significato oggettivo moderno, entrando temporaneamente in concorrenza con "civilisation", per venire poi soppiantato da quest'ultimo vocabolo (cfr. A. Rey (a cura di), Dictionnaire historique de la langue française, vol. I, Paris, Dictionnaires LE ROBERT, 1998, p. 974). A sua volta la mediazione francese è importante per la diffusione dell'inglese "culture" nel senso moderno. Significativo, per quanto riguarda la storia di "cultura" nella lingua italiana, questo passo di Saverio Bettinelli: "[m]a la letteratura tedesca, come il lusso, non sono in quel fervore come l'italiana, o sia per la lentezza, in ogni cosa, maggiore tra i boreali e per la maggiore vivacità tra i meridionali, o perché la lingua tedesca non è ancora del tutto ripulita e usata nei libri, oppure, il che credo più vero, perché le arti, le lettere, e la coltura sono in Italia come in clima nativo e germogliano da per tutto e vivono anche nell'abbandono di premi e di mecenati" (S. Bettinelli, Lettere inglesi (1766), in E. Bonora (a cura di), Illuministi italiani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, tomo II, pp. 685-789, p. 699).

7. J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784-91), in J.G. Herder, Sämtliche Werke, voll. XIII-IV, Berlin, Weidmannsche Verlagsgesellschaft, 1887-1909, trad. it. Idee per la filosofia della storia dell'umanità, Bologna, Zanichelli, 1971, p. 215 (corsivo dell'autore).

8. Secondo Norbert Elias, la torsione semantica verso un'accezione particolaristica di "cultura", in contrapposizione con il significato universalistico di matrice illuministica prevalente in Francia, è determinata anche dalla situazione politica della Germania di fine settecento, ancora lontana, a differenza della Francia, dall'unificazione e di conseguenza protesa verso l'affermazione della propria identità specifica. A partire da qui il dualismo franco-tedesco si rifletterà nelle antitesi civilisation/Kultur, universalismo/particolarismo. Cfr. N. Elias, Über den Prozess der Zivilisation. I: Wandlungen des Verhaltens in den Westlichen Oberschichten des Abendlandes, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1969, trad. it. La civiltà delle buone maniere. La trasformazione dei costumi nella civiltà aristocratica occidentale, Bologna, il Mulino, 1982, Capp. 1-2.

9. Già in Humboldt, tuttavia, che scrive nella prima metà del diciannovesimo secolo, gli esiti relativistici appaiono assai più marcati. La teoria di Humboldt appare tanto più interessante in quanto, negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione delle tre Critiche tenta una reinterpretazione linguistica del trascendentale kantiano approdando a esiti apertamente relativistici: "ogni lingua traccia intorno al popolo cui appartiene un cerchio da cui è possibile uscire solo passando, nel medesimo istante, nel cerchio di un'altra lingua. L'apprendimento di una lingua straniera dovrebbe essere pertanto l'acquisizione di una nuova prospettiva nella visione del mondo fino allora vigente e lo è in effetti in un certo grado, dato che ogni lingua contiene l'intera trama dei concetti e la maniera di rappresentazione di una parte dell'umanità" (W. von Humboldt, Über die Verschiedenheit des Menschlichen Sprachbaues und ihren Einfluß auf die geistige Entwicklung des Menschengeschlechts (1836), in W. von Humboldt, Werke, a cura di A. Flitner, K. Giel, vol. III, Schriften zur Sprachphilosophie, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1963, trad. it. La diversità delle lingue, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 47). Non potendo affrontare la materia in questa sede mi limito a rinviare alle osservazioni di Jürgen Habermas in "Hermeneutische versus analytische Philosophie. Zwei Spielarten der linguistischen Wende", in J. Habermas, Wahrheit und Rechtfertigung. Philosophische Aufsätze, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1999, trad. it. "Filosofia ermeneutica e filosofia analitica. Due varietà complementari della svolta linguistica", in Verità e giustificazione. Saggi filosofici, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 61-95. Vedi anche W. von Humboldt, Scritti filosofici, a cura di G. Moretto, F. Tessitore, Torino, UTET, 2004.

10. G. Klemm, Allgemeine Culturgeschichte der Menschheit, Leipzig, Teubner, 1843-52.

11. Si veda, per esempio, il modo in cui Hegel impiega il termine "cultura", strettamente collegato con l'idea di un svolgimento dello Spirito universale nella storia. Cfr. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, a cura di G. Lasson, Leipzig, Meiner, 1917-20, trad. it. Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, La Nuova Italia, 1967-8.

12. E.B. Tylor, Primitive Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, London, Murray, 1871, trad. it. del Cap. 1, "Alle origini della cultura", in P. Rossi, Il concetto di cultura, Torino, Einaudi, 1970, pp. 7-29, p. 7. Vedi anche G.W. Stocking, "Matthew Arnold, E.B. Tylor and the Uses of Invention", American Anthropologist, 65 (1963), pp. 783-99, ristampato in G.W. Stocking, Race, Culture, and Evolution, cit., trad. it. "Matthew Arnold, E.B. Tylor e gli usi di una invenzione", in Razza, cultura, evoluzione, cit., pp. 117-40.

13. M. de Montaigne, Essais, I, 31. Per un'interpretazione vedi T. Todorov, Nous et les autres. La réflexion française sur la diversité humaine, Paris, Seuil, 1989, trad. it. Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Torino, Einaudi, 1991, pp. 40-55.

14. U. Fabietti, Antropologia culturale. L'esperienza e l'interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 140.

