Palestina 1948: l'espulsione (*)

Dominique Vidal (**)

Presentazione

Questo testo di Dominique Vidal è la trascrizione di una relazione tenuta a Parigi nel 2003. I temi affrontati sono determinanti per comprendere fino in fondo le origini e l'evoluzione del conflitto dalle origini fino ad oggi. Ricostruendo i punti di partenza delle posizioni dei «nuovi storici» israeliani, Vidal ci offre un quadro chiaro di cosa fu l'espulsione dei palestinesi tra il 1947-49 e come questo evento, che la storiografia «ufficiale» israeliana ha tentato di cancellare, sia in effetti alla base anche delle contraddizioni interne alla società israeliana.

«La guerra d'indipendenza del 1948 non è finita». Che significa questa frase che Ariel Sharon ripete sistematicamente dalla sua prima elezione a primo ministro di Israele, nel febbraio 2001? Quale che sia l'interpretazione che si dà, essa fa emergere in ogni caso tutta l'attualità del lavoro di quelli che vengono definiti i «nuovi storici-intellettuali» israeliani che hanno svelato ai loro concittadini ciò che è veramente accaduto nel 1948. Tra il Piano di spartizione adottato dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947 e gli armistizi del 1949 seguiti alla prima guerra israelo-araba, diverse centinaia di migliaia di palestinesi hanno dovuto abbandonare le loro case.

Per gli storici palestinesi e arabi si tratta di un'espulsione. La maggior parte dei circa settecentomila o novecentomila profughi sono stati costretti alla fuga, nel corso degli scontri ebraico-palestinesi e successivamente durante la guerra israelo-araba, nel quadro di un piano politico-militare costellato da numerosi massacri (1).

Una nuova storia

Secondo la storiografia israeliana tradizionale, invece, i profughi - al massimo cinquecentomila - sono partiti volontariamente, rispondendo agli appelli dei dirigenti arabi che promettevano loro un ritorno in tempi brevi dopo la vittoria. Non solo i responsabili ebrei non avrebbero pianificato l'allontanamento, ma i rari massacri da rimproverare - in primo luogo quello di Deir Yassin, il 9 aprile 1948 - sarebbero stati opera da gruppi estremistici affiliati all'Irgun di Menahem Begin e al Lehi di Itzhak Shamir.

Fin dagli anni '50, alcune personalità israeliane, isolate, contestavano questa tesi. Dalla seconda metà degli anni '80, queste si sono aggiunte alle critiche di un certo numero di giornalisti e ricercatori: Simha Faplan, Tom Segev, Avi Shlaim, Ilan Pappe e soprattutto Benny Morris, che, con The Birth of the Palestinian Refugee Problem (2) , ha «fondato» la nuova storia (3).

Prima di affrontare le tesi dei «nuovi storici» riguardo all'esodo palestinese e di ricordarne alcuni limiti, è importante comprendere l'origine dei loro lavori. Infatti, si sono intrecciati due fenomeni che li hanno stimolati. Il primo è sicuramente l'apertura, trenta anni dopo gli eventi, degli archivi israeliani, pubblici e privati, che riguardavano quel periodo: i ricercatori vi hanno trovato l'essenziale delle loro fonti. Questo si è rivelato essere contemporaneamente la loro forza e la loro debolezza: essi sembrano ignorare quasi del tutto gli archivi degli Stati arabi, in verità poco accessibili, come anche la memoria orale dei palestinesi, che, purtroppo, pochi storici, anche arabi, si sono dati pena di raccogliere. Come osserva, giustamente, lo storico palestinese Nur Masalha:

La storia e la storiografia non dovrebbero essere necessariamente scritte, esclusivamente o essenzialmente, dai vincitori (4).

Ma l'immergersi negli archivi senza dubbio non sarebbe stato cosi fruttuoso se i dieci anni successivi non fossero stati segnati dalla guerra del Libano e l'inizio della Prima Intifada, che accentuarono, nello stesso Israele, il divario tra il campo nazionalistico e il campo della pace. In breve, i «nuovi storici» riscrissero la storia delle origini del problema palestinese mentre questo tornava in primo piano e richiedeva nuove soluzioni - il 15 novembre 1988, il Consiglio Nazionale Palestinese, contemporaneamente, proclamava lo Stato palestinese, riconosceva lo Stato di Israele e condannava il terrorismo.

In un articolo della Revue d'études palestiniennes (5), uno dei pionieri di questa «nuova storia», Ilan Pappe poneva l'accento sul ruolo del dialogo israelo-palestinese avviato all'epoca:

essenzialmente portato avanti, precisava, sotto la guida di accademici. Per quanto potesse essere sorprendente, grazie a questo dialogo la maggior parte dei ricercatori israeliani lavorava sulla storia del loro Paese e coloro che non erano in contatto con i gruppi più radicali presero coscienza della versione storica dei loro colleghi palestinesi. Un buon numero tra questi si accorsero, in occasione di questo incontro, del reale valore dei lavori universitari fin lì considerati come pura propaganda. Sono stati rivelati alcuni capitoli spiacevoli, e anche scioccanti, della storia israeliana. Ma, più di tutto, i ricercatori israeliani presero coscienza della contraddizione fondamentale tra le ambizioni nazionali sioniste e la loro realizzazione a spese della popolazione indigena della Palestina (6).

Ancora una precisazione: in La nouvelle judéophobie (7), Pierre- André Taguieff afferma:

I «nuovi storici» di cui parlo nel mio libro sarebbero tutti intellettuali di estrema sinistra. È ridicolo. Il solo che possa essere «etichettato» in questo modo è Ilan Pappe, che non nasconde le sue simpatie per il Partito comunista israeliano. Ma non ve ne sono altri. Pioniere di questa corrente, Benny Morris, che ha sempre dichiarato le sue convinzioni sioniste, è per altro, in questi ultimi anni tornato ad essere «kasher» agli occhi dell'establishment: se non ha rinnegato i suoi lavori storici è molto evoluto politicamente, fino ad arrivare a sostenere Ariel Sharon e a pronunciarsi esplicitamente per un nuovo «transfert» (8)...

