Islam e diritti umani: oltre il dibattito sull'universalismo (*)

Abdullahi Ahmad An-Na'im

Religione e universalità dei diritti

L'implementazione delle norme sui diritti umani internazionali richiede, in qualsiasi società, un significativo e ben informato impegno (engagement) nei confronti della religione (in senso lato) in virtù della sua significativa influenza sulle credenze e sui comportamenti umani, indipendentemente dal rapporto formale che intercorre tra stato e religione in ciascuna società. Se da un lato è vero che il comportamento dei credenti non è sempre determinato totalmente dalla loro fede, dall'altro bisogna riconoscere che le considerazioni religiose sono troppo importanti perché gli studiosi e i difensori (advocates) dei diritti umani continuino a scaricarle giudicandole considerazioni tutto sommato irrilevanti, insignificanti, o sconvenienti.

Sottolineando la necessità che i sostenitori dei diritti umani prendano seriamente in considerazione la religione, non intendo presupporre che esista né una immediata compatibilità né una permanente contraddizione tra diritti umani e qualsiasi religione. Al contrario, il mio suggerimento si fonda sul paradosso della loro tensione nella realtà attuale, da una parte, e dell'importanza della loro riconciliazione, dall'altra. Questo paradosso è spesso presentato come l'esito della polarizzazione estrema che deriverebbe dall'universalità dei diritti umani e dalla relatività della religione. Dal mio punto di vista, presentare la questione in questi termini è fuorviante perché così facendo si trascura la profonda interdipendenza che esiste tra i due concetti. Infatti, se l'universalità dei diritti umani non può essere pienamente realizzata a meno che i credenti non la considerino coerente con le proprie credenze religiose, allo stesso modo l'integrità della fede religiosa e la sua rilevanza nella vita quotidiana dipende fortemente dall'effettiva protezione dei diritti umani. Stando così le cose, è più utile vedere questa relazione in termini di sinergia e influenza reciproca, piuttosto che continuare a rappresentarla nei termini di un antagonismo irriducibile.

In questo articolo, farò riferimento all'Islam e alle società islamiche, anche se le medesime argomentazioni varrebbero per qualsiasi religione e società. La mia tesi è che i termini di questo dibattito dovrebbero essere estesi fino ad includere il ruolo svolto da fattori sociali, politici ed economici, a livello sia locale che globale, e non limitasi ad un'analisi meramente teologica della relazione che intercorre tra diritti umani e religione. Secondo il mio parere, questo approccio ha più possibilità di raggiungere una mediazione tra i due estremi rappresentati dall'universalismo e dal relativismo, enfatizzando più le caratteristiche comuni dell'esperienza umana che le differenze astratte dei termini teologici. Per di più, questa mediazione è più probabile che si riveli effettiva se l'attenzione viene rivolta alla pratica e alla percezione reale dei musulmani e degli altri credenti nei loro contesti specifici. In altri parole, sto sostenendo che i fattori religiosi debbano essere compresi entro il loro specifico contesto, senza attribuire alle idee teologiche un impatto unico ed esagerato.

Per lo scopo di questo articolo, è necessario distinguere i due sensi in cui il termine diritti umani viene solitamente utilizzato. In un senso, il termine diritti umani si riferisce alle lotte storiche per la liberta e la giustizia sociale in generale. Anche se prevalente nel discorso popolare, questa accezione generale del termine non è utile per un'analisi della compatibilità dei diritti umani con qualsiasi tradizione, religiosa, ideologica o politica poiché ciascuna di queste potrebbe rivendicare la propria concezione dei diritti umani. In questa sede, il termine diritti umani si riferisce a quella particolare concezione della libertà e della giustizia che è contenuta nella Dichiarazione universale dei diritti umani (DUDU) del 1948, e ulteriormente specificata nei successivi trattati e messa in pratica attraverso una serie di specifici meccanismi di implementazione.

