2005

La 'traduzione' del linguaggio dei diritti:
fra universalismo e dialogo interculturale (*)

Luca Baccelli

Nel dibattito teorico-politico occidentale si tende a considerare i diritti umani come una sorta di codice etico e giuridico universale, come una forma di 'religione laica' (Höffe 1997). A tale religione laica, con una sorta di cortocircuito deontico che aggira le delicate mediazioni fra etica, politica e diritto, si fa immediato riferimento quando si tratta di affrontare e gestire situazioni di crisi e di conflitto, in particolare a livello internazionale. In tali situazioni si tende - soprattutto negli ultimi anni - a considerare il codice dei diritti umani come una sorta di assoluto etico, tale da offrire la matrice normativa entro la quale i problemi non possono non essere affrontati e gestiti.

Tutto questo è stato particolarmente evidente nel caso della recente guerra condotta dalla Alleanza Atlantica contro la Federazione Jugoslava (Mazzarese 1999). L'evidente violazione del diritto internazionale vigente; la scelta di avviare un massiccia campagna di bombardamenti verso obiettivi 'strategici' che includevano ponti, infrastrutture, industrie, centrali elettriche e la stessa emittente televisiva di Stato in assenza di autorizzazione da parte delle Nazioni Unite; l'utilizzazione di tecnologie d'arma particolarmente dannose per la popolazione, tali da violare i principi di discriminazione e di proporzionalità costitutivi dello ius in bello (Bovero 1999; Ferrajoli 1999; Zolo 2000): tutto questo è stato giustificato facendo riferimento alla superiore esigenza di sanzionare la violazione dei diritti umani dei cittadini kosovari e di impedire la reiterazione di tale violazione.

In questo senso si sono espresse voci autorevoli, a cominciare da Antonio Cassese, già presidente del Tribunale internazionale per i crimini nella ex-Yugoslavia. Cassese ha ammesso esplicitamente che l'intervento per il Kosovo ha violato la Carta delle Nazioni Unite. Tuttavia - ha sostenuto - il diritto internazionale si sta modificando: si sta elaborando una nuova legittimazione per gli interventi 'umanitari' quando si sia in presenza di una violazione 'gravissima, massiccia e ripetuta' dei diritti umani fondamentali (Cassese 1999). In quest'ottica è evidente che i diritti umani vengono posti come una sorta di principio primo del diritto internazionale, collocati in una posizione assiologicamente superiore allo stesso ripudio della guerra, con il quale si apre la Carta delle Nazioni unite (1).

Contro queste tesi si è sostenuto che finiscono per trasformare i diritti umani in un'ideologia fondamentalista. In questo modo si rischia di squalificare i diritti "come l'ultimo inganno dell'Occidente" e di "riedificare il muro" fra Est e Ovest imponendo con la forza la democrazia e il rispetto dei diritti umani allo stesso modo in cui in passato si imponeva con la forza il socialismo (Ferrajoli 1999).

Gli autori che muovono queste critiche non pongono in questione l'universalismo dei diritti. Sostengono che vi è una grave contraddizione fra l'appello ai diritti universali, utilizzato per legittimare la 'guerra umanitaria', e la pesante violazione dei diritti umani - a cominciare dall'elementare diritto alla vita - delle vittime della guerra. In questo intervento vorrei sostenere che lo stesso approccio universalistico rischia di portare argomenti in favore del 'fondamentalismo dei diritti' e di rendere problematico il confronto interculturale.

1. Due specie di universalismo

E' subito necessaria una precisazione. L'espressione 'universalismo dei diritti' fa riferimento ad almeno due distinte questioni. Determinati diritti possono essere considerati 'universali' nel senso che ne sono titolari 'tutti' i soggetti facenti parte di una determinata classe. Nel caso dei diritti umani, tale classe corrisponde all'intera umanità (2). Ma in genere l''universalismo' tende ad implicare anche una seconda dimensione: si sostiene che i diritti sono universali nel senso che costituiscono un codice etico e/o giuridico universalmente riconosciuto, fondato in modo tale da assumere una validità universale; si tratterebbe, inoltre, di un codice universalmente comprensibile, che esprime valori comuni all'intera umanità. Nella classica concezione del giusnaturalismo moderno i due universalismi - l'universalismo dei titolari e l'universalismo dei fondamenti - vengono identificati ma è sempre possibile, ed opportuno, operare una distinzione analitica.

1.1. L'universalismo dei titolari è un'acquisizione moderna. La nozione stessa di diritto soggettivo, com'è noto, appare estranea alle due fonti principali della cultura occidentale, quella greca e quella ebraica. E sembra arduo rintracciare nel diritto romano classico una esplicita concettualizzazione dei diritti 'umani' in quanto diritti soggettivi di cui sono titolari tutti gli uomini (Weber 1922).

La moderna affermazione del concetto di diritto soggettivo si ricollega all'esperienza giuridica medievale ed avviene sotto il segno del particolarismo: il Medioevo conosce una proliferazione di rivendicazioni di libertà, franchigie, immunità da parte di soggetti individuali e collettivi che chiedono di essere riconosciute e tutelate giuridicamente. Titolari dei 'diritti soggettivi' rimangono a lungo specifici gruppi, comunità, corporazioni, ordini, ceti. Rispetto a questa situazione, la vicenda politico-giuridica del Regno d'Inghilterra assume un significato particolare. La struttura sociale e politica del paese, le caratteristiche tecniche della Common Law, la relativa autonomia del potere giudiziario hanno favorito l'affermazione dei rights come diritti soggettivi azionabili anche contro i poteri pubblici. Ma, soprattutto, i diritti soggettivi hanno subito un processo di 'universalizzazione interna': già la Magna Charta del 1215 tutela un'ampia gamma di componenti sociali, che arriveranno gradualmente ad includere tutti i sudditi inglesi. Il processo di universalizzazione trova tuttavia un limite ben definito nei confini del regno. Ancora il Bill of Rights del 1689 non avrebbe fatto altro che "dichiarare" "the true, ancient, and indubitable rights and liberties of the people of this kingdom".