15. F. Remotti, "Cultura", cit., p. 644.

16. Vedi: S. Burrows, Evolution and Society, Cambridge, Cambridge University Press, 1966; R. Williams, Culture and Society: 1780-1950, New York, Harper and Row, 1966, trad. it. Cultura e rivoluzione industriale. Inghilterra 1780-1950, Torino, Einaudi, 1972;U. Fabietti, "Introduzione", in U. Fabietti (a cura di), Alle origini dell'antropologia, Torino, Boringhieri, 1980, pp. 9-49. Altri autori evidenziano altri contesti storici. Per esempio Christopher Herbert sottolinea che l'idea di cultura "appare sulla scena come elemento centrale di una lunga e ben strutturata tradizione inglese di critica sociale che si opponeva agli effetti disgreganti e degradanti dell'industrializzazione. A partire da Burke, ciò che gli autori incominciarono a chiamare 'cultura' era un ideale di armoniosa perfettibilità individuale e collettiva" (C. Herbert, Culture and Anomie: Ethnographic Imagination in the Nineteenth Century, Chicago, The University of Chicago Press, 1991, p. 22). Roger Keesing invece sostiene che l'idea di identità culturale "ha la sua origine nel nazionalismo culturale europeo del diciannovesimo secolo, che si espresse sotto forma di un'intensa ricerca delle radici etniche e delle origini popolari, della primordialità e delle tradizioni culturali" (R.M. Keesing, "Theories of Culture Revisited", in R. Borofsky (a cura di), Assessing Cultural Anthropology, New York, McGraw-Hill, 1994, trad. it. "Le teorie della cultura rivisitate", in R. Borofsky (a cura di), L'antropologia culturale oggi, Roma, Meltemi, 2000, pp. 367-77, p. 374).

17. "L'antropologia è storia nella misura in cui si costituita in Occidente, a partire dalla fine del quindicesimo secolo, come discorso che parla degli altri. È dunque una modalità particolare e moderna della relazione storica che l'Occidente, da allora in poi intrattiene con gli altri" (M. Kilani, L'invention de l'autre, Lausanne, Payot, 1994, trad. it. L'invenzione dell'altro, Bari, Dedalo, 1997, p. 267).

18. Cfr. G.W. Stocking, "Matthew Arnold, E.B. Tylor e gli usi di una invenzione", cit. in cui viene sottolineata l'influenza sulla definizione tyloriana di cultura della coeva riflessione elaborata da Matthew Arnold in Cultura e anarchia (1869).

19. Su Boas vedi: M.J. Herskovits, Franz Boas: The Science of the Man in the Making, New York, Charles Scribner's Sons, 1953; G.W. Stocking (a cura di), Volksgeist As Method and Ethics: Essays on Boasian Ethnography and the German Anthropological Tradition, History of Anthropology, vol. VIII, Madison, The University of Wisconsin Press, 1996.

20. Vedi, F. Boas, "The Limitations of the Comparative Method in Anthropology" (1896), in F. Boas, Race, Language and Culture, New York, Macmillan, 1940, pp. 270-80.

21. F. Boas, The Mind of Primitive Man, New York, Macmillan, 1938, trad. it. L'uomo primitivo, Roma-Bari, Laterza, 1972, Capp. 10 e 11.

22. Ibidem, p. 131.

23. Ibidem, p. 172 (il corsivo è mio).

24. Nella formulazione datane dal linguista Benjamin Whorf attorno alla metà del secolo scorso, il principio di relatività linguistica asserisce che l'esperienza sensibile della realtà esterna si presenta al soggetto come un flusso caleidoscopico di impressioni che viene ritagliato e organizzato in concetti secondo le linee tracciate dalla lingua madre. Ne deriva che le modalità in cui ciascun individuo descrive il mondo attorno a sé sono condizionate dall'appartenenza linguistica. Vedi B.L. Whorf, "An American Indian Model of the Universe", in B.L. Whorf, Language, Thought, and Reality: Selected Writings of Benjamin Lee Whorf, a cura di J.B. Carroll, MIT Press, Cambridge, Mass., 1956, trad. it. "Un modello d'universo degli Indiani d'America", in B.L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, Boringhieri, 1970, pp. 41-9, p. 41. Vedi anche A. Duranti, Linguistic Anthropology, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, trad. it. Antropologia del linguaggio, Roma, Meltemi, 2000, pp. 56-63.

25. A. Kroeber, "The Superorganic", American Anthropologist, 19 (1917), pp. 163-213, ristampato in A. Kroeber, The Nature of Culture, Chicago, The University of Chicago Press, 1952, trad. it. "Il superorganico", in La natura della cultura, Bologna, il Mulino, 1974, pp. 39-92.

26. Su Malinowski vedi: R. Firth (a cura di), Man and Culture: An Evaluation of the Work of Bronislaw Malinoski, London, Routledge, 1957.

27. B. Malinowski, A Scientific Theory of Culture, Chapel Hill, University of North Caroline Press, 1944, trad. it. Teoria scientifica della cultura e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 46.

28. Ibidem, p. 82.

29. Ibidem, p. 45.

30. B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific: An Account of Native Enterprise and Adventure in the Archipelagoes of Melanesian New Guinea, New York, Dutton and Company, 1922, trad. it. Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, Roma, Newton Compton, 1973, p. 49.

31. Ibidem, p. 24.

32. Per quanto nella moderna tradizione antropologica l'espressione "osservazione partecipante" sia diventata quasi un sinonimo del metodo etnografico, va ricordato che prima di Malinowski non esisteva una chiara consapevolezza dell'importanza della ricerca sul campo svolta direttamente dall'antropologo. Lo stesso Boas, a eccezione di alcuni suoi viaggi in gioventù, si limitò sempre a brevi visite presso le popolazioni che stava studiando, servendosi per il resto di informazioni raccolte da nativi appositamente istruiti.

