2005

Commenti a José Juan Moreso, El reino de los derechos y la objectividad de la moral

Bruno Celano

1. Introduzione

Il paper di Moreso (1) è ricco, promettente, e ambizioso. Fra le sue promesse ci sono una visione d'insieme del campo dei problemi metaetici, la confutazione di scetticismo e relativismo in etica, una metaetica ecumenica (nella quale convergerebbero, in overlapping consensus, gran parte delle teorie metaetiche comprehensive contemporanee), una difesa della tesi dell'oggettività dei giudizi e degli argomenti morali; e, infine, una particolare idea delle basi di un ordine giuridico-politico giusto.

Fedele al mio compito di discussant, passerò in rassegna gli argomenti di Moreso, alla ricerca di punti deboli. Mi soffermerò su conclusioni che mi appaiono insufficientemente argomentate, oscurità, confusioni, argomenti a mio giudizio poco convincenti o non concludenti. Uno scrutinio di questo genere, però, non rende interamente giustizia al paper di Moreso - alle sue promesse, e alle sue ambizioni. La posizione del discussant è assimilabile a quella del parassita; ed è comodo, confortevole, fare il parassita, soprattutto di fronte a un lavoro che mira a indicare linee generali di indagine, ad aprire una prospettiva globale di riflessione, piuttosto che a sviluppare analiticamente punti di dettaglio - un lavoro, insomma, che ha in gran parte un carattere programmatico. Per questa ragione, dopo aver esaminato da vicino alcuni degli argomenti di Moreso cercherò, per quanto posso, di smettere i panni del parassita, assumendo un atteggiamento costruttivo; e proverò a dire la mia su alcune delle questioni di carattere generale toccate da Moreso.

Procederò nel modo seguente. Dopo aver esaminato gli argomenti addotti da Moreso contro lo scetticismo (par. 2) e il relativismo etico (par. 4), e la posizione che Moreso assegna all'espressivismo nel quadro della sua metaetica ecumenica (par. 3), mi soffermerò su alcune debolezze dalle quali è affetta, a mio giudizio, un'analisi disposizionale dei termini etici (par. 5). Con queste considerazioni si conclude la pars destruens del mio commento. Nei paragrafi successivi accennerò ad alcune possibilità di integrazione, o ipotesi alternative, rispetto alla proposta di Moreso: la necessità di una teoria critica, che fornisca gli strumenti necessari ai fini dello smascheramento di falsità (par. 6); le prospettive di una forma di realismo morale pluralistico, conflittuale e particolarista - che chiamerò 'realismo morale politeista'; la compatibilità fra questa forma di realismo morale e un'epistemologia morale coerentista (imperniata sulla ricerca di un equilibrio riflessivo); e l'ipotesi, che sembra seguirne, dell'irrilevanza della metaetica per l'etica (par. 7). Infine, mi soffermerò brevemente sulla cesura fra (riconoscimento della) oggettività dei diritti morali, da un lato, e la loro esistenza giuridico-politica, d'altro lato. Sia nel caso dei rilievi critici, sia nel caso dei contributi costruttivi, mi limiterò a considerazioni molto scarne, talvolta semplici accenni, il cui unico obiettivo è indicare punti di partenza, o linee di sviluppo, per una discussione.

2. Moreso contro lo scetticismo

Nel par. 3 del suo lavoro, Moreso argomenta contro lo scetticismo in morale. Il suo argomento è, però, circolare - o almeno, così mi pare. In estrema sintesi: lo scetticismo è definito da Moreso come il rifiuto di alcuni assunti sottesi al discorso morale ordinario; ed è respinto da Moreso perché rifiuta questi assunti medesimi. Questo non è un argomento. Prendere sul serio lo scetticismo vorrebbe dire essere disposti a mettere in questione gli assunti che lo scetticismo rifiuta: contemplare seriamente la possibilità che essi siano da respingere (2).

Ma esaminiamo da vicino l'argomentazione di Moreso. Il discorso morale ordinario - la padronanza e l'uso di concetti e espressioni morali da parte di partecipanti competenti alla discussione di questioni morali - sottende, secondo Moreso (che segue, su questo punto, M. Smith) (3), alcune ovvietà, luoghi comuni, platitudes ("los presupuestos (...) que subyacen a nuestros usos conceptuales" nell'ambito della moralità; ovvero, i presupposti che "subyacen a lo que, algunas veces, se denomina la moralidad folk, es decir, el entramado de convicciones, juicios y actitudes que articulan nuestra práctica moral", p. 6); platitudes concernenti il carattere pratico (practicality) e oggettivo dei giudizi morali, il carattere sopravveniente delle proprietà morali, la sostanza del discorso morale, e il modo appropriato di affrontare disaccordi morali (ossia, la procedura argomentativa appropriata ai fini della discussione e della risoluzione razionale di questioni morali). Le platitudes sottese al discorso morale ordinario, dunque, sembrano dare sostegno - è questo l'assunto che Moreso mutua da Smith - all'idea che i giudizi morali siano giudizi oggettivi, e che vi sia un modo di procedere appropriato ai fini della risoluzione razionale di disaccordi morali (4).

Moreso definisce "teorie scettiche della morale" "aquellas concepciones incapaces de reconstruir los presupuestos de practicalidad, objetividad, superveniencia, substancia y procedimiento" (p. 7). Lo scetticismo è, secondo Moreso, "implausible" (p. 10). Perché? Perché non rende conto delle platitudes sottese al discorso morale corrente. (Non rende conto, in particolare: del requisito della oggettività dei giudizi morali, e degli assunti circa la procedura di risoluzione di disaccordi morali.) Ma questo non è un argomento, e l'apparenza che lo sia scaturisce da una definizione tendenziosa della nozione di scetticismo. Secondo alcuni, è possibile rendere conto in modo coerente, in sede metaetica, delle platitudes sottese al discorso morale ordinario, così da rappresentare la pratica morale corrente come una pratica coerente e sensata. Secondo altri, no: il discorso morale ordinario è, nella misura in cui sono ad esso sottese quelle platitudes (o alcune di esse), irrimediabilmente confuso, incoerente, illusorio, ingannevole. Ebbene: sono da definire scettiche le teorie che si rivelano incapaci di rendere conto delle platitudes sottese al discorso morale ordinario, oppure quelle che negano che sia possibile farlo, e che sostengono che il discorso morale corrente, nella misura in cui sottende quelle platitudes, è irrimediabilmente incoerente, o illusorio? (In particolare: sono da definire scettiche le teorie che si rivelano incapaci di rendere conto dell'oggettività dei giudizi morali, oppure quelle che sostengono che i giudizi morali non sono oggettivi?) E Moreso, dal canto suo, ritiene effettivamente che, come egli stesso afferma, "es posible que nuestro análisis nos conduzca a la desesperanzada conclusión de que nuestros usos conceptuales son irremediablemente, contradictorios, o fallidos o confusos" (p. 6)? Oppure ritiene, come pure egli afferma, che "la incapacidad de reconstruir estas platitudes descalifica (...) la plausibilidad de una teoría de la moralidad" (ovvero, che "las concepciones que fracasan en la reconstrucción de estas platitudes son teorías irrazonables", p. 7)? Se si esclude preliminarmente la possibilità che la nostra pratica morale si riveli incoerente, o illusoria, le teorie che ritengono che non sia possibile ricostruire in modo coerente le platitudes ad essa sottese saranno, per ciò stesso, da rigettare. Se, invece, si lascia aperta la possibilità che la nostra pratica morale si riveli incoerente, illusoria, il fatto che una teoria non fornisca una ricostruzione coerente delle platitudes sottese al discorso morale ordinario non sarà - non ancora - un argomento contro di essa. Quello che non si può fare è lasciare aperta la possibilità che la nostra pratica morale sia incoerente, o illusoria, e, al tempo stesso, addurre come un argomento contro le teorie scettiche la circostanza che, per esse, la nostra pratica morale sia incoerente, o illusoria.

Una definizione più caritatevole delle teorie scettiche sarebbe una definizione secondo la quale sono scettiche le teorie per le quali non è possibile rendere conto in modo coerente delle platitudes sottese al discorso morale ordinario (le teorie scettiche, stando a questa definizione, non rendono conto di tali platitudes perché pretendono di mostrare che non è possibile farlo, non perché ne siano incapaci). E, in questo caso, che esse non rendano conto delle platitudes non è affatto un argomento contro di esse - ameno, ovviamente, di non presupporre che sia possibile farlo, e che la nostra pratica morale sia coerente, sensata, non illusoria. Argomentare contro le teorie scettiche in materia morale che esse non riescono a rendere conto in modo coerente delle platitudes sottese alla pratica morale folk, e che sono incapaci di presentare il discorso morale come una pratica coerente e non illusoria, è come obiettare, contro Sesto Empirico, che i suoi argomenti sono incapaci di rendere conto della possibilità della conoscenza (ovvero, non riescono a rendere conto in modo coerente degli assunti sottesi ad affermazioni della forma 'Tizio sa che p', e che sono incapaci di presentare il discorso in termini di conoscenza come una pratica discorsiva coerente e non illusoria) (5).

Insomma: o si assume che le platitudes non possano essere messe in questione, e che, di conseguenza, una teoria che non renda loro giustizia, o che non intenda rendere loro giustizia, è, per ciò stesso, da respingere - e, in questo caso, lo scetticismo in etica sarà per definizione inaccettabile. Oppure si lascia aperta la possibilità che le platitudes, o alcune di esse, siano da respingere (che di esse non si possa rendere conto in modo coerente, ovvero che la pratica morale corrente si riveli irrimediabilmente incoerente, o illusoria); e, in questo caso, che le teorie scettiche non rendano conto in modo coerente delle platitudes, o di alcune di esse (che non rappresentino la pratica morale ordinaria come coerente, sensata, e non illusoria) non costituirà un'obiezione - meno che mai, se una teoria scettica comprende un'ipotesi di spiegazione del perché non sia possibile rendere conto in modo coerente delle platitudes, e rappresentare la moralità come una pratica coerente e sensata. Nella prima ipotesi, che lo scetticismo sia da respingere è presupposto. Nella seconda ipotesi, l'argomento contro lo scetticismo non è neppure iniziato (6).

3. Espressivismo e analisi disposizionale dei termini etici

Moreso caldeggia un'analisi disposizionale dei termini etici (pp. 5, 10), sul modello di:

[MC] x es moralmente correcto si y sólo si los seres humanos ante el acto x, en condiciones ideales, tendrían una pro-actitud hacia la realización de x.

O, per fare un altro esempio (pp. 4, 8):

"something of the appropriate category is a value if and only if we would be disposed, under ideal conditions, to value it" (7).

Le teorie metaetiche disposizionali sono affette, a mio giudizio, da alcune debolezze, sulle quali mi soffermerò più avanti (infra, 5). In questo paragrafo, intendo mettere alla prova una tesi di Moreso, resi che costituisce un tassello importante della metaetica ecumenica da lui proposta. Si tratta della tesi secondo cui una metaetica espressivista è compatibile con un'analisi disposizionale dei termini etici, sulla linea di [MC] (pp. 10, 12, 14). La dimostrazione di questa tesi è, a mio giudizio, fallace.

Perché, secondo Moreso, una metaetica espressivista è perfettamente compatibile con [MC]? Un primo argomento, relativo alla questione semantica (se i giudizi morali siano suscettibili di verità o falsità) è alle pp. 11-2. Trovo questo argomento francamente puzzling, e, temendo di darne un resoconto distorto, lo riporto per esteso.

Per un'analisi espressivista, i giudizi morali sono espressione di atteggiamenti (in contrapposizione a credenze); come tali, sono dotati di direzione di adattamento 'mondo a mente' (e non, come nel caso di giudizi di fatto, 'mente a mondo'). I giudizi morali, insomma, "no tratan de representar el mundo; sino que expresan prescripciones"; dunque, conclude l'espressivista, non sono suscettibili di verità o falsità (8). Ma, prosegue Moreso,

"no veo, sin embargo, dificultad alguna por la cual los expresivistas no pudieran aceptar una ambigüedad sistemática de los juicios morales, semejante a la ambigüedad sistemática de los enunciados deónticos, aceptada por muchos filósofos del derecho. Un enunciado como 'Aparcar en doble fila en Oxford Street está prohibido' es ambiguo, puesto que tanto puede ser la expresión de una norma genuina, dictada por una autoridad (municipal, por ejemplo), o puede ser la expresión de una proposición normativa, una aserción acerca de la pertenencia a determinado conjunto de normas de una norma que prohibe aparcar en doble fila en Oxford Street. Mientras la primera no es susceptible de verdad o falsedad puesto que es una prescripción dirigida a influir en el comportamiento de sus destinatarios, la segunda es apta para la verdad, puesto que trata de representar el estado de cosas tal que en determinado conjunto normativo hay una norma con determinado contenido. Pues bien, de una manera similar una oración como 'hacer x es incorrecto moralmente' es sistemáticamente ambigua, puesto que puede ser la expresión de una actitud o la descripción de la pertenencia a determinado conjunto de normas morales de una norma que prescribe hacer x, junto con la definición de que aquello prescrito por las normas morales es 'correcto'. Así se mantiene la teoría humeana de la motivación, y la distinción entre aseverar y prescribir, puesto que -en su sentido primordial- los juicios morales son expresiones de actitudes, pero se explica cómo puede comprenderse que los juicios morales sean aptos para la verdad y la falsedad cuando no sirven para usar sino para mencionar esas expresiones de actitudes. Es más, puede aceptarse un análisis como [MC], puesto que [MC] presupone que la adecuación de las normas morales (de esas expresiones de actitudes) depende precisamente de las actitudes que tendrían las personas en condiciones ideales" (pp. 11-2) (9).