Sono le dichiarazioni di indipendenza ed i Bill of Rights delle colonie americane, e poi la Déclaration del 1789 i primi testi giuridici in cui si attribuiscono determinati diritti soggettivi a tutti gli uomini. In tali documenti il nesso fra approccio giusnaturalistico e universalismo dei titolari è stringente: i diritti alla vita, alla proprietà, alla libertà, alla sicurezza alla ricerca della felicità sono attribuiti a 'tutti' in quanto corrispondono alla natura umana in quanto natura razionale (3). Questa impostazione passa, almeno in parte, nel Code civil napoleonico: "L'exercice des droits civils est indépendant de la qualité de citoyen" (art. 7).

La codificazione è uno dei fattori che stanno alla radice della crisi dell'impostazione giusnaturalistico-razionalistica e dell'affermazione del positivismo giuridico. Per i giuristi dell'Ottocento e del primo Novecento i diritti soggettivi sono "effetti riflessi del potere statale" (Gerber 1852), il risultato di un'"auto-obbligazione", o di una "auto-limitazione" dello Stato (Jellinek 1892; Romano 1900). Sembrerebbe dunque che il giuspositivismo non possa che limitare l'universalizzazione dei diritti ai cittadini delle singole comunità politiche. Tuttavia le esperienze delle guerre mondiali e del totalitarismo hanno rilanciato il discorso universalista dei diritti dell'uomo, che ha ispirato la Dichiarazione universale del 1948 (4). Ma soprattutto negli ordinamenti contemporanei molti diritti sono attribuiti a 'tutti', senza distinzione di status o di cittadinanza (5). Si assiste cioè alla situazione per cui una determinata comunità politica attribuisce determinati diritti a tutti gli uomini, anche la di là dei suoi confini.

Sono note le critiche - dalla Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges alla Questione ebraica di Marx, fino ai contemporanei critici dell'"occidentalizzazione del mondo" - che hanno sostenuto che l'"uomo" dei diritti umani è in realtà un tipo particolare di uomo: maschio, borghese, occidentale. Tutto quanto ora detto, però, non inficia necessariamente il valore normativo dei diritti soggettivi. Se la prima Carta universalistica dei diritti è stata redatta dai proprietari di schiavi della Virginia e se il protagonista (maschile) dell'affermazione di queste rivendicazioni è stata una classe determinata in un determinato contesto storico e geografico, ciò non significa di per sé che tali rivendicazioni non abbiano valore universale (Bobbio 1992, pp. 135-6). E' necessario distinguere analiticamente la questione relativa alla genesi dei diritti da quelle relative al loro status ed alla loro legittimazione (Höffe 1997).

1.2. L'universalismo dei fondamenti è stato progressivamente elaborato dal pensiero giuridico tardo-medievale e proto-moderno, a partire dall'opera dei glossatori e dei canonisti. Contributi fondamentali provengono da filosofi come Guglielmo di Ockham e Giovanni Gerson con i suoi allievi e poi dai teologi della 'Seconda scolastica'. Per Grozio i diritti soggettivi sono fondati dalla legge di natura, la quale a sua volta esprime l'appetitus societatis, che si colloca "inter haec quae homini sunt propria". Come la fonte della legge di natura esprime qualcosa di 'proprio' a tutti gli uomini, così tutti gli uomini sono destinatari della legge di natura e titolari dei diritti di natura. In Hobbes è evidente come nella fondazione giusnaturalistica dei diritti i due universalismi si colleghino, fino ad identificarsi. Lo ius omnium in omnia, caratteristico dello stato di natura, ha la sua fonte nel principio di autoconservazione. Tale principio, alla stregua di un teorema matematico, vale per tutti e non può che essere riconosciuto da tutti. Ed il diritto che ne consegue è appunto 'di tutti': tutti gli uomini ne sono titolari in quanto uomini.

Le critiche alla concezione giusnaturalistica dei diritti - dall'analisi humeana di quella che è poi stata definita la 'fallacia naturalistica' alla concezione benthamiana dei diritti di natura come "a nonsense upon stilts", fino alla critica corrosiva del giuspositivismo novecentesco - si sono esercitate per più di due secoli. Ma, al di là dei loro limiti epistemologici, queste critiche non rendono conto dell'incorporazione dei diritti 'fondamentali' o 'inviolabili' nelle costituzioni contemporanee (6). Emerge una sorta di paradosso del positivismo giuridico conseguente: gli ordinamenti giuridici positivi fanno propri, e dunque positivizzano, diritti fondamentali la cui fonte non è considerata l'autorità statale, e che dunque mantengono, per così dire, una sporgenza normativa rispetto allo stesso ordinamento (Zagrebelsky 1992; Ferrajoli 1995; Id. 1998).

2. Universalisti immaginari

Molti filosofi giuridici contemporanei hanno cercato di rendere conto di questa situazione tornando a riconnettere fra loro universalismo dei titolari e universalismo dei fondamenti. Ma credo si possa sostenere che anche i tentativi contemporanei di fondazione dei diritti rimandino all'esperienza politica e giuridica della modernità occidentale. Né i "valori fondamentali" di John Finnis, né la teoria rawlsiana della giustizia paiono pensabili al di fuori della vicenda culturale inaugurata dal diritto romano, rilanciata nel medioevo cristiano e sviluppata nell'età moderna. D'altra parte, il contestualismo, se non il comunitarismo, della più nota rights theory, quella di Dworkin, è addirittura esplicito (Baccelli 1999, pp.96-136). Recentemente, è stato piuttosto Jürgen Habermas a tentare una fondazione dei diritti umani che garantisca una base più ampia del riferimento ad una singola cultura giuridica e politica (Habermas 1992a, p. 163). In Faktizität und Geltung i diritti fondamentali risultano non solo la riformulazione moderna, 'post-convenzionale' e formalizzata, dei principi di giustizia elaborati dal giusnaturalismo moderno, ma anche la condizione funzionale necessaria perché si costituisca il codice diritto, che richiede la garanzia dell'autonomia privata e pubblica; d'altra parte, i diritti fondamentali esprimono l'implementazione, attraverso una 'genesi logica dei diritti', del principio normativo generale della teoria del discorso - il 'principio D'- per quanto riguarda l'ambito politico-giuridico. Ciò riconduce in ultima istanza i diritti fondamentali alle strutture 'quasi-trascendentali' del discorso. Da un lato, dunque, i diritti fondamentali sono la condizione di ogni ordinamento giuridico e devono essere accettati da chiunque utilizzi il medium 'diritto'. D'altro lato, Habermas sostiene che l'argomentazione che fonda i diritti può incontrare, nelle condizioni ideali presupposte, un consenso universale.