La cifra che caratterizza i diritti umani così come vengono definiti nella DUDU è che questi diritti spettano (are due) a tutti gli esseri umani in virtù della loro umanità, senza alcuna distinzione di razza, sesso (genere), religione, lingua o nazionalità. Non ci sono dubbi sul fatto che le articolazioni e i precedenti più immediati di questa concezione dei diritti umani sono riscontrabili nelle esperienze occidentali (europea e americana) a partire dal diciottesimo secolo.

Come è ormai comunemente riconosciuto, tuttavia, le premesse di quelle esperienze furono poste dall'Illuminismo, piuttosto che dalla teologia cristiana o ebraica, sebbene queste ultime abbiano cercato nel corso dei secoli una conciliazione. In particolare, la concezione dei diritti umani com'è definita nella DUDU è essenzialmente una 'universalizzazione' dell'idea di diritti fondamentali costituzionali sviluppatasi nei paesi occidentali, anche se l'attuale catalogo dei diritti previsti nella Dichiarazione sorpassa il catalogo dei diritti costituzionali di qualsiasi paese, occidentale o non occidentale.

È importante notare qui che sebbene non sia vincolante ai sensi del diritto internazionale, la DUDU rappresenta indubbiamente il documento di riferimento di tutti gli sforzi tesi a definire i diritti umani e a progettare meccanismi e strategie per la loro implementazione. A causa della realtà della sovranità nazionale e delle relazioni internazionali, l'imperativo è trovare un equilibrio tra la necessità di un controllo internazionale e il rispetto per la domestic jurisdiction. Di conseguenza, cercando di universalizzare certe concezioni di diritti, il sistema internazionale dei diritti umani cerca di rendere questi diritti vincolanti secondo il diritto internazionale, lasciando tuttavia la loro applicazione alle istituzioni nazionali. La riduzione di questo paradosso dell'auto-regolazione (self-regulation) da parte Stati del proprio comportamento rispetto ai diritti umani richiede una chiara comprensione dei fattori e dei processi locali ed internazionali, includendo la religione e il ruolo delle istituzioni religiose, che esercitano una notevole influenza sulla condotta degli Stati in questione.

Siccome non esiste un meccanismo internazionale (1) affidabile per imporre (to enforce) gli standard dei diritti umani contro il volere dei governi nazionali, la questione cruciale è come incoraggiare i governi a ratificare i trattati sui diritti umani, e motivarli ad accettare l'obbligo di proteggere i diritti entro i rispettivi territori. Una maniera effettiva e sostenibile per fare questo è di generare una società civile (constituency) locale in grado di sostenere la ratifica e l'implementazione di diritti umani all'interno del contesto nazionale. Anche se le elite che detengono il controllo del governo volessero rispettare alcuni diritti umani, è improbabile che facciano questo contro la volontà della loro popolazione. Affinché una tale constituency emerga e sia efficace nella difesa dei diritti umani, questi diritti devono essere percepiti dall'opinione pubblica generale come coerenti con le proprie credenze religiose. In altre parole, le norme internazionali sui diritti umani saranno difficilmente accettate dai governi come giuridicamente vincolanti, e rispettati in pratica, senza una forte legittimazione entro la politica nazionale. Le percezioni popolari della coerenza dei diritti umani con le credenze religiose della popolazione sono indispensabili per la legittimità di questi diritti entro ciascun paese. Anche nei cosiddetti Stati secolarizzati, come Francia e Usa, una chiara comprensione e un chiaro apprezzamento dell'importanza politica e sociologica della religione è essenziale per i tentativi di influenzare le politiche e le pratiche relative ai diritti umani di questi Stati.

Come ho già notato precedentemente, non sto sostenendo che la coerenza tra diritti umani e religione possa essere assunta, o data per scontata, in qualche parte del mondo. Al contrario, chiunque può constatare facilmente alcune tensioni, per non dire conflitti, fondamentali tra precetti religiosi e norme sui diritti umani. Di conseguenza, una delle questioni cruciali del dibattito sull'universalità dei diritti è se le origini secolari occidentali dei diritti umani, come definiti dalla DUDU, necessariamente significano che questi diritti non sono (o non possono essere) veramente universali.