Ed ecco le mie perplessità. (1) Perché Moreso parla per ben due volte, nel passo appena citato, di ambiguità dei giudizi morali (10)? Sembra pacifico che l'ambiguità in questione debba considerarsi (quanto meno, da un punto di vista espressivista) come propria di enunciati nei quali ricorrono termini morali (11). Un enunciato siffatto può, direbbe un espressivista, sia esprimere un giudizio morale (in questo caso, sarà espressione di un atteggiamento, e dunque inidoneo ad avere un valore di verità), sia esprimere il fatto che un certo giudizio appartiene o no a un certo insieme di giudizi (e, in questo caso, sarà espressione di un giudizio di fatto, suscettibile di verità o falsità).

Si potrebbe pensare che questo punto sia marginale - che si tratti di una questione meramente terminologica, o di una svista, priva di conseguenze. Ma non è così. Se si prosegue nella lettura del passo citato, si finisce per scoprire che è essenziale, per l'argomento di Moreso, che i giudizi morali medesimi (e non gli enunciati nei quali essi possono trovare espressione) siano considerati ambigui. Vediamo perché.

(2) Ecco in che modo, secondo Moreso, l'ambiguità sistematica di cui si è detto si applica al caso degli enunciati nei quali ricorrono termini morali: "una oración como 'hacer x es incorrecto moralmente' es sistemáticamente ambigua, puesto que puede ser la expresión de una actitud o la descripción de la pertenencia a determinado conjunto de normas morales de una norma que prescribe hacer x, junto con la definición de que aquello prescrito por las normas morales es 'correcto'". E, prosegue Moreso, "así se mantiene la teoría humeana de la motivación, y la distinción entre aseverar y prescribir, puesto que -en su sentido primordial- los juicios morales son expresiones de actitudes, pero se explica cómo puede comprenderse que los juicios morales sean aptos para la verdad y la falsedad cuando no sirven para usar sino para mencionar esas expresiones de actitudes". Solo equivocando fra 'enunciato morale' e 'giudizio morale', però, si può avere l'impressione che - come questo passo suggerisce - con ciò si sia mostrato qualcosa riguardo alla possibilità che, per un espressivista, i giudizi morali (e non soltanto gli enunciati nei quali ricorrono termini morali, o addirittura gli asserti che menzionano giudizi morali) siano suscettibili di verità o falsità. Se - come un espressivista coerente è tenuto a fare - si tiene ben ferma la distinzione fra giudizi morali, espressivi di atteggiamenti, e giudizi di fatto su atteggiamenti, propri o altrui (o sulla loro espressione, mediante enunciati morali), il gap semantico che, secondo un'analisi espressivista, sussiste fra un giudizio morale e un giudizio di fatto resterà intatto. Non ci siamo mossi di un passo.

(3) In altri termini. "Una oración como 'hacer x es incorrecto moralmente' - scrive Moreso - es sistemáticamente ambigua, puesto que puede ser la expresión de una actitud o la descripción de la pertenencia a determinado conjunto de normas morales de una norma que prescribe hacer x, junto con la definición de que aquello prescrito por las normas morales es 'correcto' (cors. mio). 'Corretto' è, qui, un termine etico (normativo, prescrittivo, valutativo), o descrittivo? Un espressivista si porrà, ovviamente, questo interrogativo. La risposta a questa domanda dipende da come si intenda la qualificazione dell'insieme delle norme rilevanti come un insieme di norme "morali". Se l'aggettivo 'morale' viene inteso in senso descrittivo (le norme accettate da un certo gruppo di individui, o da me; le norme dotate di un certo contenuto; e così via), la qualificazione di 'ciò che è prescritto da queste norme' come 'corretto' (sulla base della definizione indicata da Moreso) avrà, per l'espressivista, carattere descrittivo (l'asserto 'Fare x è moralmente corretto' sarà, effettivamente, una proposizione normativa). Se, invece, 'morali' viene inteso in senso prescrittivo, o espressivo, la qualificazione di 'ciò che è prescritto da queste norme' come 'corretto' avrà, per l'espressivista, carattere prescrittivo, o espressivo (l'asserto 'Fare x è moralmente corretto' sarà, in questo caso, espressione di un atteggiamento, o una prescrizione). In nessuna di queste due ipotesi si vede come, mediante il ricorso alla distinzione fra norme e proposizioni normative, "se mantiene la teoría humeana de la motivación, y la distinción entre aseverar y prescribir, puesto que -en su sentido primordial- los juicios morales son expresiones de actitudes, pero se explica cómo puede comprenderse que los juicios morales sean aptos para la verdad y la falsedad cuando no sirven para usar sino para mencionar esas expresiones de actitudes" - a meno, ovviamente, di non equivocare queste due diverse e (per l'espressivista) eterogenee, nozioni di 'corretto' (12).

(4) Non solo. Moreso afferma, subito dopo, che, seguendo la via appena tracciata, "puede aceptarse [da parte, s'intende, di un espressivista] un análisis como [MC], puesto que [MC] presupone que la adecuación de las normas morales (de esas expresiones de actitudes) depende precisamente de las actitudes que tendrían las personas en condiciones ideales". [MC] è, nella proposta di Moreso, una "analisi" di 'moralmente corretto'. L'argomento di Moreso mostra soltanto che un espressivista potrebbe accettare [MC] come analisi di una nozione descrittiva di 'moralmente corretto': certe norme sono 'moralmente corrette' ('adeguate') se e solo se corrispondono agli atteggiamenti che avrebbero, in certe condizioni, certi soggetti. Una simile analisi è certamente compatibile con un'interpretazione descrittiva di 'Fare x è moralmente corretto' (interpretazione nella quale, come si è detto, 'Fare x è moralmente corretto' è, per un espressivista, una proposizione normativa). Ma non si vede perché mai questa linea di argomentazione dovrebbe mostrare che, per un espressivista, [MC] è compatibile con l'interpretazione di 'Fare x è moralmente corretto' come un genuino giudizio morale (interpretazione nella quale, come si è detto, 'Fare x è moralmente corretto' ha, per un espressivista, carattere espressivo, e non descrittivo). Non si è in alcun modo mostrato che l'adeguatezza "delle norme morali (di queste espressioni di atteggiamenti)" possa essere, dal punto di vista dell'espressivista, resa da [MC]. Che, secondo [MC] la adeguatezza" di una norma morale dipenda da un tipo particolare di fatti - certi atteggiamenti ipotetici, in condizioni particolari, da parte di certi soggetti - non fa, qui, alcuna differenza. Per la stessa via, si sarebbe potuto mostrare, con altrettanto fondamento, che un'analisi espressivista dei giudizi morali è compatibile con una diversa definizione di 'moralmente corretto', nei termini di una diversa classe di fatti.

Dunque: Moreso equivoca fra ambigità degli enunciati nei quali ricorrono termini morali e (pretesa) ambiguità dei giudizi morali (da una prospettiva espressivista); su questa base, ritiene di poter mostrare che un'analisi espressivista di 'moralmente corretto' è compatibile con [MC]. Ma questa è solo un'apparenza. In primo luogo, l'ambiguità di enunciati nei quali ricorrono termini morali (ambiguità che un espressivista può benissimo concedere) non ha nulla a che vedere con una presunta ambiguità dei giudizi morali, che renderebbe questi ultimi suscettibili di verità o falsità. E, in secondo luogo, che possano etichettarsi come 'moralmente corrette' azioni individuate mediante giudizi di fatto (ipotetici, o controfattuali) su quali atteggiamenti avrebbero esseri umani in certe condizioni non vuol dire che [MC] sia compatibile con l'espressivismo: 'moralmente corretto è in questo caso, per l'espressivista, una nozione non morale - ovvero, ciò che è in questione non è, per l'espressivista, la correttezza di giudizi morali, ma la correttezza di giudizi di fatto vertenti su atteggiamenti possibili (giudizi di fatto vertenti sull'appartenenza di certe norme a certi insiemi normativi). Dal punto di vista espressivista, altro sono i giudizi morali (espressione di atteggiamenti, e dunque non suscettibili di verità o falsità), tutt'altra cosa giudizi di fatto, suscettibili di verità o falsità, vertenti su atteggiamenti ipotetici, propri o altrui. L'apparenza che i primi possano dirsi veri o falsi, nella misura in cui sono suscettibili di un'analisi nei termini dei secondi, è generata da un'equivocazione del termine 'giudizio'. Solo in questo modo può sorgere l'impressione che il disaccordo semantico fra espressivista e non espressivista sia stato, per questa via, risolto, e riassorbito, in una prospettiva ecumenica.

Di questa conclusione costituisce una plateale conferma, mi pare, il modo in cui Moreso riformula la propria tesi:

"en conclusión, es compatible sostener que los juicios morales son primordialmente expresiones de actitudes, pero que también pueden ser comprendidos como proposiciones, aptas para la verdad y la falsedad, que se refieren a las actitudes que tendrían determinados agentes humanos, en condiciones ideales. Es decir, la cuestión semántica puede ser resuelta de manera ecuménica" (p. 13, cors. mio).

Non si tratta di due interpretazioni dei giudizi morali, reciprocamente compatibili, ma di due diversi significati - un'ambiguità, per l'appunto - degli enunciati nei quali ricorrono termini morali.

(5) Il nocciolo della difficoltà sta, mi pare, in questo: stando a [MC] i giudizi morali (giudizi come 'Fare x è moralmente corretto') non hanno carattere espressivo (non sono espressione di atteggiamenti): sono giudizi di fatto (precisamente, giudizi ipotetici, o controfattuali) su atteggiamenti possibili, propri o altrui; non si vede, dunque come [MC] possa considerarsi compatibile con la posizione espressivista (13).

Tre osservazioni. (a) Nell'introdurre l'ipotesi che l'espressivismo sia compatibile con [MC], Moreso ha cura di precisare che non intende dire che l'espressivismo possa accettare [MC] "come una definizione" di 'moralmente corretto'; piuttosto, l'ipotesi è che [MC] "podría ser una consecuencia de otras de sus tesis más generales o podría ser compatible con dichas tesis más generales" (p. 10) (14). Ma questa precisazione non consente di evitare la difficoltà. [MC], ammesso che non sia necessariamente da intendere "come una definizione" (in un qualche senso particolarmente restrittivo del termine 'definizione') è certamente una (proposta di) analisi (è così, del resto, che la denomina più volte lo stesso Moreso, "analisi"), mediante indicazione di condizioni necessarie e sufficienti ('se e solo se'). Ebbene: in primo luogo, una definizione ragionevole dell'espressivismo credo non debba limitarsi a identificare quest'ultimo con l'insieme delle teorie che definiscono (in quel senso, quale che sia, particolarmente restrittivo, che Moreso ha qui in mente) in termini espressivi i concetti morali, ma come l'insieme delle teorie che forniscono una analisi in termini espressivi di tali concetti (e [MC] non è, come si è detto, un'analisi di questo tipo). In secondo luogo, sembra difficile immagine una teoria espressivista (coerente, beninteso) che (si astenga dall'adottare [MC] come una definizione di 'moralmente corretto', ma al tempo stesso) abbia [MC] come "una conseguenza di altre sue tesi più generali". Come potrebbe [MC] non confliggere con le tesi fondamentali di una teoria espressivista?

(b) [MC] non è - almeno, non in apparenza - un'analisi espressivista di 'moralmente corretto' (nel suo senso genuinamente morale). Questo, ho appena sostenuto, è il nocciolo del problema. Si potrebbe però ipotizzare che vi sia una via d'uscita da questa difficoltà (una via d'uscita, intendo, per chi, come Moreso, voglia sostenere la compatibilità fra espressivismo e [MC]). Stando a [MC], affermare che x è moralmente corretto è affermare che, "in condizioni ideali", un essere umano avrebbe un atteggiamento favorevole nei confronti di x. Si potrebbe dire: un asserto della forma: 'In condizioni ideali, un essere umano avrebbe un atteggiamento favorevole nei confronti di x' non è da intendere (nonostante l'apparenza) come un asserto di fatto: la specificazione delle 'condizioni ideali' rilevanti, infatti, ha essa stessa carattere normativo, o valutativo (che le condizioni in questione siano 'ideali' è espressione di un apprezzamento positivo). In altri termini: x è moralmente corretto se e solo se, in condizioni appropriate (e il giudizio secondo il quale certe condizioni sono appropriate è un giudizio di carattere normativo, o valutativo, da intendere in termini espressivistici) un essere umano avrebbe un atteggiamento favorevole nei confronti di x.

Sembra, dunque, che si possa sfuggire all'obiezione (e salvare la tesi della compatibilità fra espressivismo e [MC]) adottando un'analisi in chiave espressivista delle condizioni ideali dalle quali, secondo [MC], dipende la correttezza morale di un'azione. Ma la via d'uscita è solo apparente. Si risolve, infatti, in una deviazione, che ci riporta al punto di partenza.