33. Vedi in particolare: R. Benedict, Patterns of Culture, Boston, Houghton Mifflin, 1934, trad. it. Modelli di cultura, Milano, Feltrinelli, 1960; M.J. Herskovits, Cultural Relativism: Perspectives in Cultural Pluralism, New York, Random House, 1972.

34. Su Lévi-Strauss vedi: S. Moravia, La ragione nascosta. Scienza e filosofia nel pensiero di Claude Lévi-Strauss, Firenze, Sansoni, 1969; P. Ricoeur, Le conflit des interprétations, Paris, Seuil, 1969, trad. it. Il conflitto delle interpretazioni, Milano, Jaca Book, 1977, Parte prima: "Ermeneutica e strutturalismo"; E. Leach, Lévi-Strauss, London, Fontana, 1970; F. Remotti, Lévi-Strauss. Struttura e storia, Torino, Einaudi, 1971; S. Nannini, Il pensiero simbolico. Saggio su Lévi-Strauss, Bologna, il Mulino, 1981; R. Cipriani, Lévi-Strauss. Una introduzione, Roma, Armando, 1988; T. Todorov, Noi e gli altri, cit., pp. 73-104; M. Hénaff, Claude Lévi-Strauss, Paris, Belfond, 1991; L. Scubla, Lire Lévi-Strauss: le déploiement d'une intuition, Paris, Odile Jacob, 1998; E. Comba, Introduzione a Lévi-Strauss, Roma-Bari, Laterza, 2000.

35. C. Lévi-Strauss, "Tre conversazioni con Claude Lévi-Strauss", in P. Caruso (a cura di), Conversazioni con Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault, Jacques Lacan, Milano, Mursia, 1969, pp. 23-90, p. 37.

36. C. Lévi-Strauss, Les structures élémentaires de la parenté, Paris, PUF, 1949, nuova ed. La Haye-Paris, Mouton, 1967, trad. it. Le strutture elementari della parentela, Milano, Feltrinelli, 1969.

37. M. Mauss, "Essai sur le don" (1924), in M. Mauss, Sociologie e anthropologie, Paris, PUF, 1950, trad. it. "Saggio sul dono", in M. Mauss, Teoria della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965, pp. 155-292.

38. Ossia dove la discendenza viene trasmessa di padre in figlio unicamente lungo la linea maschile e dove la donna, dopo il matrimonio, si reca a vivere presso la famiglia dello sposo.

39. M. Hénaff, Claude Lévi-Strauss, cit., p. 57.

40. "Ovunque si manifesti la regola, noi sappiamo con certezza di essere sul piano della cultura. Simmetricamente, è facile riconoscere nell'universalità il criterio della natura: in effetti tutto ciò che è costante presso tutti gli uomini sfugge di necessità al dominio dei costumi, delle tecniche e delle istituzioni che differenziano e oppongono i gruppi" (C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, cit., p. 46).

41. S. Nannini, Il pensiero simbolico, cit., pp. 135-6.

42. C. Lévi-Strauss, "Language and the Analysis of Social Laws", American Anthropologist, 53 (1951), pp. 155-63, ristampato in C. Lévi-Strauss,Anthropologie structurale, Paris, Plon, 1958, trad. it. "Linguaggio e società", in Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1966, pp. 70-82, p. 77.

43. Sul rapporto di Lévi-Strauss con Freud vedi S. Nannini, Il pensiero simbolico, cit., pp. 151-61.

44. C. Lévi-Strauss, "Histoire et ethnologie", Revue de Métaphysique et de Morale, 54 (1949), pp. 363-91, ristampato in C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, cit., trad. it. "Storia ed etnologia", in Antropologia strutturale, cit., pp. 13-41, p. 33.

45. E. Comba, Introduzione a Lévi-Strauss, cit. p. 73.

46. P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 66.

47. C. Lévi-Strauss, Tre conversazioni con Claude Lévi-Strauss, cit., pp. 28-9.

48. C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Paris, Plon, 1962, trad. it. Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964; Id., Mythologiques I-IV: Le cru et le cuit, Du miel aux cendres, L'origine des manières de table, L'homme nu, Paris, Plon, 1964-70, trad. it. Mitologica: Il crudo e il cotto, Dal miele alle ceneri, L'origine delle buone maniere a tavola, L'uomo nudo, Milano, Il Saggiatore, 1966-74.

49. M. Hénaff, Claude Lévi-Strauss, cit., p. 153.

50. Il concetto di mitema è chiaramente modellato su quello di fonema, che indica, in linguistica, le cellule sonore minime dalla cui combinazione derivano i vocaboli di una lingua.

51. Vedi soprattutto C. Lévi-Strauss, "The Structural Study of Myth", Journal of American Folklore, 270 (1955), pp. 428-44, ristampato in C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, cit., trad. it. "La struttura dei miti", in Antropologia strutturale, cit., pp. 231-61. Nel linguaggio dell'algebra moderna un gruppo è un insieme G, chiuso rispetto a un'operazione associativa - qui indicata con il simbolo ∗ -, che soddisfa le seguenti proprietà: 1) esiste un elemento neutro, ovvero un elemento eG per il quale vale xe = ex = x, per tutti gli elementi xG; 2) ogni xG possiede un inverso, ovvero per ogni xG esiste un elemento x-1 tale che xx-1 = x-1x = e. Per esempio, l'insieme dei numeri interi, positivi e negativi costituisce un gruppo rispetto all'addizione, avente lo zero come elemento neutro, l'insieme dei numeri razionali costituisce un gruppo rispetto all'addizione e l'insieme dei numeri razionali meno lo zero costituisce un gruppo rispetto alla moltiplicazione, con elementi neutri, rispettivamente, zero e uno. In relazione all'analisi dei miti, il riferimento al concetto matematico di gruppo vuole evidenziare soprattutto il fatto che, a partire da una certa formulazione di un racconto mitico, le varianti di questo racconto sono ottenibili per mezzo di operazioni di trasformazione del racconto di partenza e combinazione con altri racconti.

