2009

Diritti umani, legge naturale e scienza

Alberto Artosi (*)

La storia pone serie difficoltà a chiunque affermi l'esistenza di universali morali. Ad esempio, gli universalisti dei diritti si trovano non di rado a riconoscere sia che i diritti umani sono universali (transculturali) sia che sono il prodotto storico di una cultura particolare (occidentale) (1). Ma com'è possibile che ciò che si è sviluppato secondo modalità idiosincratiche e dipendenti dalla cultura possa avere una validità universale, cioè indipendente da tali modalità? Poco propensi a lasciarsi turbare da simili difficoltà, gli universalisti pongono in atto ogni sorta di ingegnosi stratagemmi (2). Talvolta, essi avanzano il seguente argomento:

I diritti umani sono inizialmente emersi - sono stati creati o 'scoperti' - in Europa [...] perché [...] gli stati moderni e il capitalismo sono apparsi per la prima volta qui. Questa storia non rende tali diritti più irrilevantemente 'occidentali' di quanto le origini e la diffusione iniziale della fisica newtoniana e della fisica quantistica le rendano fisica 'occidentale' inapplicabile all'Asia. (3)

I diritti umani, si dice, sono tanto universali quanto le leggi e le teorie della scienza. L'argomento presuppone 1) che un simile confronto fra teorie scientifiche e principi morali è possibile, e 2) che la scienza è effettivamente universale. Il secondo assunto sembra ovvio (4). Quindi, se qualcosa non funziona nell'argomento, la difficoltà sta nel primo assunto. "L'analogia con la fisica newtoniana", scrive Michael Goodhard, "è inappropriata perché, a differenza della gravità o della termodinamica, il capitalismo potrebbe essere in se stesso distintivamente occidentale" (5). Inoltre, l'assunto è scarsamente plausibile perché "fisica e teoria morale fanno tipi molto diversi di asserzioni, e tali differenze invalidano probabilmente un confronto diretto di questo genere" (6). In quanto segue sosterrò che, nella misura in cui l'argomento incorre in difficoltà, queste non riguardano tanto il primo quanto il secondo assunto, e che l'universalità della scienza non può essere data per scontata. Poiché questa conclusione sembrerebbe rafforzare le argomentazioni che rivendicano la specificità storica e culturale della scienza (occidentale) esaminerò una di queste argomentazioni e cercherò di fare chiarezza sulle sue implicazioni. Arrivati a questo punto farò alcune osservazioni critiche sull'uso della scienza come argomento a sostegno dell'esistenza di principi oggettivi di diritto naturale. Infine, trarrò alcune conseguenze per l'idea di diritti umani.

1. La scienza è realmente universale?

In che senso la scienza è universale? Secondo il resoconto (ancora) in voga fra i suoi ammiratori (occidentali e non occidentali) la scienza è universale perché contiene principi (leggi, teorie) che descrivono e spiegano caratteristiche generali di una realtà oggettiva indipendente dalla cultura e dalla storia. Il resoconto si fonda su solide ragioni. I pianeti obbedivano alle leggi della meccanica newtoniana anche prima di Newton, e raggi X, atomi, quark e leptoni esistevano già da prima che gli scienziati li scoprissero: certamente, i modi in cui avviciniamo la realtà dipendono da circostanze storiche e culturali determinate, ma altrettanto certamente la realtà che raggiungiamo grazie a essi è indipendente da tali circostanze (7). Il punto è che non esiste nessuna evidenza indipendente per questa realtà, cioè nessuna evidenza indipendente dai modi (e dalle particolari circostanze) in cui ci avviciniamo a essa. "Ciò che ci dice l'evidenza", scrive Feyerabend,

è che, dopo aver avvicinato il mondo o, per usare un termine più generale, l'Essere con concetti, strumenti e interpretazioni che erano il risultato - spesso altamente accidentale - di sviluppi storici complessi, idiosincratici e alquanto opachi, gli scienziati occidentali e i loro sostenitori politici, filosofici e finanziari hanno ricevuto una risposta a 'struttura fine', contenente quark, leptoni, sistemi spaziotemporali, ecc. L'evidenza non ci dice se la risposta è il modo in cui l'Essere ha reagito all'approccio, così da riflettere sia l'Essere sia l'approccio, o se appartiene all'Essere indipendentemente da qualsiasi approccio. Il realismo assume che sia vero il secondo caso, assume cioè che un particolare fenomeno - l'Universo della nostra scienza e l'evidenza in suo favore - possa essere separato dallo sviluppo che ha portato a esso e possa essere presentato come la vera natura dell'Essere, indipendente dalla storia. L'assunto è, a dir poco, alquanto implausibile. (8)

L'assunto è implausibile perché, nel rimuovere il mondo della scienza dal mondo della storia, degrada quest'ultimo a mera apparenza irreale e ingannevole. (La cosa ha origini piuttosto lontane (9). Parmenide contrappose l'Essere reale, che non ha nessuno dei caratteri familiari né alcuna qualità umana, al mondo manifesto, che ha le proprietà di un sogno o di un'illusione, e trattò con disprezzo i comuni mortali perché erano incapaci di elevarsi alla sua sublime visione). Ma com'è possibile che, fuori della concezione del mondo della scienza, viviamo tutti in un'illusione? E com'è possibile che processi (di pensiero, di percezione) che hanno luogo in un mondo di apparenze illusorie possano farci scoprire aspetti di un mondo reale al di là di esso? Non c'è forse un'incoerenza? (10) Eppure, nella sua ricerca di una realtà oggettiva, la scienza ha continuamente sfidato questa incoerenza. I suoi fondatori dichiararono contro ogni evidenza che la natura è governata da leggi universali e immutabili e respinsero tutto ciò che non si adattava ai loro schemi come soggettivo e irrilevante (11). L'idea aveva un retroterra teologico (la nozione di un Dio legislatore); inoltre, era assente in altre culture, ad esempio era estranea alla civiltà e alla scienza cinesi. Come spiega Joseph Needham, l'idea che i cinesi avevano dei modi di operare della natura era

profondamente incompatibile con la concezione di un legislatore celeste. I moti dei corpi celesti proseguivano [...] secondo insegnamenti che nessuno aveva impartito, e seguendo editti che nessuno aveva emanato, o formulato verbalmente. Ma le leggi di natura che Keplero, Descartes, Boyle e Newton ritenevano di dover rivelare alla mente umana (lo stesso vocabolo 'rivelare' è sintomatico di ciò che costituiva il retroterra spontaneo del pensiero occidentale), erano editti che erano stati emanati da un essere sovrapersonale e sovrarazionale. Il fatto che in seguito si sia generalmente riconosciuto che si trattava di una metafora, non significa che ciò non abbia avuto un grande valore euristico agli esordi della scienza moderna in Europa. (12)

Infatti funzionò dannatamente bene (13). La teoria copernicana postulava un universo in contrasto con l'evidenza più ovvia, ma i copernicani non si fecero sviare: forti della loro credenza in una legislazione divina della natura che era loro dovere "rivelare" (14), trasformarono i fatti che la contraddicevano in esperienze che la confermavano e diedero una nuova direzione alla ricerca. Non fu però la ricerca a risolvere la questione: fu una decisione che adattava la realtà alla ricerca sostituendola con un distillato facilmente manipolabile e depurato di ogni tratto umano ed elemento culturale (15). Decisioni del genere non sono l'eccezione, ma la regola; soprattutto in aree altamente sofisticate della scienza come la fisica quantistica le questioni relative a ciò che è o non è reale non sono mai né interamente né prioritariamente determinate dall'esperimento e dalla teoria.

La caratteristica più importante dell'intero processo, e quella di cui è più difficile farsi un'idea in astratto, è che ogni stadio della progettazione e dell'analisi sperimentale, come pure ogni stadio della riconciliazione teorica, comporta importanti questioni di giudizio. Si tratta di questioni non chiuse dall'esperimento o dalla teoria o da qualcuna delle modalità che il realista potrebbe voler sussumere sotto la rubrica 'contatto con la realtà'. Questi giudizi esprimono norme, spesso transitorie, per perseguire il mestiere scientifico. Dunque la decisione di accettare per vera una particolare rivendicazione di esistenza è la decisione di accettare la complessa rete di giudizi che ne stanno alla base [...] La rivendicazione di esistenza sarà accettata per vera esattamente nella misura in cui la comunità scientifica rilevante accetta la rete di giudizi normativi e le concomitanti serie di teorie [...] [T]utto ciò che il processo mostra è come particolari giudizi di verità sono ancorati in una rete di giudizi e pratiche normative molto più generali. Pertanto, quando guardiamo a questa attività senza pregiudizi non scorgiamo il realismo [...] Piuttosto, ciò che vediamo all'opera è l'elaborazione critica di pretese di verità provvisorie emergenti dalla ragion pratica e dal giudizio localmente limitati. (16)

Ovviamente, gli scienziati tendono a occultare le loro decisioni (le loro preferenze, i loro giudizi di valore su ciò che conta o non conta come reale) dietro resoconti oggettivi (17). In un resoconto oggettivo, i 'fatti' vengono separati dai 'valori' in modo da suggerire che non è stata presa nessuna decisione, e che l'accettazione di una particolare rivendicazione di esistenza è indipendente da ogni valutazione (per esempio, è dovuta esclusivamente a una delle "modalità che il realista potrebbe voler sussumere sotto la rubrica 'contatto con la realtà'") (18). Ma seguire gli scienziati su questa strada ci porterebbe a trascurare quanto tali rivendicazioni debbano alla "rete di giudizi e pratiche normative" che costituiscono la loro 'forma di vita'. Del resto, gli scienziati stessi hanno ammesso apertamente la dipendenza delle loro ontologie da certi tipi di principi normativi - compreso il realismo, che non è che uno di questi principi. "Siamo liberi di rifiutare molte preconcezioni", scrive il chimico teorico Hans Primas,

ma non possiamo evitare di adottare certi principi regolativi [...] I principi regolativi sono regole normative di natura metafisica, quindi non suscettibili di dimostrazione o confutazione sperimentale. Tuttavia, la scintilla vitale di una teoria è strettamente legata ai principi regolativi adottati. Per esempio, non esiste una necessità empirica né logica di adottare il realismo. Ma [...] [n]oi tutti pensiamo che è sensato parlare di sedie, libri e animali come entità oggettivamente esistenti, esistenti indipendentemente dalla conoscenza che abbiamo di essi. Dunque, un linguaggio unificato ragionevole e coerente per la chimica teorica dovrà scegliere i suoi principi regolativi in modo tale da soddisfare le giuste esigenze di un realismo moderato. (19)

Si aggiunga che, anche se nelle decisioni su questioni di realtà nell'ambito della scienza i giudizi e le pratiche normative interne al "mestiere scientifico" hanno un ruolo decisivo, gli scienziati non sono isolati entro i confini della loro particolare forma di vita. Essi non interagiscono solo con il mondo naturale, ma anche con il mondo sociale; sono partecipi di tendenze storiche, mutamenti culturali, importanti riorientamenti di valori; sono inseriti nel loro ambiente e ne subiscono i condizionamenti (inclusi i condizionamenti delle strutture di potere alle quali, peraltro, essi stessi talvolta appartengono). Di conseguenza, le loro decisioni sono spesso influenzate dal desiderio (o dalla necessità) di conformarsi ai giudizi e alle pratiche della forma di vita più ampia in cui sono immersi (20).

