2008

Le migrazioni nei processi di globalizzazione
Una conversazione con Saskia Sassen (*)

a cura di Federico Oliveri (**)

Quando nel 1996 Saskia Sassen pubblica Migranti, coloni, rifugiati, il suo primo studio interamente dedicato alle migrazioni in Europa, l'opinione pubblica era in preda a un vero panico da invasione: da alcuni anni profughi e immigrati provenienti dall'ex blocco socialista, dall'Africa e più in generale dal Sud del mondo, stavano raggiungendo in massa le società del benessere e della "libertà". Già in quel volume, ripercorrendo la storia delle migrazioni intra-europee dal 1800 in avanti, l'autrice avanzava un'opzione politica realista: essendo, al pari dei precedenti, i flussi in corso radicati nella geopolitica e nelle trasformazioni socio-economiche dei paesi di arrivo, l'ipotesi di gestirli rafforzando i controlli era insostenibile. A distanza di undici anni, è ancora per un analogo deficit di realismo che le politiche migratorie europee non funzionano, come Sassen spiega nelle pagine seguenti; e questo nonostante gli alti costi sostenuti dai contribuenti e la denuncia degli effetti negativi indotti dal proibizionismo degli ingressi. In più, rispetto agli anni 90, alla mancanza di visione si associano oggi interessi economici diffusi, legati al mercato della sicurezza e alla domanda di manodopera a basso costo, nonché una scarsa volontà di cambiamento trasversale a tutti gli schieramenti politici. La militarizzazione della frontiera messicana da parte degli Stati Uniti offre un caso emblematico di questi sviluppi.

Da anni i dibattiti sull'immigrazione continuano a fervere in tutta Europa, ma non per questo le condizioni di vita degli immigrati e dei loro discendenti migliorano. L'ostilità nei confronti degli "stranieri" è oggetto di manipolazioni mediatiche e occasione di facile profitto politico; l'apparato in materia di controlli e di norme per l'integrazione è notevolmente aumentato, di solito in senso restrittivo; la regolazione selettiva delle frontiere a scopo economico si impone come pensiero unico; le differenze culturali e religiose sono enfatizzate ad arte, anche per nascondere le crepe della solidarietà nazionale messa alla prova dalla competizione globale e dalla resistenza delle seconde generazioni, specie musulmane, all'assimilazione. Eppure, secondo Sassen, governare in modo lungimirante le migrazioni è possibile, e dipende in primo luogo dalla capacità di inquadrarle correttamente nei processi di globalizzazione. Si tratta innanzitutto di riconoscere quanto diversi e numerosi siano gli attori che, oltre lo stato, influenzano il policy-making in materia e che, prima ancora, creano le condizioni affinché nei paesi meno sviluppati maturi la scelta di emigrare; di comprendere quanto siano mobili, altamente tecnologici e in parte invisibili i confini di oggi; di individuare nella creazione di posti a basso costo e con scarse prospettive uno dei più potenti fattori di attrazione per i lavoratori dei paesi più poveri; di considerare la migrazione ben governata come una risposta possibile, insieme ad altre, al declino demografico europeo.

Saskia Sassen non è certo tra coloro che annunciano la "fine dello Stato", impotente a fronte di mercati e di fonti di "diritto globale" che ne trascendono il potere d'azione. La sua lettura del presente è molto più aperta e conflittuale: l'allargamento dell'arena politica ad attori non nazionali e/o non statali, tipico degli scenari di governance, non dà nessun vantaggio definitivo ai portatori di interessi economici a danno della cittadinanza, dei suoi diritti e dei suoi spazi di trasformazione sociale. Da qui l'attenzione per l'emergente "regime internazionale dei diritti umani", che le corti nazionali iniziano ad applicare e che potrebbe favorire l'inclusione degli immigrati, anche per la pressione congiunta della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell'uomo. Da qui anche la prospettiva di alleanze sociali trasversali alle "appartenenze nazionali", capaci di affrontare la questione delle ineguaglianze sociali crescenti e della precarietà occupazionale in Europa. Riqualificare e dare prospettive al lavoro ridurrebbe, infatti, il potere d'attrazione dei mercati deregolati sulle popolazioni dei paesi più poveri, e garantirebbe al tempo stesso ai lavoratori, nazionali e non, più risorse e più garanzie per realizzare la loro comune cittadinanza. Affrontando questo punto cruciale, anche con una lotta vera all'economia sommersa, diventerà più plausibile un governo dei flussi fondato non sul controllo, sulla selezione e sull'insicurezza collettiva, ma sulle migrazioni circolari e sulla "trasportabilità dei diritti".

Certo, poche politiche sembrano oggi tanto prigioniere di stereotipi teorici e perversioni pratiche, come quelle che hanno per "oggetto" i migranti. Le analisi e le ricostruzioni storiche proposte da Saskia Sassen offrono comunque non pochi spunti a chi, portando la responsabilità di decisioni in materia, trovandosi ad applicare o a subire gli effetti delle norme vigenti, o semplicemente avvertendo le contraddizioni dell'attuale sistema, voglia impegnarsi a costruire delle alternative praticabili.

1. Attori, spazi e strumenti del governo delle migrazioni globali

FEDERICO OLIVERI - Nel corso degli ultimi quindici anni la maggior parte dei governi dell'Europa occidentale ha adottato nuove politiche per "gestire" i flussi migratori e per "integrare" gli immigrati nella società di arrivo. L'Unione Europea ha contribuito in modo decisivo a questo processo: utilizzando l'obiettivo di una "politica migratoria comune", presentata come necessario pendant al superamento dei controlli nell'area Schengen, le istituzioni europee hanno finito per rafforzare le loro competenze in materia. Questo complesso di mutamenti è riconducibile ad alcune linee di fondo, ad obiettivi coerenti, a qualcosa come un nuovo paradigma di governo delle migrazioni? E questi mutamenti, a loro volta, si spiegano nel quadro di un nuovo ciclo economico, di un cambiamento nella natura e nelle dinamiche dei flussi o l'iperattività normativa dei nostri governi ha anche altre ragioni?

SASKIA SASSEN - Non credo si tratti di mutamenti omogenei, né per le ipotesi di partenza, né per gli obiettivi: non tutti, infatti, producono sinergie anzi, alcuni danno luogo a conflitti e incompatibilità. Anche se un nuovo e coerente paradigma non si è ancora costituito in materia, è senz'altro all'opera una tendenza innovativa ben più forte di quanto le dichiarazioni e i discorsi dei politici nazionali non lascino credere. Per quanto gli stati continuino ad essere i principali attori delle politiche migratorie e della loro implementazione, questi stati risultano essi stessi modificati dallo sviluppo di un sistema economico globale e da altri processi transnazionali, non ultimo l'istituzionalizzazione di un regime dei diritti umani e, per quanto ci riguarda più direttamente, la costruzione giuridico-politica dell'Unione Europea.