52. S. Nannini, Il pensiero simbolico, cit., pp. 288-9.

53. C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, cit., p. 54.

54. C. Lévi-Strauss, "Introduction à l'ouvre de Marcel Mauss", in M. Mauss, Sociologie et anthropologie, cit., trad. it. "Introduzione all'opera di Marcel Mauss", in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, cit., pp. XV-LIV, p. XLIV.

55. C. Lévi-Strauss, Race et histoire, Paris, Unesco, 1952, ristampato in C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale deux, Paris, Plon, 1973, trad. it. "Razza e storia", in Antropologia strutturale due, Milano, Il Saggiatore, 1978, pp. 366-408.

56. Ibidem, p. 378.

57. È importante sottolineare che il problema della dialettica tra realismo e relativismo non è esclusivo del genere di riduzionismo praticato da Lévi-Strauss ma caratterizza tutti gli approcci riduzionisti. Per esempio - ma l'elenco potrebbe essere sicuramente più lungo, dalle teorie riduzioniste di impronta biologica, etologia umana e sociobiologia, al materialismo culturale -, un'ambivalenza analoga tra elementi universalisti e relativisti si riscontra anche nel caso della cosiddetta "antropologia cognitiva". Secondo questa teoria gli esseri umani conoscono e costruiscono il mondo per mezzo di categorie mentali innate ma variabili in relazione alla particolarità delle esperienze che ciascun gruppo si trova ad affrontare. La cultura, di conseguenza, è un fenomeno mentale: essa consiste "di diversi ambiti semantici organizzati attorno a numerosi tratti di significato. Non esistono due culture che condividono gli stessi raggruppamenti semantici, né gli stessi tratti di significato, tanto meno che condividono i modi di organizzare questi elementi" (S.A. Tyler, "Introduction", in S.A. Tyler (a cura di), Cognitive Anthropology, New York, Holt Rinehart and Winston, 1969, pp. 1-23, p. 3). È abbastanza chiaro, credo, come anche in questo caso tenda a instaurarsi un dualismo tra individuazione di categorie fondamentali e teorizzazione del pluralismo. Vedi anche: W.H. Goodenough (a cura di), Explorations in Cultural Anthropology, New York, McGraw-Hill, 1964; W.H. Goodenough, Culture, Language, and Society, Reading, Mass., Addison-Wesley, 1971.

58. Si ricordi per esempio l'insistenza dell'antropologo francese sulla necessità per gli etnologi di ispirarsi al lavoro "scientifico" della linguistica e della fonologia.

59. C. Geertz, The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books, 1973, trad. it. parziale Interpretazione di culture, Bologna, il Mulino, 1987. Su Geertz vedi: R. Malighetti, Il filosofo e il confessore. Antropologia ed ermeneutica in Clifford Geertz, Milano, Unicopli, 1991; F. Inglis, Clifford Geertz: Culture, Custom and Ethics, Cambridge, Polity Press, 2000.

60. Cfr. C. Geertz, The Religion of Giava, Glencoe, Free Press, 1960; Id., Agricultural Involution: The Processes of Ecological Change in Indonesia, Berkeley, The University of California Press, 1963; Id., Peddlers and Princes, Chicago, The University of Chicago Press, 1963; Id., The Social History of an Indonesian Town, Cambridge, Mass., MIT Press, 1965; Id., Islam Observed: Religious Development in Morocco and Indonesia, New Haven, Yale University Press, 1968.

61. C. Geertz, "Thick Description: Toward an Interpretive Theory of Culture", in C. Geertz, The Interpretation of Cultures, cit., trad. it. "Verso una teoria interpretativa della cultura", in Interpretazione di culture, cit., pp. 9-42, p. 11 (il corsivo è mio).

62. Ne Il pensiero selvaggio, per esempio, Lévi-Strauss scrive: "[t]uttavia, non sarebbe sufficiente aver riassorbito alcune umanità particolari in un'umanità generale; questa prima operazione ne promuove altre [...] che incombono alle scienze esatte e naturali: reintegrare la cultura nella natura e, in sostanza, la vita nell'insieme delle sue condizioni fisico-chimiche" (C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, cit., p. 269). E in una nota si spinge fino a sostenere: "gli enunciati della matematica riflettono almeno il libero funzionamento dello spirito, cioè l'attività delle cellule della corteccia cerebrale, relativamente svincolate da ogni costrizione esterna, e obbedienti solo alle loro leggi" (Ibidem, p. 291, nota 2).

63. C. Geertz, "The Impact of the Concept of Culture on the Concept of Man", in J.R. Platt (a cura di), New Views on the Nature of Man, Chicago, The University of Chicago Press, 1966, pp. 93-118, ristampato in C. Geertz, The Interpretation of Cultures, cit., trad. it. "L'impatto del concetto di cultura sul concetto di uomo", in Interpretazione di culture, cit., pp. 45-70, p. 50.