Assumiamo che il riferimento a condizioni ideali in [MC] sia da intendere in chiave espressivista ('Le condizioni C* sono condizioni ideali' è espressione di atteggiamenti). Si producono due conseguenze indesiderate (15). In primo luogo, la soluzione che Moreso propone del problema Frege-Geach (pp. 12-3) viene a cadere. Il problema Frege-Geach, infatti, sorge perché non si vede come espressioni di atteggiamenti possano ricorrere embedded (come, ad es, l'espressione di un atteggiamento possa fungere da antecedente di un condizionale) (16). Se, come vuole l'ipotesi attualmente in esame, un asserto della forma 'In condizioni ideali, un essere umano avrebbe un atteggiamento favorevole nei confronti di x' ha carattere espressivo, il problema si ripropone. Un'inferenza come:

[I1]

  1. Se fare x è moralmente scorretto, allora è moralmente scorretto anche indurre altri a fare x.
  2. Lapidare Safyia è moralmente scorretto.
  3. Dunque, Indurre altri a lapidare Safyia è moralmente scorretto

può, secondo Moreso, essere analizzata nel modo seguente:

[I2]

  1. Si seres humanos en condiciones ideales tuvieran una contra-actitud hacia x, entonces también la tendrían hacia inducir a otra persona a hacer x.
  2. Seres humanos en condiciones ideales tendrían una contra-actitud hacia lapidar a Safiya.
  3. Ergo, seres humanos en condiciones ideales tendrían una contra-actitud hacia inducir a otra persona a lapidar a Safiya.

e la possibilità di fornirne un'analisi di questo tipo costituisce, precisamente, la risoluzione del problema (pp. 12-3). L'analisi di [I1] in [I2] è ottenuta, chiarisce Moreso, "utilizando la definición de 'incorrecto moralmente' que se corresponde con la definición de 'correcto moralmente' de [MC]". Questa possibilità di analisi risolve il problema Frege-Geach, sempre secondo Moreso, perché sia le premesse, sia la conclusione di [I2] sono proposizioni normative (giudizi di fatto che vertono sull'appartenenza di certe norme a certi insiemi di norme) (17). Ma, per l'appunto, un'interpretazione espressivista delle condizioni ideali cui fa riferimento [MC] esclude questa lettura di [I2]. In questa interpretazione, l'antecedente del condizionale che costituisce la prima premessa si [I2] ha, ancora una volta, carattere espressivo. Dunque, se si assume una lettura espressivista delle condizioni ideali cui fa riferimento [MC], la soluzione del problema Frege-Geach proposta a Moreso viene a cadere (18).

In secondo luogo, e soprattutto, se si adotta un'interpretazione espressivista delle condizioni ideali cui fa riferimento [MC], la compatibilità fra espressivismo e analisi disposizionale si rivela una mera coincidenza verbale: un'unica e medesima formula linguistica ([MC], per l'appunto) si rivela suscettibile di due interpretazioni diverse, e (almeno, secondo l'espressivista) eterogenee. Otteniamo, cioè, la possibilità di distinguere, e contrapporre l'una all'altra, un'interpretazione espressivista e un'interpretazione anti-espressivista di [MC]. Queste non sarebbero, si badi bene, due diverse versioni di un'unica e medesima analisi. Si tratterebbe, piuttosto, di due proposte di analisi diverse (l'una espressivista, l'altra no), che possono essere formulate con le stesse parole, sfruttando la polisemia di un unico e medesimo enunciato. E' in questo senso che Moreso intende sostenere la compatibilità di [MC] con l'espressivismo?

(c) C'è una terza possibilità: la possibilità che un espressivista intenda [MC] - non, come una analisi di 'moralmente corretto', ma - come una norma morale (un giudizio o un principio morale, a sua volta analizzabile in termini espressivistici). E' possibile che un espressivista coerente accetti [MC] come uno dei principi della propria etica sostanziale? Naturalmente sì: in questo senso, l'espressivismo è compatibile con [MC] come lo è con qualsiasi altra tesi etica sostanziale (qualsiasi altro giudizio o principio morale). Come teoria metaetica, l'espressivismo pretende di non avere alcuna implicazione etica normativa. Ma ciò non vuol dire affatto che l'espressivismo sia compatibile con [MC], se [MC] viene intesa come una proposta di definizione, o di analisi, della nozione di 'moralmente corretto'. Vuol dire, piuttosto, che una posizione espressivista esclude che [MC] possa valere come un'analisi soddisfacente di 'moralmente corretto' (salvo ripiegare su un'interpretazione espressivista delle condizioni ideali cui [MC] fa riferimento; cfr. sopra, sub (b)).

In breve: se intendiamo [MC] come un principio morale, allora [MC] sarà, come ogni altro principio morale, compatibile con l'espressivismo (l'espressivista, naturalmente, analizzerà [MC] come espressione di atteggiamenti). Ma lo sarà, proprio perché non potrà più essere considerata come una proposta di analisi di 'moralmente corretto' - come una tesi (non di etica sostanziale, ma) metaetica. A meno, ovviamente, di non voler abbandonare la distinzione fra analisi dei concetti (in particolare, tesi metaetiche) e giudizi sostanziali (tesi etiche); abbandonando, così, la dicotomia analitico-sintetico. Questa è una mossa possibile, e molto plausibile, che ha implicazioni dirompenti (19). Ma non è questa la linea seguita da Moreso - non è questa, in effetti, la linea seguita dai partecipanti al dibattito metaetico al quale la metaetica ecumenica di Moreso si richiama. Se si volesse davvero seguire questa linea, ci troveremmo di fronte a un panorama teorico radicalmente diverso (20).

4. Moreso contro il relativismo

La possibilità di risolvere in modo ecumenico il problema dell'oggettività dei giudizi morali dipende dalla possibilità di confutare il relativismo morale (sono 'relativiste', nell'accezione di Moreso, le concezioni della moralità "que responden negativamente a la cuestión de la objetividad", p. 15) (21). Esaminiamo, dunque, gli argomenti addotti da Moreso contro il relativismo morale.

Moreso si sofferma, anzitutto (par. 5), su ciò che l'oggettività dei giudizi morali non richiede - ovvero, su "alcuni tipi di relativismo morale che (...) non minacciano l'oggettività" (p. 16; si tratta, dunque, di accezioni della locuzione 'relativismo morale' diverse da quella appena riportata).

(1) Relativismo innocuo. L'oggettività, sostiene Moreso, non richiede che si assuma, o si dimostri, che i nostri giudizi morali sarebbero validi anche per esseri (capaci di avere credenze e desideri, ma) "diversi da noi in sensi importanti" (p. 16). L'idea mi pare da condividere. Ma questa formulazione è senz'altro insoddisfacente. In primo luogo - e questo è scontato - perché davvero troppo generica (quali sensi sono "importanti"?). In secondo luogo - e questo punto non è altrettanto scontato - perché, così formulata, la condizione in questione tende a confliggere con l'adozione di [MC]. Esseri umani in condizioni ideali sono esseri non 'diversi da noi, in sensi importanti', che però si trovano in un mondo possibile molto diverso da quello nel quale ci troviamo noi? Oppure sono esseri 'diversi da noi, in sensi importanti', che si trovano in un mondo identico, o simile, al nostro? Si comprende facilmente quale nugolo di problemi sollevi questo interrogativo (come fissare l'identità di certi soggetti attraverso mondi possibili?). Il punto che mi preme sottolineare è soltanto questo: un'analisi disposizionale che faccia riferimento a condizioni ideali ha carattere ipotetico, o controfattuale; e, dunque, chiama in causa mondi possibili più o meno significativamente lontani dal nostro (ovvero, esseri umani più o meno significativamente diversi da noi). La combinazione di un'analisi disposizionale e dell'assunto che la moralità - una moralità oggettiva - valga per esseri non 'diversi da noi in sensi importanti' scoperchia un vaso di Pandora modale (tornerò più avanti su questo punto; infra, 5).

(2) Concetti etici spessi (thick ethical concepts). In linea di massima, l'enfasi posta sull'importanza, nel discorso morale, di concetti etici spessi spinge nella direzione del relativismo, o dell'incommensurabilità delle concezioni morali sostanziali - a meno che non si assuma che sia comunque possibile separare la componente descrittiva da quella prescrittiva, o espressiva, del significato dei termini spessi (22). Secondo Moreso, la circostanza che nel discorso morale ordinario svolgano un ruolo decisivo concetti spessi non costituisce una minaccia per l'oggettività - e, in effetti, Moreso sembra concedere la tesi della separabilità ("esta forma de relativismo me parece benigna, por cuanto precisa siempre que seamos capaces de mostrar una diferencia con relevancia moral en las circunstancias empíricas o sociales de un grupo humano para aceptar que lo que es moralmente correcto en un grupo social, no lo es en otro", p. 17). Ma - ecco la mia perplessità - ben difficilmente la tesi della separabilità può considerarsi un elemento di una metaetica ecumenica - un assunto condiviso dalle principali teorie metaetiche comprehensive. In primo luogo, la sua adozione comporta l'opzione in favore della tesi della contralità, nel discorso morale, di concetti etici "sottili" (thin) - opzione, questa, assai impegnativa, e certo non unanimemente condivisa (fuori da qualsiasi immaginabile overlapping consensus metaetico). E, in secondo luogo, gran parte dei sostenitori di forme diverse di realismo morale negano la tesi della separabilità. Spesso, in effetti, negazione della tesi della separabilità e rivendicazione della marginalità, nel discorso morale ordinario, dei concetti etici sottili costituiscono due mosse solidali di un'unica strategia anti-espressivista (o, in passato, anti-prescrittivista).

Dunque, o si assume l'importanza, nel discorso morale, di concetti spessi, e si nega la tesi della separabilità, e in questo caso il relativismo che ne deriva non potrà considerarsi, come vorrebbe Moreso, "benigno" (almeno, non senza ulteriore argomentazione). Oppure si ritiene possibile risolvere i giudizi in termini di concetti spessi in giudizi di fatto (Moreso parla, come si è visto, di differenze relative a "circostanze empiriche o sociali") (23) più giudizi di termini di concetti etici sottili - e, in questo caso, il relativismo che ne deriva sarà benigno, ma ci si ritroverà, irrimediabilmente, al di fuori del dominio di una metaetica ecumenica.

(3) Agent-relativity e particolarismo. Moreso sembra ammettere la possibilità di ragioni morali relative all'agente (pp. 18-9). Ma, sostiene, la possibilità di ragioni siffatte è esplicabile nei termini della forma di relativismo "benigno" precedentemente discussa. Per illustrare questo punto, Moreso presenta e discute un caso, tratto dal film di P. Weir, Witness. L'analisi che Moreso fornisce di questo caso mi sembra, però, insoddisfacente. Uno dei modi (sottolineo: uno dei modi) in cui è possibile descrivere ciò che accade nel film consiste nel dire che ciascuno dei due individui il cui atteggiamento morale viene preso in considerazione - l'investigatore e l'amish - rivendica (esplicitamente o no) la superiorità del proprio modo di vedere, o comunque considera inintelligibile, incomprensibile, bizzarro, o non condivisibile, quello dell'altro. In particolare: essere amish non è, per l'amish, una condizione di fatto, che rende applicabile (al suo comportamento, ma non a quello dell'investigatore) una norma condizionale ('Se sei un amish, non devi commettere alcuna violenza fisica; se non lo sei, ti è permesso reagire con la violenza alla violenza'). E, se ammettiamo che il giovano amish abbia una ragione per non reagire alla provocazione, e che questa ragione non sia il fatto che egli è un amish, e al contempo concediamo che l'investigatore abbia, dal canto suo, una ragione per reagire (e che, ancora una volta, questa ragione non è il fatto che egli non sia un amish), allora avremo ammesso la possibilità di ragioni morali relative ad agenti - ragioni morali genuinamente agent-relative. Questa possibilità è incompatibile con l'analisi fornita da Moreso della posizione dell'amish. L'analisi di Moreso, dunque, non rende conto della possibilità di ragioni relative all'agente, ma le dissolve.

In generale: il riconoscimento della possibilità di ragioni morali genuinamente agent-relative è compatibile con il requisito di universalizzabilità dei giudizi morali, o con la tesi della sopravvenienza delle proprietà morali su proprietà non morali? (L'idea della sopravvenienza delle proprietà morali, come si ricorderà, è annoverata da Moreso, sulla scia di Smith, fra quelle cui le platitudes sottese al discorso morale ordinario prestano il proprio sostegno; sopra, 2.) Questo è un problema autentico, e spinoso, cruciale ai fini della questione dell'oggettività - un problema, però, che Moreso non affronta (24). A seconda di come si risponde a questa domanda, può accadere che il "pluralismo" (la diversità "di carattere, di piani di vita, e di commitments personali degli esseri umani". p. 17) si riveli - contrariamente a quanto sostiene Moreso - una seria minaccia per l'oggettività.

Che la discussione di questo punto sia meramente incoativa è rilevato, in effetti, dallo stesso Moreso, che conclude:

"esto comporta que hay deberes morales que no son neutrales, sino relativos al agente. Delimitar el espacio que hay que conceder a dichos deberes relativos al agente sin caer en el particularismo no es uno de los menores retos que debe afrontar una concepción objetivista de la moralidad" (pp. 18-9).

Sono d'accordo. Ma non vedo come ciò si concili con l'affermazione, immediatamente precedente nel testo di Moreso, secondo la quale una pluralità di piani di vita, impegni personali, ecc., di valore ("valiosos") è "compatible perfectamente con la existencia de una única moralidad ideal que, además, ha de suministrarnos criterios para los casos en que dichos planes de vida entren en conflicto" (p. 18). Questa 'piena compatibilitàì deve ancora essere dcimostrata.

(4) Relativismo morale come indeterminatezza. Su questo punto, Moreso sostiene, mi pare, due tesi. La prima - che trovo senz'altro convincente - è che l'indeterminatezza dei nostri concetti morali "es compatible con tener una única respuesta correcta para muchas cuestiones" (p.19). Ma, prosegue Moreso (ed è questa la seconda tesi), "es cierto, sin embargo, que la indeterminación podría ser capturada en una forma similar a como la teoría superevaluacionista trata la vaguedad". Su questo secondo punto, ho serie perplessità. Moreso argomenta nel modo seguente:

"según dicha teoría [scil. la teoria superevaluazionista della vaghezza] el enunciado 'X es alto' referido a un caso marginal de alto, es un enunciado que no es ni verdadero ni falso. Pero ello hay que entenderlo de la siguiente forma: hay un conjunto de compleciones de 'ser alto' y en cada una de ellas cualquier individuo es o bien alto o bien no lo es. Que 'X es alto' es un enunciado indeterminado significa que en algunas de las compleciones es verdadero y en otras es falso. Entonces, tenemos enunciados superverdaderos, aquellos que lo son en todas las compleciones admisibles; superfalsos, aquellos que lo son en todas las compleciones admisibles; e indeterminados, aquellos que son verdaderos en unas compleciones y falsos en otras. Puesto en estos términos, sería cierto que existen diversas moralidades ideales, pero compatibles con la objetividad: los juicios morales verdaderos lo serían en todas las moralidades ideales y los falsos lo serían también en todas" (p. 19).