Quanto al ruolo dello stato nell'elaborazione e nell'implementazione delle politiche migratorie, tre sviluppi meritano particolare attenzione. Il primo riguarda il trasferimento di alcune componenti dell'autorità pubblica ad attori altri che lo stato: si tratta innanzitutto di organizzazioni sopranazionali, come l'Unione Europea, l'Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO) o la Corte Penale Internazionale (ICC) recentemente istituita, rilevante per via della sua giurisdizione potenzialmente universale. Nel caso specifico delle migrazioni, occorre prendere in considerazione il ruolo crescente dell'Organizzazione Mondiale della Migrazione (IOM) nella gestione dei flussi d'immigrati e di rifugiati e, in certa misura, dell'Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OECD). Ma il campo include, a rigore, anche attori del settore privato come le banche e le imprese finanziarie che gestiscono le rimesse dei lavoratori immigrati. Per quanto si tratti di un aspetto di solito trascurato dagli analisti, la dimensione del fenomeno è rilevante se si considera che le rimesse hanno raggiunto a livello mondiale quota 230 miliardi di dollari nel 2005 (1). Per fare un altro esempio, secondo le stime della Banca Interamericana per lo Sviluppo (IADB), nel 2003 le rimesse hanno generato 2 miliardi di dollari, in commissioni per il settore bancario e finanziario, sui 35 miliardi inviati dai lavoratori ispanici alle rispettive famiglie. La stessa banca segnala che, sempre nel 2003, per l'insieme dell'America Latina e dei Caraibi, le rimesse hanno superato in entità la somma degli investimenti diretti esteri (FDI) e degli aiuti pubblici allo sviluppo.

Un secondo aspetto riguarda la deregolamentazione delle attività del settore pubblico, fenomeni che in molti casi hanno condotto ad una privatizzazione de facto di numerose funzioni di governance prima appannaggio delle burocrazie statali (2). Un caso tipico è quello dell'internazionalizzazione del commercio e degli investimenti. Un numero crescente di flussi transfrontalieri è oggi "governato" dalle imprese, dai mercati e dagli accordi di libero scambio. È il caso, ancora poco studiato, degli spostamenti di lavoratori specializzati nel quadro di accordi commerciali o d'investimento, in particolare quelli del WTO, e di accordi regionali di libero scambio, come il NAFTA in vigore in America settentrionale e Messico (3).

Un terzo e ultimo aspetto riguarda il consistente incremento, per numero e tipo, di attori politici attivi nei dibattiti e nelle scelte pubbliche in tema d'immigrazione, fenomeno comune all'Europa Occidentale, al Nord America ed al Giappone e decisamente aumentato rispetto a due decenni fa. Penso ancora una volta all'Unione Europea, ai partiti e ai movimenti politici anti-immigrazione, alle ampie reti di organizzazioni europee e nordamericane che rappresentano, o sostengono di rappresentare, gli immigrati e lottano per l'estensione dei loro diritti, alle associazioni di immigrati, ai politici di origine straniera soprattutto di seconda e terza generazione, infine a quelle che soprattutto negli Stati Uniti vengono chiamate le "lobby etniche" e "pro-immigrazione". Il processo politico di definizione delle politiche migratorie non è più confinato alla sola arena governativa, costituita dalle interazioni tra ministri competenti e rispettivi uffici. I dibattiti pubblici, con tutti i loro protagonisti, fanno parte a pieno titolo dello spazio in cui queste politiche vengono elaborate. Interi partiti, specialmente in alcuni paesi europei, si posizionano politicamente in base alle loro idee sull'immigrazione.

Questi sviluppi sono assai evidenti nel caso dell'Unione Europea. In effetti, è stata proprio la creazione di un mercato unico a sottolineare l'importanza cruciale della mobilità delle persone nei suoi vari aspetti. Vale la pena di notare che, nelle prime fasi della sua esistenza, la Commissione Europea era sprovvista di competenze legali in materia di circolazione transfrontaliera delle persone, ma ha dovuto progressivamente dotarsene. Cosi, gradualmente, le istituzioni comunitarie si sono interessate a fondo delle politiche dei visti, del controllo anche militare delle frontiere, dei ricongiungimenti familiari, della regolazione delle migrazioni economiche ed anche di politiche di "integrazione", tutti campi prima di competenza esclusiva dei singoli stati nazionali. Che si svolgano a livello europeo, come evidente nella dialettica tra Commissione, Consiglio e Parlamento, o a livello nazionale, le politiche migratorie seguono vie spesso divergenti. Tensioni esistono anche tra livelli di governance, istituzioni e regimi giuridici diversi animati da visioni divergenti dei fenomeni migratori, ma l'esito non è necessariamente negativo, anzi: si aprono spazi per politiche alternative, guidate dal rispetto dei diritti umani invece che dalle sole regole del mercato.

Questo tipo di "costellazione post-nazionale" appena delineato risulta molto più realistico di altre visioni della globalizzazione, apologetiche o apocalittiche che siano, come avvento di un mondo perfettamente integrato. Mi sembra inoltre che questo tipo di lettura chiarisca come, nel regime globale in costruzione, i confini siano ben lontani dallo scomparire o dal cessare d'avere importanza ma, al contrario, tendano a riacquistare nuovo potere. Potrebbe spiegare meglio quali funzioni (economiche, politiche, culturali) i confini sono chiamati a svolgere in una società "globalizzata"? In che modo l'attraversamento delle frontiere "marchia" gli immigrati e influenza la loro capacità di integrarsi con successo, come per altro si chiede loro insistentemente di fare?

Innanzitutto, preferisco non usare la nozione di "post-nazionale" per definire questi processi. Da un lato, il termine è legato a interpretazioni della globalizzazione diverse da quelle che io cerco di proporre; dall'altro credo che le cose stiano diversamente, proprio in tema di migrazioni. Il punto mi sembra essere la de-nazionalizzazione di un numero crescente di politiche e di competenze, tradizionalmente nazionali. Esse possono continuare a funzionare all'interno degli stati, ed in questo senso non sono post-nazionali, ma cessano di avere il senso storicamente costruito di competenze e politiche nazionali. Si tratta di una distinzione cruciale rispetto alla nozione corrente di "post-nazionale" intesa come obsolescenza o impotenza degli stati. L'importanza dei sistemi nazionali per l'espansione dei diritti non è necessariamente incompatibile con il peso crescente di norme di matrice internazionale nelle corti e nelle legislazioni nazionali, come dimostrato da uno dei più recalcitranti tra i paesi europei, la Gran Bretagna, che nel 2000 ha incorporato nel suo ordinamento interno gran parte della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU).