Credo però si possa sostenere che anche l'argomentazione habermasiana rimanda ad un contesto storico, sociale e culturale ben definito. E' in Occidente che si realizza la 'genesi cooriginaria' di diritti fondamentali e sovranità popolare, Stato di diritto e democrazia, cui Habermas allude. E quando egli considera i diritti come il presupposto necessario del codice giuridico, in realtà si riferisce non a ogni ordinamento giuridico come tale, ma al diritto positivo occidentale moderno. In realtà, in tutti i luoghi in cui Habermas argomenta sul carattere universale dei presupposti inevitabili del discorso, aggiunge una clausola del tipo 'per tutti coloro che vogliano intendersi'. Ma il 'mettersi d'accordo', l'impegnarsi nell'interazione comunicativa, il porre la propria verità a disposizione dell'interlocutore, costituisce il gesto decisivo. Accettare di discutere e confrontarsi è già quasi tutto; qualcosa che non si può dare per scontato. E' un atteggiamento cui la cultura occidentale è pervenuta gradualmente, con molta fatica ed in modo incompleto.

Nell'epoca post-metafisica i tentativi di riproporre l'universalismo dei fondamenti sembrano insomma destinati all'insuccesso. D'altra parte ci si può chiedere se l'universalismo dei fondamenti sia poi così desiderabile. Uno sguardo alla genealogia della concezione giusrazionalistica dei diritti naturali mostra che è difficile sostenere che quanto più una teoria distingue analiticamente fra il significato soggettivo e quello oggettivo di diritto tanto più è adeguata a fondare la tutela giuridica degli individui. Né è possibile parlare dell'universalismo in maniera univocamente positiva. Propongo solo alcuni esempi.

Nella 'controversia sulla povertà', che nel XIV secolo contrappone l'ordine francescano a papa Giovanni XXII, la nozione di diritto soggettivo viene elaborata da un lato dai teologi francescani, che intendono teorizzare la possibilità di rinunciare a tali diritti, e d'altro lato dal papa, che vuole imporre a determinati soggetti la titolarità di tali diritti. D'altra parte - come ha lucidamente mostrato lo stesso Ferrajoli - la prima teoria universalistica dei 'diritti umani', quella di Francisco de Vitoria, ha legittimato la colonizzazione spagnola delle Indie Occidentali (Ferrajoli 1995).

La definizione paradigmatica del diritto soggettivo in contrapposizione al diritto in senso oggettivo (right contro law, ius contro lex), la sua attribuzione a tutti gli uomini in quanto tali, la teorizzazione dell'eguaglianza naturale sono opera di Hobbes; ma questo avviene nel contesto di una teoria intesa a fondare la rinuncia ai propri diritti - disponibili agli individui in quanto loro proprietà - da parte dei sudditi ed a legittimare lo Stato assoluto. Per contro, Locke potrà riproporre la tradizionale funzione di garanzia svolta dai rights all'interno del quadro costituzionale inglese solo reintroducendo un riferimento alla legge naturale posta da Dio ed al conseguente dovere di autoconservazione (cfr. Baccelli 1999, pp. 15-72).

Oggi, le posizioni espresse da un autore di sicura fede democratica come Habermas sembrano riproporre queste ambivalenze e questi paradossi. In alcuni scritti recenti Habermas non solo legittima gli interventi militari per la protezione dei diritti umani, ma collega la diffusione dei diritti umani ai processi di globalizzazione economica (Habermas 1999). Possono risultarne due effetti indesiderati. L'approccio 'fondazionalistico' ed universalistico, in primo luogo, potrebbe fornire argomenti alle diffuse resistenze nei confronti dei tentativi di estendere a livello internazionale gli spazi di libertà e le tutele degli individui, e così potrebbe paradossalmente avvicinare i teorici autoritari degli Asian Values ai movimenti di resistenza all'omologazione e di difesa del pluralismo culturale. In secondo luogo oggi il principio dei diritti umani può costituire la giustificazione ideologica dei progetti di nuovo ordine globale e di stabilità egemonica. Vi sono molti segni della tendenza a considerare i diritti umani come principio primo dell'etica internazionale, tale da legittimare addirittura aperte violazioni del diritto internazionale 'positivo'. Penso, ad esempio, alle recenti tesi di Antonio Cassese (Cassese 1999), o agli argomenti che Habermas adopera in favore degli interventi militari 'umanitari' (Habermas 1996, 1999). Mantenere vigile la consapevolezza che il linguaggio dei diritti soggettivi, compresi i diritti fondamentali, porta i segni della cultura in cui è stato elaborato mi sembra un utile antidoto contro un nuovo 'fondamentalismo dei diritti'.

3. Diritti senza fondamento

Anche l'universalismo dei titolari è stato sottoposto a critiche severe nel dibattito teorico contemporaneo. Sono soprattutto i teorici del multiculturalismo, del femminismo della differenza, dei Critical Legal Studies a mettere in questione l'approccio universalizzante ed astrattificante tipico del medium giuridico e in particolare dei diritti umani.

Non affronterò qui questo genere di critiche. Darò per scontato che l'attribuzione a 'tutte' le persone di un determinato insieme di diritti umani sia una importante conquista della civiltà giuridica moderna. Tuttavia, la crisi dell'universalismo dei fondamenti non è irrilevante per l'utilizzazione dei diritti umani nella gestione dei conflitti e delle controversie a livello internazionale. Come ha ricordato lo stesso Habermas, in assenza di una cittadinanza cosmopolitica ai diritti umani non si può attribuire lo stesso status goduto dai diritti fondamentali all'interno dei singoli ordinamenti costituzionali (Habermas 1999): è necessario che la loro legittimità sia riconosciuta dalle parti. D'altra parte è stato rilevato che considerare i diritti umani come diritti fondamentali positivi finisce per ridurne il potenziale critico (Höffe 1997, p. 463).