Anche questo argomento mi sembra ben poco convincente, per due ragioni. La prima attiene, in termini generali, alle prospettive di successo di una teoria superevaluazionista dei termini vaghi, e non riguarda specificamente il discorso morale. La seconda attiene invece all'uso che Moreso sembra voler fare della teoria superevaluazionista ai fini del trattamento dell'indeterminatezza dei termini morali.

(a) Non vedo come un enunciato nel quale ricorre un termine vago possa essere super-vero senza essere vero; o, in altermativa, super-falso, senza essere falso (ovvero, non vedo come un enunciato indeterminato possa essere super-vero, o super-falso). E, se questa possibilità è esclusa, la teoria superevaluazionista si banalizza: la tricotomia: enunciati super-veri, super-falsi, indeterminati collassa sulla tricotomia: enunciati veri, falsi, indeterminati. Mi spiego.

Gli enunciati indeterminati (ossia, né veri né falsi) possono essere super-veri (o super-falsi)? Se si esclude questa possibilità - affermando, come sembra fare Moreso, che sono indeterminati quegli enunciati che sono, in alcuni completamenti ammissibili, veri, e, in altri completamenti ammissibili, falsi - allora gli enunciati super-veri saranno veri, e gli enunciati super-falsi, falsi. Ma non è di questo che si stava parlando: la teoria superevaluazionista intende essere uno strumento per il trattamento degli enunciati indeterminati; e, che un enunciato vero lo sia in ogni completamento ammissibile (condizione minima di ammissibilità di un completamento è che esso non sovverta i valori di verità già assegnati, in partenza, agli enunciati rilevanti) è una banalità (e lo stesso dicasi relativamente a enunciati falsi). Se, invece, si lascia aperta la possibilità che un enunciato indeterminato sia super-vero (o super-falso) - sostenendo che un enunciato indeterminato può essere vero in alcuni dei completamenti possibili, falso in altri, e, al contempo, vero (o, alternativamente, falso) in tutti i completamenti ammissibili - si pone l'interrogativo: come distinguere fra completamenti ammissibili e completamenti non ammissibili, se non rendendo vero (o falso) l'enunciato che si assume essere indeterminato? Non si potrà più tracciare, come sembra fare Moreso, la tricotomia: enunciati super-veri, enunciati super-falsi, enunciati indeterminati. Si dovarnno, piuttosto, tracciare due tricotomie: (1) enunciati veri, falsi, indeterminati; (2) enunciati super-veri, super-falsi, e super-indeterminati. Se, in aggiunta, si assume che, se un completamento sia ammissibile o no, dipende dal significato del termine vago rilevante, o dal modo in cui stanno le cose (e da cos'altro mai potrebbe dipendere?), si dovrà concludere che tutti gli enunciati super-veri (o, alternativamente, super-falsi) sono veri (o, alternativamente, falsi) (l'inverso è, come si è detto, un'ovvietà); e che, di conseguenza, sono super-indeterminati tutti e solo gli enunciati indeterminati. La seconda tricotomia collassa sulla prima.

L'attrattiva della teoria superevaluaziuonista sta in una promessa: la promessa che essa sia in grado di tracciare una differenza fra enunciati veri (o, alternativamente, falsi) ed enunciati super-veri (o, alternativamente, super-falsi), grazie a un vincolo sulle possibilità di determinazione (un vincolo relativo all'ammissibilità o meno di completamenti possibili) del valore di verità di enunciati indeterminati. Ma la teoria non mantiene questa promessa. Alla fine, si rivelano super-veri (o super-falsi) solo enunciati veri (o falsi), e gli enunciati indeterminati si rivelano essere né super-veri, né super-falsi (25). Il solo apporto della teoria superevaluazionista consiste nel lasciare emergere una indeterminatezza di secondo livello, del tutto equipollente alla vaghezza del secondo livello. La teoria, si badi bene, si limita a lasciare emergere questo fenomeno, senza in alcun modo risolvere il problema che esso pone. E, per sostenere (o negare) che vi sia un problema di vaghezza di secondo livello non c'è bisogno di complicarsi la vita con la teoria superevaluazionista.

(b) Qual è l'uso che Moreso intende fare della teoria supervaluazionista, relativamente ai termini morali? Rileggiamo il passo citato sopra. Moreso esordisce con l'affermare che "es cierto, sin embargo, que la indeterminación podría ser capturada en una forma similar a como la teoría superevaluacionista trata la vaguedad"; e, dopo aver introdotto, in termini generali, la teoria superveluazionista, prosegue (e conclude):

"posto en estos términos, sería cierto que existen diversas moralidades ideales, pero compatibles con la objetividad: los juicios morales verdaderos lo serían en todas las moralidades ideales y los falsos lo serían también en todas"

Ma in che senso si può affermare che, in questo modo, l'indeterminatezza dei termini morali sia stata "catturata" mediante la teoria superevaluazionista? Ciò che Moreso afferma, qui, è che i giudizi morali veri lo saranno in tutte le moralità ideali (l'equivalente dei completamenti ammissibili di cui si è detto sopra), quelli falsi, no. Il che equivale a dire che tutte le morali ideali, pur potendo essere in disaccordo fra loro (relativamente alla determinazione del valore di verità di enunciati nei quali ricorrono termini morali vaghi, in casi di indeterminatezza), saranno tuttavia in accordo fra loro relativamente ai casi in cui i termini morali non risultano indeterminati. Ho già concesso a Moreso che il riconoscimento di questo ambito di accordo non è una grave minaccia per l'oggettività (è, cioè, "compatible con tener una única respuesta correcta para muchas cuestiones"). Ma che cosa aggiunge, a questa constatazione, il ricorso alla teoria superevaluazionista? Moreso non parla, qui, della possibilità di qualificare come super-veri, o super-falsi, certi giudizi morali (veri, falsi, o indeterminati; cfr. l'argomento addotto sopra). Non è in questione, qui, la possibilità di distinguere fra completamenti ammissibili e inammissibili dei nostri termini morali vaghi, in caso di indeterminatezza. Piuttosto, Moreso si limita a sottolineare che "los juicios morales verdaderos lo serían en todas las moralidades ideales". Ma questa è, ripeto, un'ovvietà. Dunque: o la teoria superevaluazionista, conformemente a ciò che essa promette, serve a distinguere, anche nell'ambito del discorso morale, fra enunciati veri ed enunciati super-veri (fra enunciati morali super-veri, super-falsi, e indeterminati); e, in questo caso, Moreso non ci ha mostrato come essa possa farlo. Oppure la teoria superevaluazionista non distingue se non fra enunciati veri, enunciati falsi, ed enunciati indeterminati; e in questo caso non si vede che cosa mai essa aggiunga alla constatazione che l'indeterminazione da vaghezza è compatibile con un ampio margine di accordo, o in che senso essa consenta di "catturare" l'indeterminazione da vaghezza in ambito morale. Ho sostenuto sopra, in via generale, che, nonostante l'apparenza, il potere di discriminazione della teoria superevaluazionisrta non va oltre la tricotomia: vero, falso, indeterminato (la teoria si limita a rappresentare l'insorgenza di una indeterminatezza di secondo livello, equipollente alla vaghezza di secondo livello). La circostanza che Moreso, quando si tratta di 'catturare' in termini superevaluazionisti l'indeterminazione da vaghezza dei giudizi morali, non cerchi neppure di costruire la nozione di super-verità di un giudizio morale, ma si limiti a ribadire che i giudizi morali veri resteranno tali in tutti i completamenti ammissibili, costituisce una riprova lampante dell'inutilità della teoria superevaluazionista (26).

Fin qui, dunque, l'analisi fornita da Moreso delle forme di relativismo morale (ovvero, delle accezioni di 'relativismo morale') nelle quali esso non costituisce una minaccia per l'oggettività. Quanto si è detto sinora mostra che è assente, nel lavoro di Moreso, una trattazione soddisfacente di alcuni nuclei problematici: incommensurabilità, indeterminatezza, particolarismo, agent-relativity, pluralismo. Non costituisce certamente un difetto del lavoro di Moreso il non aver fornito una trattazione analitica, e una soluzione soddisfacente (o magari definitiva), di ciascuno di questi problemi. (Sarebbe davvero chiedere troppo.) Ho mostrato, però, che il modo in cui Moreso cerca di tenere sotto controllo la pressione di queste potenziali spinte contro l'oggettività è, in alcuni casi, troppo sbrigativo. Sono precisamente questi, mi pare, i nuclei problematici che sembrano prestare un solido sostegno a posizioni relativiste in etica. (Tornerò più avanti su alcuni di questi punti; infra, 7.)

Veniamo ora all'esame dell'argomento addotto da Moreso contro il relativismo morale in senso proprio (ossia, la negazione della tesi dell'oggettività del discorso morale). L'argomento è semplice: il relativismo morale implica l'accettazione del fondazionalismo in epistemologia morale; il fondazionalismo è da abbandonare, in favore di un'epistemologia morale coerentista (come ad es. un'epistemologia imperniata sulla ricerca di un equilibrio riflessivo); dunque, anche il relativismo morale è da abbandonare (pp. 21-2) (27).

Sono d'accordo sulla tesi della superiorità di un'epistemologia morale coerentista su una fondazionalistica (in particolare, sull'idea che il metodo appropriato dell'indagine etica normativa sia la ricerca di un equilibrio riflessivo) (28). Ma non vedo perché mai si debba ritenere che il relativismo etico implichi il fondazionalismo (29). Ciò che nel quadro di un relativismo morale fondazionalista è la molteplicità dei principi morali primi (o ultimi), reciprocamente incompatibili, in un relativismo morale coerentista è la molteplicità degli insiemi coerenti (nel senso rilevante) di principi e giudizi etici - la possibilità, ad es., di una pluralità di equilibri riflessivi: "notoriously we have no guarantee that reflective equilibrium will be the same for everyone" (30).

In altri termini: anche un'epistemologia morale coerentista può essere relativista. L'impossibilità di distinguere, in una pluralità di insiemi coerenti (di credenze, o di credenze e atteggiamenti), fra l'insieme vero (o corretto) e eventuali parti dell'immaginazione (purché coerenti; ad es., la visione del mondo di un paranoico) è una delle obiezioni standard contro le teorie epistemologiche (non soltanto in etica) coerentiste, e contro le concezioni della verità (o correttezza) come coerenza (31). La possibilità di una pluralità di sistemi di credenze tutti egualmente 'veri', in senso coerentista, e tuttavia reciprocamente incompatibili, è uno dei ritornelli anti-coerentisti più frequenti. Non sto affermando che questa obiezione sia corretta. Ma non vedo come si possa assumere senza ulteriore argomentazione, come fa Moreso, che una posizione relativista presupponga una forma di fondazionalismo, e che un'epistemologia coerentista, come tale, consenta di sottrarsi alla minaccia relativista (32).

Che cosa ne è, giunti a questo punto, della metaetica ecumenica proposta da Moreso? Come abbiamo visto, Moreso non adduce alcun argomento contro lo scettico (sopra, 2); non riesce a mostrare che, sotto il profilo semantico, non resti aperto un gap incolmabile fra espressivismo e realismo morale (sopra, 3); e, infine, non riesce a fornire una difesa efficace dell'oggettività dei giudizi morali, contro la minaccia relativista. La metaetica di Moreso non è poi così ecumenica, e resta altamente controversa.

Per un verso, le divergenze fra espressivismo e realismo (o, in termini un po' démodé, fra emotivismo e descrittivismo) restano non sanate, sul piano semantico (idoneità alla verità) e, potenzialmente, sul piano della oggettività o meno dei giudizi morali. Per altro verso, la questione se sia possibile rendere conto in modo coerente delle platitudes sottese al discorso morale ordinario resta aperta. Sembra, a prima vista, che Moreso dapprima respinga le posizioni scettiche (quelle che non rendono conto delle platitudes in modo coerente; sopra, 2), e successivamente affronti la minaccia relativista all'oggettività dei giudizi morali. Scetticismo e relativismo morale sono, afferma Moreso, due minacce diverse, e "concettualmente indipendenti", all'oggettività della morale (p. 2). In effetti, non è così - per lo stesso Moreso. Sono scettiche, giusta la definizione di Moreso (sopra, 2), le teorie metaetiche che non rendono conto in modo coerente dei tratti del discorso morale ordinario suggeriti dalle platitudes ad esso sottese. E sono relativistiche, secondo la definizione di Moreso, le teorie che negano l'oggettività dei giudizi morali (p. 15) (e, possiamo aggiungere, i requisiti di senso comune attinenti alle procedure di risoluzione razionale dei disaccordi morali). Ma oggettività e procedura sono, precisamente, due dei tratti suggeriti dalle platitudes sottese al discorso morale ordinario. Scetticismo e relativismo - così come li definisce Moreso - non sono, dunque, concettualmente indipendenti. Qual è, precisamente, l'iter dell'argomentazione di Moreso?

5. Analisi disposizionali e procedure ideali

Moreso nutre un'evidente simpatia per un'analisi disposizionale dei termini etici - come, ad es., [MC] (pp. 8, 10, 14, 22-3). Non condivido questa simpatia. In questo paragrafo, accennerò ad alcune obiezioni che è possibile avanzare nei confronti di analisi di questo tipo. Queste obiezioni vanno, sotto molti aspetti, al di là degli argomenti addotti da Moreso. (E, ancora una volta, non si può certo pretendere che Moreso fornisca una trattazione esauriente, e una soluzione definitiva, di ogni problema.) Ma possono costituire utili spunti per la discussione.