Riassumiamo: gli scienziati muovono alla 'scoperta' della realtà guidati da certe (non sempre ben definite) aspettative e muniti di un variegato armamentario di metodi che sono il frutto spesso accidentale di sviluppi storici peculiari. Talvolta essi ricevono una risposta che conferma le loro aspettative. Questa risposta è il prodotto del modo in cui la realtà interagisce col metodo di approccio, e dipende quindi in maniera specifica da tale approccio (21). Il realismo spezza questo legame. Il risultato è una nozione di realtà indipendente dalla cultura e dalla storia. In questo modo viene anche creata una forte impressione di universalità. Il prezzo che si paga per l'una (oggettività) e per l'altra (universalità) è tuttavia molto alto. Parti importanti della realtà vengono rimosse semplicemente dichiarandole irreali. Ma nessun metodo scientifico di approccio alla realtà è in grado di stabilire che cosa è e cosa non è reale. La distinzione stessa tra ciò che è reale e ciò che non lo è ha solo un senso pratico (22). È il risultato di decisioni guidate da valutazioni 'soggettive' (culturalmente specifiche) e preferenze idiosincratiche (legate alle necessità di una particolare forma di vita). La scienza è piena di giudizi del genere (23) (incidentalmente, questa è una ragione per pensare che neanche l'affermazione che "fisica e teoria morale fanno tipi molto diversi di asserzioni" può essere data per scontata). Ne concludiamo che 1) la concezione di una realtà oggettiva indipendente dalla cultura e dalla storia è parte di una ideologia - "l'ideologia [che] cerca di derivare dalla scienza la sua pretesa di verità universalmente vincolante" (24); che 2) la scienza non concede a questa realtà nessun chiaro attestato, e dunque 3) che la presunta universalità della scienza è una chimera (25).

2. Orientalismo

D'accordo. Ma ciò non implica che la meccanica newtoniana e la teoria quantistica siano "fisica 'occidentale' inapplicabile all'Asia" (26). Infatti. Implica però che le preoccupazioni avanzate dai membri di altre culture per la penetrazione dei valori 'occidentali' attraverso la scienza sono pienamente giustificate - anche più (perché tanto più insidiosa quanto più occulta) di quelle per un'esportazione di tali valori attraverso i diritti umani e la democrazia (27). Bene. E tuttavia chi negherebbe che oggigiorno gli scienziati usano ovunque gli stessi metodi, impiegano gli stessi strumenti, fanno gli stessi esperimenti, giudicano reali le stesse cose (con i consueti dissensi, i quali sono però indipendenti dalla loro appartenenza all'una piuttosto che all'altra parte del mondo), e dunque che la "rete di giudizi e pratiche normative" che costituiscono la loro forma di vita è diventata - salvo forse qualche trascurabile idiosincrasia locale - norma universale? E ciò non significa forse che la scienza stessa è diventata (realmente) universale? Per niente. Il fatto che gli scienziati facciano ovunque le stesse cose mostra che la scienza è diventata un'impresa (e impone una condotta) uniforme (28). Ma l'uniformità non prova l'universalità. Prova solo che un particolare approccio ha avuto la meglio eliminando altri approcci. Ora, la storia insegna che questo tipo di successo è solo in parte dovuto a caratteristiche intrinseche dell'approccio (come la sua capacità di produrre risposte positive da parte dell'ambiente): per la maggior parte, esso è dovuto a ragioni di altro genere. Nel caso della scienza occidentale, una mèsse di studi hanno fatto piena luce su queste ragioni (29). Per concludere l'argomentazione basterà richiamare solo un aspetto della storia.

Quando, nel corso della loro espansione, gli Europei vennero a contatto con civiltà antichissime e culturalmente evolute come quelle dell'India e della Cina, non poterono ricorrere, per giustificare i loro propositi di dominio, al vecchio argomento, già usato per giustificare la conquista dell'America, che si trattava di popoli barbari e crudeli. Gli Europei non si fecero impressionare: elaborarono quella che Immanuel Wallerstein ha chiamato "argomentazione orientalista".

[I]l nucleo dell'argomentazione orientalista era che, sebbene fosse vero che le 'civiltà' orientali erano culturalmente altrettanto ricche e sofisticate della civiltà cristiano-occidentale, e dunque in un certo senso al suo stesso livello, esse avevano tuttavia un piccolo ma cruciale difetto, lo stesso in ciascuna di esse. Si affermava che vi fosse in esse qualcosa che le rendeva incapaci di procedere verso la 'modernità'. Erano diventate 'congelate', patendo una sorta di contrazione culturale, che poteva essere considerata una malattia culturale. (30)

Si trattava di un'argomentazione piuttosto ingegnosa che giustificava il "dominio politico, economico, militare e culturale" dell'Occidente (31) suggerendo che "[c]on l'aiuto del mondo occidentale, le civiltà orientali avrebbero potuto vincere i limiti che loro stesse avevano imposto alle proprie possibilità culturali (e naturalmente tecnologiche)" e, nel contempo, che il "dominio occidentale era [...] un fenomeno temporaneo e transitorio, ma allo stesso tempo essenziale per il progresso del mondo e nel diretto interesse di coloro ai quali il dominio veniva ora imposto" (32). Sia come sia, la scienza aveva un ruolo di primo piano nell'argomentazione perché tanto l'India quanto la Cina avevano sviluppato delle serie tradizioni scientifiche: possedevano una matematica, una astronomia e, nel caso della Cina, una tecnologia estremamente avanzata (la Cina aveva prodotto una impressionante quantità di invenzioni con diversi secoli di anticipo rispetto all'Europa). Di conseguenza, gli 'orientalisti' elaborarono un'immagine delle scienze e delle civiltà orientali che 'spiegava' perché, nonostante la loro cultura, queste civiltà non fossero state capaci di sviluppare una scienza paragonabile a quella occidentale. Naturalmente, la spiegazione era viziata all'origine perché assumeva la scienza occidentale come pietra di paragone del progresso scientifico (e della stessa idea di 'scienza'). Ciò tuttavia non le impedì di conquistarsi un ampio sostegno sia fra "i quadri dell'Occidente" che fra "i quadri delle zone dominate" (33). E anche oggi che l'"argomentazione orientalista" è morta e sepolta (sostituita nelle preferenze dei "quadri dell'Occidente" dalla dottrina dei diritti umani), la parte che riguarda la scienza resta in auge presso i suoi (della scienza) ammiratori al pari dell'idea che essa trae la sua universalità da una realtà oggettiva non contaminata dalle idiosincrasie umane. Anzi, le due idee sono spesso presentate come parti di una stessa concezione della scienza. "Una cultura che sia giunta alla scienza", scrive il fisico e divulgatore scientifico Alan Cromer,

deve aver incluso, nella sua era prescientifica, un numero di attività che abbiano insegnato alla mente a distinguere il pensiero, che è interno, e la realtà, che è esterna. In una cultura che non abbia mai sviluppato la scienza tali attività non saranno presenti; piuttosto, tutte le sue componenti tenderanno a rafforzare la confusione tra pensiero e realtà. (34)

Cromer ritiene che l'oggettività sia una caratteristica necessaria della scienza e il presupposto essenziale della sua nascita. Questo presupposto è stato realizzato solo dalla civiltà europea erede della civiltà greca: "nessun'altra civiltà [ha] fatto alcun serio tentativo per separare il pensiero dalla realtà. Nonostante che la Cina e l'India abbiano svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo successivo della scienza, nessuna delle due ha raggiunto l'oggettività" (35). Questa è la versione di Cromer del nocciolo dell'argomentazione orientalista (il "piccolo ma cruciale difetto" di Wallerstein). Il resto dell'argomentazione fiorisce di conseguenza. Si comincia richiamando all'ordine coloro che ritengono che "anche la Cina e l'India abbiano avuto tradizioni scientifiche, o almeno protoscientifiche", che "sarebbero col tempo approdate alla vera scienza, se non fossero state schiacciate dalla superiorità dell'Occidente" (36). Questo, si afferma, è "un fraintendimento relativo ai risultati delle ricerche condotte in questi campi, e sulla natura stessa della scienza" (37). E che cosa dicono queste ricerche? Dicono che mentre l'Occidente se la passava piuttosto male "la fiamma del pensiero greco fu tenuta viva in India e nel mondo arabo" (38) e la Cina sviluppò una civiltà efficientemente organizzata, culturalmente raffinata e tecnologicamente avanzata; tuttavia né la Cina né l'India si sono "trovate a percorrere [...] la strada che porta alla scienza" (39). E che cosa lo impedì? L'India aveva una cultura antichissima, però intrisa di misticismo e di magia; "la filosofia indù disprezzava il mondo materiale e, in casi estremi, ne negava addirittura l'esistenza" (40); la società indiana era divisa in caste rigide e la cultura era monopolio della casta superiore (la casta dei brāhmana); conoscenze e abilità pratiche erano disprezzate (confinate alle caste inferiori). Con simili presupposti, non c'è da stupirsi che l'India non abbia sviluppato "né la scienza, né una forma di protoscienza [...] La civiltà indiana mostra molto bene come il pensiero umano possa svilupparsi e prosperare per migliaia di anni senza mai imbattersi nella nozione di oggettività scientifica" (41).