Dovremmo piuttosto interrogarci sulla tensione, presente nella maggior parte dei paesi europei, tra la de-nazionalizzazione dello spazio economico e la ri-nazionalizzazione dei discorsi politici in materia d'immigrazione. Non basta liquidare tali espressioni neo-nazionaliste affermando che, in fondo, poco è cambiato nel ruolo dello stato: in effetti, è proprio il dibattito sull'immigrazione che diventa, per certi governi ed alcuni gruppi influenti nel paese, una facile occasione per ri-nazionalizzare la politica.

Quanto ai confini, si tratta di istituzioni soggette come tali a trasformazioni e pressioni, come avviene a livello europeo in cui la costruzione di uno spazio economico integrato per flussi di capitale, beni e informazioni configge col continuo sforzo di controllare i flussi di specifiche popolazioni. D'altra parte, i confini interni dell'Unione europea sono istituzioni di natura assai differente rispetto a quelli esterni. In generale, ho potuto constatare l'emergere di una nuova tipologia di "capacità" legate alla gestione delle frontiere, diverse da quelle tradizionalmente legate al processo di costituzione degli stati nazionali. Si tratta di capacità altamente tecnologiche, dislocate in una miriade di siti istituzionali che trascendono le "frontiere" pure e semplici. Nella finanza globale, ad esempio, sono attive diverse modalità di gestione dei confini, molte delle quali interne alle istituzioni finanziarie più che agli uffici governativi, che hanno rimpiazzato i classici confini nazionali. Nell'ambito degli accordi di libero scambio si assiste, da un lato, all'apertura delle frontiere e dall'altro alla moltiplicazione dei processi di certificazione dei prodotti: un altro caso non classico di confini "mobili". Ma l'illustrazione forse più chiara e avanzata di questo nuovo regime dei confini, e delle possibilità ad esso collegate, si ha proprio con le migrazioni e riguarda i "diritti trasportabili" di cui gode al momento solo una classe privilegiata di lavoratori transnazionali, altamente qualificati, parte attiva dei processi di internazionalizzazione commerciale e finanziaria promossi dal WTO, dal FMI o da simili istituzioni sopranazionali particolarmente attive nei processi globali. Anche se i lavoratori meno o per nulla qualificati non godono oggi di un simile regime, non ritengo affatto impossibile estendere loro in futuro simili diritti, magari nel quadro di una "flessibilizzazione" dei flussi che permetta migrazioni circolari e di ritorno.

Dopo la seconda guerra mondiale, quando l'Europa nord-occidentale è diventata meta di consistenti flussi migratori, gli immigrati e loro famiglie si integravano soprattutto in virtù del lavoro, della scuola e di un certo libello di protezione sociale. L'integrazione come tale non era quel tema di dibattito che è diventato adesso e la questione della diversità culturale non era così sentita: ora sembra quasi che alle difficoltà di inclusione degli immigrati debbano rispondere i corsi di lingua, non sempre gratuiti, per i nuovi arrivati e i test di "cultura e civilizzazione" per chi richiede la cittadinanza. Come interpreta questo mutamento? L'importanza accordata ai conflitti e ai "confini" culturali dissimula forse conflitti e confini di altra natura, relativi alle disparità economiche ed alla mancanza di riconoscimento sociale?

Sono convinta anch'io che un cambiamento ci sia stato, e che l'insistenza sulle questioni identitarie possa nascondere problemi diversi da quelli enunciati. Ritengo, al tempo stesso, che l'accentuazione della diversità culturale non debba necessariamente alimentare le derive cui assistiamo oggi. Tutto induce a ritenere che la diversità culturale assuma una valenza negativa per ragioni che nulla hanno a che vedere con la cultura. Nella maniera più drammatica, la "cultura" è attivata in chiave negativa nel momento in cui il governo statunitense dichiara "guerra globale al terrorismo", riempie Guantanamo di musulmani di diversi paesi e, a distanza di più di cinque anni, ancora non rende pubblica alcuna prova di colpevolezza. L'olandese di religione islamica che ha ucciso il regista Theo Van Gogh ha vissuto per più di vent'anni nei Paesi Bassi senza alcun segno di comportamenti estremisti: sarebbe diventato "fanatico" solo recentemente. Vale anche la pena di osservare che la controversia sulle vignette del profeta Maometto è esplosa circa sei mesi dopo che gli originali erano stati pubblicati su una rivista danese, e che solo una volta entrate nel circuito mediatico di lingua inglese, grazie alla BBC, sono diventate un caso politico: prima di allora nessun musulmano se ne era sentito particolarmente offeso.

Conviene ricorrere alla storia per spiegare il senso di questi cambiamenti. La storia delle migrazioni è stata rappresentata a più riprese come una duplice storia: quella del lavoro e quella della trasformazione dei lavoratori immigrati in "minoranze etniche". Queste due storie hanno spesso avuto luogo simultaneamente in uno stesso territorio, urbano, regionale o nazionale, coinvolgendo persone di uguale o diversa nazionalità. Ma oggi le dinamiche migratorie hanno fatto esplodere i confini di queste due storie così che, sempre più facilmente, le migrazioni siano vissute da buona parte della popolazione locale come una "trasgressione". Tra gli aspetti che alimentano questo sentimento rientrano l'esplicito richiamo all'Islam da parte di molti giovani magrebini in Francia, la costituzione di reti associative in attori politici capaci di agire a livello europeo, l'intreccio tra alcune questioni legate all'immigrazione e il più ampio dibattito sul multiculturalismo, la decostruzione della nozione stessa di "comunità nazionale" a vantaggio di una nozione ancora embrionale (e informale) di cittadinanza transnazionale. Si tratta di processi cui partecipa una varietà di gruppi diversi, dai nuovi arrivati ai richiedenti asilo, dai residenti di lungo periodo ai cittadini "naturalizzati". L'insieme di queste iniziative, percezioni e processi contribuisce a scrivere una nuova narrazione attraverso cui le migrazioni vengono vissute.