Davide contro Golia?

Curiosamente, fino al 1998, nessuna opera dei «nuovi storici» sulla guerra del 1948 - le prime erano apparse da dodici anni - non avevano avuto la fortuna di essere gradite agli editori francesi. Per questa ragione ho deciso con il mio collega Joseph Algazy, giornalista del quotidiano Haaretz, di rimediare a questa «dimenticanza». Sintetizzare in pochi minuti degli anni di ricerche storiche è un'impresa rischiosa. Diciamo, per limitarci all'essenziale, che questi storici mettono in particolare in discussione tre grandi tesi.

La prima è la minaccia mortale che avrebbe pesato, all'epoca, su Israele. Contrariamente all'immagine di un fragile Stato ebraico appena nato e già costretto a confrontarsi con i temibili eserciti del potente mondo arabo, i «nuovi storici» dimostrano la crescente superiorità delle forze israeliane (in effettivi, armamenti, addestramento, coordinamento, motivazione...) con la sola eccezione del breve periodo che va dal 15 maggio all'11 giugno 1948. Ma c'è di più. All'epoca Israele disponeva della carta migliore, analizzata da Avi Shlaim in Collusion across the Jordan (9): il tacito accordo raggiunto il 17 novembre 1947 (dodici giorni prima del piano di spartizione delle Nazioni Unite) da Golda Meir con il re Abdallah di Transgiordania. La Legione, il solo esercito arabo degno di questo nome, si impegnava a non varcare le frontiere del territorio assegnato allo Stato ebraico in cambio della possibilità di annettere quello previsto per lo Stato arabo.

Rafforzato, fin dal febbraio 1948, dal via libero esplicito del segretario del Foreign Office, Ernest Bevin, questo piano sarà effettivamente messo in atto. Come l'Alto comitato arabo (palestinese) e tutti gli Stati arabi, la Transgiordania ha rifiutato il piano di spartizione dell'ONU. Benché la Legione araba partecipasse alla guerra fin dal 15 maggio 1948, essa non penetrò mai in territorio israeliano e mai assunse l'iniziativa di uno scontro decisivo - salvo a Gerusalemme, che non era «attribuita» dalle Nazioni Unite allo Stato arabo, ma cui era stato attribuito uno statuto internazionale. D'altronde, lo schema del 17 novembre 1947, alla fine delle ostilità, verrà sostituito puramente e semplicemente con il piano di spartizione del 29: la Giordania occuperà e annetterà la parte araba della Palestina, a eccezione delle zone conquistate da Israele (cosa che ha aumentato la sua superficie di un terzo) e della striscia di Gaza occupata dall'Egitto...

La seconda tesi contestata riguarda la volontà di pace che avrebbe manifestato Israele all'indomani della guerra. Organizzata dalla Commissione di conciliazione sulla Palestina delle Nazioni Unite, la conferenza di Losanna è stata studiata in particolare da Avi Shlaim, nel suo testo già citato e da Ilan Pappe, nel libro The Making of the Arab- Israeli Conflict (10). Le loro conclusioni contraddicono largamente la tesi tradizionale.

Gli archivi dimostrano che, in una prima fase, Israele diede prova di apertura: il 12 maggio 1949, la sua delegazione e quella degli Stati arabi ratificarono un protocollo che riaffermava sia il piano di spartizione delle Nazioni Unite, sia il diritto al ritorno dei profughi. Ma, quello stesso 12 maggio 1949, lo Stato ebraico fu ammesso all'ONU e da quel momento, confiderà Walter Eytan, condirettore generale del ministero israeliano degli affari esteri:

il mio principale obiettivo era quello di cominciare a danneggiare il protocollo del 12 maggio, che eravamo stati costretti a firmare nel quadro della nostra battaglia per essere ammessi alle Nazioni Unite (11).

Di fatto, Losanna finirà in una impasse... Elias Sasson, il capo della delegazione israeliana, ammetterà:

Il fattore che blocca, oggi è Israele. A causa della sua attuale posizione e delle sue richieste, Israele rende la seconda parte della Palestina inutilizzabile per qualsiasi genere di progetto, salvo una sua annessione da parte di uno degli Stati vicini, in questo caso la Transgiordania (12).

Nessun appello alla fuga

Particolarmente significativa è la maniera con cui David Ben Gurion rifiutò l'offerta sorprendente del nuovo presidente siriano, Husni Zaim, che proponeva non solo di fare la pace ma anche di accogliere da duecentomila a trecentomila profughi palestinesi. Il tempo che Tel Aviv prendesse coscienza dell'interesse del consiglio ed è troppo tardi: Zaim è rovesciato da un colpo di Stato militare...

Ma il mito contestato più seriamente riguarda l'esodo dei palestinesi. Riassumiamo. Benny Morris lo dimostra, gli archivi confutano formalmente la tesi degli appelli arabi alla fuga.

Non esiste alcuna prova che attesti, scrive, che gli Stati arabi e l'Alto Comitato arabo (HCA, palestinese) auspicassero un esodo di massa o che abbiano diffuso una direttiva o appelli che invitavano i palestinesi ad abbandonare le loro case (anche se, in certe zone, gli abitanti di alcuni villaggi specifici ricevettero dai comandanti arabi o dall'HCA l'ordine di partenza, essenzialmente per ragioni strategiche) (13).