Il caso della Cina è alquanto diverso. L'argomentazione orientalista riconosce la differenza ("La Cina era fondamentalmente secolare e burocratica, mentre l'India era religiosa e autocratica" (42)), ma la spiegazione che dà del mancato sviluppo della scienza in Cina è analoga. Il confucianesimo era "eminentemente una filosofia delle relazioni umane" (43); il pensiero cinese era tipicamente "etnocentrico e affiliativo", cioè i cinesi "vedevano il mondo come una rete di relazioni interpersonali tra genitori e figli, tra sovrintendenti e lavoratori, tra imperatore e sudditi" (44); la casta dei funzionari di governo (mandarini) aveva il controllo totale sulla cultura, la scienza, la tecnologia, l'educazione, le attività economiche, ecc., finendo così per diventare un fattore di fossilizzazione e di stagnazione culturale e sociale. Conclusione: "Per quanto brillanti fossero i cinesi, non riuscirono a giungere all'oggettività [...] La storia della Cina classica, che copre tremila anni, mostra drammaticamente che la scienza non è inevitabilmente il punto di arrivo di una civiltà colta e raffinata" (45).

Vale da pena di notare che questa versione dell'argomentazione si basa sull'assunto che l'"egocentrismo", cioè l'incapacità di concepire una realtà indipendente da noi (dai nostri pensieri, sentimenti, desideri), è una caratteristica "primordiale" (46) della natura umana. Esso è presente nei bambini (che non hanno ancora sviluppato un approccio 'oggettivo' alla realtà) ed è un tratto caratteristico della "mentalità primitiva" (è all'origine dell'animismo e della magia) (47). Le civiltà che, nonostante la loro millenaria cultura, hanno mancato l'appuntamento con la scienza replicano questa caratteristica - "Così come la mente egocentrica non distingue i pensieri dalla realtà esterna", scrive Cromer cercando di fare chiarezza su questo punto, "la mente affiliativa non distingue gli interessi personali da quelli del gruppo" (48). Tali civiltà sono rimaste "'congelate'" nel loro egocentrismo (primitivismo) infantile; hanno sofferto di una "contrazione", di una "malattia culturale" che ha origine nella loro incapacità di sviluppare, a un tempo, uno schietto oggettivismo e un sano individualismo. Il carattere ideologico dell''argomentazione' è evidente. Partendo da assunti dubbi (presunte caratteristiche originarie della natura umana) ed estrapolazioni infondate (le ricerche di epistemologia genetica di Piaget applicate all'evoluzione di intere civiltà), essa si sforza di riproporre in una veste aggiornata (e opportunamente dissimulata) tutte le vecchie giustificazioni orientaliste della superiorità della cultura occidentale sulle altre culture e del suo diritto a dominarle nel loro "diretto interesse".

3. Legge naturale e scienza

Nei paragrafi precedenti ho esaminato due argomentazioni sulla scienza. La prima argomentazione separa la scienza dalle sue origini storiche e culturali assumendo che essa si occupi di una realtà indipendente dalla cultura e dalla storia. La seconda argomentazione sottolinea invece la sua "origine storica unica" (49) e le condizioni culturalmente distintive in cui è sorta (i "fattori storici unici" (50) che hanno permesso alla 'mente' europea di rompere "la barriera dell'egocentrismo" (51) e di giungere alla nozione di realtà oggettiva). Entrambe le argomentazioni hanno un notevole impatto sulla questione dei diritti umani. La prima rende la scienza un prodotto facilmente esportabile in forza della sua (pretesa) universalità e un modello per l'esportazione di sistemi di valori (ritenuti) analogamente universali. La seconda giustifica il diritto della (superiore) civiltà occidentale a intervenire nelle vite di genti esotiche e scientificamente sottosviluppate per strapparle alla loro indolenza infantile e portarle sul sicuro cammino della modernità e della scienza. Ho sostenuto che entrambe le argomentazioni mancano di solide basi - la prima dipende da una filosofia della scienza alquanto discutibile; la seconda è una variante della tradizionale 'argomentazione orientalista'. Ne concludo che la scienza non può essere usata come argomento né a sostegno dell'universalità dei diritti umani né del diritto a imporli. Ciò nonostante, i teorici delle più disparate ideologie mostrano la tendenza a usare la scienza come argomento per le loro pretese di validità oggettiva (universale, vincolante). La scienza si rifiuta però a tali pretese. Cercherò di mostrarlo discutendo due esempi di questo modo di argomentare tratti da uno dei testi capitali della recente tradizione di diritto naturale.

Può esserci storia, si dice, di ciò che è (storicamente) mutevole e accidentale, come le tradizioni umane e le opinioni dei teorici riflessivi; ma i principi della legge naturale trascendono ogni accidente del genere:

Principi di questo genere resterebbero validi, come principi, per quanto estensivamente essi fossero trascurati, malamente applicati o contrastati dal pensiero pratico, e per quanto poco venissero riconosciuti da coloro che teorizzano riflessivamente sul pensiero umano. Vale a dire, essi 'resterebbero validi' proprio come i principi matematici della contabilità 'restano validi' anche quando, come avveniva nella comunità bancaria medievale, essi sono sconosciuti o fraintesi. (52)

L'argomento ricalca quasi alla lettera quello che abbiamo esposto all'inizio di questo saggio: là si diceva che i diritti umani hanno la stessa universalità delle leggi e delle teorie della scienza; qui si afferma che i principi della legge naturale hanno la stessa validità oggettiva (metastorica) dei principi matematici. L'argomento presuppone, come in precedenza, che 1) un simile confronto fra principi matematici e principi di diritto naturale è possibile, e 2) che i principi matematici hanno effettivamente una validità oggettiva. Come prima, il secondo assunto sembra ovvio; ma, come prima, non lo è affatto. Esso è un dogma per i realisti; ma i realisti non sono i padroni del campo in matematica: oltre al realismo esiste un'ampia varietà di concezioni alternative, molte delle quali non concordano con l'idea che i principi matematici costituiscono un regno di verità atemporali indipendenti dagli esseri umani e dalla loro conoscenza. Per esempio, ci sono convenzionalisti, per i quali le 'verità' matematiche sono mere convenzioni che non si riferiscono a nulla e non sono imposte da alcuna necessità assoluta, e formalisti che considerano l'intera matematica come un gioco di simboli privi di significato (ancora nessuna ontologia presupposta e nessuna validità assoluta). Ci sono costruttivisti e intuizionisti, per i quali ciò che conta come un principio valido dipende da ciò che siamo in grado di provare con l'aiuto di specifiche argomentazioni (di nuovo nessuna ontologia presupposta); per questi ultimi, in particolare, la validità è almeno in parte un concetto 'storico': un principio può essere provato, e dunque diventare valido pur non essendo stato valido prima. E vi sono anche coloro che sottolineano l'importanza dei fattori culturali e sociali nel determinare quali principi matematici sono considerati 'validi' (per costoro i processi storici alquanto complessi che hanno accompagnato l'affermazione del capitalismo hanno avuto un ruolo cruciale negli sviluppi che hanno portato ai "principi matematici della contabilità" (53)). Nessuna di queste concezioni si è imposta sulle altre. Piuttosto, nella matematica c'è posto per una varietà di scuole con differenti concezioni e metodi (e anche oggetti) di ricerca. Neppure il realismo costituisce una concezione uniforme: esistono molte versioni di realismo, così come esistono differenti versioni di formalismo, convenzionalismo e intuizionismo. Inoltre, ci sono buone ragioni per abbracciare una concezione, e altrettanto buone ragioni per non farlo (molte di queste concezioni hanno però prodotto risultati e possono quindi essere valutate rispetto a tali risultati, il che non si può dire, a quanto pare, delle concezioni della legge naturale). Ciò mostra che l'appello alla matematica come argomento per l'esistenza di principi "che 'resterebbero validi' [...] anche quando [...] sono sconosciuti o fraintesi" è viziato da una preferenza dogmatica per una concezione che separa i principi matematici dalla loro matrice reale (culturale e storica) nelle pratiche umane proiettandoli in un regno metastorico di verità indipendenti (54). Gli storici della matematica hanno contribuito con i loro studi a chiarire fino a che punto questo 'regno' dipenda da circostanze contingenti e da prassi incorporate in forme sociali di vita: ad esempio, hanno mostrato quanto lo status di alcuni fra i principi più fondamentali della matematica sia stato influenzato da sviluppi storici che hanno mobilitato l'intera "rete di giudizi e pratiche normative" della comunità matematica (55).

Vengo ora al secondo esempio. Qui si tratta di valori o "beni" fondamentali la cui natura si presume evidente. Si argomenta che la conoscenza è uno di questi beni sull'assunto che qualsiasi indagine presuppone certi criteri di razionalità.

Uno di questi è che i principi della logica, per esempio le forme dell'inferenza deduttiva, si devono usare e rispettare in ogni riflessione [...] Un quarto è che i fenomeni vanno considerati reali a meno che non ci sia qualche ragione per distinguere tra apparenza e realtà. Un quinto è che una descrizione completa dei dati è da preferirsi a descrizioni parziali, e che un resoconto, o spiegazione, di fenomeni non va accettato se richiede o postula qualcosa di incompatibile con i dati che si suppone esso spieghi [....] Un settimo è che le descrizioni teoriche semplici, che hanno successo nelle previsioni e che godono di un grande potere esplicativo, si devono accettare in preferenza ad altre descrizioni. (56)

Questo elenco include tutti i tradizionali criteri di scelta fra teorie scientifiche. È parte dell'argomentazione che tali criteri sono ovvi, oggettivi (nel senso che "la loro validità non dipende da una convenzione"), e che "[s]fidarli [...] vuol dire precludersi la ricerca, e negarli è la cosa più decisamente irragionevole che si possa immaginare" (57). Vediamo se le cose stanno veramente così.