64. Ibidem, p. 52.

65. Ibidem, pp. 52-3.

66. Ibidem, p. 56.

67. Più avanti, Geertz fornisce un altro motivo di insoddisfazione per la teoria stratigrafica. Si tratta del fatto che l'idea che la cultura sopravvenga nel suo complesso sulla costituzione psicofisica dell'uomo contraddice i dati che la paleoantropologia ci fornisce riguardo alle scansioni temporali dell'evoluzione umana. Più precisamente, mentre la teoria stratigrafica assume l'ipotesi che il progresso culturale si sia innescato quando quello biologico era già compiuto, le ricostruzioni più accreditate del processo di ominazione indicano che entrambi i fenomeni si svilupparono in larga misura di pari passo. Questo sembra suggerire che tra modello culturale, corpo e cervello si sia creato "un effettivo sistema di retroazione in cui ciascuno foggiava il progresso dell'altro" (C. Geertz, "L'impatto del concetto di cultura sul concetto di uomo", cit., p. 62). Vedi anche C. Geertz, "The Growth of Culture and the Evolution of Mind", in J.M. Scher (a cura di), Theories of the Mind, New York, Free Press, 1962, pp. 713-740, ristampato in C. Geertz, The Interpretation of Cultures, cit., trad. it. "Sviluppo della cultura ed evoluzione della mente", in Interpretazione di culture, cit., pp. 71-107.

68. C. Geertz, "L'impatto del concetto di cultura sul concetto di uomo", cit., p. 56.

69. C. Geertz, "Verso una teoria interpretativa della cultura", cit., p. 12 (corsivo dell'autore).

70. La scelta terminologica non è comunque priva di ambiguità, dal momento che "thick" nell'uso colloquiale significa anche "ottuso", nel senso di qualcosa che non arriva la fondo delle cose. Questa ambiguità non è però forse del tutto involontaria se si pensa che l'antitesi tra thick e thin possa tradurre il dualismo fra le descrizioni thin - acute ma, proprio per questo motivo, meno interessanti - delle hard sciences e le thick descriptions - meno rigorose ma più eloquenti - di pertinenza delle scienze umane.

71. C. Geertz, "Verso una teoria interpretativa della cultura", cit., p. 22.

72. Ibidem, p. 31.

73. Ibidem, p. 42.

74. Di Davidson vedi soprattutto i saggi contenuti in D. Davidson, Inquiries into Truth and Interpretation, Oxford, Oxford University Press, 1984, trad. it. Verità e interpretazione, Bologna, il Mulino, 1994.

75. C. Geertz, "'From the Native's Point of View': On the Nature of Anthropological Understanding", Bulletin of American Academy of Arts and Sciences, 28 (1974), pp. 26-45, ristampato in C. Geertz, Local Knowledge: Further Essays in Interpretive Anthropology, New York, Basic Books, 1983, trad. it. "'Dal punto di vista dei nativi': sulla natura della comprensione antropologica", in Antropologia interpretativa, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 71-90.

76. Ibidem, p. 72.

77. Ibidem, p. 73.

78. Ibidem.

79. Ibidem.

80. Ibidem.

81. C. Geertz, "Introduction", in C. Geertz, Local Knowledge, cit., trad. it. "Introduzione", in Antropologia interpretativa, cit., pp. 5-22, p. 14.

82. C. Geertz, "Verso una teoria interpretativa della cultura", cit., pp. 23ss. Una delle preoccupazioni di Geertz, a questo riguardo, è quella di sostenere che il carattere fittizio dei resoconti antropologici non sia in concorrenza con la fedeltà al modo reale: la coerenza narrativa, presupposto cardinale della narrazione antropologica, non fa venir meno l'esigenza che quei resoconti siano comunque veri, nel senso corrispondentista di vero: aderenti a una realtà "altra" rispetto al discorso antropologico. Questa preoccupazione è sicuramente comprensibile ma appare poco in accordo con il tenore complessivo del discorso, perché se tutta l'analisi culturale è interpretazione, dove dobbiamo trovare i punti di riferimento per saggiarne la corrispondenza con la realtà interpretata?

83. C. Geertz, "L'impatto del concetto di cultura sul concetto di uomo", cit., p. 58.

84. Ibidem, pp. 63-4.

85. Cfr. A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Bonn, Junker und Dünnhaupt, 1950, trad. it. L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1983.

86. C. Geertz, "Deep Play: Notes on the Balinese Cockfight", Daedalus, 101 (1971), pp. 1-38, ristampato in C. Geertz, The Interpretation of Cultures, cit., trad. it. "Il 'gioco profondo': note sul combattimento di galli a Bali", in Interpretazione di culture, cit., pp. 383-436, p. 436.

87. C. Geertz, "Verso una teoria interpretativa della cultura", cit., p. 17. La concezione geertziana dell'interpretazione è influenzata dalla teoria ermeneutica di Paul Ricoeur. Vedi in particolare i saggi contenuti in P. Ricoeur, Du texte à l'action. Essais d'herméneutique II, Paris, Seuil, 1986, trad. it. Dal testo all'azione, Milano, Jaca Book, 1989. Per una critica vedi: J. Clifford, "On Ethnographic Authority", Representations, 1 (1983), pp. 118-46, ristampato in J. Clifford, The Predicament of Culture:Twentieth-Century Ethnography, Literature, and Art, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1988, trad. it. "Sull'autorità etnografica", in I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Torino, Boringhieri, 1993, pp. 35-72, pp. 54ss.; V. Crapanzano, "Hermes' Dilemma: The Masking of Subversion in Ethnographic Description", in J. Clifford, G.E. Marcus (a cura di), Writing Culture: The Poetics and Politics of Ethnography, Berkeley, The University of California Press, 1986, trad. it. "Il dilemma di Ermes: l'occultamento della sovversione nella descrizione etnografica", in Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Roma, Meltemi, 1997, pp. 89-118; M. Martin, "Geertz and the Interpretive Approach in Anthropology", Synthese, 97 (1993), pp. 269-86.