(1) Le analisi disposizionali dei concetti morali possono essere trattate, e sono spesso trattate, come la matrice di teorie della giustificazione di principi e giudizi morali. (E' questo anche il caso di Moreso; [MC] è presentata, alle pp. 22-3, come un'analisi atta a legittimare un particolare procedimento di risoluzione di disaccordi morali, e a garantire l'obiettività delle conclusioni cui tale procedimento consente di pervenire (33).). Teorie siffatte si inseriscono nel quadro di un'ampia famiglia di teorie della giustificazione in etica, etichettabili come 'teorie della procedura ideale'.

Le teorie della procedura ideale (34) sono teorie della giustificazione di risposte a questioni morali (della validità, o correttezza, di principi e giudizi morali) secondo le quali la procedura di decisione di questioni morali (o della validità di principi e giudizi morali) consiste nel chiedersi, grosso modo:

(1) Quale sarebbe la risposta di un soggetto che avesse le caratteristiche P*?

Ovvero:

(2) Quale sarebbe la risposta di un soggetto che si trovasse nelle condizioni C*?

La procedura può dirsi 'ideale' nel senso seguente: (1) le caratteristiche P*, o le condizioni C*, sono caratteristiche, o condizioni, 'ideali' (caratteristiche, o condizioni, giudicate cognitivamente o eticamente significative, apprezzabili, raccomandabili) (35); (2) che il soggetto, S, le cui risposte sono rilevanti abbia tali caratteristiche, o si trovi in tali condizioni, è il contenuto di un'ipotesi ('Se S avesse le caratteristiche P*, quale sarebbe la sua risposta?'; 'Se S si trovasse nelle condizioni C*, quale sarebbe la sua risposta?').

La tesi che accomuna le teorie della giustificazione in etica appartenenti a questa famiglia è, dunque, la seguente: è possibile decidere questioni morali seguendo una procedura ipotetica (una procedura consistente nel chiedersi che cosa seguirebbe se fosse soddisfatta una certa condizione), nella quale si assume che siano soddisfatte alcune condizioni ideali. Ovvero, si inferisce che un certo principio o giudizio morale è valido dal fatto che esso concorda con le risposte di soggetti che fossero dotati di P*, o che si trovassero in C*. In questa inferenza consiste la giustificazione del principio, o del giudizio, in questione.

Versioni diverse dell'approccio per procedura ideale differiscono, ovviamente, quanto alla determinazione del tipo di risposta rilevante (un atteggiamento, una scelta, un giudizio, e così via), del tipo di soggetto le cui risposte sono assunte come criterio (esseri umani, osservatori ideali, arcangeli), nonché delle proprietà, o condizioni, ideali (queste diverse specificazioni non sono, beninteso, reciprocamente indipendenti). Non è questo, ovviamente, il luogo per esaminare queste diverse possibilità, e i loro specifici meriti (o demeriti). Ma va ricordato, mi pare, che le teorie della procedura ideale sono tipicamente esposte a tre obiezioni, alle quali non è facile sfuggire: (a) indeterminatezza; (b) circolarità; (c) ipoteticità (36).

In generale, quale sia, nelle condizioni ipotetiche che si presumono soddisfatte, la risposta del soggetto rilevante dipende dall'insieme, ICC, delle caratteristiche che definiscono tale soggetto, o delle condizioni nelle quali si ipotizza si produca la sua risposta. Si pongono, dunque tre interrogativi: (a) ICC determina in modo univoco l'esito della procedura? (b) Le ragioni che conducono alla selezione di ICC sono (almeno in parte) ragioni morali? (c) ICC garantisce, per individui reali che non soddisfano le condizioni ipotetiche specificate dalla procedura, un'effettiva giustificazione dei risultati di quest'ultima? Che i soggetti rilevanti soddisfino ICC è, infatti, il contenuto di un'ipotesi - un'ipotesi, per di più, normalmente di carattere controfattuale (affinché uno di noi sia soggetto a un certo obbligo morale, non è condizione necessaria che egli, di fatto, soddisfi ICC) (37). Qual è, dunque, l'effettiva forza giustificativa della procedura? Perché dovrei fare ciò che sarei incline a fare (giudicherei opportuno fare, e così via, a seconda di come si definisca il tipo di la risposta rilevante) se fossi diverso da come sono (se mi trovassi in ICC)? Perché non dovrei agire semplicemente in base a ciò che effettivamente sono? Perché, insomma, dovrei accettare di dover agire come se fossi una persona che in realtà non sono?' (38).

Le tre obiezioni consistono dunque, rispettivamente, nel sostenere che: (a) nulla garantisce che ICC renda determinato (in un numero significativo di casi, o in casi importanti) l'esito della procedura: la definizione della procedura ideale non ha implicazioni definite riguardo a quali conclusioni morali risultino dalla sua esecuzione.

(b) Le conclusioni morali cui la procedura ci consente di pervenire sono soltanto il riflesso dei presupposti, morali, che stanno alla base della selezione di ICC: ricaviamo dall'esecuzione della procedura solo i principi e i giudizi morali che, surrettiziamente, hanno guidato la nostra scelta delle caratteristiche e delle condizioni ideali. Ci muoviamo in circolo, senza compiere alcun progresso.

(c) La teoria non è in grado di spiegare perché mai individui reali dovrebbero agire, e ritenere di dover agire, così come - giusta l'esito della procedura - è moralmente corretto agire (perché mai individui reali dovrebbero attenersi, e ritenere di doversi attenere, ai principi, o giudizi, convalidati dalla teoria stessa). La procedura non è, in effetti, una procedura di giustificazione.

Non intendo sostenere che queste obiezioni siano insuperabili, decisive. La loro valutazione ci porterebbe troppo lontano. Ma si tratta di obiezioni delle quali, credo, occorre tenere conto (39).

(2) A conclusione della sua rassegna delle forme di relativismo innocue per l'oggettività, Moreso afferma: "sabemos, entonces, que la objetividad es compatible con que nuestra teoría moral ideal sea válida únicamente para nuestro mundo real (no para otros mundos posibles) y restringida a la especie humana" (p. 22). Nel lasciare aperta la possibilità che principi e giudizi morali siano oggettivamente validi solo per il nostro mondo (qui da noi, per così dire), e non in altri mondi possibili, Moreso fa riferimento a un punto sul quale ci siamo già soffermati: non è necessario, affinché giudizi e principi morali abbiano il carattere dell'oggettività, che essi valgano anche per esseri "diversi, in sensi importanti, da noi". Ho già sottolineato la genericità di questa formulazione (sopra, 4). Ma c'è un altro punto che mi lascia perplesso: la compatibilità di questa concessione con [MC].

L'analisi disposizionale, infatti, fa riferimento a mondi possibili diversi dal nostro mondo reale: criterio di ciò che è moralmente corretto è la reazione che gli esseri umani avrebbero in condizioni ideali (la procedura di decisione ha carattere ipotetico, nel senso precisato, e, in condizioni normali, controfattuale).

Nel lasciare aperta la possibilità "que nuestra teoría moral ideal sea válida únicamente para nuestro mundo real (no para otros mundos posibles)", dunque, Moreso non può voler intendere tutti i mondi possibili diversi dall'attuale. Che un essere umano sia "in condizioni ideali" vuol dire, stipula Moreso, che è imparziale, "possiede un insieme unificato e coerente di desideri", e "dispone di un'informazione completa e sensibile (sensible) intorno alle alternative e le conseguenze" dell'azione valutata (p. 22). Il mondo nel quale siamo in condizioni ideali è un mondo possibile diverso da quello nel quale ci troviamo; e - afferma [MC] - le nostre risposte in questo mondo sono il criterio di ciò che è moralmente corretto nel nostro. Ma, se le nostre risposte in questo mondo possibile costituiscono il criterio di ciò che è moralmente corretto nel nostro, perché mai non dovrebbero costituire, allo stesso modo, il criterio di ciò che è moralmente corretto in altri mondi possibili (diversi sia dal nostro, sia da quello nel quale siamo in condizioni ideali)? (Ma Moreso, come si è visto, nega che, per essere oggettivi, i giudizi morali debbano valere attraverso mondi possibili.) In che cosa il mondo nel quale siamo in condizioni ideali è più prossimo al nostro mondo attuale di quanto non lo sia ad altri mondi possibili? Forse nel fatto che, in esso, siamo pur sempre noi a trovarci in condizioni ideali? Ma come distinguere fra un unico e medesimo individuo che sia dotato, in mondi possibili diversi, di caratteristiche diverse, e mondi possibili abitati da individui diversi? E, d'altro lato, come definire la maggiore o minore prossimità di un mondo possibile al mondo attuale? Un mondo possibile nel quale, ad es., gli esseri umani sono fisicamente invulnerabili è più o meno vicino al nostro di un mondo possibile nel quale io sono imparziale, ho un insieme coerente di desideri, e sono compiutamente informato? (Questo è, palesemente, un ginepraio.)

(3) Fra le condizioni ideali cui fa riferimento [MC] Moreso include una clausola di "informazione completa" (intorno alle alternative e le conseguenze dell'azione oggetto di valutazione) (p. 22). Ciò che [MC], data questa specificazione, afferma, è che l'azione x è moralmente corretta (qui da noi, nel nostro mondo) se e solo se un essere umano dotato di informazione completa (e che si trovasse nelle altre condizioni ideali indicate) avrebbe un atteggiamento favorevole nei confronti di x. Ma questo è controintuitivo. Può ben darsi il caso che non sia moralmente corretto, da parte mia, fare ciò che sarebbe moralmente corretto fare, se disponessi di informazione completa (sarebbe moralmente corretto che io punissi mio figlio, se, a mia insaputa, l'ha fatta grossa?) (40).

(4) L'analisi di 'moralmente corretto' proposta da Moreso, [MC], è modellata su analoghe proposte di analisi relative a qualità secondarie; ad es., i colori. L'equivalenza analoga a [MC] è, in questo caso:

(3) x è rosso se e solo se percettori normali, in condizioni standard, percepirebbero x come rosso (p. 5).

Assumiamo che un'analisi di questo tipo dei termini di colore sia corretta. Fra il caso dei colori e quello delle nozioni morali (ad es., 'moralmente corretto', o 'buono') c'è, secondo gran parte delle teorie metaetiche cognitiviste, realiste, oggettiviste (almeno, di quelle tradizionali), un'importante differenza, una differenza che è necessario preservare, e mettere in risalto. Che cosa un percettore, in certe condizioni, percepisca è una questione che dipende, almeno in parte, dalla sua costituzione fisica e biologica: dal modo in cui egli, fisicamente, è fatto. La percezione è, o è (almeno in parte) determinata da, un processo fisico e biologico: che certi esseri percepiscano, e che cosa essi percepiscano, è, almeno in parte, una questione di hardware bio-fisico.

Non è questo il modo in cui, secondo gran parte delle più autorevoli teorie metaetiche cognitiviste, realiste, oggettiviste (soprattutto, tradizionali), il bene (o il giusto) è epistemicamente accessibile (può, cioè, essere colto dalla mente umana). Che la percezione sia una questione di hardware implica che, nell'essere x rosso, non vi sia, in ultima istanza, nulla da capire, nulla di intelligibile: nella padronanza del concetto di rosso c'è un nucleo di esperienza eterogenea rispetto all'intellezione (41). In condizioni standard, un percettore normale può vedere che x è rosso, non capire che lo è. O, in altri termini, vedere qualcosa come rosso è avere una sensazione, non pensare qualcosa; la padronanza del concetto di rosso si costruisce intorno a un nucleo non intelligibile. Per gran parte delle concezioni metaetiche cognitiviste, realiste, oggettiviste tradizionali, di contro, il bene è, eminentemente, un che di intelligibile (42).

[MC], e analoghe analisi disposizionali, non preservano questa caratteristica - l'intelligibilità del bene. Che, in condizioni ideali, esseri umani avrebbero un certo atteggiamento (favorevole o sfavorevole) nei confronti di x, sembra essere, per teorie di questo tipo, un puro e semplice dato di fatto relativo alla loro costituzione, al loro hardware: un fatto del tutto analogo al fatto che, in certe condizioni, percettori normali vedrebbero x come rosso. Perché mai esseri umani, in condizioni ideali, avrebbero un atteggiamento favorevole o sfavorevole nei confronti di x? [MC] non soltanto non risponde a questa domanda; per di più, esclude che la risposta possa essere: 'Perché x è moralmente corretto' (l'analisi genererebbe, infatti, un regresso all'infinito, o si rivelerebbe tautologica). Stando a [MC], dunque, non c'è, in ultima istanza, nulla di intelligibile nell'essere qualcosa moralmente corretto. La padronanza del concetto di moralmente corretto si costruisce intorno a un nucleo eterogeneo rispetto all'intellezione (43).

Si può, credo, annoverare il requisito di intelligibilità del bene (o del giusto) fra i tratti cui le platitudes sottese al discorso morale ordinario prestano il proprio sostegno ('Non si possono dire cose come "Un piatto di fango è un bene in sé, punto e basta", rifiutandosi di concedere che vi sia qualcosa da spiegare riguardo a come un piatto di fango possa essere un bene - a proposito di che cosa vi sia di buono in un piatto di fango'). Nella misura in cui non riescono a rendere conto di questo tratto del discorso morale ordinario, [MC] e analisi affini debordano dall'overlapping consensus che costituisce il nucleo della metaetica ecumenica di Moreso.