(i) I criteri elencati sono ovvi. "L'apparente familiarità della nozione di semplicità", si legge in una autorevole enciclopedia filosofica, "significa che spesso essa non viene analizzata, mentre la sua vaghezza e molteplicità di significati contribuisce alla sfida di darne una precisa definizione" (58). Un assaggio delle difficoltà: a quali caratteristiche di descrizioni teoriche ci si intende riferire quando si afferma che descrizioni semplici sono preferibili? Al numero dei loro assunti di base? Oppure al numero di entità (o di tipi di entità: la cosa fa parecchia differenza (59)) nelle loro ontologie? E ancora: come i diversi sensi di semplicità si correlano fra loro e con altri tratti virtuosi come il successo predittivo e il potere esplicativo? Qui c'è ben poco di "ovvio". E cosa c'è di "ovvio" nella richiesta di "usare e rispettare" i principi della logica? Forse che i principi che "si devono usare e rispettare" sono quelli della logica classica che formalizza le "forme dell'inferenza deduttiva"? Ma la logica classica non è l'unica logica (60). Che motivo abbiamo di pensare che i suoi principi rivestano una speciale autorità? Dopotutto, si sa da tempo che essa è inadeguata in molti campi: ad esempio, è inadeguata a esprimere le proprietà di base dei sistemi quantistici e per questo è stata creata una logica specifica (la logica quantistica) i cui principi si distaccano notevolmente da quelli della logica classica. Che cosa c'è di "ovvio" in tutto ciò? Neppure l'affermazione che descrizioni complete dei dati sono da preferirsi a descrizioni parziali è ovvia: in primo luogo, perché i dati non sono semplicemente 'dati' (essi "sono passibili di interpretazioni diverse e hanno dimensioni molteplici" (61)), e, in secondo luogo, perché presuppone che 'descrizioni' e 'dati' siano entità chiaramente definite e nettamente separate, il che non è (62).

(ii) I criteri in questione sono oggettivi. Le considerazioni nel paragrafo 1 mostrano che il realismo è una posizione tutt'altro che 'oggettiva', e che le "ragion[i] per distinguere tra apparenza e realtà" dipendono da convenzioni e dalle sottostanti pratiche normative almeno tanto quanto da argomenti di carattere teorico e sperimentale.

(iii) Sfidare questi criteri vuol dire precludersi la ricerca. Il teorico della legge naturale rimarrebbe sorpreso di apprendere quanto limitato sia il ruolo di questi criteri nella scienza. La stessa logica non gode di alcuna suprema autorità presso gli scienziati i quali l'hanno spesso accantonata. Newton dichiarava di volersi attenere a uno stile rigorosamente deduttivo, ma arrivato allo studio del moto fluido in mezzi resistenti (nel II libro dei Principia Mathematica), "[i]l suo programma di deduzione razionale dagli assiomi [...] si inceppò completamente, e in molti luoghi egli si rifugiò in osservazioni meramente qualitative, talvolta etichettate come 'corollari' benché non fossero più provate dalle proposizioni di quanto le proposizioni stesse fossero provate dagli assiomi" (63). Ciò mostra che Newton procedeva in accordo con la logica finché la natura dell'argomento lo permetteva, e quando non lo permetteva la metteva da parte (cercando il più possibile di mantenere le apparenze (64)) proprio per non precludersi la ricerca. "Nel meditare sulle prospettive di qualche linea di indagine", ha scritto Leon Rosenfeld di Niels Bohr, "egli metteva da parte le usuali considerazioni di semplicità, eleganza o addirittura di coerenza con l'osservazione che tali qualità potevano essere giudicate solo a cose fatte" (65). E infatti gli scienziati si sono lasciati di rado distogliere da considerazioni del genere. La prima teoria quantistica era infestata di contraddizioni (66), ma nessuno di coloro che erano impegnati nella ricerca permise a considerazioni di coerenza di precluderla. Persino i matematici hanno lavorato con concetti che sapevano contraddittori: "Schröder considerava le classi incoerenti uno strumento utile, e non puramente negativo" e le impiegò nelle sue ricerche (67); anche dopo la scoperta dei paradossi della teoria degli insiemi "Cantor non trattò queste evidenti difficoltà come paradossi o contraddizioni, ma come strumenti con cui foggiare nuove scoperte matematiche" (68). Anche l'apparentemente fondamentale principio che richiede che le teorie siano compatibili con i dati è stato sistematicamente sfidato. Molte fra le più feconde teorie scientifiche erano incompatibili con i dati; ciò nonostante, gli scienziati le hanno conservate ignorando le incompatibilità o eliminandole mediante ipotesi ad hoc (talvolta, come è accaduto nella teoria quantistica, trasformando le difficoltà in un nuovo principio: l'equivalente di trasformare un paradosso in un teorema fra i matematici della stessa epoca (69)).

(iv) Negare tali criteri è la cosa più decisamente irragionevole che si possa immaginare. Ancora una volta, uno sguardo alla scienza mostra non solo che questi criteri sono stati ripetutamente violati, ma anche che questa fu in molti casi la cosa più decisamente ragionevole da farsi: Galileo difese la teoria copernicana dalle evidenze che la confutavano e oggi lo lodiamo per aver dato inizio a una nuova era. Né quello di Galileo si può considerare un atteggiamento eccezionale alle origini di un processo storico eccezionale (e con molti aspetti oscuri): teorie incompatibili con i dati sono la regola nella scienza. Di conseguenza, un'obbedienza incondizionata alla richiesta di non accettare teorie che non corrispondono esattamente ai dati sarebbe la cosa più decisamente irragionevole che si possa immaginare. Dobbiamo invece considerare ragionevole l'atteggiamento degli scienziati che conservano teorie che offrono fertili prospettive di ricerca malgrado il loro disaccordo con i dati sperimentali. Dobbiamo anche considerare che quando si verifica un'incompatibilità fra teoria e dati non sempre il problema sta nella teoria: i dati possono essere affetti da ambiguità, imprecisioni, errori. Inoltre, anche i dati hanno un carattere storico: spesso provengono da tradizioni anteriori e quindi possono essere contaminati o viziati in molti modi. Questa, ad esempio, era la situazione ai tempi di Copernico. "Molti degli elementi d'informazione ereditati da Copernico", scrive Thomas Kuhn, "erano dati sbagliati [...] Alcune fra le registrazioni sbagliate erano state effettuate da osservatori di scarso valore; altre si erano un tempo basate su osservazioni corrette, ma erano state malamente copiate o interpretate nel processori trasmissione [...] Copernico stesso fu vittima di quegli elementi d'informazione che, inizialmente, lo avevano aiutato a respingere il sistema tolemaico. Il suo sistema avrebbe dato risultati ben migliori se egli fosse stato scettico sulle osservazioni dei suoi predecessori, così come lo era stato sui loro sistemi matematici" (70).

Riassumendo: sia la matematica che la scienza offrono ben pochi appigli a chi intende valersene come paradigmi di oggettività e razionalità: la matematica perché, una volta reintegrata nella storia, non dà molte ragioni di credere che i suoi principi abbiano il tipo di oggettività richiesta; la scienza perché mostra in che conto dobbiamo tenere quei criteri che il teorico della legge naturale considera come la quintessenza della razionalità. La conclusione è sempre la stessa: almeno per quanto riguarda il sostegno offerto da argomenti tratti dalla matematica e dalla scienza, i principi di legge naturale non hanno altra 'validità oggettiva' oltre a quella che si ottiene rimuovendoli dalle loro relazioni con la storia e presentandoli come un insieme di verità preesistenti (71).

4. Che cosa possiamo imparare

Detto ciò, c'è qualcosa di positivo che possiamo imparare da tutto questo sulla questione dei diritti umani? Ritengo che alcune cose ci siano. La concezione della scienza che abbiamo esaminato porta ad affermazioni del seguente tipo:

Il successo che la scienza ha ottenuto nel comprendere il mondo esterno è la migliore prova che abbiamo che esiste un mondo esterno. Ma se esso esiste, allora è quello che è. (72)

Affermazioni del genere sono difficilmente innocenti: contengono una concezione definita della realtà (73), e ogni concezione della realtà (della natura, del mondo) implica delle idee definite sulle relazioni tra gli esseri umani e la realtà stessa. Una concezione come quella che si esprime in questa affermazione separa gli esseri umani dal mondo con il risultato di derubare i primi di aspetti importanti della loro esistenza e di spogliare il secondo di quanto di umano (ed è molto) vi è in esso. Una visione meno dogmaticamente realista della scienza ci aiuta a liberarci di simili concezioni. Non solo nessun approccio scientifico è in grado di rivelare aspetti (leggi, proprietà) di una realtà in sé indipendente dalle interferenze umane (74), ma la nozione stessa di 'realtà' riflette i giudizi normativi, gli orientamenti di valore, le preferenze di una specifica forma di vita (cultura, tradizione). Ma, se è così, ciò significa che nessun immutabile mondo reale - nessun mondo che "esiste" ed "è quello che è" - si erge come un limite incrollabile alle nostre possibilità umane di interagire con la realtà e, se vogliamo (e se abbiamo l'intelligenza e il coraggio necessari per farlo), di cambiarla. Piuttosto, ciò che abbiamo di fronte è un materiale plasmabile che si presta a essere modellato in molte forme, ognuna delle quali ci offre un aspetto che possiamo considerare 'realtà'. "Usando differenti astrazioni", scrive Primas, "si osservano differenti fenomeni. Ogni astrazione crea la sua propria realtà" (75). Possiamo aggiungere che nessuna 'astrazione' ci vincola oltre la sua particolare realtà, che nessuna 'realtà' ci vincola (logicamente) a una particolare astrazione (76), e che possiamo cambiare la realtà cambiando le nostre astrazioni. E tuttavia non tutte le astrazioni hanno la stessa presa sulla realtà. Infatti, il materiale su cui operano non si lascia solo modellare da esse; in parte, anche, resiste (altrimenti come potrebbe imprimervisi una forma?): alcune astrazioni non vi fanno nessuna presa (e si estinguono praticamente sul nascere: ad esempio, l'ipotesi di un etere materiale); altre, che hanno fatto presa, finiscono per perderla fino a non trovare più alcun sostegno nel materiale stesso.