Riguardo i famosi appelli che sarebbero stati diffusi dalle radio arabe, dopo lo studio dei loro programmi registrati dalla BBC si sa che si tratta di invenzioni pure e semplici (14). Certo, nelle settimane successive al piano di spartizione, vi furono tra le settantamila e le ottantamila partenze volontarie, in gran parte ricchi proprietari terrieri e membri della borghesia urbana. Ma dopo? Il primo bilancio redatto dai Servizi segreti della Haganah, datato 30 giugno 1948, stima tra trecentottantamila e undicimila i palestinesi che avevano già lasciato il territorio allora già nelle mani di Israele. «Almeno il 55% del totale dell'esodo è stato causato dalle nostre operazioni», scrivono gli esperti, che aggiungono a queste le operazioni dei dissidenti dell'Irgun (15) e del Lehi (16) «che hanno causato direttamente circa il 15% dell'emigrazione» e gli effetti della guerra psicologica fatta dalla Haganah: in questo modo si arriva al 73% delle partenze causate direttamente da Israele. Nel 22% dei casi, questo rapporto chiama in causa le «paure» e la «crisi di fiducia» diffuse tra la popolazione palestinese. Quanto agli appelli arabi locali alla fuga, rientrano nel conto solo nel 5% dei casi...

Dalla ripresa dei combattimenti, nel luglio 1948, la volontà di espulsione è fuori di dubbio. Un simbolo: l'operazione di Lydda e Ramleh, il 12 luglio 1948. «Espelleteli!» disse David Ben Gurion a Yigal Allon e Yitzhak Rabin. Di fatto, la violenta repressione (250 morti) fu seguita dall'evacuazione forzata, accompagnata da esecuzioni sommarie, di circa settantamila civili palestinesi - ossia, circa il 10% dell'esodo totale tra il 1947 e il 1949! Degli scenari simili si verificheranno fino alla fine del 1948 nel Nord (Galilea) e al sud (la pianura costiera e il Negev)...

A questi palestinesi espulsi, contemporaneamente vengono confiscati i beni, grazie alla legge sulle «proprietà abbandonate», votata nel dicembre '48. Israele in questo modo metterà le mani su settantamila abitazioni negli edifici abbandonati, settemila e cento negozi, laboratori, depositi di magazzini, cinque milioni di lire palestinesi depositati su conti bancari e - soprattutto - trecentomila ettari di terre (17). In totale, oltre quattrocento città e villaggi arabi spariranno o diventeranno ebraici.

In, 1948 and After, Benny Morris torna più ampiamente sul ruolo svolto da Yosef Weitz, all'epoca direttore del dipartimento fondiario del Fondo nazionale ebraico (18). Nel suo diario, il 20 dicembre 1940, questo militante sionista, dalle convinzioni precise, ammetteva senza giri di parole:

Deve essere chiaro che non c'è posto per due popoli n questo Paese [...] e l'unica soluzione è la Terra di Israele senza arabi. [...] Non esiste altro modo che trasferire gli arabi verso i Paesi vicini [...]. Non un villaggio deve rimanere, non una tribù beduina.

Questo programma radicale, sette anni più tardi, lo stesso Yosef Weitz lo potrà realizzare. Fin dall'aprile 1948, ottenne la creazione di «un organismo che dirigesse la guerra con lo scopo dello sradicamento di quanti più possibile arabi». Ufficioso fino a giugno, ufficiale successivamente, il «Comitato del trasferimento» supervisionava la distruzione dei villaggi arabi abbandonati o il loro ripopolamento con nuovi immigrati ebrei.

Perché assolvere Ben Gurion?

Ancora un aspetto che, con l'azione di oggi dei coloni in Cisgiordania, ha una certa similitudine: i raccolti, sui quali Benny Morris torna dettagliatamente in 1948 and After (19). Fin dall'inizio, dimostra lo storico, venne ordinato agli agricoltori ebrei di riprendere la coltivazione delle terre appartenenti ai profughi. Ne segue un altro, in giugno: i soldati israeliani erano autorizzati sparare sui palestinesi che tentavano di tornare alle loro terre per la mietitura. Simbolicamente e materialmente era compito di Israele immagazzinare il prodotto delle semine palestinesi. Peggio: se gli israeliani non ne avevano i mezzi, le colture dovevano essere distrutte! Conclusione di Benny Morris:

[...] la mietitura dei campi arabi all'inizio dell'estate 1948 divenne così una tappa di importanza capitale nel processo di acquisizione da parte degli ebrei e dell'espropriazione delle terre arabo-palestinesi abbandonate.

In breve, quando David Ben Gurion, il 16 giugno 1948, dichiarò al Consiglio dei ministri di aver voluto evitare «ad ogni costo» il ritorno dei profughi, non si trattava di una frase campata in aria, ma di un programma politico molto concreto...

Ma il dibattito più vivace è sulla natura della politica araba dello Yishuv e delle sue forze armate nei primi sei mesi del 1948. Nel suo primo libro, Benny Morris si attiene ad una tesi «centrista»: «il problema palestinese è nato dalla guerra e non da un'intenzione, ebraica o araba» (20). Egli ha modificato questo giudizio nel suo secondo libro, 1948 and After, definendo il transfert (21) come:

un processo cumulativo, dalle cause intricate, ma [con] un detonatore principale, un colpo di grazia, sotto forma di assalto della Haganah, dell'Irgun o delle Forze di difesa di Israele in ogni località (22).

Benny Morris, contemporaneamente, rifiuta la tesi araba dell'esistenza di un piano di espulsione e tende ad assolvere David Ben Gurion. Facendo ciò, tuttavia, egli contraddice numerosi elementi che egli stesso riporta.

Benny Morris, infatti, sottolinea l'impegno preso da lungo tempo da Ben Gurion a favore del progetto di «transfert» (suggerito, nel 1937, dalla Commissione britannica Peel). Ci insegna, per di più, archivi alla mano, che i testi del movimento sionista come i diari dei suoi dirigenti sono stati corretti per cancellare ogni allusione a questo «transfert». Benny Morris descrive sempre Ben Gurion che ha il pugno di ferro nell'espulsione degli arabi e nella confisca dei loro beni e insiste anche su quello che definisce il «fattore atrocità». Lo storico dimostra, infatti, che, lungi dal rappresentare un «abuso» estremistico, il massacro di Deir Yassin è stato preceduto e seguito da numerosi altri massacri commessi dalla Haganah, poi da Tsahal (23), dalla fine del 1947 alla fine del 1948.