Occorre essere consapevoli che questa sensazione di trasgressione è il risultato di due tendenze in conflitto: da un lato, la globalizzazione della vita economica e culturale e, in modo crescente, della stessa politica; dall'altro, il confinamento politico della migrazione nell'arena nazionale. Cosa resta dei nostri usuali schemi per valutare "costi e benefici" delle migrazioni, dal punto di vista dei paesi di arrivo, se cominciamo a considerare i nuovi modelli migratori come parte del più vasto processo di globalizzazione? Che succede alle nostre concezioni in materia di regole delle migrazioni se accettiamo di affrontarne le sfide in uno spazio allargato alle forze della società civile e orientato al rafforzamento dei diritti civili? Che ne sarebbe del nostro modo di guardare gli immigrati se considerassimo le "città globali" come Londra, Parigi o Amsterdam come altrettanti nuovi "luoghi di frontiera" e gli immigrati che vi lavorano come i "pionieri" del nostro tempo - non essendo in fondo gli stessi pionieri del Far West altro che immigrati, solo visti sotto una luce positiva?

Alla luce di questi nuovi scenari, come dovrebbero le società europee affrontare le sfide dell'integrazione in modo da evitare il paternalismo da un lato, l'assimilazione e l'inferiorizzazione di fatto degli immigrati dall'altro? Come possono mettere i nuovi concittadini in condizione di vivere quotidianamente i principi delle costituzioni democratiche, dai diritti fondamentali, allo stato di diritto, alla partecipazione politica?

Gli sforzi dei governi in materia di integrazione costituiscono una materia complicata: ciascun paese ha sviluppato proprie politiche, che si compongono a loro volta di un insieme di politiche eterogenee, anche se collegate, che vanno dal mercato del lavoro, allo stato sociale, all'istruzione, e cosi via. Anche per questo, vorrei qui sottolineare un aspetto lievemente diverso del problema che, essendo trasversale a quelli appena menzionati, potrebbe aprire nuove prospettive. Penso all'"incorporazione" degli immigrati in diversi sistemi di diritti, nazionali ed europei. Su questo piano, la questione dell'integrazione si sposta da una accentuazione dell'"estraneità" degli immigrati e dei modi di gestirla agli sforzi per integrare le convenzioni sovranazionali sui diritti umani, come la CEDU o la Carta sociale europea, nell'azione delle corti nazionali. Alla fine è ben diverso se l'integrazione, inclusa la necessità di apprendere la lingua del paese di residenza, è richiesta ad un immigrato dotato di diritti o se l'"integrazione culturale" costituisce la condizione per acquisire tali diritti.

Via via che l'integrazione politica dell'Unione europea si approfondisce si registra un impegno più forte, almeno formalmente, a favore dei diritti umani e di meccanismi in grado di garantirne il rispetto nei diversi paesi. Il Trattato di Amsterdam prevede l'applicazione diretta del principio di non discriminazione negli stati membri, affidandone la garanzia alla Corte di giustizia. Il trattato inoltre autorizza formalmente lo spostamento delle politiche d'immigrazione dal cosiddetto "terzo pilastro", in cui si trovavano legate alle questioni della giustizia e della sicurezza, al "primo pilastro", le cui disposizioni fanno parte del diritto comunitario vincolante per tutti gli stati membri. Si può persino pensare che, dal momento che gli individui stessi potranno legalmente invocare quanto previsto dal diritto comunitario e chiederne il rispetto contro gli stati, le modifiche introdotte dal Trattato di Amsterdam potrebbero attribuire al potere giudiziario un maggiore controllo anche sull'immigrazione (4). Al tempo stesso, l'impegno formale del trattato in favore dei diritti umani potrebbe rinforzare l'autorità della corte sugli stati membri, contribuendo a "umanizzare" le loro politiche d'immigrazione e a rendere più coerenti quelle d'integrazione.

2. Dai migranti come "problema" alle migrazioni come "specchio" delle società di arrivo

La comprensione dei fenomeni migratori sembra essere una premessa necessaria all'elaborazione di politiche adeguate. Eppure, come ha mostrato Abdelmalek Sayad nel corso delle sue ricerche in materia, le società di arrivo sembrano vedere e preoccuparsi soltanto dell'immigrazione e dei problemi che essa porterebbe con sé, rimuovendo i legami causali complessi che collegano le dinamiche delle società di arrivo con la scelta di migrare. Le nozioni generalmente accettate in materia, dall'attrazione dei "generosi" sistemi di protezione sociale, alla povertà, alla domanda di mano d'opera nei settori abbandonati dai lavoratori nazionali, permettono di spiegare in modo esauriente le migrazioni contemporanee e di orientare le scelte politiche, specie nel medio e lungo periodo?

Le politiche di tutti i paesi industrializzati contengono due rappresentazioni inesatte dei processi migratori, cosa che spiega perché i nostri governi passino il loro tempo a voler controllare l'immigrazione senza mai riuscirci. Secondo questa lettura, l'immigrazione sarebbe indipendente da tutte le altre attività dei paesi di destinazione, quando invece non è affatto un fenomeno autonomo. Inoltre, sarebbero solo gli immigrati nel loro insieme a costituire il fenomeno migratorio, portandone per intero la responsabilità: in realtà, la schiera degli attori coinvolti nelle migrazioni internazionali è ben più ampia e variegata.

In base alla prima rappresentazione povertà e disoccupazione sono cause prime dell'emigrazione. Non appena i politici e l'opinione pubblica si convincono di questo schema, non restano molte opzioni politiche: a fronte di una prevista invasione di massa, sembra apparentemente logico chiudere tutte le frontiere. La xenofobia e il razzismo sono soltanto le manifestazioni più estreme e visibili di questo atteggiamento all'interno della cultura politica nazionale. Forme più o meno marcate di questa "chiusura delle porte" verso immigrati e rifugiati si registrano in tutti i paesi più sviluppati.

In realtà la situazione è molto più complessa. Per il singolo, la migrazione è una scelta personale, anche se la possibilità di migrare come tale è prodotta socialmente. Questo aspetto passa in genere sotto silenzio, perché i flussi migratori presentano caratteristiche esteriori comuni: sono costituiti essenzialmente, anche se non del tutto, da persone povere, originarie di paesi meno sviluppati, con un livello di formazione medio-basso, disposte ad accettare i posti di lavoro meno ricercati, ecc. Da questa fenomenologia deriva l'idea che siano la povertà e la disoccupazione le molle decisive della decisione migratoria. In realtà, molti paesi con tassi elevati di povertà e disoccupazione non sono affatto paesi d'emigrazione. In altri la migrazione è un fenomeno recente, mentre la povertà esiste da molto più tempo. Occorre, insomma, che tutta una serie di condizioni siano soddisfatte affinché la povertà si traduca in una spinta a migrare, e anche in quel caso è probabile che solo una minoranza di persone appartenenti alle classi meno favorite e medie si decidano davvero al viaggio. Che le migrazioni non costituiscano una via d'uscita indifferenziata dalla povertà e dalla disoccupazione lo mostra anche la geografia specifica dei flussi, sia che ricalchi i passati rapporti coloniali tra paesi, sia che segua i loro nuovi legami nell'economia globalizzata.