Oggi che le nostre orecchie rimbombano continuamente delle più solenni celebrazioni di quella sublime astrazione che va sotto il nome di 'diritti umani' è più che mai necessario capire che le idee non sono radicate in nessun immutabile mondo reale. Certamente, le idee, anche le idee normative, sono parte della realtà. Ma esse interagiscono con il mondo, lo cambiano in modi complessi, e in modi altrettanto complessi ne sono cambiate. Identificare le nostre astrazioni preferite con una realtà ultima indipendente da esse è un errore: l'errore (ammesso che si tratti solo di errore (77)) che sta alla base di tutti i tentativi di presentare come oggettivo e universale ciò che è idiosincratico e particolare. Il realismo è uno di questi. La teoria della legge naturale si basa sullo stesso assunto del realismo scientifico - in questo caso l'assunto che sia possibile separare "un insieme di dottrine e di giudizi etici che derivano dal contesto europeo" (78) dalle sue matrici storiche e culturali - e soffre degli stessi difetti. Questo assunto non è una buona base per la scienza (79). È dubbio che possa essere una buona base per i diritti umani. Se (come sembra) essi hanno cominciato a fare presa sulla realtà, non è certo in virtù di qualche 'fondamento' che hanno in essa (di "qualcosa [di] intrinseco" a una presunta "realtà fattuale di ogni essere umano" per dirla col solito Finnis (80)), ma perché hanno interagito con essa imprimendovi in parte la propria forma. Nella misura in cui ciò è accaduto, possiamo spingerci fino a considerarli 'universali'. Non possiamo però chiuderci di fronte ai modi in cui la realtà reagisce. Ciò significa che potremmo dover essere pronti a riconoscere che i veri valori universali autenticamente "globali" sono ancora di là da venire, e che

potremo sperare di conseguirli solo quando saremo in grado di andare oltre la prospettiva ideologica dei forti verso un riconoscimento davvero comune (e dunque davvero quasi globale) di ciò che è giusto. (81)

Sgombrare il terreno da dubbie assunzioni epistemologiche e versioni compiacenti della scienza può contribuire a indebolire il sostegno che esse forniscono alla "prospettiva ideologica dei forti" e farci avanzare di un passo verso "un mondo in cui l'Occidente non possa più avvolgersi nel mantello della scienza" (82) per giustificare la sua arroganza intellettuale (e non solo intellettuale) (83).

Poscritto

"Sul finire del secolo scorso il terreno era stato effettivamente, almeno in parte, sgombrato. Ma agli inizi del Nuovo Secolo le cose hanno cominciato a cambiare. Alcuni fra 'i quadri dell'Occidente' sono insorti contro quella che appariva come una sfida all''autorità dell'ultimo e più potente degli universalismi europei - l'universalismo scientifico'": così iniziava la lunga nota finale a una precedente versione di questo articolo (84) alludendo alla furiosa reazione in difesa della superiorità della nostra scienza da parte di filosofi preoccupati che argomentazioni come quelle qui svolte potessero costituire una "minaccia per la 'nostra società'" (85). Tale nota è stata omessa dalla presente versione in gran parte per il motivo che appariva troppo legata a un clima nella cui dissoluzione, dopo i decisivi eventi a cavallo tra il 2008 e il 2009, si poteva cominciare a sperare. Non ho ritenuto di dover modificare l'articolo reintroducendola, ma ora come ora devo dire che non la considero affatto superata. Come mai? Gli eventi a cui mi riferivo non hanno forse dato l'avvio al cambiamento? Negherei forse che nello 'storico' discorso del Presidente U.S.A. all'Università del Cairo (86) ci siano importanti segnali che il clima è mutato? Nient'affatto. Il discorso è improntato a una nobile retorica e ispirato ai più alti ideali. Tra questi vi è anche quello di diffondere la scienza tra i popoli arretrati del mondo impazienti di salire sul carro del progresso:

Per quanto riguarda la scienza e la tecnologia, lanceremo un nuovo fondo per sostenere lo sviluppo tecnologico nei paesi a maggioranza musulmana e per aiutare a trasferire le idee al mercato così che possano creare posti di lavoro. Apriremo centri di eccellenza scientifica in Africa, in Medio Oriente e nel Sudest asiatico; nomineremo nuovi rappresentanti per la scienza per collaborare a programmi che sviluppino nuove fonti di energia, creino posti di lavoro verdi, digitalizzino le informazioni, producano acqua pulita e sviluppino nuove colture.

Si noti: non ci si preoccupa di cosa i popoli dell'Africa, del Medio Oriente e del Sudest asiatico possano pensare di questo magnanimo programma di esportazione della tecnologia e della scienza occidentali. Invece, glielo si sciorina davanti agli occhi dando per scontato che essi accoglieranno grati e sottomessi (il che significa: rinunciando possibilmente a esercitare qualsiasi forma di controllo) i fondi stanziati dall'Occidente, i centri di eccellenza scientifica istituiti dall'Occidente e i rappresentanti per la scienza inviati dall'Occidente allo scopo di trasferire le idee al mercato, sviluppare nuove fonti di energia, produrre nuove coltivazioni, ecc., cioè tutte cose di cui il meno che si possa esser certi è che torneranno a beneficio dei loro generosi donatori. Morale: gli amministratori dell'Occidente possono concionare quanto vogliono, ma finiscono sempre per gettare la maschera.


Note

*. Università di Bologna.

1. "Solo la cultura occidentale", si afferma in un influente libro sui diritti umani, "ha trasformato le affermazioni largamente condivise sulla dignità e l'uguaglianza degli uomini in una dottrina attiva dei diritti. Questa dottrina non ha le sue origini a Gidda o Pechino, ma ad Amsterdam, Siena, Londra, e ovunque gli europei cercarono di difendere le libertà e i privilegi delle loro città e delle loro proprietà contro la nobiltà e gli stati nazionali nascenti" (M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton, Princeton University Press, 2001; trad. it. Una ragionevole apologia dei diritti umani, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 93). Tengo conto dell'obiezione, mossami da Francescomaria Tedesco, che vi sono degli universalisti (come Habermas) che non riconoscono la peculiare storicità dei diritti umani. Ciò vuol dire che la mia strategia argomentativa non li tocca. Del resto, si tratta di una strategia piuttosto limitata. Essa ha un unico obiettivo: sottrarre agli universalisti la loro particolare strategia di chiamare in causa la scienza a sostegno dei loro assunti. Pertanto, essa non esclude che possano esistere altri argomenti a favore dell'universalità dei diritti umani (benché mi riesca difficile vederli).

2. Ad esempio sottolineare, come fa Ignatieff, che i diritti umani non sono un prodotto esclusivo della cultura occidentale. "Molte tradizioni", scrive Ignatieff, "non soltanto quelle occidentali, erano rappresentate nella stesura della Dichiarazione universale dei diritti umani [...] e i membri del comitato di studio hanno esplicitamente inteso il loro compito non come mera ratifica delle convinzioni occidentali" (ivi, p. 66). D'accordo. Ma cosa significa che molte tradizioni erano 'rappresentate'? Come erano rappresentate, e soprattutto da chi? Dai "membri del comitato di studio"? E fino a che punto i membri di questo comitato erano effettivamente rappresentativi delle rispettive tradizioni? E, più in generale, che cosa significa essere il 'rappresentante' di una tradizione (e, prima ancora, che c'è una tradizione da rappresentare)? Tali questioni sono sollevate da Francescomaria Tedesco, Diritti umani e relativismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 19, 66, 89-90.

3. J. Donnelly, "Human Rights and Asian Values: A Defense of 'Western' Universalism", in J.R. Bauer, D.A. Bell (a cura di), The East Asian Challenge for Human Rights, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, p. 69.

4. Tanto che nessuno sembra stupirsi che molti eminenti particolaristi (e parecchi relativisti) cessino di esserlo dove comincia il sacro recinto della scienza, davanti al quale finiscono per fare le più schiette professioni di universalismo. Il caso forse più eclatante è quello di Max Weber. "L'ideale scientifico", scrive Leo Strauss, "lo forzava ad insistere sul fatto che ogni scienza in quanto tale è indipendente da Weltanschauung di sorta: la scienza, sia naturale, sia sociale, presume a buon diritto di essere ugualmente valida per noi Occidentali e per i Cinesi [...] Nulla importa la genesi storica della scienza moderna - l'esser nata essa in Occidente rispetto alla sua validità" (L. Strauss, Natural Right and History, Chicago, The University of Chicago Press, 1953; trad. it. Diritto naturale e storia, Genova, il melangolo, 1990, p. 45). Strauss giustifica, in certo qual modo, l'atteggiamento di Weber dicendo che esso andrebbe compreso nei termini della "fedeltà sua all'ideale della scienza empirica, quale prevaleva nella sua generazione" (ibid.). Se è così, allora bisogna riconoscere che questo "ideale" ha mostrato una singolare capacità di resistenza: non solo conta molti e devoti fedeli anche nella nostra generazione, ma, benché sia stato attaccato da più parti, è riuscito a sopravvivere riguadagnando il terreno perduto: vedi la nota alla fine di questo articolo (Poscritto).

5. M. Goodhart, "Origins and Universality in the Human Rights Debates: Cultural Essentialism and the Challenge of Globalization", Human Rights Quarterly, 25 (2003), p. 945.

6. Ibid.

7. Un'idea strettamente collegata è quella secondo cui fattori sociali, culturali, ecc., possono influenzare (e di fatto hanno influenzato) lo sviluppo della scienza, ma non lasciano alcun segno sul suo contenuto. Questo assunto è condiviso anche da pensatori critici come Carolyn Merchant. "Il contenuto specifico della scienza", scrive Merchant, "non è determinato da fattori esterni. Le preoccupazioni sociali servono invece, in modo cosciente o inconscio, a giustificare un dato programma di ricerca e a porre problemi che una scienza in sviluppo deve investigare" (C. Merchant, The Death of Nature. Women, Ecology and the Scientific Revolution, London, Wildwood House, 1980; trad. it. La morte della natura. Donne, ecologia e Rivoluzione scientifica, Milano, Garzanti, 1988, pp. 34-5). La prima affermazione è un mero truismo: chi crederebbe che creazioni intellettuali del tipo più sofisticato siano 'determinate' dalle ideologie e dai modelli culturali della società in cui gli scienziati vivono? E tuttavia le modalità indicate da Merchant sono più che sufficienti a impregnare la scienza di valori (non solo valori 'epistemici', ma valori culturali in genere) ben al di là "della cornice concettuale in cui si inquadra lo studio di un problema scientifico" (ivi, p. 35): si veda il testo corrispondente alle note 20 e 23, sotto, e le note stesse.