Nel libro collettivo La guerre en Palestine (24), che è appena apparso in francese, Benny Morris cita gli archivi recentemente resi accessibili:

i nuovi documenti hanno rivelato delle atrocità che non conoscevo quando scrissi The Birth. [...] Queste atrocità sono importanti per chi vuole capire perché le diverse fasi dell'esodo palestinese si sono susseguite velocemente.

Trattandosi del piano Dalet, messo in atto a partire dalla fine del marzo 1948, Benny Morris esita. A pagina 62 di The Birth, stima che «il piano D non era un piano politico di espulsione degli arabi di Palestina». Ma a pagina 64 scrive:

A partire dall'inizio di aprile, vi sono chiare tracce di una politica di espulsione sia a livello nazionale che locale riguardo alcuni distretti e località strategiche.

Tuttavia, nel suo contributo a La guerre de Palestine, Benny Morris si spinge ben oltre:

non vi è dubbio, la cristallizzazione del consenso a favore del transfert presso i dirigenti sionisti ha consentito di preparare l'accelerazione dell'esodo palestinese nel 1948. Nello stesso modo, una parte ancora più importante di questo esodo è stata provocata da atti e ordini di espulsione espliciti provenienti dalle truppe israeliane, più di quanto non fosse indicato in The Birth (25).

Il fatto che gli archivi non abbiano svelato una direttiva globale di espulsione non è sufficiente a negare il fenomeno e le responsabilità della direzione dello Yishuv (26). Ancora bisogna sottolineare che la direzione dello Yishuv si è basata su un consenso estremamente solido all'interno dell'apparato politico e militare dello stesso Yishuv.

Riassumiamo: meno di tre anni dopo della liberazione dei campi di sterminio, l'immensa maggioranza degli ebrei di Palestina consideravano necessario proseguire la lotta per la sopravvivenza.

Tanto più che essi percepivano il rifiuto arabo alla spartizione come una nuova minaccia per la propria esistenza e ignoravano il carattere favorevole dei rapporti di forza. Non dimentichiamolo: circa un combattente ebreo su due era, all'epoca, un sopravvissuto alla Shoah. Dopo una fase difensiva, passeranno quindi senza patemi d'animo all'offensiva, per raggiungere l'obiettivo che da lungo tempo, salvo che per i binazionalisti (27), era quello centrale del movimento sionista: uno Stato ebraico più grande ed omogeneo possibile.

Come scrive Benny Morris:

Ben Gurion voleva chiaramente che meno arabi possibile vivessero nello Stato ebraico. Sperava di vederli partire. Lo ha detto ai suoi colleghi e assistenti durante alcune riunioni in agosto, settembre e ottobre. Ma [...] Ben Gurion si è sempre astenuto dall'emettere ordini di espulsioni chiari o scritti; preferiva che i suoi generali "capissero" ciò che desiderava vederli fare. Voleva evitare di essere abbassato dalla storia al rango di «grande espulsore» e non voleva che il governo israeliano fosse implicato in una politica moralmente discutibile (28).

La realtà dell'Olocausto

Un'ultima cosa a proposito dell'attuale posta in gioco di questo dibattito storico. La postfazione scritta dal mio collega Joseph Algazy chiarisce, credo, l'inserimento dei «nuovi storici» in un movimento che va ben al di là: la ricerca di ciò che si definisce «post-sionismo». Per riassumere, Israele deve restare fedele al sionismo tradizionale, e in particolare rimanere vincolato a uno Stato ebraico? O deve dotarsi di una nuova identità e in primo luogo diventare lo Stato di tutti i suoi cittadini? È inutile sottolineare quanto questa battaglia sia inseparabile da quella che contrappone il campo della pace e il campo nazionalistico...

Ma la conoscenza e il riconoscimento di questa doppia nascita - quella di Israele e quella del problema dei profughi palestinesi - è al centro dell'eventuale riconciliazione tra i popoli. La pace tra questi passa, secondo me, evidentemente attraverso la creazione di uno Stato palestinese sovrano. Ma la riconciliazione esige molto di più: che tutte le parti in conflitto assumano la propria storia.

L'articolo che Edward Said ha pubblicato nell'agosto 1998, in Le monde diplomatique, merita, da questo punto di vista, di essere riletto con la più grande attenzione. In questa risposta ai suoi amici arabi affascinati da Roger Garaudy (29), il grande intellettuale palestinese, in particolare, scrive:

La tesi secondo la quale l'Olocausto sarebbe solo un'invenzione dei sionisti circola qua e là in modo inaccettabile. Come possiamo aspettarci che il mondo intero prenda coscienza delle nostre sofferenze in quanto arabi se non siamo in grado di prendere coscienza di quelle degli altri, anche se si tratta dei nostri oppressori e si ci riveleremo incapaci di avere a che fare con i fatti quando questi disturbano la visione semplicistica di intellettuali «benpensanti» che rifiutano di vedere il rapporto che esiste tra l'Olocausto e Israele?