Un'alternativa alla ricerca del fondamento universalistico potrebbe essere quella suggerita da Norberto Bobbio: considerare il problema del fondamento come superato in virtù del consensus omnium gentium che si darebbe intorno alla Dichiarazione universale del 1948 (Bobbio 1992). Il dibattito sullo status giuridico della Dichiarazione, e la critica all'idea che possa essere considerata giuridicamente vincolante è assai risalente (Kelsen 1950). Già nella discussione del 1946-48 in seno alle Nazioni Unite è emersa la forte impronta occidentale del contenuto della Dichiarazione (Cassese 1988). Successive Carte dei diritti promosse da organizzazioni internazionali che fanno riferimento ad aree geografiche a lungo rimaste estranee alla cultura illuministico-liberale potrebbero però essere interpretate come il segno di una grande capacità espansiva del linguaggio dei diritti. Tuttavia, la lettura di tali Carte mostra una significativa influenza delle tradizioni culturali sul modo in cui il linguaggio dei diritti viene recepito, un modo che risulta difficilmente conciliabile con il classico individualismo liberale (7).

Credo non ci sia alternativa al riconoscimento del fatto che nella filosofia e nel diritto moderni si è consumata la scissione fra l'universalismo dei titolari e l'universalismo dei fondamenti. Da questo punto di vista è paradigmatica la posizione di Ferrajoli: egli sostiene che l'universalismo dei titolari è ciò che definisce i diritti fondamentali, e d'altra parte critica la "confusione tra l'universalismo dei diritti come convenzione giuridica e il medesimo universalismo come dottrina morale" (Ferrajoli 2000, p. 48), e quella "tra l''universalismo' dei diritti fondamentali, che si riferisce ai soggetti cui essi sono attribuiti [...], e l'universalità del consenso da cui essi sono sorretti o comunque la comunanza interculturale dei valori da essi espressi" (ivi, p. 50) (8).

Ma il problema del fondamento universalistico non riguarda solo il consenso sui diritti umani o sui valori che esprimono. Il linguaggio dei diritti pone un problema di traduzione. Fuori di metafora, la stessa figura deontica del diritto soggettivo e l'attribuzione universalistica di determinati diritti fondamentali a tutte le persone umane esprimono un approccio etico e giuridico tipico della cultura occidentale moderna, formata nella tradizione ellenico-ebraico-cristiana, segnata da un'antropologia individualistica ed erede dell'Illuminismo. Assai ardua risulta la ricerca di analoghi concetti nella tradizionale cultura indiana, pervasa dalla nozione di dharma (il cui significato include concetti per noi differenti come giustizia, moralità, legge, religione, rituale, destino, verità), nella tradizione etico-giuridica cinese dominata dall'insegnamento di Confucio, o nella Sharia islamica, per non parlare degli ordinamenti giuridici africani tradizionali (Panikkar 1982; Rouland 1998, pp. 267-81). In questa luce l'universalizzazione del concetto dei diritti umani rimanderebbe all'universalizzazione della cultura che lo ha espresso, e ciò rappresenterebbe una minaccia all'identità delle altre culture. Questo significa che il linguaggio dei diritti, irrimediabilmente segnato dalla sua origine culturale, è inutilizzabile per la tutela sovranazionale degli individui e dei gruppi e per la gestione dei conflitti che attraversano i confini delle aree culturali?

Non credo che si debba giungere a conclusioni così negative e ritengo che la diffusa utilizzazione del linguaggio dei diritti al di là del contesto culturale che lo ha elaborato siano il segno di una sua significativa forza espansiva e di una valore normativo irriducibile all'imperialismo culturale dell'Occidente. E' però necessario porsi seriamente il problema della 'traduzione' del linguaggio dei diritti, del confronto interculturale, della fertilizzazione incrociata fra civiltà e antropologie: ciò che allo stato attuale l'Occidente non fa.

In un saggio frequentemente citato, Raimundo Panikkar ha sostenuto che la 'traduzione' di tale linguaggio in altri idiomi normativi dovrebbe avvenire a partire dalla ricerca degli "equivalenti omeomorfi" in altre culture. Al fondo di questa proposta sta l'idea che il linguaggio dei diritti presupporrebbe un ordine normativo, una qualche superiore nozione di giustizia e di bene comune (Panikkar 1982, pp. 89-90). Otfried Höffe ha approfondito sul piano filosofico il problema del confronto interculturale proponendo la soluzione dello 'scambio trascendentale'. Nella prospettiva di Höffe, il fondamento dei diritti dell'uomo presuppone una 'rivoluzione copernicana' nell'antropologia, che deve prendere congedo dai suoi concetti normativi e teleologici. La consapevole 'modestia antropologica' si attesta sulle condizioni minime necessarie che "rendono possibile l'uomo in quanto uomo" (Höffe 1997, p. 476). Si tratta cioè di riconoscere due tratti ineludibili della natura umana: la sua vulnerabilità e la sua capacità di esercitare violenza. L'uomo è "volta a volta potenziale aggressore e vittima" (ivi, p. 480) e la sua capacità di violenza mette a repentaglio le stesse condizioni necessarie della sua esistenza. A questa possibilità del conflitto fa fronte la reciproca rinuncia all'esercizio della violenza. Tale rinuncia coincide con l'etica della reciprocità o giustizia distributiva; in definitiva con la morale della regola d'oro che ricorre in una vasta gamma di tradizioni etiche, dal confucianesimo alla filosofia, dall'Induismo all'Ebraismo e al Cristianesimo. La possibilità di minaccia reciproca costituisce così il fondamento antropologico dei diritti umani: "si scambia la propria capacità di essere autori di violenza contro l'interesse a non soccombere sotto i colpi della violenza altrui" (ivi, pp. 484-85). Le radici di questa impostazione nella filosofia morale e giuridica di Kant sono evidenti; preme qui sottolineare anche un altro aspetto: la stretta interconnessione che nell'impostazione di Höffe si stabilisce fra diritti dell'uomo e 'doveri dell'uomo' (9).