8. P.K. Feyerabend, Conquest of Abundance. A Tale of Abstraction versus the Richness of Being, Chicago, The University of Chicago Press, 1999; trad. it. Conquista dell'abbondanza: storie dello scontro fra astrazione e ricchezza dell'Essere, Milano, Cortina, 2002, pp. 299-300.

9. Parte di questa storia è narrata in A. Artosi, Breve storia della ragione, Napoli, Liguori, 2005.

10. L'incoerenza è stata sottolineata con forza da Feyerabend (ad esempio, P.K. Feyerabend, Conquista dell'abbondanza, cit., p. 18), ma in genere non viene neppure notata. Quasi tutti (sia filosofi che scienziati) sembrano credere nel miracolo chiamato 'matematizzazione della natura': non vi sarebbe nessuna incoerenza semplicemente perché l'applicazione della matematica ai fenomeni naturali, che costituisce il tratto essenziale della scienza moderna, metterebbe a posto le cose gettando un ponte tra il mondo (manifesto ma irreale) in cui si svolge la ricerca e il mondo (reale ma non manifesto) che essa intende scoprire. Peccato che l'intera faccenda - incluso l'enorme successo della matematica nel rendere conto di un'ampia classe di fenomeni naturali - sia "qualcosa che confina con il misterioso e per cui non c'è nessuna spiegazione razionale" (E. Wigner, "The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences", Communications in Pure and Applied Mathematics, 13, 1960, pp. 1-14). Il mistero è reso ancora più fitto dall'esistenza di una molteplicità di punti di vista sulla natura della matematica (cfr. § 3) la cui diversità mette capo alla difficoltà di capire che cosa essa sia prima ancora di capire come e perché si applichi. Ma soprattutto non è chiaro a che cosa si applichi la matematica quando è applicata. La spiegazione canonica secondo cui la matematica si applicherebbe alla natura perché la natura è in sé completamente matematica è più un mito che una spiegazione razionale. Forse la vera spiegazione (se è una spiegazione) è che, nel rappresentare la natura, la scienza rappresenta sempre in parte se stessa. Bohr e Heisenberg, almeno, la pensavano a questo modo: si vedano i testi di Heisenberg citati alla nota 74, sotto.

11. Ad esempio, le qualità sensibili dei corpi che, essendo di impedimento all'indagine, furono rimosse dalla realtà come semplici fronzoli soggettivi privi di importanza.

12. J. Needham, Science and Civilisation in China, Vol. 2: History of Scientific Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1956; trad. it. Scienza e civiltà in Cina, Vol. 2: Storia del pensiero scientifico, Torino, Einaudi, 1983, pp. 681-2. Ciò non significa che il pensiero cinese non riconoscesse le regolarità quando le incontrava (fenomeni come l'alternanza del giorno e della notte, del caldo e del freddo, delle stagioni, ecc., erano ovviamente riconosciuti per quello che erano): ciò che rifiutava era l'idea di aspetti della realtà che permangono immutabili attraverso tutti i cambiamenti. "Le descrizioni cinesi del mutamento", scrive Geoffrey Lloyd, "non si configurano in termini di essenze bensì di fasi, di cicli di trasformazioni [...] Ciascuno di essi non è concepito come una sostanza, ma per l'appunto come una fase; non è statico, bensì dinamico e interattivo" (G.E.R. Lloyd, Ancient Worlds, Modern Reflections. Philosophical Perspectives on Greek and Chinese Science and Culture, Oxford, Clarendon Press, 2004; trad. it. Grecia e Cina: due culture a confronto. Mondi antichi, riflessioni moderne, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 95). Il contrasto con "l'insistenza greca su essenze stabili" (ivi, p. 134), e in generale su ciò che è fisso e immutabile, non potrebbe essere più evidente.

13. Il che non si può dire delle idee dei moderni paladini delle leggi 'fisse e immutabili' del mercato.

14. Nelle grandiose parole poste da Keplero a conclusione del suo Harmonice mundi: "A te Signore, nostro Creatore, rendo grazie perché mi concedi di osservare la bellezza nella tua creazione ed esulto delle opere delle tue mani. Ecco, ora ho completato l'opera cui mi sentivo chiamato; ho messo a frutto il talento che tu mi hai donato; per quel che il mio spirito, nella sua finitezza, ne ha potuto comprendere ho rivelato agli uomini che leggeranno queste dimostrazioni la gloria della tua opera" (J. Kepler, Harmonice mundi, in Gesammelte Werke, Band VI, a cura di M. Caspar, C. H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, München, 1940, pp. 362-3; traduzione mia; corsivo mio).

15. Si veda Husserl a proposito della matematizzazione galileiana della natura: "Galileo, considerando il mondo in base alla geometria, in base a ciò che appare sensibilmente e che è matematizzabile, astrae dai soggetti in quanto persone, in quanto vita personale, da tutto ciò che in un senso qualsiasi è spirituale, da tutte le qualità culturali che le cose hanno assunto nella prassi umana" (E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Net, 2002, p. 88). Questo (matematica a parte) fa di Galileo il vero erede di Parmenide.

16. A. Fine, The Shaky Game: Einstein, Realism and the Quantum Theory, Chicago, University of Chicago Press, 1986, p. 153.

17. Esempio: il programma di Bell per trattare le proprietà delle particelle quantistiche (che vengono solitamente considerate come dipendenti da circostanze 'soggettive') come proprietà 'oggettive'. Cfr. J.S. Bell, Speakable and Unspeakable in Quantum Mechanics, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, pp. 40-4.

18. Anche questa è storia vecchia. Essa comincia nel momento in cui gli scienziati (che a quel tempo non si chiamavano ancora 'scienziati') riuscirono a convincere coloro presso i quali volevano acquistare prestigio (e probabilmente anche se stessi) che la verità poteva essere conosciuta attraverso un metodo capace di portare alla scoperta di leggi generali che spiegavano i fenomeni indipendentemente dalle opinioni e dai valori umani.

19. H. Primas, Chemistry, Quantum Mechanics and Reductionism. Perspectives in Theoretical Chemistry, Berlin, Springer, 1983, p. 252.

20. Detto in altri termini: le possibilità di scelta degli scienziati sono (come quelle di chiunque altro) almeno in parte determinate dalle particolari condizioni storiche e culturali in cui essi si muovono. "Poiché le scienze naturali non possono essere isolate dal pensiero e dalla cultura umana", scrive al riguardo Primas, "siamo sempre guidati dalla nostra esperienza passata e dal modo di pensare indotto dalla nostra base culturale cosicché non siamo interamente liberi di adottare o rifiutare regole normative" (ivi, p. 153).

21. Ciò rende conto del fatto che, come notava Ernst Mach, la scienza (in particolare la fisica) agisce sempre con "mezzi intellettuali limitati, e creati per fini limitati" (E. Mach, L'analisi delle sensazioni e il rapporto fra fisico e psichico, Milano, Feltrinelli/Bocca, 1975, p. 37): un salutare antidoto alla facilità con cui gli scienziati (e i loro ammiratori) tendono a entusiasmarsi per l'universalità dei loro metodi. Si vedano in proposito anche le insuperate considerazioni di Heisenberg sui limiti di validità delle leggi di natura e le conseguenze per l'idea di norme etiche basate sulla scienza. "Nell'ambito delle scienze esatte [...] esistono sistemi di concetti e di leggi in sé chiusi e matematicamente esponibili, idonei a determinati ambiti di esperienza, all'interno dei quali hanno validità in tutto il cosmo [....]; d'altra parte però [...] non ci si [può] aspettare che in futuro queste leggi e questi concetti siano appropriati a presentare nuovi ambiti dell'esperienza [...] È questa condizione che rende anche impossibile fondare esclusivamente sulla conoscenza scientifica una professione di fede vincolante per il comportamento nella vita. Giacché tale fondamento dovrebbe discendere da una conoscenza scientifica definitivamente fissata mentre essa è applicabile solo ad alcuni ambiti delimitati dell'esperienza" (W. Heisenberg, "Das Naturbild der heutigen Physik", in Gestalt und Gedanke. Jahrbuch der Bayerischen Akademie der schönen Künste, Vol. 3: Die Künste im technischen Zeitalter, München, Oldenbourg, 1954; trad. it. "L'immagine della natura nella fisica contemporanea", in Le arti nell'età della tecnica, Milano, Mimesis, 2001, p. 39).

22. La cosa è stata sottolineata con forza da Mach. "Nel pensiero e nel modo di parlare corrente", egli scrive "si suole contrapporre l'apparenza alla realtà. Vediamo diritta una matita che teniamo dinanzi a noi nell'aria; se però la immergiamo obliquamente nell'acqua essa ci appare spezzata. In quest'ultimo caso diciamo: la matita sembra spezzata, ma in realtà è dritta. Ma che cosa ci autorizza a dichiarare reale un fatto rispetto all'altro e ridurre quest'altro a semplice apparenza? [...] L'immagine nello specchio concavo o piano è solo visibile, mentre in altre circostanze (quelle abituali) all'immagine visibile corrisponde anche un corpo tattile. Una superficie chiara giustapposta a una scura appare più chiara che se fosse accostata a una ancora più chiara [...] Parlare in questi casi di apparenza ha solo un senso pratico ma nessun senso scientifico" (E. Mach, L'analisi delle sensazioni, cit., pp. 43-4).

23. A questo punto, non dovrebbe più essere un mistero per nessuno che le asserzioni scientifiche contengono delle ideologie tacite; che, grazie alle decisioni pratiche degli scienziati, assunti storici e culturali possono insinuarsi surrettiziamente non solo nei principi, ma anche nell'evidenza (attraverso i resoconti di osservazioni, esperimenti, ecc.) e che, in ultima analisi, la scienza è un'impresa molto più dipendente dalla cultura e dalla storia di quanto i suoi ammiratori realisti siano disposti ad ammettere.

24. P. Watzlawick, "Selbsterfüllende Prophezeiungen", in P. Watzlawick (a cura di), Die erfundene Wirklichkeit: wie wissen wir, was wir zu wissen glauben? Beitrage zum Konstruktivismus, München, Piper, 1984; trad. it. "Componenti di 'realtà' ideologiche", in La realtà inventata. Contributi al costruttivismo, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 201. Secondo Watzlawick, sarebbe tipico delle ideologie, in quanto interpretazioni o spiegazioni della realtà, mistificare i propri assunti per la realtà stessa. Sfortunatamente, le sue considerazioni sull'ideologia della scienza (cfr. ivi, pp. 200-3) sono viziate dalla sua adesione alla dicotomia tra fatti ("fatti scientifici" o "fatti della realtà di primo ordine") e valori ("realtà di secondo ordine") e dall'assunzione che l'ideologia non riguarda i primi, ma i secondi (ivi, p. 202). Di conseguenza, gli sfuggono i termini dell'intera questione: in primo luogo, che la concezione della realtà della scienza è essa stessa un'ideologia che contiene componenti sia empiriche che normative.