La seconda rappresentazione, poi, impedisce di includere nel ragionamento altri attori che svolgono un ruolo importante nelle storie di migrazione internazionale. Penso in particolare alle multinazionali, che contribuiscono a internazionalizzare la produzione, sollecitando gli spostamenti dei piccoli produttori o delle piccole imprese locali e creando legami tra paesi che ricevono e che inviano capitali; i governi, attraverso le loro operazioni militari, che comportano lo spostamento di intere popolazioni e la creazione di flussi di rifugiati; il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, con le loro politiche di austerità e i loro programmi di aggiustamento strutturale, che contribuiscono ad aprire i paesi poveri alle imprese straniere, distruggono i settori dell'economia tradizionale ad alta intensità di lavoro e obbligano i paesi indebitati a consacrare la gran parte del loro reddito al pagamento del debito, a danno dell'istruzione e di altri meccanismi di sviluppo; l'Unione Europea e gli Stati Uniti, con le loro politiche protezioniste in materia di agricoltura; le istituzioni che promuovono i già menzionati accordi di libero scambio. Ciascuno di questi attori fa pressione, in un modo o nell'altro, sui poveri (e sui meno poveri) affinché cerchino strategie alternative di sopravvivenza: la migrazione, nazionale o internazionale, è una di queste.

Non riconoscere questo genere di interdipendenze tra i principali processi economico-militari e le migrazioni conduce a gravi incomprensioni, e dunque a politiche difettose. Comprendere che l'emigrazione/immigrazione può essere uno dei trade-off dei suddetti processi non migratori è viceversa fondamentale. Ci sono tutta una serie di effetti, sia positivi che negativi, degli investimenti diretti all'estero, della delocalizzazione delle imprese, delle misure del FMI, degli accordi di libero scambio che sono spesso riconosciuti e formalizzati nel quadro delle politiche interessate. Nel caso dell'immigrazione ciò non avviene, come se fosse possibile isolarla dalle altre arene politiche e governarne i processi come un eventualità autonoma, messa in atto esclusivamente dai migranti stessi.

Ancora in tema di rappresentazioni e di loro effetti: il fatto di presentare i migranti come dei "nuovi barbari" non contribuisce forse a legittimare i controlli alle frontiere e a indurire la lotta all'immigrazione clandestina? Quali sono i risultati di questi dispositivi di controllo e di contrasto, e che genere di insegnamenti si possono trarre in generale dalle legislazioni proibizioniste in materia?

Per illustrare questo punto essenziale vorrei servirmi del caso degli Stati Uniti e della loro ossessione per il controllo della frontiera col Messico. Ci sono diverse similitudini con le iniziative dell'Unione Europea per il controllo rafforzato dei propri confini esterni. Per quanto, rispetto agli Stati Uniti, ci si mostri qui molto più interessati ai diritti dei migranti e si considerino moralmente inaccettabili le morti nel tentativo di varcare la frontiera, la tendenza è a ragionare in termini di controllo più che di governo delle migrazioni. Eppure, l'Unione europea può vantare ammirevoli competenze nella gestione della mobilità interna, come dimostrato dal serio impegno per governare le migrazioni all'interno del continente, vincendo l'insistenza dei singoli stati sui controlli unilaterali.

Nel caso degli Stati Uniti, vediamo che 15 anni di controlli dell'immigrazione attraverso la militarizzazione della frontiera hanno prodotto solo un aumento degli "irregolari", un brusco aumento dei costi per ogni arresto e, in proporzione, un numero minore di arresti. All'inizio degli anni 90 il governo statunitense ha cominciato ad aumentare i propri sforzi per controllare la frontiera col Messico, sviluppando un'incredibile panoplia di tecnologie di controllo e dispiegando una ragguardevole forza militare lungo il confine. Il primo e principale segno di questa escalation, tuttora in corso, è l'aumento del budget annuale del Servizio dell'Immigrazione e della Nazionalità (Immigration and Nationality Service - INS), aumentato dai 200 milioni di dollari del 1996 ai 1,6 miliardi di dollari del 2005. Gli effettivi destinati al controllo sono passati dai 2500 all'inizio degli anni 80 ai circa 12000 di oggi: quella di frontiera è l'arma più consistente del governo degli Stati Uniti dopo l'esercito stesso, e quella tra USA e Messico è divenuta la frontiera più militarizzata tra due stati in tempo di pace.

Lo studio di Douglas S. Massey, al momento il più completo in materia, sottolinea innanzitutto la contraddizione tra l'aumento considerevole dei costi per gli arresti e la diminuzione del tasso degli arresti stessi (5). Prima del 1992 il costo di un arresto lungo la frontiera era di 300 dollari; nel 2002, è cresciuto del 467% raggiungendo quota 1700 dollari. A fronte di questi aumenti di budget la probabilità di arrestare qualcuno è scesa ai livelli più bassi degli ultimi quarant'anni, passando dal 33% degli anni 80 al 10% del 2000. In secondo luogo, l'escalation dei controlli ha aumentato considerevolmente rischi e costi del passaggio irregolare, cosa che a sua volta ha trasformato una migrazione stagionale circolare per motivi di lavoro in una migrazione familiare e di lungo periodo. Così, se nei primi anni 80 la metà di tutti i messicani irregolari tornavano alle loro case entro i primi 12 mesi dall'arrivo, nel 2000 la cifra si fermava ad appena il 25%. Dunque, il risultato è stato l'opposto di quello voluto dal governo: la militarizzazione dei controlli non ha ridotto la probabilità di ingresso illegale nel paese ed ha aumentato la probabilità di un soggiorno prolungato dei lavoratori, costringendoli a restare più tempo di quanto non avrebbero voluto e a portare con sé i familiari. Eppure questa situazione, in cui miliardi di tasse dei contribuenti sono stati dilapidati, è ignorata dalla maggior parte dei media, dai politici, dagli "esperti" e persino dagli intellettuali ben disposti verso gli immigrati.