A mio parere queste impostazioni hanno il merito di 'prendere sul serio' il problema del confronto interculturale ma devono fronteggiare significative difficoltà. Niente ci dice che sia più semplice universalizzare i doveri e gli obblighi piuttosto che i diritti degli individui, né che sia più agevole concordare su una nozione non meramente formale di giustizia o di bene comune piuttosto che sull'interpretazione dei diritti umani. La ricerca di costanti antropologiche può probabilmente condurre a riconoscere alcune invarianti che caratterizzano la specie homo sapiens in una lunga fase della sua evoluzione: il nesso di socialità ed aggressività, la vulnerabilità, la potenziale inesauribilità dei desideri a confronto con la scarsità delle risorse e così via. Il problema è se sia possibile fondare sul riconoscimento di tali invarianti un insieme di dritti umani non meramente formali, significanti e utili alla tutela degli individui.

Inoltre, la ricerca degli 'equivalenti omeomorfi' o la strategia dello 'scambio trascendentale' rischiano di far perdere di vista la specificità del linguaggio dei diritti. Se i diritti non sono che la traduzione in altri termini di superiori esigenze di giustizia o il mero equivalente dei doveri, si smarrisce il significato dell'affermazione della figura deontica del diritto soggettivo come evento che ha segnato la modernità etica e giuridica. La priorità della modalità deontica del diritto soggettivo su quella del dovere è stata considerata come il segno di una profonda trasformazione etica e politica; l'evoluzione dei 'sudditi' in 'cittadini' (Bobbio 1992).

4. La lotta per i diritti

E' forse possibile ipotizzare un altro approccio al confronto interculturale. Tale approccio dovrebbe caratterizzarsi sotto due profili: (a) il riconoscimento aperto e dichiarato dell'irriducibile 'etnocentrismo' del linguaggio dei diritti e (b) la valorizzazione del suo peculiare tratto 'attivistico'.

a) Riconoscere l'origine contestuale del linguaggio dei diritti e contestare l'universalismo dei fondamenti non significa consegnarsi al relativismo dei valori (se per 'relativismo' si intende l'affermazione dell'indifferentismo morale e l'accettazione di qualunque cultura morale, sia pur criminale o oppressiva [Ferrajoli 2000]).

Da questo punto di vista è interessante la posizione 'francamente etnocentrica' assunta da Richard Rorty. Per Rorty attribuire 'all'uomo' determinati diritti non è ancora risolutivo, perché coloro che violano i diritti umani ritengono precisamente 'non umani' coloro (neri, donne, appartenenti ad altre religioni o ad altre etnie, omosessuali e così via) i cui diritti sono negati. La garanzia dei diritti aumenta solo quando si modificano i sentimenti morali, in un processo graduale nel quale grande rilievo ha l'aumento della sicurezza del gruppo e il superamento dell'indigenza (Rorty 1993). In questa prospettiva l'atteggiamento meno adeguato al confronto interculturale è per Rorty proprio quello di considerare "irrazionali" le culture che non hanno sviluppato una concezione liberaldemocratica dei diritti (Rorty 1996, pp. 63-4).

Usare la parola "razionale" per rendere encomio alle proprie scelte di fronte a tali dilemmi è un vacuo complimentarsi con se stessi [...]. La retorica che noi occidentali usiamo per tentare di persuadere tutti quanti ad assomigliarci di più migliorerebbe, se noi fossimo più onestamente etnocentrici, e smettessimo di professare universalismo. Sarebbe meglio dire: noi siamo divenuti ciò che siamo, perché abbiamo smesso di esercitare la schiavitù, abbiamo mandato le donne a scuola, abbiamo separato Stato e Chiesa, ecc. ecc.; ecco che cosa è accaduto quando abbiamo cominciato a considerare arbitrarie certe distinzioni. Cercate di fare le stesse cose e potreste scoprire che vi si addicono. Dire tali cose è preferibile a dire: guarda quanto siamo più bravi noi a distinguere quali differenze fra le persone sono arbitrarie e quali non lo sono; quanto siamo più morali noi rispetto a voi.

Rorty sottolinea che la stessa apertura all'incontro con le altre culture è una preziosa scoperta della "recente cultura liberale". Quest'ultima va concepita come "un ethnos che va fiero della sua punta di etnocentrismo, che si vanta non tanto del possesso della verità, quanto della sua capacità di accrescere la libertà e l'apertura degli incontri" (Rorty 1991, p. 4, cfr. pp. 32-9).

Il 'franco etnocentrismo' di Rorty valorizza dunque il linguaggio dei diritti senza attribuirgli un valore universalistico. Tuttavia, nell'idea rortyana di mite confronto interculturale, l'Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, rimangono nella posizione paternalistica di chi ha una ricetta normativa già pronta; per contro, nel processo evolutivo delle società occidentali, cui Rorty fa riferimento, i diritti non sono stati concessi paternalisticamente; sono emersi 'dal basso', sono nati da richieste di riconoscimento, rivendicazioni, lotte sociali.

b) E' precisamente su questo aspetto che si misura la specificità del linguaggio dei diritti rispetto ad altri codici deontologici. Buona parte del giuspositivismo formalistico dell'Ottocento e del Novecento tende a ridurre il diritto soggettivo al diritto oggettivo, nel senso di affermare la priorità del diritto statale sui diritti soggettivi. Tuttavia, autori fra loro differenti come Alf Ross, Herbert Hart e Neil MacCormick hanno criticato la tesi della riduzione dei diritti al correlativo dei doveri (Ross 1958; Hart 1984; MacCormick 1977). Emerge un'eccedenza semantica del linguaggio dei diritti sul linguaggio dei doveri, cui ritengo si colleghi un'eccedenza simbolica (10). L'immagine di una società che ignora la nozione dei diritti è la metafora distopica attraverso la quale Joel Feinberg ha connesso la nozione di diritto soggettivo a "the activity of claiming". Per Feinberg l'uso caratteristico dei diritti è "to be claimed, demanded, affirmed, insisted upon" e soprattutto "it is claiming that gives rights their special moral significance": "Having rights enables us to 'stand up like men', to look others in the eye" (Feinberg 1980, p. 151). Ritengo che sia questo tratto a rendere il linguaggio dei diritti particolarmente adeguato ad assumere la prospettiva ex parte populi, a esprimere, per usare una felice espressione di Ferrajoli, "le ragioni del basso, rispetto alle ragioni dell'alto".