25. Così come la sua (autoproclamata) neutralità, imparzialità, avalutatività, e tutte le altre pie finzioni di quella ben orchestrata 'mistica della purezza' che ha consentito alla scienza di mantenere fino a oggi il monopolio sull'oggettività e la verità.

26. Le leggi di natura 'scoperte' dalla scienza non sono forse valide indipendentemente dalla nostra collocazione culturale? E ciò non significa che sono universali? La risposta alla prima domanda è: sì (per i motivi che abbiamo appena detti). La risposta alla seconda domanda è: sì, ma solo se si assume che sono le sole leggi di natura possibili, cioè se si esclude che in differenti circostanze storiche e culturali avrebbero potuto svilupparsi scienze diverse con un diverso insieme di leggi di natura universali. E questo non possiamo assumerlo perché equivarrebbe a pretendere che abbiamo esplorato tutta la realtà. Dal momento che la scienza stessa considera questa pretesa infondata (si vedano le citazioni da Heisenberg alla nota 21 sopra), l'appello all'universalità delle leggi di natura resta una faccenda puramente retorica (nella quale, peraltro, gli apologeti cristiani se la cavavano molto meglio dei 'retori' odierni. Arnobio usa con notevole efficacia l'argomento delle leggi di natura per mostrare che nulla è veramente cambiato dopo l'avvento del Cristianesimo: Arnobius, Adversus nationes libri septem, Torino, Paravia, 1953, I, 2).

27. Le pretese di universalità e oggettività della scienza, scrive Vandana Shiva, costituiscono "una politica di svalutazione di interessi e conoscenze locali e di legittimazione di 'esperti esterni'" (J. Bandyopadhyay, V. Shiva, "Science and Control: Natural Resources and their Exploitation", in Z. Sardar, a cura di, The Revenge of Athena: Science, Exploitation and the Third World, London, Mansell, 1988, p. 60). Alcuni esponenti delle culture del Terzo Mondo hanno auspicato addirittura uno "scollegamento" dalle politiche scientifiche occidentali: "Solo quando la scienza e la tecnologia si evolveranno dall'ethos e dal milieu culturale delle società del Terzo Mondo esse acquisteranno un significato per i nostri bisogni e le nostre esigenze [...] La scienza e la tecnologia del Terzo Mondo possono evolversi solo fondandosi su categorie, idiomi e tradizioni indigene in tutte le sfere del pensiero e dell'azione". "Un'asse portante di ogni strategia del genere dovrebbe consistere nello scollegamento del Terzo Mondo dalla dinamica intrinseca che istituzionalizza l'egemonia dell'Occidente" (Third World Network, "Modern Science in Crisis: A Third World Response", in S. Harding, a cura di, The "Racial" Economy of Science: Toward a Democratic Future, Bloomington, Indiana University Press, 1993, pp. 487, 495). Quanto ai legami (che 'noi' occidentali tendiamo a dare per scontati) tra scienza e democrazia, il citato Third World Network si esprime così: "La scienza moderna è diventata la fonte più importante di violenza attiva contro gli esseri umani e tutti gli altri organismi viventi dei nostri tempi [...] Il Terzo Mondo e altri cittadini sono giunti a rendersi conto che c'è una fondamentale inconciliabilità tra la scienza moderna e la stabilità e il mantenimento di tutti i sistemi viventi, fra scienza moderna e democrazia" (ivi, p. 496).

28. Il fenomeno è analizzato nei suoi molteplici aspetti in G. Drori, et al., Science in the Modern World Polity: Institutionalization and Globalization, Stanford, Stanford University Press, 2003, pp. 196-8.

29. Sandra Harding riassume così la situazione: "Questi [studi] cominciano a mettere in dubbio l'idea che le cause delle conquiste della scienza moderna siano interamente situate nel loro preteso carattere intrinsecamente transculturale. Risulta che ciò che le ha 'attivate' (e in maniera apparentemente univoca) è, almeno in parte, il loro essersi concentrate su tipi di progetti che l'espansione europea poteva promuovere e dai quali poteva trarre beneficio mentre sgombrava simultaneamente il campo dalle tradizioni scientifiche potenzialmente rivali" (S. Harding, "Is Science Multicultural? Challenges, Resources, Opportunities, Uncertainties", Configurations, 2, 1994, p. 314).

30. I. Wallerstein, European Universalism. The Rhetoric of Power, New York, The New Press, 2006; trad. it. La retorica del potere. Critica dell'universalismo europeo, Roma, Fazi, 2007, p. 98.

31. Celebrandone nel contempo le magnifiche sorti e progressive. Come scrive l'antropologo culturale Renato Rosaldo, agli occhi dell'orientalista, l'Oriente "per definizione è omogeneo nello spazio e immutabile nel tempo. Visto in questo modo, [esso] appare al tempo stesso una pietra di paragone su cui misurare il 'progresso' dell'Europa occidentale e una terra indolente cui imporre gli schemi imperialisti di 'sviluppo'" (R. Rosaldo, Culture and Truth. The Remaking of Social Analysis, London, Routledge, 1993; trad. it. Cultura e verità: rifare l'analisi sociale, Roma, Meltemi, 2001, p. 85).

32. I. Wallerstein, La retorica del potere, cit., p. 99.

33. Ibid. L'orientalismo non ha risparmiato neppure la filosofia. È appena il caso di menzionare Hegel. Ambiguità orientaliste hanno contagiato, più recentemente, anche pensatori non particolarmente sospetti di hubris eurocentrica come Merleau-Ponty e Deleuze: cfr. F. Jullien, Un sage est sans idée ou l'autre de la philosophie, Paris, Seuil, 1998; trad. it. Il saggio è senza idee o l'altro della filosofia, Torino, Einaudi, 2002, pp. 70-1.

34. A. Cromer, Uncommon Sense. The Heretical Nature of Science, New York, Oxford, Oxford University Press, 1993; trad. it. L'eresia della scienza. L'essenziale per capire l'impresa scientifica, Milano, Cortina, 1996, p. 2.

35. Ivi, p. 3.

36. Ivi. p. 143.

37. Ibid.

38. Ivi, pp. 143-4.

39. Ivi, p. 144.

40. Ivi, p. 146.

41. Ivi, p. 148.

42. Ivi, p. 155.

43. Ibid.

44. Ivi, p. 163.

45. Ivi, p 166.

46. Ivi, p. 44.

47. Ivi, pp. 44-5.

48. Ivi, pp. 156-7.

49. Ivi, p. 5.

50. Ivi, p. 12.

51. Ivi, p. 203.

52. J.M. Finnis, Natural Law and Natural Rights, Oxford, Clarendon Press, 1980; trad. it. Legge naturale e diritti naturali, Torino, Giappichelli, 1996, p. 26.

53. Si veda il classico F.J. Swetz, Capitalism and Arithmetic, La Salle, Open Court, 1987.

54. In pratica, gli oggettivisti o realisti (di qualunque specie) procedono così: prima rimuovono le loro idee favorite dalla storia facendone delle intangibili entità metastoriche, e poi proclamano a gran voce che niente di ciò che accade nel 'basso' mondo della storia le riguarda. In questo modo, gli oggettivisti matematici creano la loro particolare ideologia (metafisica) secondo cui la matematica è il regno indiscusso della certezza, mentre difformità di opinione, varietà di criteri, di prassi di ricerca, ecc., sono fenomeni storicamente contingenti che nascondono un'essenziale stabilità, oggettività, universalità, ecc. Lo stesso fanno i teorici della legge naturale. Dopo aver separato i loro principi preferiti dalla storia, essi dichiarano che "la varietà sterminatamente grande delle nozioni di giustizia e ingiustizia è tanto poco incompatibile con l'idea di diritto naturale da costituire anzi la condizione essenziale per l'emergenza di quella idea" (L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., p. 16). Secondo Finnis, "[c]i sarebbe molto da dire [su questa] considerazione di Leo Strauss" (J.M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, cit., p. 32). Però non dice niente. E infatti, contrariamente a ciò che egli afferma con tanta inopinata baldanza, c'è ben poco da dire, a parte ripetere quanto già detto sulla strategia 'platonizzante' che sta dietro a tutte le considerazioni del genere. Lo stesso Finnis ci fornisce un esempio di questa strategia che rende del tutto esplicito il presupposto di simili presunzioni metastoriche. "Una prima distinzione essenziale", egli dice, "è quella tra una teoria, dottrina o spiegazione e l'oggetto di quella teoria, dottrina o spiegazione. Ci può essere una storia di teorie, dottrine o spiegazioni di argomenti che non hanno storia" (ivi, p. 26). Ci può essere - certamente - soprattutto se l'essere 'senza storia' di questi argomenti è il risultato della loro rimozione dalle relative credenze a opera del principio cardine di ogni argomentazione oggettivista: l'assunto che è possibile separare oggetto e credenza o, per esprimerci in termini più generali, essere e storia.

55. Un case-study esemplare è G.H. Moore, Zermelo's Axiom of Choice. Its Origins, Development, and Influence, New York, Springer-Verlag, 1982.

56. J.M.Finnis, Legge naturale e diritti naturali, cit., pp. 74-5.

57. Ivi, p. 75.

58. A. Baker, "Simplicity", Stanford Encyclopedia of Philosophy.

59. Questa differenza viene espressa anche come una distinzione fra semplicità (o parsimonia) qualitativa (numero di tipi di entità) e semplicità (o parsimonia) quantitativa (numero di entità individuali). In questo senso, l'ipotesi ad esempio che il danno al mio prato è stato causato da 12 conigli sarebbe quantitativamente meno, ma qualitativamente più semplice dell'ipotesi che è stato causato da 1 capriolo e 3 conigli (ivi).