88. Anche quando in alcuni scritti più recenti critica la concezione lévistraussiana delle culture come "monadi semantiche", separate in maniera rigida le une dalle altre, Geertz si limita a contrapporre a questa immagine la constatazione che adesso i mondi altri "non sono più realmente altrove, ma alternative per noi, quasi nelle nostre vicinanze" (C. Geertz, "The Uses of Diversity", in S. McMurrin (a cura di), The Tanner Lectures on Human Values, vol. VII, Salt Lake City, The University of Utah Press, 1986, pp. 253-75, ristampato in C. Geertz, Available Light: Anthropological Reflections on Philosophical Topics, Princeton, Princeton University Press, 2000, trad. it. "Gli usi della diversità", in Antropologia e filosofia. Frammenti di una biografia intellettuale, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 85-106, p. 101, corsivo dell'autore): la dissoluzione dei confini spaziali, in altre parole, non fa venire meno la possibilità di distinguere tra mondi differenti, rende solo più delicata la relazione con essi.

89. La locuzione "etnografia postmoderna" è stata utilizzata in particolare da Stephen Tyler - non senza sostanziali ambiguità - per indicare le nuove tendenze in etnografia, profondamente critiche dei modelli codificati dalla tradizione, affermatasi a partire dalla seconda metà degli anni settanta. Cfr. S.A. Tyler, "Post-Modern Ethnography: From Document of the Occult to Occult Document", in J. Clifford, G.E. Marcus (a cura di), Writing Culture, cit., trad. it. "L'etnografia postmoderna: dal documento occulto al documento dell'occulto", in Scrivere le culture, cit., pp. 175-97; vedi anche P. Rabinow, "Representations are Social Facts: Modernity and Post-Modernity in Anthropology", in J. Clifford, G.E. Marcus (a cura di), Writing Culture, cit., trad. it. "Le rappresentazioni sono fatti sociali. Modernità e postmodernità in antropologia", in Scrivere le culture, cit., pp. 315-48.

90. J. Clifford, "Introduction: Partial Truths", in J. Clifford, G.E. Marcus (a cura di), Writing Culture, cit., trad. it. "Introduzione: verità parziali", in Scrivere le culture, cit., pp. 25-58.

91. In tutta la raccolta Geertz sembra campeggiare sullo sfondo come bersaglio polemico, esplicitamente o implicitamente, in quanto figura di riferimento dell'antropologia statunitense.

92. C. Geertz, "Introduzione", cit., p. 14

93. C. Geertz, "Local Knowledge: Fact and Law in Comparative Perspective", in C. Geertz, Local Knowledge, cit., trad. it. "Conoscenza locale: fatto e diritto in prospettiva comparata", in Antropologia interpretativa, cit., pp. 209-99, p. 278.

94. Geertz lo dice espressamente: cfr. C. Geertz, "Verso una teoria interpretativa della cultura", cit., p. 23.

95. J. Clifford, "Introduzione: verità parziali", cit., p. 31 (corsivo dell'autore).

96. Ibidem, p. 27 (corsivo dell'autore).

97. Ibidem, p. 32.

98. L'antropologia come "sedimentazione intellettuale interna alla storia del colonialismo". È un'espressione di George Marcus. Cfr. G.A. Marcus, "After the Critique of Ethnography: Faith, Hope, and Charity, But the Greatest of These Is Charity", in R. Borofsky (a cura di), Assessing Cultural Anthropology, cit., trad. it. "Dopo la critica dell'etnografia: la fede, la speranza e la carità, ma di tutte più grande è la carità", in R. Borofsky (a cura di), L'antropologia culturale oggi, cit., pp. 64-77, p. 67.

99. Sul tema vedi fra gli altri: M. Leiris, "L'ethnographe devant le colonialisme", Les Temps Modernes, 58 (1950), ristampato in M. Leiris, Brisées, Paris, Mercure de France, 1966, pp. 125-45; D. Hymes (a cura di), Reinventing Anthropology, New York, Random House, 1969, trad. it. Antropologia radicale, Milano, Bompiani, 1979; G. Leclerc, Anthropologie et colonialisme, Paris, Fayard, 1972, trad. it. Antropologia e colonialismo, Milano, Jaca Book, 1973; T. Asad (a cura di), Anthropology and the Colonial Encounter, London, Ithaca Press, 1973; J. Copans, Anthropologie et impérialisme, Paris, Maspéro, 1975; E. Said, Orientalism, New York, Pantheon, 1978, trad. it. Orientalismo, Milano, Feltrinelli, 1999; J. Clifford, "Power and Dialogue in Ethnography: Marcel Griaule's Initiation", in G.W. Stocking (a cura di), Observers Observed: Essays on Ethnographic Fieldwork, History of Anthropology, vol. I, Madison, The University of Winsconsin Press, 1983, pp. 121-56, ristampato in J. Clifford, The Predicament of Culture, cit., trad. it. "Potere e dialogo in etnografia: l'iniziazione di Marcel Griaule", in I frutti puri impazziscono, cit., pp. 73-114; N. Thomas, Colonialism's Culture: Anthropology, Travel and Government, Princeton, Princeton University Press, 1994; J. van Bremen, A. Shimizu (a cura di), Anthropology and Colonialism in Asia and Oceania, Richmond, Curzon, 1998; P. Wolfe, Settler Colonialism and the Transformation of Anthropology: The Politics and Poetics of an Ethnographic Event, London, Cassell, 1999.

100. Nelle parole di Richard Fardon, "le condizioni politiche ed economiche erano la premessa perché gli altri venissero costruiti in termini specifici e come tipi particolari di oggetti di conoscenza" (R. Fardon, "General Introduction. Localizing Strategies: The Regionalization of Ethnographic Accounts", in R. Fardon (a cura di), Localizing Strategies: Regional Traditions of Ethnographic Writing, Washington, Smithsonian Institution Press, 1990, pp. 1-35, p. 6).