Se un elemento 'rivendicativo', connesso con il concetto di dignità umana, è caratteristico dei diritti, si deve d'altra parte rilevare che la stessa origine e sviluppo dei diritti ha a che fare con la rivendicazione ed il conflitto. Nella teoria costituzionale 'repubblicana' di Frank Michelman i diritti sono concepiti come "a relationship and a social practice" (Michelman 1986). I diritti fondamentali emergono da, e si fondano nel processo di elaborazione e trasformazione dei principi giuridici: quel processo che Michelman chiama political jurisgenesis. Michelman attribuisce particolare valore all'ordine legale ed alle condizioni socioeconomiche che permettono l'active citizenry, la vigilanza contro il dominio. Di qui deriva "a republican attachment to rights" (Michelman 1988, pp. 1505-6). Da un lato l'attività politica popolare è vista come "the sole source of right and guarantor of rights"; d'altro lato il diritto in generale e i diritti soggettivi in particolare sono visti come la "the preconditions of good politics"

Republican thought thus demands some way of understanding how laws and rights can be both the free creations of citizens and, at the same time, the normative givens that constitute and underwrite a political process capable of creating constitutive law (Michelman 1988, pp. 1404-05)

I diritti fondamentali, dunque, costituiscono da un lato una precondizione della cittadinanza - intesa come appartenenza attiva alla comunità politica e giuridica, come capacità di mobilitazione all'interno di un processo comunicativo allargato - d'altro lato sono il suo prodotto. Al processo di political jurisgenesis partecipano i corpi deliberativi istituzionalizzati, la giurisdizione (in primis quella costituzionale) e tutte le arene di dibattito pubblico aperto ai cittadini che realizzano un "potentially transformative dialogue". Particolarmente istruttiva a questo proposito è la storia del movimento americano per i diritti civili. Gli afro-americani costituivano all'inizio della vicenda una parte marginalizzata della società che stava trasformando la sua autopercezione. Con lo sviluppo del loro movimento -- che peraltro ha conosciuto conflitti interni alla loro stessa comunità -- gli afro-americani si sono contrapposti alla "partial citizenship" di cui erano titolari, ma hanno anche rivendicato e fatto valere questa 'cittadinanza parziale'. Il potere giudiziario, in questo processo "drew on interpretive possibilities that the challengers' own activity was helping to create" (ivi, p. 1530).

Ci si può qui ricollegare ad un'importante tesi dei Norberto Bobbio. Con un felice ossimoro, Bobbio scrive che "i diritti naturali sono diritti storici" (Bobbio 1992, p. VIII), e cioè "sono nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre"

Questa idea di un'origine conflittuale dei diritti trova significative radici storiche. Anche qui ci si può ricollegare ad alcuni esponenti della tradizione repubblicana protomoderna. In autori come Algernon Sidney, Baruch Spinoza e Adam Ferguson, la machiavelliana valutazione positiva del conflitto si collega con il linguaggio dei diritti (11). Nell'Essay on the History of Civil Society di Adam Ferguson è il conflitto sociale a indirizzare lo sviluppo di nuove istituzioni e l'innovazione costituzionale. Su questa apologia del conflitto sociale si innesta l'utilizzazione da parte di Ferguson del linguaggio dei diritti. Anch'egli, come Hobbes, individua il fondamento dei diritti nella natura umana. Ma questo non nel senso razionalistico del giusnaturalismo moderno. I diritti esprimono piuttosto un sentimento, generalmente umano, di autoaffermazione e di dignità:

Ogni contadino ci dirà che un uomo ha i suoi diritti e che violare questi diritti costituisce una ingiustizia. Se ancora gli chiediamo che cosa intenda con il termine diritto, probabilmente lo obblighiamo a sostituire questo termine con un termine meno significativo e appropriato, o lo costringiamo a spiegare qualcosa che è una forma originaria della sua mente e un sentimento primario a cui egli si riferisce quando vuole chiarirsi su un particolare uso del suo linguaggio [...]. Non è nostro compito sviluppare qui la nozione di diritto nelle sue diverse applicazioni, ma è nostro compito ragionare sul sentimento favorevole con cui quella nozione viene intesa dalla mente (Ferguson 1789, p. 5).

Tale elemento sembra esprimere qualcosa di analogo al sentimento di ostilità al dominio in cui Philip Pettit radica la concezione repubblicana della "freedom as non domination" (12). Nell'Essay di Ferguson ricorre l'apologia di quella che, per parafrasare il titolo di un noto saggio di Rudolf von Ihering, potremmo chiamare la "lotta per i diritti". La moderazione e la disposizione conciliatoria possono tradursi in indifferenza politica, mentre la virtù civica mostra un tratto indelebile di attivismo e si esprime nella capacità di mobilitazione. La libertà è un diritto da rivendicare; considerarla come un privilegio concesso significa smarrirne il senso, e per difenderla non sono sufficienti le istituzioni: occorre la costante disposizione ad "opporsi agli oltraggi" (13)

Ipotizzo che una maggiore consapevolezza dell'importanza che questa apologia del conflitto assume in un ampio settore della tradizione repubblicana potrebbe favorire un'elaborazione teorica originale. E proprio il riconoscimento di questo tratto conflittuale mi sembra indicare la via per cogliere ciò che nel linguaggio dei diritti tende a superare la sua particolare connotazione, ereditata dalla sua origine occidentale e moderna. Ho l'impressione che sia questo elemento, che pure è una tipica espressione della cultura occidentale, a venire più facilmente riconosciuto e valorizzato all'interno di altre culture.

