2013

Le leggi di Burgos

Luca Baccelli

Il 27 dicembre 1512 la regina Giovanna di Castiglia (in realtà suo padre Ferdinando, reggente) emanò a Burgos le “Ordenanzas reales para el buen regimento y tratamiento de los yndios”. Erano il risultato del lavoro di una junta di giuristi, teologi e consiglieri del re che aveva discusso sulla legittimità  della conquista delle Indie occidentali e sulle modalità della colonizzazione.  Le Leggi di Burgos riconoscono la libertà degli indigeni e al tempo stesso legittimano e regolamentano il loro repartimiento presso i coloni spagnoli, perché lavorino nelle miniere, nell’agricoltura e nei servizi personali e siano convertiti al Cristianesimo. Buona parte delle leggi tratta di religione: i coloni sono obbligati a costruire edifici di culto e a vigilare affinché gli indigeni partecipino ai riti giornalieri ed alla messa domenicale. Ma ciò che viene stabilito fin dal principio è la loro deportazione presso le aziende dei coloni, il loro internamento in alloggi comuni, la distruzione con il fuoco dei loro villaggi, l’obbligo al lavoro. È la definitiva legittimazione giuridica del sistema dell’encomienda, l’istituzione attraverso la quale la colonizzazione spagnola si affermerà e si diffonderà nell’America centro-meridionale.
Nella junta di Burgos la differenza dei punti di vista era stata significativa, ma nelle sue conclusioni venne accettato l’essenziale delle tesi sostenute dai conquistadores. Gli indigeni, si legge, “sono per natura inclini all’ozio e a malvagi vizi”. Occorre insomma costringerli al lavoro per tutelarli dall’ozio, padre dei vizi e il loro repartimiento presso gli spagnoli è necessario anche perché possano venire istruiti nella dottrina e convertiti alla fede cristiana. Del resto, la bolla Inter caetera divinae, emanata da Papa Alessandro VI Borgia subito dopo il ritorno di Colombo dal primo viaggio, aveva concesso e destinato ai sovrani di Castiglia le terre scoperte a Occidente affinché “i popoli barbari siano sottomessi e ricondotti alla fede”.
Un anno prima delle Leggi di Burgos l’iniquità e la violenza del sistema erano state chiaramente denunciate. Nella chiesa di Santo Domingo era risuonato il veemente sermone di Antonio da Montesinos a nome dei suoi confratelli domenicani: gli spagnoli vivono in peccato mortale per la crudeltà e la tirannia con cui trattano gli indios, la loro servitù e le guerre di conquista non hanno alcun fondamento né nel diritto né nella giustizia. Ma di queste tesi a Burgos arriva solo un’eco. Nella junta si discute piuttosto se agli indigeni – in quanto barbari – si può applicare la teoria aristotelica della schiavitù naturale. E alla fine si troverà il modo di tenere insieme la loro libertà giuridica con la servitù: gli indios sono liberi sudditi della corona di Castiglia ma li si può costringere al lavoro, in cambio di un “giusto” salario.
Nella effettiva applicazione delle norme i rapporti di lavoro servile previsti dall’encomienda saranno difficilmente distinguibili dalla schiavitù. E nel giro di poche decine di anni la popolazione autoctona delle Grandi Antille si estinguerà – nel 1512 la crisi demografica era probabilmente già irreversibile – mentre nell’insieme dell’America si ridurrà a 1/3, per seguire stime ottimistiche. Come ha mostrato magistralmente Massimo Livi Bacci nel suo Conquista. La distruzione degli indios americani, la catastrofe demografica è dipesa da molteplici fattori: ebbero un ruolo importante sia la violenza diretta, sia – più tardi –  le malattie provenienti dall’Europa.  Ma è stato decisivo l’assoggettamento dei nativi al lavoro servile e la conseguente rottura degli equilibri ecologici ed economici, dei legami familiari e comunitari. Per usare le parole di Bartolomé de Las Casas, accanto alle guerre ingiuste e diaboliche dei cristiani, “l’oppressione con il più duro, orribile e aspro servaggio nel qual furono mai posti uomini e bestie” portò alla distruzione degli indigeni.
Per giustificare tutto questo, fin dalla discussione di Burgos si cerca di conciliare la predicazione universale del Vangelo con l’idea della naturale inferiorità dei “barbari”. Qualche anno dopo Juan Gines de Sepúlveda, finissimo umanista, sosterrà che spagnoli e indios condividono l’umanità; ma quella dei barbari è un’umanità di livello inferiore, e per questo sono servi per natura. È nel loro interesse essere sottomessi e governati da chi è signore per natura. Per Sepúlveda il governo dei migliori sui peggiori è prescritto dal diritto e dalla dottrina religiosa, e gli spagnoli superano in humanitas i barbari del Nuovo Mondo come gli adulti superano i bambini, i maschi le femmine, i miti e prudenti gli uomini violenti e intemperanti. E i cristiani, in quanto humaniores (più civili, letteralmente “più umani”) hanno l’obbligo morale e religioso di sottomettere i barbari, allontanarli dai peccati, educarli.
Molti ritengono che i paladini della conquista considerassero animali non umani gli indios. Non c’è dubbio che parecchi coloni e alcuni teologi abbiano difeso questa tesi, se non altro per evitarsi l’incomodo dell’evangelizzazione. Ma il discorso dominante è un altro. Per Sepúlveda è proprio sulla comune umanità  che si fonda il mandato di civilizzazione affidato agli spagnoli. Allontanare i pagani “dai crimini e dalle  disumane turpitudini, dal culto degli idoli e completamente dall’empietà, per  essere condotti a probi ed umani costumi ed alla vera religione” è fare la volontà di Dio, ed è conforme al motto di Terenzio “Homo sum, nihil humanum a me alienum puto”. Gli indios sono “uomini, nostri amici e nostro prossimo”, ed è per questo che i cristiani hanno il dovere di conquistarli allo scopo di offrire loro la possibilità di essere redenti.
Si inaugura così un discorso paternalistico che accompagnerà l’importazione degli schiavi africani nelle piantagioni americane – saranno loro a produrre il cotone, materia prima per la rivoluzione industriale – e l’imperialismo, fino alle forme di lavoro coatto diffuse nell’epoca della globalizzazione, dall’estremo Oriente al cuore dell’Europa. E questo discorso sarà rimodulato nei termini, più laici, della missione civilizzatrice dell’Occidente e del “fardello dell’uomo bianco”, fino all’esportazione della democrazia.
Qui occorre esercitare la ricerca storica spassionata, analizzare eventi e processi nel dettaglio, ripercorrere la modernità nelle sue promesse non mantenute e seguire i suoi sentieri interrotti. Ma le Leggi di Burgos richiamano anche una responsabilità della memoria. Forse dovremmo sviluppare una forma attiva di senso di colpa. O meglio, una vigile attenzione sulla nostra straordinaria capacità di conciliare libertà ed eguaglianza sul piano giuridico con servitù ed oppressione sul piano economico e sociale, a cominciare dai luoghi del lavoro.