Dire che noi dobbiamo prendere coscienza della realtà dell'Olocausto - prosegue Said - non significa assolutamente accettare l'idea secondo cui l'Olocausto assolve il sionismo dal male fatto ai palestinesi. Al contrario, riconoscere la storia dell'Olocausto e la follia del genocidio contro il popolo ebraico ci rende credibili per ciò che riguarda la nostra storia; ciò ci permette di chiedere agli israeliani e agli ebrei di stabilire un rapporto tra l'Olocausto e le ingiustizie imposte ai palestinesi! (30)

Resta da precisare fino a che punto i lavori dei «nuovi storici» sono penetrati nella loro società. In un primo momento, le loro rivelazioni hanno scioccato molti loro concittadini. Per forza: non è una pagina di storia tra le altre che ha contribuito a ristabilire la verità. No, ciò che è stato messo a nudo è puramente e semplicemente il «peccato originale» di Israele - per riprendere l'accusa lanciata dallo storico «ortodosso» Shabtai Teveth contro Benny Morris. Il diritto dei sopravvissuti al genocidio hitleriano a vivere in sicurezza in uno Stato doveva escludere quello delle figlie e dei figli di Palestina a vivere, anch'essi, in pace nel loro Stato? La risposta a questa domanda riguarda, sicuramente, il passato, ma anche il presente. Poiché l'ingiustizia non può essere riparata che realizzando, con mezzo secolo di ritardo, il diritto dei palestinesi a uno patria.

Più che le discussioni tra specialisti, ciò che era in gioco spiega perché la risposta si organizza, fin dagli inizi degli anni '80. Non appena i primi articoli di Benny Morris appaiono, suscitano una polemica, che non cesserà. All'origine di queste violente critiche, troviamo dei «vecchi storici» che si collocano nel campo delle posizioni dell'epoca e si aggrappano al carattere sedicente volontario dell'esilio dei palestinesi, negando ogni responsabilità dei dirigenti dello Yishuv, poi di Israele. Questa o quella versione ortodossa sarà difesa, a diversi livelli, da Shabtai Teveth, ma anche da specialisti più giovani, come Anita Shapira, Avraham Sela, Itamar Rabinovich o Efraim Karsh. Parallelamente a questo dibattito intellettuale, i colpi non mancano. A Benny Morris le sue opere costeranno la perdita del suo posto di giornalista al Jerusalem Post. Gli ci vorranno dodici anni per ottenere una cattedra universitaria, presso l'università David Ben Gurion di Beersheva. Ma i discendenti del padre fondatore esigeranno - in vano - dal rettore della suddetta università di licenziare Benny Morris o cambiare il nome della sua università! L'interessato, si è visto, poi è cambiato... Nel frattempo, lo scontro intorno alle tesi dei «nuovi storici» ha assunto un carattere pubblico. Dopo essere stato relegato nelle pubblicazioni specializzate, molto spesso poco diffuse, il dibattito ha guadagnato i giornali, in particolare il quotidiano Haaretz. Alimentato dalla pubblicazione di numerosi libri -- all'epoca in inglese - è necessario sottolinearlo: le prime traduzioni in ebraico appaiono solo agli inizi degli anni '90.

In occasione del cinquantesimo anniversario dello Stato di Israele, nell'aprile e nel maggio 1988, si arriva all'apogeo: anche l'ultra conformistica serie televisiva Tekuma (Rinascita), dedicata alla storia di Israele, fa un breve cenno, nella puntata dedicata al 1948, all'espulsione da parte di Israele di civili palestinesi - con immagini inedite che colpiranno evidentemente le sue centinaia di migliaia di telespettatori...

Ormai, le tesi dei «nuovi storici», se restano senza dubbio minoritarie, sono imprescindibili: impossibile ignorarle. Lo dimostra il nuovo manuale di storia di Eyal Nave, pubblicato all'inizio dell'anno scolastico del 1999. Pur conservando, per l'essenziale, la visione tradizionale della prima guerra israelo-araba, quest'opera non può non segnalare che i rapporti di forza, all'epoca, erano molto favorevoli agli eserciti ebraici e che questi hanno cacciato numerosi palestinesi.

Una posizione schizofrenica

Meno mediatizzato, ma ancora più significativo è il libro dal titolo La lotta per la sicurezza di Israele (31). Gli autori - un gruppo di ricercatori proveniente dai servizi segreti dell'esercito, che hanno avuto il privilegio di accedere a documenti coperti dalla legge sui segreti ufficiali - non esitano a sgozzare alcune vacche sacre del Paese. Il libro non sottoscrive la tesi ufficiale, secondo cui le forze armate di Israele erano, nel 1948, molto inferiori a quelle arabe - secondo gli autori, Tsahal aveva trentaduemila combattenti contro i trentaduemilacinquecento di tutti gli eserciti arabi, anche meglio armati - e riconosce che la partenza dei palestinesi non è stata volontaria.

L'arrivo al potere di Ariel Sharon e del suo governo, nel 2001, ha prodotto un netto irrigidimento. Una delle prime decisioni della nuova ministra dell'educazione del governo Sharon-Peres, Limor Livnat, è quella di eliminare il manuale di Eyal Navé. Ilan Pappe è stato convocato nella primavera del 2002 dal rettore dell'università di Haifa, dove insegna, per una sorta di processo al termine del quale rischiava di essere espulso dall'insegnamento. Il suo crimine? Aver sostenuto Theodor Katz, la cui tesi dimostra che l'esercito israeliano ha perpetrato un massacro nel villaggio di Tantura, il 22 maggio 1948. Di fronte all'alzata di scudi nazionale e internazionale, il rettore ha dovuto fare marcia indietro. Ma numerosi accademici temono che l'estrema destra voglia di imporre una specie di maccartismo alla israeliana...

Ciò dimostra quanto la destra e l'estrema destra temono l'influenza crescente dei «nuovi storici». La cesura aperta da questi non significa però che, nella sua grande maggioranza, la società israeliana abbia risposto alle domande che pone la sua storia. Sull'essenziale, credo che essa resti indecisa: favorevole alla pace, essa esita a pagarne il prezzo; ostile all'oppressione religiosa, essa non è pronta alla separazione tra la Sinagoga e lo Stato; restia alle discriminazioni, tuttavia prende in considerazione l'opportunità di ritirare il diritto di voto ai cittadini arabi...