Alcuni autori che hanno affrontato il problema della 'traduzione' del linguaggio dei diritti hanno proposto come soluzione la ricerca di comuni esigenze di giustizia o di codici normativi trascendentali. Mi sembra molto più percorribile una via alternativa: valorizzare l'idea della rivendicazione, della richiesta di riconoscimento, dell'opposizione al dominio ed all'oppressione. L'elemento tendenzialmente universalistico dei diritti fondamentali non credo debba essere ricercato tanto nel loro contenuto quanto nell'impegno di affermarli, rivendicarli, mobilitarsi per ottenerli. In molte situazioni, gli individui umani e i gruppi tendono, in modo più o meno spontaneo, a desiderare di sottomettersi, a trovare rassicurazione nella dipendenza. Ma ciò che probabilmente le culture 'altre' - o meglio: gli oppressi all'interno delle culture 'altre' - riconoscono nel linguaggio occidentale dei diritti è proprio la valorizzazione del gesto, almeno altrettanto tipicamente umano, di sollevarsi e reagire, di affermare la propria dignità: qualcosa di analogo alla kantiana "uscita dalla minorità". E insieme vi riconoscono la duttilità e la possibilità di concettualizzare bisogni, interessi e aspettative, in modo da poter individuare tecniche giuridiche per proteggerli.

Il linguaggio dei diritti, cioè, costituisce uno degli strumenti più duttili per 'trasformare' valori, istanze e rivendicazioni che vengono via via elaborati entro una determinata società in principi e norme giuridiche, che a loro volta richiedono lo sviluppo di tecniche di tutela e di sanzione. E questo vale, mutatis mutandis, anche per la dimensione sovranazionale. Non si può certo parlare di una società civile mondiale, né si può accreditare l'idea kelseniana di una - neppure embrionale - civitas maxima (cfr. Zolo 1998). Tuttavia anche a livello sovranazionale si produce una circolazione di temi, questioni, valori, principi che retroagiscono sui processi interni di jurisgenesis. Una circolazione - per inciso - che certi interventi delle potenze occidentali rischiano di compromettere.

E' ora possibile ritornare alle considerazioni iniziali relative all'utilizzazione dei diritti umani come codice normativo superiore nella gestione dei conflitti e delle controversie a livello internazionale. Ho già citato le critiche alle 'guerre per i diritti' basate sull'universalismo dei titolari: un pesante intervento militare finisce per violare i diritti umani - a cominciare dal diritto alla vita - dei soggetti i cui diritti umani si vorrebbero tutelare. Si è inoltre sostenuto che la guerra moderna è un fenomeno incontrollabile dal diritto e risulta costitutivamente inadeguata come mezzo per tutelare i diritti (Zolo 2000, pp. 111-17). Queste tesi possono essere rafforzate se si argomenta contro l'universalismo dei fondamenti. Riconoscere la connotazione storica e culturale dei diritti umani e soprattutto ammettere l'indisponibilità di un fondamento universalistico toglie ai diritti lo status di principio primo assoluto, di istanza superiore non discutibile. L'universalizzazione dei diritti umani è piuttosto ciò che è in questione e che richiede un'opera difficile, paziente e responsabile di confronto e di traduzione. In quest'ottica i diritti umani esprimo principi - a cominciare da quello della dignità umana - cui si attribuisce un valore fondamentale, ma che devono essere mediati e bilanciati con altri principi, in primis la tutela della pace: è insostenibile una posizione del tipo fiant iura, pereat mundus. Infine, il riconoscimento del legame - genetico e concettuale - dei diritti con l'attività di rivendicarli, il conflitto, l'affermazione delle libertà individuali e collettive dalle forme di dominio pubblico e privato esclude anche che si possano imporre i diritti. L'esportazione dei diritti sotto le ali dei bombardieri dell'Alleanza atlantica si risolverebbe in un fallimento così come si è rivelato fallimentare il socialismo esportato dall'Armata rossa: la diffusione dei diritti umani non può prescindere da un processo, difficile e conflittuale, di apprendimento collettivo.

Per la tendenziale universalizzazione del linguaggio dei diritti non c'è alternativa allo scambio e al dialogo fra culture differenti, che presuppone comunque una decisione di partenza: la disponibilità al confronto. In questa prospettiva il linguaggio dei diritti deve essere presentato, per così dire, come il contributo di una tribù ad una discussione con altre tribù. Si tratta di un contributo di grande valore, che ha ottenuto notevoli successi, espresso in un linguaggio che si è rivelato particolarmente duttile, e almeno in qualche forma è stato già adottato da molti attuali e potenziali interlocutori. D'altra parte, è l'idioma di una tribù che deve rimanere consapevole di avere, nei secoli passati (e anche strumentalizzando questo linguaggio) esercitato uno spietato dominio economico, politico e militare sulle altre tribù. Il modo migliore per proporre i diritti umani come valori di riferimento nel confronto interculturale non è presentarli come naturali, assoluti, o universali. È assai più promettente partire dalla consapevolezza del loro carattere irriducibilmente contestuale, e su queste basi impegnarsi nel confronto.

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Note

*. Testo presentato il 27 maggio 2003 in un seminario organizzato dal prof. Vittorio Villa all'Università di Palermo - Sede di Agrigento.

1. Jürgen Habermas ha proposto una valutazione più articolata, riconoscendo che solo nella prospettiva cosmopolitica della cittadinanza universale i diritti umani potrebbe assumere uno status giuridico analogo a quello goduto dai diritti fondamentali nelle costituzioni contemporanee, e dunque le azioni militari per tutelarli si potrebbero configurare come "interventi legali". In assenza di questa "istituzionalizzazione a livello globale" dei diritti umani la discussione si trova in una zona indistinta fra diritto e morale. Tuttavia anche per Habermas il riferimento ai diritti umani legittima l'intervento della Nato, che - per quanto 'paternalistico' - avviene "con buone motivazioni etiche" (Habermas 1999). Non vale dunque l''ermeneutica del sospetto' e la tesi schmittiana secondo la quale "chi dice umanità cerca di ingannarti" non è fondata.

