2006

L'accesso all'acqua come diritto sociale e diritto collettivo (*)

Nicolò Bellanca

Premessa

Fin dal Water Manifesto, redatto nel 1988 da un comitato internazionale presieduto da Mario Soares, e quindi in numerose altre proposte avanzate da movimenti ecologici e sociali transnazionali, si dichiara che l'acqua è un patrimonio dell'umanità e che l'accesso ad essa va garantito, anche in termini economici, a tutti senza alcuna discriminazione. Che l'acqua sia un "bene comune universale" è, tuttavia, un'asserzione imprecisa sotto il profilo della teoria economica, e ineffettuale sotto il profilo delle strategie politiche. È questo ciò che, con brevità provocatoria, proverò ad argomentare.

  RIVALITÀ
Alta Bassa
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À
Difficile Bene pubblico Risorsa comune
Facile Bene di club Bene privato

L'acqua come bene economico sui generis

Schematizzando molto, i beni economici si articolano in quattro categorie: quelli privati, quelli pubblici, quelli privati impuri e quelli pubblici impuri. Un posto sull'aeroplano è un bene privato, poiché se lo uso io non ne godete voi. L'esclusione può realizzarsi tramite un prezzo, un diritto di proprietà, un vincolo tecnologico o istituzionale. L'acqua non è assimilabile ad un bene privato per un motivo semplice e decisivo: è tra le pochissime "merci" prive di sostituti. Il bisogno di vestirmi posso soddisfarlo con abiti di cotone, seta o lino; lunghi o corti; leggeri o pesanti. Se invece desidero dissetarmi, lavarmi o coltivare la terra, solamente l'acqua dolce pulita può rispondere a queste esigenze. Mentre il mercato valuta il "costo alternativo" dell'acqua, ossia quali e quanti altri beni servono per accedere ad un certo ammontare d'acqua, non rivela l'aumento assoluto della scarsità di acqua. Infatti il mercato misura scarsità relative: se il prezzo di un bene privato cresce, lo si rimpiazza, secondo un dato "saggio di scambio", con un diverso bene privato. Ma il bisogno alimentare, sanitario e agricolo non sono esaudibili da surrogati dell'acqua (1). Pertanto l'acqua non è una merce tra le merci, non è un bene economico privato.

Il teatro "La Pergola" è un bene privato impuro o, come si dice, bene di club. Ne fruiscono coloro che lo finanziano e soltanto loro. Biglietti, abbonamenti o sovvenzioni private sono modi per evitare che l'entrata sia libera e che avvenga un eccessivo affollamento. Tutti gli spettatori fruiscono per intero del piacere di Romeo e Giulietta, poiché la barriera all'entrata ha assicurato che il beneficio per uno non riduca il beneficio per gli altri. Ebbene, l'acqua non è un bene di club, poiché né prezzi, né tariffe, né razionamenti forzosi, né cambiamenti nella tecnologia del prelievo e della distribuzione, riescono ad eliminare - in parti significative del pianeta e lungo un arco storico che giunge fino ad oggi - il fenomeno della rivalità nel consumo: per l'acqua si combatte continuamente, in quanto nessuno è mai riuscito a mantenere stabile un "club degli utenti" dal quale miliardi di donne e uomini rimangano fuori (2).

Un territorio ricco di petrolio costituisce un bene pubblico impuro. Se singole imprese possiedono in via esclusiva i vari appezzamenti dell'area, accade che il mio giacimento sia in effetti, nel sottosuolo, adiacente al tuo, che controlli l'appezzamento vicino, e se io mi affretto a estrarre tutto il petrolio mi prendo anche il tuo. Se piuttosto l'intera area appartiene ad una collettività, ossia è una "risorsa comune" (common), il petrolio è disponibile liberamente per ciascun membro della collettività, ma la difficoltà ritorna, poiché più io lo estraggo, meno ne rimane per voi. Ebbene, l'acqua è come il petrolio dell'esempio? In ampia misura no, in quanto - malgrado le falde acquifere corrano nel sottosuolo, parecchi bacini siano transfrontalieri e le acque dei laghi non siano frazionabili -, l'accesso ai maggiori corsi e bacini idrici è, in termini tecnici ed istituzionali, "recintabile" (3).

I due argomenti presentati stanno in effetti tra loro come il concavo sta al convesso. Il primo osserva che, essendo l'accesso all'acqua quasi sempre un bene conteso, la sua escludibilità appare problematica perfino quando è oggettivamente realizzabile. Il secondo viceversa annota che, essendo l'accesso all'acqua quasi sempre un bene conteso, sorgono continui tentativi di escludibilità, perfino quando questa è difficile da attuare. Poiché il bene pubblico puro dovrebbe congiuntamente essere non-rivale come il bene di club e non-escludibile come il common, è facile concludere che l'accesso all'acqua nemmeno si colloca in questa categoria.