Non valutando questa esitazione strutturale sarebbe impossibile d'altronde comprendere il voto del 20 gennaio 2003. Come scriveva, con ironia, il pacifista Uri Avnery, Israele è l'unico Paese al mondo che conta due volte gli abitanti più di quanto indichino le statistiche. E per forza: a credere ai sondaggi, il 100% - o quasi - sostiene Ariel Sharon nella sua politica «anti-terroristica», ma il 100% degli israeliani - o quasi - si pronuncia per una pace fondata sul ritiro dei coloni e dei soldati dai Territori occupati e la creazione di uno Stato palestinese...A parte le esagerazioni, ciò che si produce di nuovo è che, a scapito di una prospettiva di una pace solida, la maggioranza degli israeliani, traumatizzati dall'ondata di attacchi kamikaze, hanno massicciamente votato per coloro che promettevano di portare sicurezza.

Il colpo da maestro di Ariel Sharon è appunto quello di aver fatto dimenticare, anche in questo campo, i suoi disastrosi bilanci. Al suo arrivo al potere, due anni fa, l'Intifada aveva provocato la morte di cinquanta israeliani, oggi se ne contano oltre settecento (e quasi duemilacento palestinesi). Per non parlare dell'economia, sprofondata nella più grave recessione dal 1953. Né dell'isolamento regionale d'Israele, a cui la normalizzazione dei rapporti con il mondo arabo, in corso dagli accordi di Oslo, non ha resistito alla rioccupazione dei territori autonomi. Ecco cosa avrebbe dovuto dissuadere dal votare il Likud. Se, paradossalmente, essi gli hanno offerto un trionfo, questo è in nome della difesa del Paese e perché nessuno offre un'alternativa di pace credibile.

Il partito laburista, in particolare, non era in grado di rappresentare un'altra politica. Come pretendere di rappresentare una opposizione pacifista ad Ariel Sharon quando si è preso parte, per un anno e mezzo, al governo di unità nazionale diretto da quest'ultimo, con diversi ministeri chiave tra cui quello della difesa e si porta, in questo senso, la corresponsabilità delle peggiori politiche anti-palestinesi? Questo handicap ha fortemente pesato su Amram Mitzna, le cui proposte innovatrici non trovavano, per di più, alcun sostegno nella comunità internazionale e in particolare a Washington - non dimentichiamo che Itzhak Rabin deve la sua vittoria, nel 1992, alla congiunzione tra le aspirazioni degli israeliani e le pressioni della Casa Bianca. Aggiungiamo che, sul più lungo periodo, il partito laburista ha perso i legami che gli erano propri con il cuore della società israeliana degli anni '50 e '60, e anche '70: è progressivamente diventato il partito della borghesia ashkenazita laica, contrapposta agli strati popolari arabi e sefarditi - un ruolo che ormai gli contendono altri partiti, in particolare lo Shinui (32).

Per non trovarsi di fronte a una scelta chiara riguardo il futuro delle relazioni israelo-palestinesi e quindi dello Stato ebraico, l'elettorato ha votato in funzione dei conflitti interni che scuotono, da lungo tempo, la società israeliana. Il successo del partito Shinui, per esempio, esprime contemporaneamente la crescita della corrente laica contro le pretese egemoniche dei partiti religiosi, ma anche il ritorno in forza degli ebrei aschenaziti, rafforzati dall'importante immigrazione russa, contro le rivendicazioni dei sefarditi. Paradossalmente, la lotta tra i gruppi principali che si contendono la direzione dello Stato di Israele è più appassionante tra gli elettori della ripresa dei negoziati con i palestinesi, che tuttavia condizionano il loro futuro a lungo termine...

L'onnipresenza del «transfert»

È troppo presto per dire che tipo di governo uscirà dalle urne del 28 gennaio. Certo, Ariel Sharon ha fatto la sua campagna elettorale in «sordina», sostenitore di uno Stato palestinese (piuttosto di uno pseudo-Stato: solo il 41% della Cisgiordania, meno il territorio nelle mani dei coloni, con Israele che controlla frontiere e spazio aereo, totalmente demilitarizzato e dotato di una nuova direzione...). In questo spirito, egli si sforza di ricostruire un governo di unione nazionale, con i laburisti e lo Shinui che appoggerebbero, dall'interno e dall'esterno la sua politica. Ma il Primo ministro ha una carta di riserva: un governo di destra e di estrema destra con la partecipazione ultra ortodossa, pronto a lanciarsi nell'avventura di un nuovo transfert. Ho citato nell'introduzione questa frase che egli ripete regolarmente: «La guerra di indipendenza del 1948 non è finita». Cosa vuol sostenere con questo? Non solo che lo Stato ebraico esiste dal 14 maggio 1948, ma che esso è - militarmente ed economicamente - più potente di tutti i suoi vicini. In realtà, l'unico «lavoro» che resta da «finire» - per usare il vocabolario dell'estrema destra israeliana -, è l'espulsione dei palestinesi.

Già da ora gli indizi di questo si moltiplicano: il tema del «transfert» è onnipresente nei media israeliani; un tempo tipico della sola estrema destra, ormai è usato da molti partiti di destra e molte personalità. Anche il Likud, un tempo più prudente, come il presidente del Likud-Francia e, dal 2002, del Likud mondiale, Jacques Kuper (33), parlava recentemente di «questi squatters arabi in Eretz Israel, capaci di molti assassinii, pronti a distruggere tutto e dappertutto». E affermava:

Forse bisogna arrendersi all'unica evidenza: non si può più vivere con loro fin tanto hanno il diritto di esistere. Sarà quindi o noi o loro. La soluzione così spiacevole e irrealistica del transfert rischia di diventare l'unica soluzione praticabile capace di offrirci la sicurezza e più tardi la pace. La storia offre sempre le opportunità per realizzare i sogni di una nazione. Ancora bisogna saperle cogliere e non sprecare le occasioni come purtroppo abbiamo fatto nel 1948 o nel 1967 (34).