6. Per una teoria critica

Come preannunciato (sopra, 1), proverò ora a smettere i panni del parassita, e a dire la mia su alcune delle questioni toccate da Moreso. Anche le considerazioni che seguono, come molte di quelle avanzate da Moreso, hanno un carattere soltanto programmatico.

C'è un tratto caratteristico di gran parte della metaetica contemporanea, che Moreso coglie, e mette nel dovuto risalto. La metaetica analitica - gran parte di essa - è davvero, in un senso, ecumenica: la grande maggioranza delle teorie metaetiche contemporanee, pur contrapponendosi su questioni semantiche e ontologiche, cercano di rendere conto in modo coerente, come rilevato da Moreso, delle platitudes sottese al discorso morale ordinario, senza metterle in questione, o revocarle seriamente in dubbio. L'obiettivo comune a gran parte degli esponenti delle diverse tendenze metaetiche contemporanee è fornire un'analisi, o comunque una delucidazione, dei termini etici, e del discorso morale, che renda conto dei tratti (oggettività, procedimento, carattere pratico, ecc.) che le platitudes sembrano comprovare, e in tal modo renda giustizia al discorso morale ordinario, così come esso, in ipotesi, si presenta, appare, agli occhi di coloro che vi partecipano. In questo senso, gran parte della metaetica contemporanea occupa un territorio concettuale preliminarmente delimitato dalle platitudes, e cerca di mostrare per quali ragioni esse siano, sostanzialmente, da condividere. La pratica del discorso morale ordinario (sorretta, in ipotesi, dalle platitudes in questione) va bene così com'è; si tratta, tutt'al più, di esplicarla, delucidarla. L'atteggiamento dominante è un atteggiamento quietista, non certo rivoluzionario.

Forse, però, questo atteggiamento non è da assecondare. Forse, il progetto, condiviso anche da gran parte degli emotivisti contemporanei, di rendere conto in modo coerente delle platitudes che, secondo la communis opinio metaetica, sono sottese al discorso morale ordinario, rendendo in tal modo giustizia ai tratti di oggettività e procedimento che esso apparentemente possiede, va abbandonato, o drasticamente ridimensionato. Vale la pena di esplorare l'ipotesi che la pratica del discorso morale ordinario sia da mettere in questione, in duplice senso: (1) la pretesa di oggettività dei giudizi e degli argomenti morali può, sotto certe condizioni, essere spiegata come una copertura, al di sotto della quale operano meccanismi (meccanismi di formazione di credenze e di atteggiamenti) epistemologicamente ed eticamente poco rispettabili; (2) il discorso morale stesso, nella sua interezza, è meno coerente - meno integro - di quanto la communis opinio metaetica non sia disposta ad ammettere.

(1) Quali sono le motivazioni di una metaetica non-cognitivista, scettica, relativista? Talvolta, giudizi e argomenti morali sostanziali suscitano - in me, almeno - un sospetto; un sospetto tanto più profondo quanto più forte e la pretesa di oggettività da essi rivendicata, quanto più cognitivista, realista, oggettivista è la metaetica ad essi (esplicitamente o implicitamente) sottesa. Si tratta, banalmente, del sospetto che si tratti di falsità, per lo più inconsapevoli; che i giudizi e gli argomenti in questione abbiano, in verità, carattere sintomatico, o ideologico, che essi siano spiegabili come il prodotto di meccanismi psicologici, sociali, politici, epistemologicamente ed eticamente poco raccomandabili. E che, di conseguenza, un approccio corretto nei loro confronti consista nello smascheramento della loro pretesa di oggettività, nell'esposizione dei meccanismi psicologici, sociali, politici, della cui operazione essi sono il sintomo.

Questo sospetto può essere il frutto di un pregiudizio (positivo?). E, certamente, non costituisce una ragione che, da sola, giustifichi una metaetica non-cognitivista, scettica, relativista (ritenere il contrario vorrebbe dire confondere l'ordine della giustificazione con quello della spiegazione, o ridurre il primo al secondo). Ma mi riesce estremamente difficile ipotizzare una visione plausibile del discorso morale - della 'pratica della moralità' - che bandisca interamente questo sospetto, e che rinunci a una teoria dello smascheramento: una teoria esplicativa, che individui i meccanismi in forza dei quali giudizi e principi morali assumono carattere sintomatico, o ideologico. Un elenco di questi meccanismi comprenderebbe wishful thinking, uva acerba, denegazione, proiezione, ogni forma di irrazionalità motivata o autoinganno, falsa coscienza.

In altri termini: penso che una teoria metaetica soddisfacente debba essere integrata da una teoria critica, di carattere esplicativo: una teoria che specifichi le cause (condizioni e meccanismi) che fanno sì che giudizi e argomenti morali - in misura tanto maggiore, quanto più rivendicano il tratto dell'oggettività - assumano il carattere di falsità; e che, in questo modo, ci consenta di esercitare una critica delle falsità nel giudizio e nell'argomentazione morale. Teorie del genere sono, com'è noto, in discredito (la sorte della trinità Marx - Nietzsche - Freud fa da monito); e le ragioni di questo discredito sono palesi. Da un lato, teorie che ambiscono a fornire strumenti di smascheramento, nel senso precisato, sembrano fatalmente affette da un duplice difetto di natura epistemologica: (1) tendono, sfortunatamente, ad essere infalsificabili (ed a legittimare diagnosi infalsificabili); (2) si rivelano prive di potere discriminativo (qualsiasi giudizio, o argomento, si presta ad essere 'smascherato' come frutto dell'operazione dei meccanismi che la teoria predilige). Sono, inoltre, assai dubbie sotto il profilo etico-politico: si tratta, in fondo, di teorie che pretendono di legittimare la squalificazione di certi individui, in certi casi, come possibili interlocutori - la loro esclusione dalla discussione. Ma non credo ci si possa impegnare seriamente in una discussione morale senza presupporre una teoria del genere, sia pure embrionale, incoativa. Sarebbe bene renderla esplicita, e rafforzarla il più possibile.

(2) Le platitudes sono davvero tali? In particolare: è proprio vero che il discorso morale ordinario, la padronanza e l'uso dei concetti morali, sono circondati e sorretti da un insieme coerente di luoghi comuni che tendono ad accreditare l'idea dell'oggettività dei giudizi morali, o la disponibilità, sempre e comunque, di procedure di risoluzione razionale dei disaccordi morali? Scrive J. Waldron:

"it is simply no longer true that ordinary moral discourse is characterized unambiguously by realist-sounding talk of truth and falsity, logic and argument, reasonable and unreasonable positions. Some is and some is not. For every stern preacher who talks about the reality of obligation, there is a gum-chewing sophomore who says that all morality is just a matter of opinion. The ordinary talk one hears is infested as much with relativist idioms as with truth-claims. Moral realists often claim that their meta-ethic gives a better account of what people ordinarily think about morality. But that is because they are not listening to what actually gets said in our culture, or they are filtering or discounting some of it already on the basis of the very theory they take themselves to be supporting with this evidence. Their theory may offer a better account of their own moralizing and that of their chums. But ordinary moral discourse, as I hear it, is a meta-ethical Babel" (44).

Anche sotto questo ulteriore aspetto, una metaetica soddisfacente dovrebbe acquisire una dimensione critica - un ragionevole distacco nei confronti delle platitudes oggettiviste e realiste, e la consapevolezza che il discorso morale, la pratica discorsiva della moralità, non possiede l'integrità e la coerenza - la 'sovranità', per usare l'espressione di Dworkin (ripresa da Moreso, p. 15) - che la communis opinio metaetica le attribuisce.

Una buona teoria metaetica deve, dunque, essere integrata da una teoria dello smascheramento - pena la perdita di contatto con il discorso morale ordinario. E deve prendere atto della circostanza che il discorso morale ordinario è, dal punto di vista metaetico, una sorta di Babele. Deve dunque, entro questi limiti, mettere in questione l'integrità del discorso morale ordinario - e, con essa, la pretesa che vi sia, effettivamente, una pratica discorsiva omogenea, coerente, sovrana - la 'pratica della moralità' - che si tratta soltanto di delucidare, o esplicare, preservandone l'integrità.

7. Realismo morale politeista

Proviamo a lasciare aperta la possibilità di rinunciare alle platitudes sottese al discorso morale ordinario - o, alternativamente, a prendere sul serio la Babele metaetica che ad esso sembra accompagnarsi. Che cosa ci resta?

Vorrei anch'io indulgere nella tentazione di tracciare i lineamenti di una metaetica - limitatamente - ecumenica (ecumenica, rispetto alla contrapposizione fra realismo e espressivismo), alternativa a quella proposta da Moreso. Immaginiamo una concezione metaetica che presenti le caratteristiche seguenti: (1) è realista: vi sono fatti morali, che rendono veri o falsi i nostri giudizi morali; il bene è un che di oggettivo; i valori hanno un'esistenza indipendente dalla mente umana, fanno parte dell'arredo del mondo; che qualcosa sia una ragione per agire in un certo modo, o per un certo atteggiamento, è un dato di fatto; e così via. Ma è, al contempo, (2) pluralista, e (3) particolarista. Esiste una pluralità irriducibile di valori morali, o di beni (il bene è molteplice), o di ragioni d'azione, largamente incommensurabili, e in conflitto (o in competizione) fra loro (si danno, dunque, genuini dilemmi morali). Non è possibile predeterminare l'universo delle situazioni possibili moralmente rilevanti (casi morali generici): la moralità è dunque, necessariamente, indeterminata (e incompleta), il giudizio morale ha carattere irriducibilmente particolaristico. Data la pluralità, incommensurabilità, conflittualità dei beni e delle ragioni, e il carattere irriducibilmente particolaristico del giudizio morale, sono possibili ragioni morali genuinamente agent-relative.

Denominerò 'realismo morale politeista' questa concezione metaetica. L'ipotesi ecumenica che mi sembra di poter avanzare è la seguente: emotivismo (prescrittivismo, espressivismo, proiettivismo) scettico (o relativista), da un lato, e realismo morale politeista, d'altro lato, sono equivalenti. La differenza che intercorre fra di essi è solo una differenza notazionale: una mera differenza di idioma, o di formulazione. L'equivalenza va intesa nel senso seguente: ciò che un emotivista scettico, o relativista, estremo si aspetta dalla propria metaetica, è garantito anche da una versione altrettanto estrema di realismo morale politeista, e viceversa. Un emotivista (prescrittivista, espressivista, proiettivista) moderato, che sia in grado di ricavare un margine limitato di controllabilità, o correttezza, o oggettività, per giudizi e argomenti morali, potrà ottenere le stesse assicurazioni da una forma moderata di realismo politeista, e viceversa. In ciascun caso, le distinzioni restanti sono distinzioni senza una differenza. Le differenze residue si elidono reciprocamente.

Un corollario di questa tesi è la compatibilità di entrambe le concezioni metaetiche, nella loro versione moderata, con un'epistemologie morale coerentista. Realismo morale politeista (moderato) ed emotivismo relativistico (moderato) sono entrambi compatibili con l'impegno nell'indagine etica sostanziale - nella forma della ricerca di un equilibrio riflessivo (il tentativo di mettere in equilibrio giudizi ponderati e principi ad essi sottesi, alla luce di concezioni di sfondo della persona, della società, ecc.). Entrambi - il politeista moderato, e l'emotivista moderato - sono nella barca di Neurath. Ed è questo - l'idea che la giustificazione del giudizio morale abbia la struttura del processo di manutenzione e riparazione, in mare aperto, di una nave sulla quale siamo già imbarcati - il contenuto effettivo delle loro concezioni metaetiche: ciò che esse dicono, una volta eliminate le differenze di notazione, o di formulazione.

E' possibile sviluppare in modo soddisfacente una metaetica (limitatamente) ecumenica di questo tipo? Ed è possibile dare un contenuto determinato alla distinzione fra versioni 'estreme' e versioni 'moderate' delle posizioni che, in essa, starebbero in overlapping consensus? Quanto detto nei capoversi precedenti ha carattere meramente metaforico - nulla di più che qualche slogan. Un punto, però, merita di essere sottolineato. Una simile metaetica ecumenica, unitamente alla necessità di una teoria critica del tipo indicato (una teoria delle falsità; sopra, 6), attesterebbero, mi pare, l'irrilevanza della metaetica per l'etica. Le distinzioni dalle quali è segnato il campo dell'indagine metaetica (espressivismo vs. realismo, ecc.) sarebbero, in fondo, distinzioni senza una differenza. Ciò che conta è soltanto la circostanza che entrambe le posizioni, con diverso idioma, non pongono alcun serio impedimento alla possibilità di discutere - per quanto riusciamo a farlo - questioni morali. E mi pare che questa, in ultima istanza, sia la conclusione che sta più a cuore a Moreso.

8. Diritti morali e poteri: perché l'oggettività non basta

L'oggettività della morale è, afferma Moreso, condizione necessaria affinché sia possibile una pratica istituzionalizzata, giuridico-politica, nella quale i diritti umani occupino una posizione stabile e significativa (45). Sarebbe ingiusto accusare Moreso, per questa sua convinzione, di eccessivo ottimismo. Certamente Moreso non afferma che il riconoscimento (da parte dei filosofi?) dell'oggettività di certi principi morali (in particolare, di certi diritti) sia condizione sufficiente del venire ad esistenza, e della stabilità, di un "disegno istituzionale" giusto. Ma resta un certo margine, mi pare, per qualche considerazione di sapore hobbesiano. E' importante rendersi conto del perché, dal punto di vista giuridico-politico, l'oggettività non è sufficiente (46).