Riassumendo, questa discussione suggerisce che l'acqua rappresenta un bene economico sui generis, che non rientra in alcuno degli "scompartimenti" della teoria standard. Poiché essa differisce da un bene privato (puro o impuro), hanno torto coloro che vogliono affidarne la gestione ai soli mercati. Poiché però essa differisce altresì da un bene pubblico (puro o impuro), appare improprio affermare univocamente che si tratta di un "bene comune universale", se con tale espressione ci riferiamo ad un concetto economico di bene, e non a qualche accezione etica del Bene (4).

L'accesso all'acqua come diritto universale?

Torniamo ad esaminare la tesi secondo cui, poiché l'acqua apparterrebbe a tutti gli abitanti della terra in comune, essa dovrebbe essere oggetto di un diritto naturale universale. Questa «sorta di giusnaturalismo idrologico», come lo chiama Danilo Zolo, rischia d'indebolire, al di qua delle sue nobili intenzioni, la strategia politica volta a rendere più esteso e sostenibile l'accesso all'acqua.

In primo luogo si tratta di una posizione che non poggia, lo abbiamo visto, sui connotati dell'acqua come bene economico: quei connotati sono del tutto unici, e possono di per sé supportare l'intero ventaglio delle policies: dall'uso dei mercati esistenti alla creazione di nuovi mercati, dal ricorso a regolamentazioni ai metodi partecipativi, dagli interventi governativi diretti agli accordi ambientali internazionali. Per esprimerci in maniera secca, l'analisi economica non svolge un ruolo dirimente nei riguardi dell'approccio "migliore" alla gestione dell'acqua: essa, consapevole dei propri limiti, deve lasciare il campo alle decisioni collettive, ossia alla politica.

In secondo luogo l'acqua dolce pulita - destinabile agli usi alimentari, sanitari e agricoli - è sempre più un bene prodotto, non un "dono della natura" che le società umane possono prelevare out there. In questo senso non è rilevante discorrere in linea di principio dell'acqua come patrimonio dell'umanità, bensì comprendere in linea di fatto come e quanta acqua viene prodotta; come, quanta e a chi viene offerta; come e perché intorno a questo bene non-sostituibile si scatenano conflitti di potere.

In terzo luogo l'acqua dolce pulita non è un "bene comune globale", accessibile a chiunque "nel pianeta", bensì è resa disponibile in territori specifici, mediante modalità peculiari, con benefici e costi che sono pure in larga parte localizzati. Essa va conquistata e difesa, negoziata e "interpretata" (nelle sue importantissime valenze simbolico-culturali), in contesti storico-istituzionali precisi, entro collettività umane ben identificate. Sono certe donne e uomini in certe situazioni ad aver bisogno di acqua, rispetto agli ostacoli principalmente imposti da altre collettività umane.

In quarto luogo l'impostazione dei diritti umani fondamentali - tra i quali dovrebbe collocarsi il diritto all'acqua - rischia non di rado, ai nostri giorni, di diventare un'ideologia al servizio dei più forti, anziché un ausilio per i più deboli. Osserva Robert Chambers: «la dichiarazione universale dei diritti umani è applicata soprattutto ai poveri. Manca una dichiarazione universale dei doveri umani applicata principalmente ai ricchi. Perché mai?». E aggiunge Michael Ignatieff: «i diritti umani potrebbero assumere un carattere meno imperiale se diventassero più politici, ovvero se non fossero percepiti come un linguaggio per emanare e proclamare verità eterne, ma come un discorso per la soluzione dei conflitti».

Un diritto sociale e un diritto collettivo

Sulla scorta dei precedenti argomenti, appare politicamente più stringente pensare il diritto all'acqua come un diritto sociale e un diritto collettivo. Com'è noto, lo sviluppo dei diritti soggettivi ha attraversato tre fasi. Ai diritti negativi di libertà dell'individuo dallo stato, sono seguiti i diritti positivi di libertà nello stato, per giungere ai "diritti sociali" che, scriveva Norberto Bobbio, «esprimono la maturazione di esigenze di benessere e uguaglianza non solo formale, e si potrebbero chiamare libertà attraverso o per mezzo dello stato». I diritti sociali sono intrinsecamente relativi, poiché la loro affermazione si scontra ad un certo punto con la tutela di un diritto concorrente: il diritto ad un lavoro remunerato può ad esempio cozzare contro il diritto alla libertà d'impresa, così come il diritto all'acqua dei palestinesi può cozzare col diritto alla sicurezza degli israeliani. Quando valutiamo "diritti sociali", rendiamo esplicito il gioco: non ci trinceriamo più dietro presunti universalismi, bensì manifestiamo ordini di priorità che sono, in definitiva, politici.