Questa propaganda politica, mediatica e intellettuale - aggiunta agli effetti devastanti degli attacchi terroristici - ha dato i suoi risultati: in due anni, la percentuale degli israeliani favorevoli al «transfert» dei palestinesi è passata da meno del 10% a oltre il 40% (35); occorre anche ricordare, sul terreno, i tormenti subiti dai palestinesi da parte dell'esercito e dai coloni per spingerli ad andarsene. Simbolico è il caso del villaggio di Khirbet Yanun, a sud di Nablus, che gli abitanti hanno abbandonato il 18 ottobre 2002, prima di tornarvi sotto la protezione dei militanti pacifisti di Taayush (36) (Vivere insieme).

Il transfert - spiegano due responsabili dell'associazione, Gadi Algazy e Azmi Bdeir - non è necessariamente un momento drammatico, in cui le persone sono espulse e fuggono dalle loro città o villaggi. [...] È un processo profondo, un processo strisciante che non si vede [...] La sua principale componente è la graduale distruzione delle infrastrutture della vita della popolazione civile palestinese nei territori: è lo strangolamento progressivo attraverso i blocchi e gli assedi, che impediscono alle persone di andare a lavoro o a scuola e di avere accesso ai servizi sanitari, che sbarrano la strada ai camion come alle ambulanze, ributtando i palestinesi nell'epoca degli asini e dei carretti [...]. E ciò che i blocchi dell'esercito non riescono a fare, lo fanno i coloni: ogni nuova colonia o avamposto esige misure di sicurezza, ossia, per i coloni, l'espulsione dei palestinesi dalle zone limitrofe e la trasformazione delle zone agricole in terre di morte - chiunque lavori o vi raccolga olive rischia di pagare con la vita [...]. Khirbet Yanun non è un caso isolato.

Occorre infine menzionare le indicazioni delle ambasciate e dei consolati stranieri segnalando un aumento considerevole del numero di richieste di visti da parte dei palestinesi - tra centomila e duecentomila sarebbero immigrati in due anni...

Un terribile dilemma

Molti sono i segnali che devono spingere alla più grande vigilanza: la guerra che Washington ha deciso di fare, qualsiasi cosa accada, contro l'Iraq, soprattutto se Israele vi sarà coinvolto, potrebbe creare le condizioni per un «transfert». Amira Hass prevede, in Le monde diplomatique di febbraio 2003, tre possibili pretesti: il lancio di Scud iracheni, un enorme attentato terroristico, manifestazioni di palestinesi che degenerano...

Certo, un transfert di massa sarebbe per l'esercito e il governo di Israele, militar- mente e politicamente pericoloso - potrebbe in particolare rovinare l'immagine mondiale di Israele. Certo, anche George W. Bush, preoccupato di allargare e rafforzare la coalizione anti-irachena, sarebbe poco incline ad accettare un'operazione che rischierebbe di dare fuoco alle polveri in tutto il mondo arabo. Ma - da Qibya nel 1953 all'invasione del Libano nel 1982, passando per la guerra del Sinai del 1956 e quella del 1973 - il suo curriculum vitae [di Ariel Sharon] ne è testimone: egli mai ha esitato a oltrepassare le linee rosse, anche quelle fissate dalla presidenza degli Stati Uniti.

Ciò che occorre comprendere, è che l'obiettivo di sempre dell'estrema destra israeliana ha assunto un nuovo significato dopo il fallimento del processo di pace congiunto all'evoluzione demografica. Benché ottocentomila palestinesi siano stati costretti a partire nel 1948-49, seguiti da altri trecentomila nel 1967, da qui a meno di dieci anni, vi sarà una maggioranza araba nella «Grande Israele», che progressivamente diventerà schiacciante. Israele, «Stato ebraico e democratico», sarà di fronte a un terribile dilemma: se sceglierà la democrazia, in particolare concedendo il diritto di voto a tutti i suoi abitanti, compresi i palestinesi, non sarà più uno Stato ebraico; se tenderà a preservare il suo carattere ebraico, non potrà essere democratico. L'imposizione di un vero apartheid a una maggioranza araba senza dubbio provocherà delle rivolte ancora più possenti dell'Intifada, contro le quali l'esercito israeliano reagirà con una repressione ancora maggiore. Un simile scenario può sfociare a medio termine nello schiacciare i palestinesi, ma anche nella sparizione dello Stato di Israele. A questa tragica trappola, vi sono, dal punto di vista israeliano, solamente due vie d'uscita: la costruzione di uno Stato palestinese al fianco di Israele, che permetta ai due popoli di coesistere nel rispetto della loro sovranità e della loro sicurezza; l'espulsione del massimo di palestinesi dal «Grande Israele» che vi conservi - per qualche decennio - una maggioranza ebraica. Ariel Sharon e i suoi amici escludono evidentemente la prima soluzione e sognano senza dubbio la seconda.

Il vecchio generale ha anche un'idea precisa della destinazione verso la quale bi- sognerebbe «spostare» i palestinesi: la Giordania. Egli ha sempre affermato che il regno hascemita era destinato ad accogliere i palestinesi. All'epoca degli scontri del «Settembre nero» tra re Hussein e la Resistenza palestinese, nel 1970, Ariel Sharon, all'epoca comandante del Fronte Sud, si oppose al sostegno offerto da Israele al «piccolo re» contro i fedayin: sarebbe stato necessario il contrario, spigava, portare i palestinesi al potere ad Amman perché vi creassero il loro Stato e finirla con questa questione. Trenta anni più tardi, ha cambiato strategia?


Note

*. Testo originale: Palestine 1948: l'expulsion. Traduzione di Cinzia Nachira.

**. Dominique Vidal, saggista francese di origine ebraica è stato, tra l'altro, vicedirettore aggiunto del mensile francese Le monde diplomatique dal 1998 al 2006 ed è animatore in Francia e altrove del dibattito sulle vicende ebraico-europee e sul conflitto israelo-palestinese. In italiano sono disponibili: Palestina 1947: una spartizione mai nata (con Alain Gresh), Rubbettino editore, 1990; Il vortice del Golfo (con Alain Gresh), Rubbettino editore, 1993.