In estrema sintesi, si tratta di questo: dal punto di vista giuridico-politico, il problema dei diritti non è soltanto 'Quali diritti?' ('Quali diritti morali hanno le persone? Qual è il contenuto dei diritti che il diritto positivo e l'autorità politica devono, in giustizia, riconoscere?'); è anche, e inscindibilmente, il problema della "gestione dei contenuti sostanziali dei diritti" (l'aspetto "procedurale" del problema dei diritti fondamentali) - il problema, insomma, del "potere di amministrazione dei diritti" ("il problema dell'autorità") (47). Dato un qualsiasi problema etico sostanziale (in particolare, un problema di giustizia, o di diritti morali), il diritto è un'istituzione che trasforma, o quanto meno tende a trasformare, la soluzione di un problema di questo tipo in una questione di esecuzione di procedure predeterminate da parte di individui predeterminati. Sono da soddisfare le pretese di Tizio oppure quelle, con esse confliggenti, di Caio? L'approccio specificamente giuridico a un problema di questo tipo esige che ci si chieda: chi è competente a giudicare della controversia insorta fra Tizio e Caio, e secondo quale procedura deve essere reso il giudizio al fine di pervenire a una soluzione che abbia carattere giuridico (che, cioè, abbia conseguenze giuridiche: che incida sui diritti e gli obblighi giuridici di coloro che sono soggetti all'ordinamento)? Di fronte a un problema etico sostanziale, il giurista si chiede, anzitutto, chi, e secondo quali modalità, sia competente a fornire una risposta - una risposta, beninteso, che sia produttiva di conseguenze giuridiche. Il diritto, insomma, tende a trasformare ogni problema del tipo 'Che cosa esige la giustizia nella situazione S?' in un problema del tipo: 'Chi è competente a decidere, e in esecuzione di quali procedure, che cosa è dovuto a ciascuno in S?' (48). Al problema:'Qual è la decisione giusta?' si affianca, e tende a sostituirsi, il problema: 'Chi decide, e come?'.

Il diritto, dunque, tende a trasformare questioni di giustizia in questioni di carattere procedurale: tende a proceduralizzare, per così dire, questioni di sostanza. In questo senso, specificamente, l'oggettività dei diritti morali non è condizione sufficiente di un "disegno istituzionale" moralmente giustificato. Non si tratta soltanto della difficoltà di fare in modo che i diritti morali, in ipotesi oggettivi e cognitivamente accertabili, siano unanimemente, o quasi unanimemente, riconosciuti (che tutti, o quasi tutti, o almeno i governanti, o i loro consiglieri, siano condotti a convergere sulla verità morale). Il punto è che, una volta individuati i diritti morali (in ipotesi, oggettivi), sono necessari mezzi (organi e procedure: poteri) di soddisfacimento e di tutela. E' questo il problema specificamente giuridico-politico dei diritti - problema al quale il riconoscimento dell'oggettività della morale, e l'individuazione di un insieme di diritti morali oggettivamente fondati, 'veri', non fornisce soluzione.

Ciò vuol dire che, in assenza di mezzi di soddisfacimento e di tutela, un diritto morale (in ipotesi oggettivo) che sia riconosciuto e più o meno solennemente sancito da espresse disposizioni giuridico-positive non ha, giuridicamente, alcuna esistenza (non è che un flatus vocis)? Lascio qui aperto questo interrogativo, ampiamente dibattuto in tempi recenti (49).

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Note

1. Moreso 2002a. Ove non altrimenti indicato, i numeri di pagina nel testo si riferiscono a questo lavoro.

2. Non sto affermando, si badi bene, che lo scetticismo debba essere preso sul serio: che con lo scettico si possa, o si debba, argomentare. Sto solo indicando una condizione, che un tentativo di confutazione dello scettico - se mai lo si volesse intraprendere (come Moreso, per l'appunto, sembra voler fare) - dovrebbe soddisfare.

3. Smith 1994, pp. 4-7, 39-41.

4. Così Smith (1994, p. 6) formula l'idea della oggettività dei giudizi morali: "we seem to think moral questions have correct answers; that the correct answers are made correct by objective moral facts; that moral facts are wholly determined by circumstances; and that, by engaging in moral conversation and argument, we can discover what these objective moral facts determined by the circumstances are".

5. Come si è detto, Moreso dichiara che "es posible que nuestro análisis nos conduzca a la desesperanzada conclusión de que nuestros usos conceptuales son irremediablemente, contradictorios, o fallidos o confusos" (p. 6). Ma lo è davvero? Oppure Moreso, in realtà, esclude in partenza questa possibilità? Moreso scrive altresì che "la incapacidad de reconstruir estas platitudes descalifica (...) la plausibilidad de una teoría de la moralidad" (ovvero, "las concepciones que fracasan en la reconstrucción de estas platitudes son teorías irrazonables", p. 7). E' questo, in realtà, l'assunto sul quale poggia la sua argomentazione contro lo scetticismo - assunto incompatibile con la dichiarazione iniziale. Che questa sia, in verità, la posizione di Moreso - la tesi della non trascendibilità della pratica del discorso morale ordinario, definita dalle platitudes ad essa sottese - è reso manifesto anche dalla citazione da Dworkin (p. 15), che Moreso dichiara di condividere: "Morality is a distinct, independent dimension of our experience, and it exercises its own sovereignty. We cannot argue ourselves free of it except by its own leave, except, as it were, by making our peace with it. We may well discover that what we now think about virtue and vice or duty and right is inconsistent with other things we also think, about cosmology or psychology or history. If so, we must try to reestablish harmony, but that is a process whose results must make moral sense as every other kind of sense" (Dworkin 1996, p. 128). Questa posizione esclude che, in ultima istanza, con lo scettico si possa (e, a fortiori, si debba) argomentare. (E, ripeto, non sto affermando il contrario.)

6. Moreso mostra efficacemente (pp. 8-10) che, nel panorama metaetico anglosassone contemporaneo, è difficile trovare filosofi morali compiutamente scettici. Persino candidati come Ayer o Mackie soccombono, almeno entro certi limiti, al richiamo delle platitudes sottese al discorso morale corrente. So what?, si potrebbe replicare. (In fondo, è dello scetticismo che stiamo discutendo, e della sua confutazione - non del fatto che il bersaglio non sia adeguatamente rappresentato.) Ma il punto merita di essere ulteriormente discusso, L'inclinazione a soccombere al richiamo delle platitudes è, in effetti, un limite della metaetica anglosassone contemporanea - l'altra faccia del suo carattere ecumenico (v. infra, 6).

7. Lewis 1989, p. 69.

8. Cfr. Moreso 2002a, pp. 10-2. Cfr. in generale Celano 1994, capp. 3, 5; 1998; 2000a.

9. Cfr. per un passo analogo Moreso 2002b, pp. 3-4.

10. Cfr. anche Moreso 2002a, p. 13: "en conclusión, es compatible sostener que los juicios morales son primordialmente expresiones de actitudes, pero que también pueden ser comprendidos como proposiciones, aptas para la verdad y la falsedad (...)"; 2002b, p. 6 (cors. mio): "ahora bien, es posible que los juicios morales, cuando son comprendidos como expresiones de actitudes no puedan ser encapsulados y, sin embargo, puedan serlo, cuando son comprendidos de manera similar a las proposiciones normativas" (Moreso precisa qui, subito dopo, che i "giudizi morali", nella seconda di queste due interpretazioni, non sono "genuini"; ma l'ambiguità non è dissipata del tutto, come vedremo fra breve).

11. Lo stesso Moreso si esprime in questi termini quando, nel passo citato, presenta la distinzione, elaborata in ambito filosofico giuridico, fra norme e proposizioni normative, alla quale egli si richiama. (Moreso non afferma qui - come potrebbe? - che le prescrizioni giuridiche sono ambigue: talvolta esprimono una proposizione normativa, e sono suscettibili di verità o falsità, talaltra no.)

12. Che l'uso di 'moralmente corretto' in una proposizione normativa "no es un uso prescriptivo o expresivo, sino descriptivo" è rilevato, in un diverso contesto, dallo stesso Moreso (2002b, p. 5). La medesima precisazione, nel contesto dell'argomento attualmente in esame, dissiperebbe ogni apparenza che la distinzione fra norme e proposizioni normative consenta di mostrare che, per l'espressivista, i giudizi morali siano suscettibili di verità o falsità.

13. Lo stesso Moreso presenta le teorie disposizionali del valore (in particolare, la teoria di Lewis) come una "versione raffinata" del naturalismo soggettivista (p. 5), inteso come la posizione secondo la quale 'X è buono' equivale a 'Gli A (la gente, io) approvano X'.

14. Altrove (p. 23), Moreso lascia aperta la possibilità che [MC] sia definitorio di 'moralmente corretto'. Con ciò, la compatibilità con l'espressivismo sembra decisamente preclusa.

15. Questa strategia pone, inoltre, il problema della eventuale circolarità di una procedura di decisione di questioni etiche che adotti [MC] come sua base (le condizioni che definiscono la nozione di correttezza morale sono esse stesse 'moralizzate'). Il problema non è rilevante ai nostri fini attuali, e sarà discusso più avanti (infra, 5).

16. Moreso 2002a, p. 12; 2002b, p. 2. Cfr. Celano 1994, pp. 286-7.

17. Cfr. anche Moreso 2002b, p. 5.

18. Questa, si badi bene, non è una conseguenza di poco conto. La possibilità di una metaetica ecumenica dipende in misura significativa dalla possibilità di mostrare che l'espressivismo è in grado di risolvere il problema Frege-Geach. In caso contrario, infatti, ben difficilmente si potrebbe sostenere che l'espressivismo è in grado di dare conto delle platitudes sottese al discorso morale corrente (se mai vi sono platitudes del genere, che i giudizi morali possano essere embedded lo è); e, in questo caso, l'espressivismo dovrebbe essere squalificato come "implausibile" (sopra, 2), e ad esso dovrebbe essere negato l'accesso all'overlapping consensus costitutivo della metaetica ecumenica proposta da Moreso (metaetica che, così, cesserebbe di essere ecumenica). Per questa ragione, è importante per Moreso riuscire a mostrare che è possibile una soluzione, in termini accettabili per l'espressivista, del problema Frege-Geach. Purtroppo, come abbiamo appena visto, se si assume un'interpretazione espressivista di [MC] (in particolare, delle "condizioni ideali" cui [MC] fa riferimento), la soluzione del problema Frege-Geach che Moreso propone, presentandola come una soluzione che anche un espressivista potrebbe accettare, viene a cadere. E se, d'altro lato, si assume una lettura non direttamente espressivista di [MC] - la lettura che lo stesso Moreso propone, ovvero la lettura nella quale [MC] è parte integrante di una metaetica realista - allora, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, [MC] si rivela incompatibile con l'espressivismo.

19. Cfr. Celano 1994, pp. 172-3, 292-308, 713-5.

20. La tesi (sostenuta infra, 7) dell'equivalenza fra realismo morale politeista, da un lato, ed espressivismo scettico, o relativista, d'altro lato, è compatibile con l'abbandono della dicotomia analitico-sintetico.

21. Per la verità, Moreso sembra concludere in favore di una metaetica ecumenica, tale da abbracciare (ad es.) espressivismo e realismo morale ("en el seno de todas estas posiciones en conflicto, puede darse cuenta razonablemente de los presupuestos de la moralidad"), già prima di affrontare la questione dell'oggettività (ossia, prima di intraprendere la confutazione del relativismo). Non comprendo, però, come possa farlo. L'oggettività dei giudizi morali è, infatti, uno dei tratti indicati dalle platitudes sottese al discorso morale ordinario (sopra, 1); e la metaetica ecumenica di Moreso è, precisamente, l'overlapping consensus delle diverse teorie metaetiche nel rendere conto, in modo coerente, dei presupposti della moralità (le platitudes, per l'appunto).

22. Cfr. Celano, 1994, pp. 273-82, 297-308, 565-74, 578-9, 589-95; 2001b.

23. Moreso fa qui riferimento alle circostanze nelle quali vivono coloro che formulano i giudizi morali rilevanti (giudizi nei quali ricorrono termini spessi). Ma questa versione della tesi della separabilità è equivalente a quella tradizionale: le differenze nelle circostanze di vita sono differenze (in ipotesi, differenze empiriche) nelle proprietà rilevanti ai fini di un giudizio in termini di concetti sottili.

24. Come si vedrà fra breve, Moreso annovera fra le "condizioni ideali" cui fa riferimento [MC] la condizione che l'essere umano i cui atteggiamenti costituiscono il criterio di correttezza morale di un'azione sia imparziale (p. 23). Questa condizione è compatibile con la possibilità di ragioni morali che siano genuinamente agent-relative?