Il dispositivo dei controlli messo in atto dagli USA mostra tre ulteriori lacune, riguardo alla procedura di concessione dei visti, alle ispezioni sul lavoro e al controllo dei cosiddetti over-stayers, ossia di coloro che restano nel paese allo scadere del permesso di soggiorno. Sappiamo che una gran parte degli "irregolari" sono, al tempo stesso, richiedenti legali di visti che per varie ragioni non potevano aspettare i 10 anni che il Servizio dell'immigrazione può impiegare per ultimare una pratica. In secondo luogo, mentre tutte le amministrazioni degli ultimi quindici anni sono state ben contente di triplicare il budget per le forniture militari destinate a controllare la frontiera, analoga prodigalità di mezzi non è stata riservata alle ispezioni sul lavoro. Solo il 2% del budget del Servizio per l'Immigrazione è destinato a sanzionare il lavoro irregolare. Praticamente, alcuna sanzione è stata comminata dall'entrata della nuova legge nel 1984, eppure ispezioni sui posti di lavoro sarebbero facili da realizzare, specie nelle grandi aziende agro-alimentari, di macellazione e lavorazione della carne, di allevamento del pollame e della grande distribuzione come Wal-Mart, in cui è elevato l'impiego di manodopera irregolare. Invece, tutti i mezzi di controllo dispiegati alla frontiera si tengono a debita distanza dalle grandi imprese che impiegano questi lavoratori. Infine, poco o niente è stato fatto per affrontare la questione degli over-stayers. Si stima che la crescita annuale di "irregolari" sia dovuta per 150000 unità a persone entrate legalmente, con visti turistici o per studenti, rimasta oltre la scadenza del permesso. Mentre, per la gioia dei produttori di armi, militarizziamo le frontiere, solo un quinto degli ispettori del Servizio immigrazione si dedica a questo aspetto.

Come si spiega che queste lacune nel 'applicazione delle politiche siano tollerate, e sotto forme cosi macroscopiche, anche a fronte della durezza dei discorsi politici in tema di controllo delle frontiere e di repressione dell'immigrazione clandestina? Si tratta di inefficienze o esiste un gap sistematico tra le dichiarazioni di intenti e i benefici economici e politici derivanti dalle migrazioni, a cominciare da quelle irregolari?

Questo gap esiste e attraversa la storia degli ultimi venti anni. Non dipende dall'alternanza dei partiti al potere anche se risponde, almeno in parte, a ragioni piuttosto semplici: il lavoro, le forniture, le lobby e la propaganda. Innanzitutto, i diversi governi degli Stati Uniti hanno mostrato una forte reticenza nel creare posti di lavoro nell'ispettorato del lavoro, e ciò malgrado la frequenza di incidenti mortali sia negli USA più alta che nel resto dei paesi avanzati. Un secondo dato è la presenza di forti lobby all'interno del Congresso: i fabbricanti d'armi e i grandi imprenditori del settore agro-alimentare o di altri settori interessati alla manodopera irregolare, dispongono di lobby potenti, a differenza degli ispettori del lavoro, dei funzionari addetti ai visti e della maggior parte dei lavoratori del paese. Terzo aspetto, la macchina elettorale e l'opinione pubblica: investire nella militarizzazione della frontiera fa guadagnare semplicemente più voti del potenziamento dei controlli sul lavoro o del miglioramento degli uffici dei visti.

Il modo paradossale in cui le migrazioni "irregolari" vengono di fatto alimentate da certe scelte politiche sembra un ottimo esempio di quella che i sociologi delle migrazioni chiamano "effetto specchio": i problemi che si suppone siano prodotti dai flussi migratori in realtà corrispondono ad altrettanti punti critici delle società di arrivo. Quali sono a suo avviso gli aspetti più problematici del mutamento vissuto oggi dalle società europee che vengono tematizzati, sia pure di riflesso, quando si dibattono le cause e gli effetti delle migrazioni?

Dall'inizio degli anni 80 tutte le società occidentali hanno sperimentato crescenti disuguaglianze nella distribuzione del reddito. In sé tali disuguaglianze non sono nuove, se non per il fatto di essere accompagnate da una forte domanda di manodopera, che a sua volta determina un bisogno di lavoratori immigrati. Una delle principali cause della crescente immigrazione dai paesi più poveri consiste, in effetti, nell'ampia offerta di lavori a basso salario e senza prospettive di carriera nelle "economie avanzate", lavori che i locali, con aspettative sociali più elevate, non intendono più svolgere anche in presenza di forte disoccupazione.

Ci sono varie differenze sostanziali tra gli anni 80 e i primi decenni del dopoguerra che possono spiegare questo esito. Innanzitutto, una parte crescente degli attuali lavori a basso salario non costituisce il primo passo verso migliori opportunità di impiego ma è un "vicolo cieco". Nel secondo dopoguerra esistevano passerelle che collegavano i livelli di reddito inferiori a quelli superiori: oggi queste passerelle sono in gran parte scomparse. In secondo luogo, a differenza dei posti meglio remunerati, la maggior parte dei lavori a basso salario non prevedono riconoscimenti in termini di promozione per chi ha una formazione relativamente alta e una buona esperienza lavorativa, e questo nonostante gli sforzi dei lavoratori per avanzare e portare avanti la propria formazione. I dati registrano aumenti dell'offerta di lavoro nei segmenti più elevati del mercato del lavoro (professionisti con profili elevati e dirigenti) o in quelli più bassi (addetti alle pulizie, alla sicurezza, alle vendite, ai servizi alle persone), piuttosto che nei settori medi (operai specializzati, capi reparto, impiegati di responsabilità intermedia nel settore pubblico), in cui molti posti sono stati automatizzati o esternalizzati nei paesi a bassi salari.

Un'ulteriore differenza rispetto al secondo dopoguerra riguarda la rapida crescita di un'industria dei servizi che impiega grandi quantità di manodopera in compiti di scarso valore aggiunto, spesso faticosi, difficili da automatizzare e di fatto impossibili da delocalizzare, come la pulizia, i lavori domestici e di cura a bambini, malati e persone anziane, la vendita al dettaglio, la ristorazione, i trasporti, e cosi via: tutti lavori di cui le nostre società hanno bisogno sul posto. I dati suggeriscono che la crescita di questo tipo di posti a basso salario è in buona parte il risultato delle nuove politiche del mercato del lavoro, in particolare la deregolazione e la creazione di nuovi tipi di impiego, volti a conseguire maggiore flessibilità nelle retribuzioni e a rispondere più rapidamente alla concorrenza e all'innovazione tecnologica. Il fatto che questi lavori a basso salario siano anche dei vicoli ciechi fa si che essi siano in genere rifiutati dai lavoratori nazionali. Il punto cruciale è se saremo capaci di riqualificare questo tipo di lavori, in modo da renderli più attraenti. Ciò consentirebbe di affrontare al tempo stesso la questione della disoccupazione giovanile e lo spreco di competenze degli immigrati, catturati nei segmenti peggio pagati del mercato del lavoro anche se dotati di qualifiche medio-alte. A trarne vantaggio sarebbe la società nel suo insieme.