D'altra parte, la nozione di "diritto collettivo" nasce per rispondere ad un'aporia dei diritti individuali: in situazioni di grande rilievo, il prerequisito per la protezione del mio diritto soggettivo è che sia definito e tutelato un diritto per l'intero gruppo al quale faccio riferimento. Immaginiamo che io rivendichi il diritto di parlare l'idioma della minoranza a cui appartengono i miei antenati. Questo diritto vale su scala individuale soltanto se è riconosciuto, su scala collettiva, il diritto di quella minoranza ad esistere culturalmente: in caso contrario, con chi potrei parlare quell'idioma? L'acqua è un bene non meno vitale del linguaggio (5). Essa codetermina la sopravvivenza di un gruppo come gruppo, e quindi dell'individuo entro quella collettività. Quel che "fa la differenza" non è che io o tu possiamo, come singoli, usare, poniamo, la falda acquifera occidentale della Cisgiordania; quello che appare prioritario e decisivo è che il popolo palestinese, al quale tu ed io apparteniamo, possa accedere a quell'acqua.

Conclusione

In quanto "nuovo" diritto sociale, il diritto all'acqua può essere rivendicato dai cittadini di una determinata comunità nei confronti delle proprie autorità politiche e deve essere perciò garantito da tali autorità. In quanto diritto collettivo, esso può essere rivendicato entro l'ordinamento giuridico internazionale dalle autorità politiche legittimamente rappresentanti un popolo insediato in un determinato territorio. Possiamo sintetizzare annotando quindi che il diritto sociale va coltivato entro un gruppo, mentre il diritto collettivo va propugnato tra i gruppi. Entrambi concorrono all'espansione e alla sostenibilità dell'accesso all'acqua.


Note

*. Relazione al Convegno Diritto all'acqua contro la povertà, Firenze, Palazzo Vecchio, 10-11 novembre 2006. Ringrazio Danilo Zolo, ai cui scritti e alla cui lezione mi sono ampiamente ispirato, nonché Giovanni Canitano e Renato Libanora, che hanno commentato una prima versione di questo testo.

1. L'approccio economico alle politiche allocative dell'acqua si propone pertanto di massimizzarne l'impiego in usi alternativi, data la quantità disponibile dal ciclo di rigenerazione, considerando gli impieghi in cui genera il maggior benessere sociale, inclusi quelli ambientali ed estetico-ricreativi, in funzione degli obiettivi di policy.

2. Ovviamente nella storia umana sono stati costruiti protocolli tecnico-istituzionali mediante i quali si tenta di avvicinare il servizio idrico ad un bene di club. È ciò che ad esempio accade quando, nella città in cui vivo, posso essere escluso se non pago la bolletta. Qui peraltro si rileva che: a) l'acqua è un bene intrinsecamente conteso; b) tale perpetua conflittualità rende provvisorio ogni tentativo di esclusione di certe collettività umane dalla sua fruizione. Questo punto si mantiene valido anche al variare del grado di successo delle procedure di esclusione.

3. Rispetto alle lacune del regime internazionale di diritti di proprietà sulle acque, il procedimento "tecnico-istituzionale" che oggi prevale, al fine di "recintare" l'accesso ad una fonte idrica, consiste nel controllare strategicamente l'intera area. In tal modo si attenua ex ante la doppia difficoltà richiamata nel testo: quella legata a diritti privati di proprietà, così come quella legata alla proprietà comunitaria.

4. Alcuni economisti hanno sostenuto che i servizi idrici siano più adeguatamente inquadrabili con la nozione di "beni di merito": i beni che, per una scelta collettiva, vengono prodotti in misura superiore a quella che sarebbe deliberata autonomamente dai singoli (individui o gruppi). Si tratta di un concetto che ha almeno due pregi: a) riconosce il carattere in ultima analisi politico dell'accesso all'acqua; b) non pregiudica nulla sul fronte degli interventi, che possono essere statali o privati o misti (a seconda dell'orientamento e dei criteri della decisione collettiva). Esso tuttavia presenta un alone paternalistico, in quanto implica che qualcuno (un tutore oppure un gruppo) imponga la propria volontà e le proprie preferenze ad un altro (il pupillo oppure un diverso gruppo); in tal senso, esso sembra prestarsi a ratificare gli assetti di potere esistenti.

5. Mentre peraltro il linguaggio si arricchisce con l'uso, l'acqua dolce pulita è una risorsa semi-rinnovabile, che si rigenera se utilizzata fino ad un valore soglia, superato il quale può determinarsi il suo degrado irreversibile. In questo come in tanti altri casi, le analogie, accanto a somiglianze, suggeriscono differenze che andrebbero approfondite.