25. L'apparenza che la teoria mantenga la sua promessa è generata dall'equivocazione fra 'completamenti' (ossia, completamenti possibili) e 'completamenti ammissibili'. Si rilegga la prima parte del passo di Moreso appena citato (il corsivo è mio): "según dicha teoría [scil. la teoria superevaluazionista della vaghezza] el enunciado 'X es alto' referido a un caso marginal de alto, es un enunciado que no es ni verdadero ni falso. Pero ello hay que entenderlo de la siguiente forma: hay un conjunto de compleciones de 'ser alto' y en cada una de ellas cualquier individuo es o bien alto o bien no lo es. Que 'X es alto' es un enunciado indeterminado significa que en algunas de las compleciones es verdadero y en otras es falso. Entonces, tenemos enunciados superverdaderos, aquellos que lo son en todas las compleciones admisibles; superfalsos, aquellos que lo son en todas las compleciones admisibles; e indeterminados, aquellos que son verdaderos en unas compleciones y falsos en otras". Se intendiamo il termine 'completamento', nelle due occorrenze, marcate in corsivo, nelle quali non è qualificato (la prima e l'ultima), come ellittico per 'completamento ammissibile', avremo che gli enunciati indeterminati non sono né super-veri né super-falsi, e gli enunciati super-veri sono veri (e gli enunciati super-falsi falsi) (che gli enunciati veri siano super-veri, e quelli falsi super-falsi, può essere ritenuto ovvio: condizione di ammissibilità di un completamento è che non alteri la distribuzione iniziale dei valori di verità). Se, invece, ci atteniamo alla lettera di quanto scrive Moreso, distinguiendo fra 'completamenti' e 'competamenti ammissibili', avremo che un enunciato indeterminato può essere super-vero (o, alternativamente, super-falso), se è vero (o, alternativamente, falso) in tutti i completamenti ammissibili, e falso (o, alternativamente, vero) in tutti i completamenti non ammissibili. Ma, in questa seconda ipotesi, potrà darsi il caso che un enunciato super-vero (o, alternativamente, super-falso) sia indeterminato. Non si potrà più affermare, dunque, che un enunciato è o super-vero, o super-falso, o indeterminato. Vi saranno enunciati veri, falsi, o indeterminati; ed enunciati super-veri, super-falsi, o né super-veri né super-falsi (ossia, super-indeterminati). E, se assumiamo che, se un completamento sia 'ammissibile' (in quanto distinto da 'meramente possibile') o no, dipende dal significato del termine vago rilevante, o dal modo in cui di fatto stanno le cose, gli enunciati super-veri si riveleranno essere veri, e quelli super-falsi, falsi - ripristinando, così, la tricotomia 'super-vero', 'super-falso', 'indeterminato', ma venendo meno alla promessa di un vincolo sulla determinazione del valore di verità di enunciati indeterminati.

26. La citazione da Gibbard (1990, p. 88) con la quale si conclude il paragrafo del testo di Moreso che stiamo esaminando non fa che rafforzare questa impressione. Gibbarfd suggerisce la possibilità di rappresentare un sistema incompleto di norme come l'insieme di ciò che resta costante in tutti i suoi possibili completamenti. Designando con N un sistema incompleto di norme, e con N* un completamento di N, quella proposta da Gibbard non è affatto una definizione di ciò che è N-super-permesso. (Ciò che è permesso in ogni N* di N, ma non in N? Oppure ciò che è permesso in N, e dunque in ogni N* di N? Si ricordi l'obiezione mossa, nel testo, contro l'approccio supevealuazionista.) E' invece, banalmente, una definizione di ciò che è N-permesso: è N-permesso tutto ciò che è N*-permesso, per ogni completamento N* di N. Ovvero: è vero, tutto ciò che è vero in ogni completamento; indeterminato, ciò che è vero in alcuni completamenti, falso in altri (il collasso del super-vero sul vero).

27. [Nota aggiunta successivamente.] Alla luce di alcune precisazioni fornite da Moreso in sede di discussione, mi sono reso conto che, in questo punto, la mia presentazione della posizione di Moreso è affetta da un'indebita semplificazione. Nel lavoro di Moreso, le considerazioni addotte contro l'analisi di Harman dei giudizi morali, da un lato, e la critica a un relativismo morale fondazionalista, d'altro lato, sono da intendere come due linee di argomentazione concettualmente indipendenti. (Moreso, in effetti, non intende sostenere che il relativismo morale implichi necessariamente un'epistemologia morale fondazionalista; si limita a rilevare una connessione che può, talvolta, avere contribuito ad incrementare l'attrattiva di una posizione relativista.) L'obiezione mossa contro Moreso nei due capoversi che seguono ha, dunque, una portata limitata. Per quanto riguarda le considerazioni addotte da Moreso contro l'analisi di Harman (considerazioni che, nelle intenzioni di Moreso, costituiscono il fulcro della sua critica al relativismo morale), sono incline a obiettare che anch'esse, come già la critica allo scetticismo (sopra, 2), presuppongono che sia in effetti possibile rendere conto in modo coerente delle platitudes sottese al discorso morale ordinario (in particolare, del requisito di oggettività dei giudizi morali) - che, cioè, la pratica morale corrente non sia, sotto questo aspetto, confusa, o illusoria.

28. Cfr. Celano 1998; 2000b, p. 91.

29. E' vero che il modo nel quale si esprime A. J. Ayer, in un passo ripetutamente citato da Moreso ("we find that argument is possible on moral questions only if some system of values is presupposed"; Ayer 1936, pp. 115-6, cit. in Moreso 2002a, pp. 9, 21), ha un carattere marcatamente fondazionalista. Ma perché mai, ad es., i moral frameworks cui, secondo G. Harman (v. Moreso 2002a, pp. 20-1), sono relativi i giudizi morali dovrebbero anch'essi essere intesi in chiave fondazionalista?

30. Gibbard 1990, p. 170.

31. Cfr. Celano 1992, pp. 68-70.

32. Per la verità, si potrebbe addirittura sostenere che le cose stanno esattamente all'opposto: che un'epistemologia coerentista, e non un'epistemologia fondazionalistica, tenda ad avere implicazioni relativistiche. Il fondazionalismo in epistemologia si definisce abitualmente sulla base di due tratti: (1) la distinzione fra credenze di base e credenze derivate (giustificabili, diurettamente o mediatamente, sulla base delle prime); (2) la tesi che le credenze di base abbiano carattere, per l'appunto, fondazionale, perché godono di uno statius epistemologico provilegiato (perché, ad es., auto-evidenti, incontrovertibilmente certe, immediatamente prodotte dal contatto con il mondo, non suscettibili di essere sensatamente messe in dubbio, ecc.). Un'epistemologia fondazionalista, in questo senso, è del tutto incompatibile con una posizione relativistica. La nozione id fondazionalismo assunta da Moreso non comprende il secondo dei due tratti indicati, e guarda esclusivamente alla struttura, lineare, della giustificazione (in questo, beninteso, non c'è nulla di male).

33. Ma lo stesso vale, ad es., dell'analisi disposizionale del valore proposta da D. Lewis (cfr. Lewis 1989, p. 72: "if a dispositional theory of value is true, then we have a canonical way to find out whether something is a value").

34. L'etichetta si deve a A. Gewirth (1974, p. 107). Per una presentazione di questa famiglia di teorie, corredata da riferimenti bibliografici, cfr. Celano 1992, pp. 31-53; 1994, pp. 532-35.

35. Ad es., informazione completa, capacità immaginativa o empatica, calma, assenza di pressioni esterne, obiettività, imparzialità, disponibilità a prendere in considerazione o dare eguale peso agli interessi, o le ragioni, di tutti gli individui coinvolti, universalizzazione, ecc. (cfr. Gewirth 1974; 1978, p. 20).

36. Cfr. Celano 1992, pp. 53-82, 1994, pp. 535-44 (con riferimenti bibliografici).

37. Ed è, probabilmente, condizione necessaria che egli non le soddisfi: il giudizio rilevante è, parrebbe, necessariamente controfattuale. (Si consideri, ad es., [MC]. Possono esseri umani in condizioni ideali sensatamente giudicare come 'moralmente corrette' le proprie risposte, o le proprie azioni? Quale sarebbe, in questo caso, il significato di 'moralmente corretto'?) Ma tralascio qui questa complicazione, perché irrilevante ai nostri fini attuali.

38. Cfr. Zimmerman 1983, p. 467.

39. Moreso prende, in effetti, in considerazione la seconda obiezione (circolarità), e replica nel modo seguente (p. 23): "algunas veces se argumenta [contro [MC]] afirmando que las condiciones ideales para la evaluación moral no están en la misma situación que las condiciones normales para la percepción de los colores. Porque mientras las condiciones normales para la percepción de los colores, perceptores normales y condiciones estándar de visión y luz, no están coloreadas, las condiciones ideales para la evaluación moral están moralizadas. Obviamente la condición a) [ossia, la condizione di imparzialità] sería para algunos una condición moralizada. Sin embargo esta no me parece una objeción insuperable. Alguien que viviera en un mundo en donde no hubiera objetos del color del espectro del rojo, tendría también dificultades para distinguir el color rojo del color naranja. Y la lectura de las obras clásicas de la literatura castellana nos hace usuarios más competentes del castellano. De forma similar, mayor capacidad de despegarnos de nuestros prejuicios morales, nos acerca a las condiciones ideales para la evaluación moral". Purtroppo, non mi è chiaro quale sia, qui, l'argomento di Moreso. (1) La disanalogia resta: nel caso del concetto di rosso, che le condizioni standard siano 'colorate' vuol dire che, fra esse, c'è la condizione che vi siano, nell'ambiente, oggetti di colore rosso. Nel caso di [MC], di contro, che le condizioni rilevanti (o alcune di esse) siano 'moralizzate' vuol dire che sono esse stesse condizioni morali: che, cioè, sono selezionate sulla base di ragioni o principi morali. (2) D'accordo: stando a [MC], la capacità di prendere le distanze dai nostri pregiudizi morali ci rende pi prossimi alle condizioni ideali per la valutazione etica. Ma che cosa ha a che vedere, questa constatazione, con l'accusa di circolarità? Moreso prende in considerazione, inoltre, l'obiezione di indeterminatezza ("muchos (...) insistirán en que aún en dichas condiciones ideales no hay esperanza para la convergencia de nuestras actitudes", p. 23); ma ci esorta a prendere [MC], e la procedura di decisione suggerita da [MC], come una promessa per il futuro ("obremos como si las cosas fueran así, tratemos de acercarnos a dichas condiciones en nuestros debates morales y, at the end of the day, veremos lo que ocurre", p. 23).

40. Cfr. Gibbard 1990, pp. 18-9, 89; Celano 2001a.

41. Questa tesi è parte, ovviamente, di una concezione particolare dei concetti di colore. Per un modo di vedere antitetico cfr. McDowell 1994.

42. Questa linea di argomentazione solleva un problema: pensare, capire qualcosa, è un processo fisico (o biologico)? Il requisito di intelligibilità del bene, nella sua forma tradizionale, implica una risposta almeno parzialmente negativa a questa domanda.

43. Moreso sfiora questo ordine di considerazioni, quando argomenta nel modo seguente: "alguien podría argüir que el significado de 'rojo' viene dado por 'x es rojo si y sólo si perceptores normales de x en condiciones estándar percibirían x como rojo' y, sin embargo, insistir, en que es la propiedad A de reflexión de la luz en las superficies la que realmente causa que perceptores normales, en condiciones estándar, perciban x como rojo. Pues bien esto no cambia que la verdad de este enunciado (una verdad necesaria según algunos autores), no contribuye al dominio de los conceptos de color. Así: uno puede desconocer totalmente esta regularidad nómica y tener un dominio y competencia altísima en el uso de rojo y otro, un ciego de nacimiento, puede conocer muy bien estas regularidades nómicas y carecer totalmente del dominio del uso de los conceptos de color. Algo semejante ocurrecon los conceptos morales. El dominio de los conceptos morales está conceptualmente conectado con los contextos de justificación, aprobación y censura, de las acciones humanas. Es posible que mayor conocimiento explicativo de cómo los seres humanos hemos desarrollado esta práctica de la moralidad, ayude a conocer cuáles son las propiedades naturales que están conectadas con la corrección de las acciones humanas, tal vez la evolución nos ha seleccionado para ser capaces de tener pro-actitudes hacia aquellas acciones que nos coordinan en benificio mutuo. Es posible que tener mayor conocimiento explicativo ayude a ubicar la moralidad en una concepción más amplia de la realidad, en una teoría unificada del mundo. Pero ello no variaría para nada el ámbito justificativo, el que aquí nos preocupa, de la moralidad" (p. 14). Il problema sollevato nel testo è, però, diverso. Il punto non è che, per percepire qualcosa come rosso, sia necessario conoscere il meccanismo causale in forza del quale qualcosa appare, sotto certe condizioni, come rosso. Il punto è, piuttosto, che capire che cosa sia essere rosso, padroneggiare il concetto di rosso, implica necessariamente il riferimento a un processo percettivo (processo la spiegazione del quale richiede l'individuazione del meccanismo causale rilevante). Ciò che il requisito di intelligibilità del bene richiede è, invece, che si possa capire che cosa sia essere buono, che vi è qualcosa di buono in certe cose, senza che ciò implichi il riferimento a un processo fisico, o biologico (sia pure lasciando aperta la possibilità di una storia causale, ad es., una storia evoluzionistica, che spieghi l'esistenza di questa competenza).

44. Waldron 1999, pp. 171-2.

45. Cfr. Moreso 2002a, p. 2: "solamente garantizando un espacio para la objetividad de la moralidad podemos asegurar un lugar estable a los derechos en nuestro diseño institucional"; ivi, p. 24: "el reino de los derechos humanos debe encontrarse en el continente más amplio de una moralidad objetiva. De otro modo, el reino de los derechos, como el continente en el que se encuentra, padecerían de inestabilidad. Nuestro diseño institucional ha de descansar en este territorio objetivo, so pena de quedar al vaivén de nuestros acuerdos ocasionales, fundados en la negociación de nuestros intereses, más o menos inconfesables. (...) Ni veo posibilidad alguna de construir un mundo en donde los derechos humanos sean respetados sobre bases escépticas o relativistas".

46. Cfr. per quanto segue Celano 2000c.

47. Pintore 2001, pp. 180-1, 193.

48. Va da sé che questa trasformazione lascia sempre un resto, un residuo. Il diritto tende a operarla, ma la trasformazione non è mai completa. Non soltanto perché il diritto fornisce, oltre a specificazioni attinenti a organi e procedure di decisione, anche criteri sostanziali di giudizio, suscettibili di valutazione dal punto di vista di una teoria normativa della giustizia. Ma anche perché si pone comunque il problema se la scelta, da parte del diritto, di un particolare organo piuttosto che un altro, o di una particolare procedura piuttosto che un'altra, sia essa stessa conforme a giustizia.

49. Cfr. ad es. gran parte dei contributi in Ferrajoli 2001.