Come crede sarà possibile in futuro affrontare simili problemi di fondo del nostro modello di sviluppo, smettendo di considerare gli immigrati come tali una minaccia alla nostra sicurezza, ai nostri diritti e al nostro benessere e rivolgendo le nostre forze a modificare le tendenze involutive del modello sociale europeo?

In primo luogo dovremmo fare in modo che l'agenda politica europea consideri di nuovo come una priorità le crescenti ineguaglianze sociali e le trasformazioni in corso nel mercato del lavoro. Nessun paese europeo si avvicina neanche lontanamente ai livelli di ineguaglianza raggiunti negli USA, né credo che nessuno di loro andrà cosi avanti su questa strada; ma certamente devono prendere atto che si stanno muovendo in quella direzione, come mostra chiaramente la Gran Bretagna. Seguire il modello statunitense e creare le condizioni per ulteriori disuguaglianze sarebbe per l'Europa il modo migliore per attirare ulteriori migrazioni dai paesi meno sviluppati. Ciò comporterebbe un aumento nella capacità di assorbire lavoratori disposti ad accettare bassi salari e lavori senza prospettive, riproducendo questo settore e contribuendo all'aumento della povertà, cosa che in regime di stato sociale ancora relativamente forte porterebbe all'aumento della spesa pubblica in assistenza. Su questo delicato terreno dovrebbe radicarsi un'azione politica lungimirante, tesa a governare veramente i fenomeni migratori e al tempo stesso permettere agli immigrati di svilupparsi e progredire socialmente, invece di alimentare la povertà.

Ma c'è una seconda sfida da inserire nell'agenda politica europea: secondo le previsioni dell'International Institute for Applied Systems Analysis di Vienna, alla fine del secolo in corso in Europa vivranno 80 milioni di persone in meno (6). I tassi di fertilità in diversi paesi sono già o saranno presto al di sotto della soglia di equilibrio demografico di due figli per coppia. Il calo potrebbe anche accelerare nei prossimi decenni. Mentre per alcune zone, come ad esempio i Paesi Bassi, un calo della popolazione potrebbe non essere affatto negativo, vista la sovrappopolazione di partenza, un declino demografico avrebbe in generale conseguenze sul numero degli attivi in grado di pagare le pensioni di una popolazione anziana in aumento sul totale.

Si tratta di tendenze che possono essere gestite in molti modi: aumentando il tasso di fertilità, diminuendo il tasso di mortalità o aumentando l'immigrazione. Ad esempio, si può intervenire sul sistema socio-economico, riducendo i costi del prolungamento della vita media ossia diminuendo le pensioni, spostando in avanti l'età pensionabile, riducendo infrastrutture e servizi socio-sanitari in quantità e qualità; ma in questo modo si rischia di compromettere la qualità generale della vita nelle nostre società, peggioramento da cui neanche i ceti più ricchi sarebbero immuni. Si può stimolare la ripresa della natalità, offrendo maggiori servizi alla maternità e alla paternità, e migliorando le prospettive di occupazione giovanile. O si può puntare all'aumento della produttività tramite l'innovazione tecnologica, in modo da consentire a un numero inferiore di attivi di sostenere l'onere di un numero crescente di pensionati; ma si tratta di una soluzione impegnativa, che richiede un grande sforzo di coordinamento tra i settori pubblico e privato e un consistente ripensamento del sistema d'istruzione. Per queste ragioni, sono certa che le migrazioni saranno un elemento della risposta alla sfida demografica. Se questo è vero, sembra ragionevole e vantaggioso per tutti cercare dei modi realistici per governarne l'immigrazione, invece che accontentarsi di controllarla.

3. "Noi" e "loro": dalla competizione alla convergenza delle lotte di cittadinanza

Dalle analisi svolte fin qui deriva la necessità di un mutamento radicale nelle politiche migratorie e d'integrazione, nonché nelle nostre strategie socio-economiche in generale. Eppure, l'ostilità verso l'immigrazione di una parte della popolazione europea sembra costituire un grave ostacolo in questa direzione. Come sciogliere il nodo della competizione percepita, se non reale, tra nazionali e immigrati e porre all'ordine del giorno il progetto di una Europa multiculturale giusta, attenta al benessere di tutti coloro che vi risiedono?

Le lotte per assicurare più giustizia sociale e politica agli immigrati sono alla base delle nostre società, nella misura in cui tali lotte hanno storicamente espanso gli spazi istituzionali, giuridici ed amministrativi della cittadinanza a vantaggio di tutti, "nazionali" e "stranieri". In questo senso, il peggio che può capitarci è la formazione di una casta di cittadini di serie B.

Oggi ci confrontiamo con una pluralità di religioni e culture che accompagnano i migranti e crediamo che sia questa la ragione delle difficoltà d'inclusione sociale. Ma la stessa storia europea suggerisce che un simile intenso antagonismo lo abbiamo sperimentato verso coloro che oggi riteniamo essere dei "nostri" (7). Per ironia della sorte, le difficoltà della vecchia Europa derivano in parte dall'assenza di riflessione storica rispetto alle precedenti stagioni migratorie, così che questo capitolo della sua storia resta nell'ombra della narrazione ufficiale, dominata dall'immagine di un'Europa esclusivamente continente d'emigrazione. Eppure, nel XVIII secolo i polders di Amsterdam sono stati bonificati da operai venuti dal nord della Germania; i francesi reclutavano gli spagnoli per impiantare le loro vigne; Milano e Torino in piena espansione hanno fatto arrivare manodopera dalle Alpi; gli acquedotti londinesi sono stati costruiti da irlandesi; i bei palazzi della giovane monarchia svedese sono stati costruiti da maestranze italiane; il tunnel del San Gottardo in Svizzera è in gran parte opera di italiani, cosi come le ferrovie e le acciaierie tedesche sono state costruite da italiani e polacchi. E ancora, nel corso del XIX secolo, sono stati in gran parte degli immigrati tedeschi e belgi a realizzare le ristrutturazioni di Parigi volute da Haussman.