2. Secondo Luigi Ferrajoli è proprio l'universalismo dei titolari che definisce i diritti fondamentali, intesi come "quei diritti soggettivi che le norme di un dato ordinamento giuridico attribuiscono universalmente a tutti o in quanto persone, o in quanto cittadini e/o in quanto persone capaci d'agire" (Ferrajoli 2000, p. 5). I diritti umani sarebbero appunto i diritti fondamentali attribuiti a tutti in quanto persone.

3. Secondo la Dichiarazione di indipendenza della Virginia: "Tutti gli uomini sono da natura egualmente liberi e indipendenti, e hanno alcuni diritti innati, di cui, entrando nello stato di società, non possono, mediante convenzione, privare o spogliare la loro posterità; cioè il godimento della vita, della libertà, mediante l'acquisto e il possesso della proprietà, e il perseguire e ottenere felicità e ricchezza" (art. 1). Per i costituenti francesi del 1789 esistono "diritti naturali, sacri e inalienabili dell'uomo", che esprimono "principi semplici e incontestabili". Dunque "Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti", mentre "la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo" è precisamente "lo scopo di ogni associazione politica".

4. "All human beings are born free and equal in dignity and rights" (art. 1) e precisa che "Everyone is entitled to all the rights and freedoms set forth in this Declaration, without distinction of any kind, such as race, colour, sex, language, religion, political or other opinion, national or social origin, property, birth or other status" (art. 2).

5. Così, ad esempio, la Costituzione italiana "riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità" (art. 2), e attribuisce a "tutti" non solo i diritti civili (come la libertà religiosa [art. 18] o quella di manifestazione del pensiero [art. 21] o il diritto di agire in giudizio [art. 24]) ma anche determinati diritti sociali come quelli alla salute (art. 32), all'istruzione (art. 34) e ad un'equa retribuzione (art. 36). Analogamente, nel progetto di Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, tutti gli individui sono titolari dei diritti relativi alla dignità, alla libertà, all'uguaglianza, alla solidarietà ed alla giustizia.

6. Si prenda l'art. 2 della Costituzione italiana: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Oppure il IX emendamento della Costituzione degli Stati Uniti: "L'enumerazione di alcuni diritti fatta nella Costituzione non potrà essere interpretata in modo che rimangano negati o menomati altri diritti che il popolo si è riservato".

7. La Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, adottata nel 1981 dall'OUA, sancisce la protezione della morale e dei valori tradizionali, e della famiglia come "guardiano" di tali valori. Nella Dichiarazione islamica universale si afferma che i diritti derivano dal patto ancestrale fra Dio e gli uomini, mentre la libertà religiosa può essere esercitata solo nell'ambito della legge divina. E difficoltà di traduzione emergono anche nell'ambito di altre grandi tradizioni giuridiche come quella induista o quella confuciana. Cfr. Zolo 1995, pp. 138-46; Belvisi 1996; Rouland 1998.

8. Per Ferrajoli "l'idea che tutti o anche solo la maggioranza debbano condividere i valori espressi dai diritti fondamentali è una tesi assiologica profondamente illiberale (ivi, p. 49), né si può sostenere "che la legittimità di tali diritti si fondi sul consenso ad essi prestato dalla maggioranza" (ivi, pp. 49-50).

9. "Les droits de l'homme se légitiment à partir d'une réciprocité pars pro toto, à partir d'une échange Or celui qui recourt réellement aux prestations d'autres personnes qui ont lieu uniquement à condition qu'il y ait une contrepartie et tenu à un devoir de l'homme. A l'inverse, il possède un droit de l'homme, dans la mesure où il fournit réellement une prestation qui n'a lieu qu'à condition qu'il y ait contrepartie" (Höffe 1997, pp. 482-83).

10. Massimo La Torre ha sostenuto, a mio parere opportunamente, che una società dove non si conoscessero diritti, ma solo obblighi, vedrebbe "il predominio delle norme sociali (e giuridiche) sugli individui e la loro autonomia" (La Torre 1996, p. 338).

11. Sono ancora costretto a rimandare al mio Il particolarismo dei diritti, cit., pp. 169-79.

12. "In determinate tradizioni le persone possono mostrare un desiderio - ideologicamente alimentato - di sottomettersi a questo o a quel sottogruppo: per esempio, agli individui di nobile nascita, oppure a quelli che svolgono un ruolo sacerdotale o hanno uno status patriarcale. Ma secondo me ciò implica la soppressione di un desiderio umano, profondo e universale, di affermazione [standing] e dignità, e l'eliminazione di una robusta e salutare disposizione a provare sdegno di fronte a tali pretese di superiorità. E anche se mi inganno su questo, è certamente vero che chi è soddisfatto di vivere nel mainstream di una società contemporanea pluralistica è tenuto a far tesoro dell'ideale di non essere dominato dagli altri" (Pettit 1997, pp. 96-7).

13. "Per concedere alla comunità qualche grado di libertà politica è forse sufficiente che i suoi membri, sia in quanto singoli, sia in quanto componenti i loro diversi ceti, sostengano fermamente i loro diritti [...]. In mezzo ai conflitti di parte gli interessi pubblici e anche le massime della giustizia e della lealtà sono a volte dimenticate, e tuttavia non ne seguono inevitabilmente quelle fatali conseguenze che un tale grado di corruzione sembra far presagire. L'interesse pubblico è spesso assicurato non perché gli individui sono disposti a considerarlo come il fine della loro condotta, ma perché ciascuno nella sua posizione è deciso a salvaguardare il proprio interesse. La libertà è sostenuta dalle continue divergenze e opposizioni tra i diversi gruppi, non dal concorso del loro zelo a favore di un governo giusto. (Ferguson 1789, pp. 120-21). "La libertà è un diritto che ogni individuo deve essere pronto a rivendicare per se stesso, e colui che pretenda di concederla come un favore con quest'atto l'ha in realtà negata. Neanche sulle istituzioni politiche si può fare affidamento per la salvaguardia della libertà, anche se esse sembrano indipendenti dalla volontà e dall'arbitrio degli uomini. Possono nutrire, ma non possono sostituire quello spirito fermo e risoluto con cui una mente liberale è sempre pronta a opporsi ai torti e ad assumere su di sé la propria sicurezza" (ivi, pp. 300-1).