101. Vedi R. Fardon, "General Introduction", cit. Vedi anche A. Gupta, J. Ferguson, "Discipline and Practice: 'The Field' as Site, Method, and Location in Anthropology", in A. Gupta, J. Ferguson (a cura di), Anthropological Locations: Boundaries and Grounds of a Field Science, Berkeley, The University of California Press, 1997, pp. 1-29.

102. J. Fabian, Time and the Other: How Anthropology Makes Its Object, New York, Columbia University Press, 1983, trad. it. Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, Napoli, L'Ancora, 2000. Vedi anche M. Augé, Pour une anthropologie des mondes contemporains, Paris, Aubier, 1994, trad. it. Storie del presente. Per un'antropologia dei mondi contemporanei, Il Saggiatore, Milano, 1997, Cap. 3.

103. Sulla relazione tra etnografia e letteratura di viaggio vedi: M.L. Pratt, "Fieldwork in Common Placet", in J. Clifford, G.E. Marcus (a cura di), Writing Culture, cit., trad. it. "Luoghi comuni della ricerca sul campo", in Scrivere le culture, cit., pp. 59-88; Id., Imperial Eyes: Travel Writing and Transculturation, London, Routledge, 1992; J. Clifford, "Spatial Practices: Fieldwork, Travel, and the Disciplining of Anthropology", in A. Gupta, J. Ferguson (a cura di), Anthropological Locations, cit., pp. 185-222, ristampato in J. Clifford, Routes: Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1997, trad. it. "Pratiche spaziali: il lavoro sul campo, il viaggio e la definizione dell'antropologia come disciplina", in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Torino, Boringhieri, 1999, pp. 70-121.

104. Sul tema si dovrebbero ricordare almeno i fondamentali saggi di James Clifford, "Sull'autorità etnografica", cit. e "On Ethnographic Allegory", in J. Clifford, G.E. Marcus (a cura di), Writing Culture, cit., trad. it. "Sull'allegoria etnografica", in Scrivere le culture, cit., pp. 145-74.

105. Questa posizione è stata espressa in modo provocatorio da Roy Wagner e da James Boon attraverso i due slogan dell'"invenzione della cultura" e dell'"esagerazione della cultura": cfr. R. Wagner, The Invention of Culture, Chicago, The University of Chicago Press, 1980, trad. it. L'invenzione della cultura, Milano, Mursia, 1992; J. Boon, Other Tribes, Other Scribes: Symbolic Anthropology in the Comparative Study of Cultures, Histories, Religions, and Texts, Cambridge, Cambridge University Press, 1982.

106. S.A. Tyler, "L'etnografia postmoderna", cit., p. 184.

107. Queste filiazioni teoriche sono particolarmente evidenti in P. Rabinow, "Le rappresentazioni sono fatti sociali", cit.

108. Tra gli esempi più famosi di questo stile etnografico si possono ricordare: C. Lacoste-Dujardin, Dialogue des femmes en ethnologie, Paris, Maspéro, 1977; J.P. Dumont, The Headman and I, Austin, The University of Texas Press, 1978; V. Crapanzano, Tuhami: Portrait of a Moroccan, Chicago, The University of Chicago Press, 1980, trad. it. Tuhami. Un uomo del Marocco, Roma, Meltemi, 1995; M. Shostak, Nisa: The Life and Words of a !Kung Woman, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1981, trad. it. Nisa. La vita e le parole di una donna !kung, Roma, Meltemi, 2002; K. Dwyer, Moroccan Dialogues: Anthropology in Question, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1982. Vedi anche: K. Dwyer, "The Dialogic of Ethnology", Dialectical Anthropology, 4 (1979), pp. 205-24; D. Tedlock, "The Analogical Tradition and the Emergence of a Dialogical Anthropology", Journal of Anthropological Research, 35 (1979), pp. 387-400, ristampato in D. Tedlock, The Spoken Word and the Work of Interpretation, Philadelphia, The University of Pennsylvania Press, 1983, pp. 321-80; D. Tedlock, B. Mannheim (a cura di), The Dialogic Emergence of Culture, Urbana, The University of Illinois Press, 1995.

109. L'esempio più noto è D. Bahr, J. Gregorio, D. Lopez, A. Alvarez, Piman Shamanism and Staying Sickness, Tucson, The University of Arizona Press, 1974, un curioso esperimento di scrittura "a otto mani" frutto della collaborazione fra un antropologo occidentale, uno sciamano, un interprete e un curatore indigeni.

110. Cfr. G. Watson, "Make Me Reflexive, But Not Yet: Strategies for Managing Essential Reflexivity in Ethnographic Discourse", Journal of Anthropological Research, 43 (1987), pp. 29-41; J. Van Maanen, Tales of the Field, Chicago, The University of Chicago Press, 1988; B. Tedlock, "From Participant Observation to the Observation of Participation: The Emergence of Narrative Ethnography", Journal of Anthropological Research, 47 (1991), pp. 69-94; J. Okely, H. Callaway (a cura di), Anthropology and Autobiography, London, Routledge, 1992.

111. La forma del dialogo e quella polifonica, come nota Clifford, postulano sempre l'intervento di un'autorità esterna, che trascriva materialmente le conversazioni avvenute e, soprattutto, che operi una scelta e organizzazione del materiale. Cfr. J. Clifford, "Sull'autorità etnografica", cit., pp. 60ss.

112. "Quella di cultura è un'idea profondamente compromessa di cui non riesco a fare a meno" (J. Clifford, "Introduction: The Pure Products Go Crazy", in J. Clifford, The Predicament of Culture, cit., trad. it. "Introduzione. I frutti puri impazziscono", in I frutti puri impazziscono, cit., pp. 13-31, p. 23).