Al tempo stesso, abbiamo testimonianze di ostilità cicliche nei confronti degli immigrati e una tendenza a occultare le vere cause dei conflitti. Durante diversi secoli le principali potenze economiche europee hanno vissuto cicli economici rapidi, caratterizzati da periodi di forte domanda di manodopera, poi seguiti da espulsioni di massa, con ripresa di forte domanda dopo qualche decennio, e così via. La Francia offre un chiaro esempio di queste dinamiche, essendo passata dal disperato bisogno di manodopera durante la grande guerra (con l'arruolamento di immigrati algerini) e nella ricostruzione postbellica, alle aggressive politiche anti-immigrazione degli anni 30, per ritornare al grande bisogno di manodopera straniera a partire dalla fine degli anni 40, ecc. Osservando oggi la domanda crescente di lavori di bassa qualità e il rapido declino della popolazione attiva, non è difficile prevedere che l'Europa passerà presto ad una fase di forte domanda d'immigrazione, da qui ai prossimi dieci anni al massimo.

La xenofobia ha accompagnato ogni grande stagione d'immigrazione in tutti i paesi del continente. Eppure, generazione dopo generazione, è stato possibile includere un gran numero di immigrati, cosi che la popolazione europea risulta oggi assai mista e, per fare un esempio, il 40% dei viennesi di Vienna hanno un genitore di origine straniera. Tutti coloro che erano rappresentati come "loro", sono divenuti "noi" nel corso di cinque secoli di immigrazioni intra-europee. Quelli che una volta erano immigrati adesso sono cittadini. Se non si sentono toccati dai dibattiti in corso in materia d'immigrazione, certo lo erano all'epoca. Ci sono volute in genere tre generazioni perché gli immigrati cessassero di essere un "problema".

Cosa possiamo apprendere da questo passato per elaborare nuove strategie politiche e risolvere insieme, "noi" e "loro", i nostri comuni problemi?

Nel processo storico che ho tracciato un punto essenziale è che alcune delle istituzioni civili e giuridiche di cui andiamo oggi più fieri, e che restano alla base della cittadinanza contemporanea in Europa, sono il risultato di lotte per l'integrazione e per il riconoscimento. Queste istituzioni democratiche hanno consentito a tutti i membri delle nostre comunità, altrimenti a rischio d'esclusione a causa dei loro bassi livelli di reddito o di istruzione, l'accesso ai diritti civili e sociali e, in misura minore, ai diritti politici. Non si è trattato di un percorso facile né lineare, e i problemi da risolvere sembravano insormontabili. Le soluzioni adottate non sono state perfette né perfettamente realizzate, ma il risultato è stato comunque la nascita di istituzioni forti che garantiscono ancora risultati abbastanza soddisfacenti in termini di appartenenza.

Per queste stesse ragioni sono convinta che la sfida maggiore, oggi, non riguardi tanto il controllo dell'immigrazione quanto l'elaborazione di strumenti amministrativi e giuridici in grado di allargare la nozione di appartenenza politica, di cittadinanza, così com'è avvenuto nel passato. Oggi mi sembra che tutti ragioniamo secondo una logica da consumatori: se non vediamo una soluzione bella e pronta, vuol dire che non ci sono alternative. Invece, si tratta di inventare nuovi quadri politici e nuovi spazi di iniziativa e organizzazione politica, a partire dall'auto-organizzazione degli stessi immigrati e dalla loro alleanza con altre associazioni locali impegnate sui temi della cittadinanza. D'altra parte, a tali innovazioni saremo costretti per le molteplici ragioni - economiche, demografiche e politiche - che ho già menzionato. Neanche i partiti politici e i sindacati, fin qui piuttosto reticenti nel riconoscere bisogni e rivendicazioni degli immigrati, potranno sottrarsi alla lunga a questo processo e dovranno ridefinire le loro finalità e le loro basi di legittimazione.

In conclusione, se il passato deve valere da chiave per il presente, è soprattutto su questo punto: che i processi creativi, di reinvenzione istituzionale e democratica, cui siamo sollecitati non andranno a beneficio dei soli immigrati e dei loro discendenti, ma contribuiranno al rafforzamento della cittadinanza in generale.


Note

*. Saskia Sassen è una delle protagoniste più attive del dibattito internazionale sulla globalizzazione. Da tempo interessata ai processi di de-nazionalizzazione dell'economia iniziati alla fine degli anni 70 del Novecento (The Mobility of Labor and Capital, 1988), ha saputo offrire una lettura non convenzionale del mondo contemporaneo mettendo in evidenza il ruolo delle città globali (The Global City, 1991), le trasformazioni interne agli stati e alle loro funzioni (Losing Control? Sovereignty in an Age of Globalization, 1996) e le complesse intersezioni tra arene locali, nazionali e globali in cui si ridisegna oggi il potere, incluso quello dei cittadini (Territory, Authority, Rights, 2006). Dopo aver svolto attività di ricerca e d'insegnamento tra l'Università di Chicago e la London School of Economics, Saskia Sassen è dal 2007 Lynd Professor in sociologia e membro del Committee on Global Thought all'Università della Columbia. Questo testo riproduce, in forma lievemente modificata, la conversazione già pubblicata in F. Oliveri (dir.), Achieving social cohesion in a multicultural Europe. Concepts, situation and developments, Council of Europe Publishing, Strasbourg, 2006, pp. 41-60.

**. Centro Interdipartimentale di Scienze per la Pace, Università di Pisa.

1. World Bank, Global Economic Prospects: Economic Implications of Remittances and Migration, The World Bank, Washington DC, 2006.

2. Cfr. S. Sassen, The Global City: New York, London, Tokyo (1991), Princeton University Press, Princeton, 20012 (trad. it. Città globali: New York, Londra, Tokyo, UTET, Roma, 1997).

3. Cfr. S. Sassen, Territory, Authority, Rights. From Medieval to Global Assemblages, Princeton University Press, Princeton, 2006 (in corso di traduzione presso Mondadori).

4. D. Jacobson e G. B. Ruffer, "Social Relations on a Global Scale: The Implications for Human Rights and for Democracy", in M. Giugni e F. Passy (dir.), Dialogues on MigrationPolicy, Lexington Books, Lanham, 2006.

5. D. S. Massey, Backfire at the Border. Why Enforcement without Legalization Cannot Stop Illegal Immigration, Cato Institute, Washington DC, 2005. Sul tema del controllo come scelta politica, cfr. P. Andreas, "The escalation of US immigration control in the post-NAFTA era", Political Science Quarterly, vol. 113, nº 4, 1998-99, pp. 591-615.

6. IIASA, Special Report on Global Population, IIASA, Vienna, 2001.

7. S. Sassen, Migranten, Siedler, Flüchtlinge. Von der Massenauswanderung zur Festung Europa, Fischer Verlag, Frankfurt am Main, 1996 (trad. it. Migranti, coloni, rifugiati. Dall'emigrazione di massa alla fortezza Europa, Feltrinelli, Milano, 1999).