60. Esiste un'ampia varietà di logiche 'non classiche' che limitano o sospendono la validità di uno o più principi fondamentali della logica classica (per esempio, la logica intuizionistica limita drasticamente la validità del principio del terzo escluso; le logiche paraconsistenti fanno a meno del principio di non contraddizione).

61. G.E.R. Lloyd, Grecia e Cina, cit, p. 93 (fra parentesi questo è il motivo per cui nessuna descrizione può mai essere completa). Si vedano anche le osservazioni al punto (iv) seguente nel testo.

62. Se non altro perché non si trova mai né una 'pura' descrizione di dati né dati senza descrizione (e come sarebbe possibile?). C'è da aggiungere che la situazione cambia notevolmente a seconda che si tratti di descrizioni quantitative o qualitative dei dati.

63. C. Truesdell, Essays in the History of Mechanics, Berlin, Heidelberg, New York, Springer-Verlag, 1968, p. 114.

64. "Gli argomenti sono resi ancora più difficili dal fatto di essere non interamente congetturali: qua e là si presentano poche righe o addirittura pagine di autentica dimostrazione matematica dei dettagli più semplici [...] per dare l'apparenza della logica a ciò che in effetti sembra congetturato" (ibid.)

65. S. Rozental (a cura di), Niels Bohr: His life and Work as seen by his Friends and Colleagues, Amsterdam, North-Holland, 1967, p. 11.

66. Ancora una volta il teorico della legge naturale rimarrebbe sorpreso di apprendere quante fra le più consolidate teorie scientifiche sfidano il più basilare dei principi logici. Ad esempio, l'elettrodinamica classica risulta incoerente entro il proprio campo di applicazione: si veda M. Frisch, Inconsistency, Asymmetry, and Non-Locality: A Philosophical Investigation of Classical Electrodynamics, Oxford, Oxford University Press, 2005. Commentando questo libro G. Belot, "Is Classical Electrodynamics an Inconsistent Theory?, Canadian Journal of Philosophy, 37 (2007), pp. 263-82, ha argomentato che la questione dell'incoerenza dell'elettrodinamica classica dipende in ultima analisi da quale delle (due) versioni della legge della forza di Lorentz è considerata costitutiva della stessa elettrodinamica classica. Si noti che la versione della legge di Lorentz che rende la teoria incoerente è anche quella che consente di risolvere i problemi in maniera più semplice, e per questa ragione la maggior parte dei fisici la preferiscono alla sua alternativa coerente.

67. G.H. Moore, Zermelo's Axiom of Choice, cit., p. 53.

68. Ibid.

69. Ivi, p. 265 a proposito del contributo di von Neumann all'assiomatizzazione della teoria degli insiemi.

70. T.S. Kuhn, The Copernican Revolution. Planetary Astronomy in the Development of Western Thought, Cambridge, Harvard University Press, 1966; trad. it. La rivoluzione copernicana. L'astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale, Torino, Einaudi, 1972, pp.179-80.

71. "'Ma, e i mutamenti nella natura umana?' 'E l'uomo non è un essere storico?', 'Questa tesi deriva da una teoria delle essenze eterne o astoriche?'", chiede Finnis (Legge naturale e diritti naturali, cit., p. 53) mettendosi nei panni di un ipotetico obiettore poco convinto della sua tesi della natura metastorica dei principi di legge naturale. E che cosa risponde? Risponde che "se qualcuno vuole sostenere che quelle che [...] io identifico come forme fondamentali della fioritura umana non sarebbero state tali per gli esseri umani di altre epoche [...] (a causa di qualche differenza tra la loro condizione e la nostra): sta a lui l'onere di mostrarci questi esseri e queste differenze" (ibid.). Ammettiamolo. Ma quanto al fatto di aver "letto innumerevoli proclami sulla storicità dell'uomo, ma nessun tentativo serio di affrontare questo problema" (ibid.) ciò significa soltanto che è stato molto selettivo nelle sue letture. Di tentativi del genere ne sono stati fatti parecchi, e non soltanto dagli storici. Mi permetto di suggerirne uno (vecchio, fra l'altro, di quasi ormai mezzo secolo): J.H. Van Den Berg, The Changing Nature of Man: Introduction to a Historical Psychology, New York, Dell, 1961.

72. A. Cromer L'eresia della scienza, cit., pp. 6-7.

73. C'è bisogno di dire che si tratta di una concezione conservatrice? "I conservatori [...]", scrive Jeanne Hersch, "traspongono l''Io sono Colui che sono', la formula che più 'attualizza' Dio, sul piano della realtà di fatto, senza diminuirne il prestigio: 'Ecco Ciò che è', essi dicono [...] 'Ciò che è' assume naturalmente un aspetto di ordine cosmico dal prestigio religioso agli occhi dei privilegiati, e l''essere di fatto' diventa così il criterio al tempo stesso della forma e del valore" (J. Hersch, L'être et la forme, Éditions de la Baconnnière, Neuchâtel, 1946; trad. it. Essere e forma, Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp.44-5).

74. Questa affermazione si basa interamente sulle idee di Heisenberg. "La rappresentazione della realtà obiettiva", egli scrive, "si è [...]sorprendentemente dissolta non nella nebbia di una qualche nuova, oscura o ancora poco compresa rappresentazione della realtà, ma nella trasparente chiarezza di una matematica che presenta non più il comportamento della particella elementare, bensì la nostra conoscenza di questo comportamento. Il fisico atomico ha dovuto quindi rassegnarsi a considerare la propria scienza soltanto come un anello dell'infinita catena delle contrapposizioni dell'essere umano con la natura, e a riconoscere che questa scienza non può parlare semplicemente della natura 'in sé' [...] Anche nella scienza della natura oggetto della ricerca non è più la natura in sé ma la natura esposta al modo umano di porre la questione; per questo l'uomo incontra di nuovo, anche in questo caso, solo se stesso [...] Se è possibile parlare di una immagine della natura propria alla scienza esatta della natura del nostro tempo, non si tratta più di un'immagine della natura ma di un'immagine delle nostre relazioni con la natura [...] La scienza non sta più di fronte alla natura quale sua spettatrice, ma riconosce se stessa come parte di questo reciproco interscambio tra uomo e natura. Il metodo scientifico che procede isolando, spiegando e ordinando diviene cosciente dei limiti che sono posti dal fatto che il suo intervento modifica e trasforma il suo oggetto, dal fatto che, dunque, il metodo non si può più distanziare dall'oggetto. L'immagine del mondo della scienza della natura cessa con ciò di essere scientifico-naturale in senso proprio" (W. Heisenberg, "L'immagine della natura nella fisica contemporanea", cit., pp. 33, 37-9; corsivo mio).

75. H. Primas, Chemistry, Quantum Mechanics and Reductionism, cit., p. 253.

76. Ciò non implica che dobbiamo rinunciare completamente all'idea di una realtà oggettiva. Se le nostre astrazioni sono tali da permetterci (logicamente) di assumere che le entità che esse postulano hanno una realtà indipendente da esse, possiamo decidere di muoverci in questa direzione: ma non senza aver prima indagato "se e in quale forma è possibile adottare il realismo come principio regolativo" (ivi, p. 154); inoltre, sapendo che (come mostrano le ricorrenti controversie tra 'realisti' e 'strumentalisti') è possibile anche l'assunzione contraria, cercheremo di evitare che questa decisione si trasformi in un ostacolo ai nostri sforzi di "comprendere il mondo".

77. Che si tratti di un errore categoriale o, come preferisce Charles Taylor, di "una sorta di contraddizione pragmatica" poco importa davanti al sospetto che possa trattarsi comunque di un errore interessato. Per Taylor si veda C. Taylor, "The Politics of Recognition", in C. Taylor, Multiculturalism. Examining the Politics of Recognition, Princeton, Princeton University Press, 1994; trad. it. "La politica del riconoscimento", in C. Taylor, J. Habermas, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 30.

78. I. Wallerstein, La retorica del potere, cit., p. 38.

79. Su questo punto si veda, in generale, il saggio di Feyerabend, "Realism and the Historicity of Knowledge", in P.K. Feyerabend, Conquest of Abundance, cit.; trad. it. "Il realismo e la storicità della conoscenza", in P.K. Feyerabend, Conquista dell'abbondanza, cit., pp. 155-74.

80. J. Finnis, "Natural Law: The Classical Tradition", in J. Coleman, S. Shapiro (a cura di), The Oxford Handbook of Jurisprudence and Philosophy of Law, Oxford, Oxford University Press, 2002, p. 4. Si veda anche a p. 25 l'immancabile riferimento a "caratteri reali della realtà umana".

81. I. Wallerstein, La retorica del potere, cit., p. 39.

82. Ivi, pp. 104-5.

83. Naturalmente, gli scienziati ufficialmente impegnati sul fronte dei diritti umani evitano di mettere in discussione questo uso della scienza e si limitano per lo più alle solite moine edificanti. Per rendersene conto basta vedere il Science and Human Rights Program della American Association for the Advancement of Science: una specie di programma baconiano riveduto e corretto con l'aggiunta dei diritti umani.

84. A Artosi, "Diritti umani: la scienza non è un argomento", in S. Vida (a cura di), Diritti umani. Trasformazioni e reazioni, Bologna, Bononia University Press, 2008, pp. 141-55 (questa versione coincide, salvo diverse modifiche al testo e alle note, con i §§ 1, 2, 4 della presente versione). La nota in questione è a p. 155. La citazione entro la nota e da I. Wallerstein, La retorica del potere, cit., p. 91.

85. Ibid. Il riferimento è a uno dei libri che ha guidato la rivolta neotradizionalista contro i detrattori 'postmodernisti' della scienza: P.A. Boghossian, Fear of Knowledge. Against Relativism and Constructivism, Oxford, Clarendon Press, 2006; trad. it. Paura di conoscere. Contro il relativismo e il costruttivismo, Roma, Carocci, 2006. Per alcune considerazioni su questo libro si veda A. Artosi, "Il relativismo è incoerente. E allora?", Discipline Filosofiche, 16 (2007), pp. 91-108.

86. Il discorso è stato pronunciato il 4 giugno 2009 e ha suscitato i pii entusiasmi di tutti i quadri dell'Occidente. Unica voce dissonante quella del vecchio Chomsky che si è riservato una valutazione più prudente: N. Chomsky, The Grim Picture of Obama's Middle East.