113. "[I]n qualsiasi modo venga alla fine superato, il concetto di cultura dovrebbe, penso, essere sostituito da un insieme di relazioni tale da preservare le funzioni relativiste e differenziali del concetto e da sottrarsi all'impiego di essenze cosmopolitiche e di comuni denominatori umani" (J. Clifford, "Recensione a Edward Said, Orientalism", History and Theory, 19 (1980), pp. 204-23, ristampato in J. Clifford, The Predicament of Culture, cit., trad. it. "Su Orientalism", in I frutti puri impazziscono, cit., pp. 293-316, p. 315). Cfr. anche quanto dice Arjun Appadurai in "Here and Now", in A. Appadurai, Modernity at Large, Minneapolis, The University of Minnesota Press, 1996, trad. it. "Introduzione. Hic et nunc", in Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001, pp. 13-42, specialmente pp. 27-32.

114. È opportuno precisare che il valore della classificazione è soprattutto espositivo dal momento che in concreto le due dimensioni sono quasi sempre interrelate fra loro.

115. Cfr. J. Clifford, "Traveling Cultures", in L. Grossberg, C. Nelson, P. Treichler (a cura di), Cultural Studies, London, Routledge, 1991, pp. 96-116, ristampato in J. Clifford, Routes, cit., trad. it. "Culture in viaggio", in Strade, cit., pp. 27-64.

116. Cfr.: A. Appadurai, "Disjuncture and Difference in Global Cultural Economy", Public Culture, 2 (1990), pp. 1-24, ristampato in A. Appadurai, Modernity at Large, cit., trad. it. "Disgiuntura e differenza nell'economia culturale globale", in Modernità in polvere, cit., pp. 45-70; U. Hannerz, Cultural Complexity: Studies in the Organization of Meaning, New York, Columbia University Press, 1992, trad. it. La complessità culturale. L'organizzazione sociale del significato, Bologna, il Mulino, 1998; Id., Transnational Connections: Culture, People, Places, London, Routledge, 1996, trad. it. La diversità culturale, Bologna, il Mulino, 2001; A. Gupta, J. Ferguson, "Beyond 'Culture': Space, Identity, and the Politics of Difference", Cultural Anthropology, 7 (1992), pp. 6-23, ristampato in A. Gupta, J. Ferguson (a cura di), Culture, Power, Place: Explorations in Critical Anthropology, Durham, Duke University Press, 1997, pp. 33-51.

117. Sul tema vedi: J. Clifford, "Diasporas", Cultural Anthropology, 9 (1994), pp. 302-38, ristampato in J. Clifford, Routes, cit., trad. it. "Diaspore", in Strade, cit., pp. 299-342; Id., "Indigenous Articulations", The Contemporary Pacific, 13 (2001), pp. 468-90. Vedi anche: S. Hall, "Cultural Identity and Diaspora", in J. Rutherford (a cura di), Identity: Community, Culture, Difference, London, Lawrence and Winshart, 1990, pp. 222-37; R. Rouse, "Mexican Migration and the Social Space of Postmodernism", Diaspora, 1 (1990), pp. 8-23; W. Safran, "Diasporas in Modern Societies: Myths of Homeland and Return", Diaspora, 1 (1990), pp. 83-99; H.K. Bhabha, The Location of Culture, London, Routledge, 1994, trad. it. I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001.

118. Cfr. J. Clifford, "Introduzione. I frutti puri impazziscono", cit.; Id., "Identity in Mashpee", in J. Clifford, The Predicament of Culture, cit., trad. it. "Identità a Mashpee", in I frutti puri impazziscono, cit., pp. 317-96; J.-L. Amselle, Logique métisses. Anthropologie de l'identité en Afrique et ailleurs, Paris, Payot, 1990, trad. it. Logiche meticce. Antropologia dell'identità in Africa e altrove, Torino, Boringhieri, 1999.

119. Cfr.: U. Hannerz, La complessità culturale, cit.; J. Breidenbach, I. Zukrigl, Tanz der Kulturen. Kulturelle Identität in einer globalisierten Welt, München, Kunstmann, 1998, trad. it. Danza delle culture. L'identità culturale in un mondo globalizzato, Torino, Boringhieri, 2000.

120. Vedi ancora: J. Clifford, "Taking Identity Politics Seriously: 'The Contradictory, Stony Ground...'", in P. Gilroy, L. Grossberg, A. McRobbie (a cura di), Without Guarantees: Essays in Honour of Stuart Hall, London, Verso, 2000, pp. 94-112; Id., "Indigenous Articulations", cit., J.-L. Amselle, Branchements. Anthropologie de l'universalité des cultures, Paris, Flammarion, 2001, trad. it. Connessioni. Antropologia dell'universalità delle culture, Torino, Boringhieri, 2001. Si dovrebbe precisare che il senso in cui Clifford parla di "articolazioni culturali" nei suoi lavori più recenti è almeno parzialmente differente dal concetto di "connessione" di Amselle e rimanda alle teorie neogramsciane di Stuart Hall (per cui vedi tra gli altri, S. Hall, "Gramsci's Relevance for the Study of State and Ethnicity", Journal of Communication Inquiry, 10 (1986), 2, pp. 5-27).

121. U. Hannerz, La complessità culturale, cit., p. 339.

122. Cfr. A. Appadurai, "Introduzione. Hic et nunc", cit., pp. 27-32.

123. J. Clifford, "Su Orientalism", cit., p. 315.

124. C. Kluckhohn, A.L. Kroeber, Il concetto di cultura, cit.

125. L'autore ringrazia un anonimo referee di Jura Gentium per alcune utili osservazioni sul testo.