1. Nello specifico è la tesi difesa, fin dal 1961, da Walid Khalidi, cfr «Middle East Forum», novembre 1961, ripubblicato in «Journal of Palestine Studies», vol. XVIII, nº 69, 1988.

2. Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem 1947-1949, Cambridge University Press, Cambridege, 1987, pp. 380.

3. I loro testi più importanti: Simha Flapan, The Birth of Israel, Myth and Realities, Pantheon Books, New York, 1987; Tom Segev, 1949. The First Israelis, Free Press MacMillan, New York Londres, 1986 ; Avi Shlaim, Collusion across the Jordan. King Abdallah, the Zionist Movement and the Partition of Palestine, Clarendon Press, Oxford, 1988 ; Ilan Pappe, Britain and the Arab-Israeli Conflict, 1948-1951, MacMillan, New York, 1988, e The Making of the Arab-Israeli Conflict, 1947-1951, I. B. Tauris, New York, 1992 ; Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947-1949, Cambridge University Press, Cambridge, 1987, e 1948 and After. Israel and the Palestinians, Clarendon Press, Oxford, 1990.

4. Nur Masalha, « 1948 and After revisited », Journal of Palestine Studies 96, vol. XXIV, nº 56, Berkeley, estate 1995.

5. Ilan Pappe, « La critique post-sioniste en Israël », in La Revue d'études palestiniennes, nº 64, Paris, estate 1997.

6. Ilan Pappe, « La critique post-sioniste en Israël», op. cit.

7. Pierre- André Taguieff, La nouvelle judéophobie, ed. Mille et une nuits, 2002.

8. Pierre- André Taguieff, op. cit.

9. Avi Shlaim, Collusion across the Jordan, Columbia University Press, 1988.

10. Ilan Pappe, The Making of the Arab-Israeli Conflict, 1947-1951..., op. cit.

11. Ilan Pappe, The Making..., op. cit., p. 212.

12. Avi Shlaim, Collusion...., op. cit., pp. 474-475.

13. Benny Morris, The Birth..., op. cit., p. 129.

14. Cfr, Erskine Childers, The Other Exodus , «The Spectator Magazine», Londra, 12 maggio 1961, ora in Nadine Picaudou, Les Palestiniens, un siècle d'histoire, Edizioni Complexe, Bruxelles, 1997, p. 115.

15. Irgun Zvai Leumi (Organizzazione militare nazionale), scissione della Haganah fondata nel 1931 da Avraham Tesomi. Questa organizzazione riteneva «moderata» la politica del gruppo dirigente sionista dell'epoca e della stessa Haganah e seguiva le orme ideologiche del fondatore della estrema destra ebraico-israeliana Jabotinsky. NdT

16. Lohamei Herut Israel (Combattenti per la Libertà di Israele), gruppo terroristico ebraico fondato in Palestina negli anni '20 del XX secolo da Avraham ("Yair") Stern (da cui il nome con cui è più noto di «banda Stern»), aveva come obiettivo, oltre all'espulsione dei palestinesi, l'allontanamento degli inglesi, all'epoca detentori del Mandato della Società delle Nazioni sulla Palestina. Di questo gruppo terroristico era figura di spicco Yitzhak Shamir, più tardi primo ministro dello Stato di Israele per due volte (1983-1984 e 1986-1992). NdT

17. Cit. in Simha Flapan, op. cit., p. 107.

18. Benny Morris, 1948..., op. cit., capitolo 4.

19. Benny Morris, 1948..., op. cit., capitolo 6.

20. Benny Morris, The Birth..., op. cit., p. 286.

21. Il termine transfert è usato in questo scritto con il significato di «partenza forzosa». NdT

22. Benny Morris, 1948..., op. cit., p. 32.

23. Tsahal è il nome che prenderà la Haganah (brigate armate ebraiche) trasformandosi, dopo il 1948, nell'esercito dello Stato di Israele. NdT

24. Eugene L. Rogan e Avi Shlaim, a cura di, La Guerre de Palestine. Derrière le mythe 1948, Autrement, Paris, 2002, pp. 38-65 [traduzione italiana, La guerra per la Palestina. Riscrivere la storia del 1948, editrice Il Ponte, Bologna, 2004]

25. Benny Morris in, La guerre..., op. cit., p. 64.

26. Yishuv è la comunità ebraica presente in Palestina prima della creazione dello Stato di Israele. NdT

27. Con questa definizione si indicano quegli intellettuali che prefiguravano come soluzione un unico Stato in cui convivessero palestinesi ed israeliani. NdT

28. Benny Morris, The Birth..., op. cit., pp. 292-293.

29. Roger Garaudy, intellettuale francese che, dopo aver aderito al marxismo, nel 1982 si convertì all'Islam, diventando una figura assai controversa per le sue posizioni dichiaratamente negazioniste. NdT

30. Edward Said, «Israël-Palestine, une troisième voix», in Le monde diplomatique, agosto 1998.

31. Colonnello (della riserva) Benny Michalson, tenente-colonnello (della riserva) Abraham Zohar e tenente colonnello (della riserva) Eppi Meltser, La Lutte pour la sécurité d'Israël (in ebraico ), edito dalla Association israélienne d'histoire militaire, succursale dell'università di Tel-Aviv, con la collaborazione del dipartimento di storia dell'esercito israeliano, Tel-Aviv, 1999.

32. Partito non religioso, su posizioni centriste, fondato nel 1985. NdT

33. Jacques Kupfer, «Arouts7», 11 agosto 2002.

34. Idem.

35. Cfr. Martin Van Creveld, storico israeliano militare, in «Daily Telegraph», 28 aprile 2002.

36. Ta'ayush, movimento pacifista, ebraico-palestinese, fondato nel 2000. NdT