La risposta che io propongo a questo quesito è basata sulle seguenti proposizioni tra loro interconnesse:

  1. La fondazione morale o filosofica e la giustificazione politica della concezione dei diritti umani così come definita nella DUDU è possibile in differenti tradizioni culturali e religiose. Tuttavia, siccome la teologia tradizionale delle maggiori religioni del mondo, inclusa quella cristiana, non è immediatamente coerente con questa specifica concezione dei diritti umani, la riconciliazione richiederà una reinterpretazione di alcuni dei precetti di quelle religioni.
  2. La riconciliazione è necessaria in virtù della ruolo fondamentale svolto dalla protezione internazionale dei diritti umani nei confronti dell'abuso di potere dello Stato. Siccome il modello europeo dello Stato-Nazione è stato universalizzato attraverso la colonizzazione, esiste oggi il bisogno di una protezione effettiva dagli abusi o dagli eccessi del potere statale. La corrispondente universalizzazione dei diritti fondamentali costituzionali attraverso la DUDU è il mezzo a disposizione migliore per fornire questa protezione.
  3. Se necessariamente sarà indispensabile una dimensione teologica della reinterpretazione dei precetti religiosi, il processo stesso deve essere compreso all'interno dello specifico contesto politico, sociale ed economico della comunità dei credenti. Il contesto storico concreto in cui i credenti vivono è una parte integrante di qualsiasi interpretazione umana della religione; di seguito verrà definito approccio antropologico alla religione. Il contesto è anche la framework entro cui la reinterpretazione dei precetti religiosi può emergere ed essere accettata in pratica.

Per sviluppare queste proposizioni in relazione con l'Islam e le società islamiche, per prima cosa tenterò di esporre brevemente quale ritengo che sia la questione fondamentale entro l'attuale discorso sull'Islam, e spiegherò la sua rilevanza rispetto al tema di questo saggio. Il paradigma che io propongo per indicare questa questione entro particolari società consiste in un discorso interno combinato al dialogo interculturale con le altre società. Per illustrare l'applicazione di questa proposta teorica, abbozzerò brevemente come essa si possa applicare alle società islamiche. Infine, prendendo spunto da una mia recente esperienza nelle Mauritius, esaminerò alcuni dei fattori e delle condizioni che influenzano le prospettive del discorso interno e del dialogo interculturale

Islam, sharia e diritti umani

Come tutti gli altri credenti, anche i musulmani hanno sempre cercato di mettere in pratica la loro fede secondo una conformità individuale e collettiva con il proprio sistema normativo, comunemente noto come sharia, che è supposto regolare la loro vita quotidiana in quanto musulmani. Sebbene i musulmani tendano ad ascrivere un'autorità divina alle formulazioni storiche della sharia elaborate dai giuristi dell'ottavo e nono secolo, è chiaro che il contenuto preciso di questo sistema normativo è stato e continuerà ad essere il prodotto della interpretazione umana in un specifico contesto storico. (2) Come uno studioso di Islamic studies ha recentemente spiegato, "nonostante la legge [sharia] ha origine divina, l'attuale costruzione della legge è una attività umana i cui esiti rappresentano la legge di Dio così come è umanamente interpretata." (3)

Com'è immediatamente comprensibile, la confusione comune tra sharia come legge divinamente ordinata da una parte, e sforzo umano per scoprire il suo significato, dall'altro, deve essere chiarita se l'Islam stesso vuole avere oggi un ruolo attivo nella vita dei musulmani. In virtù dei significativi cambiamenti sociali, economici e politici avvenuti nelle società islamiche di tutto il mondo, una interpretazione della sharia così come è stata sviluppata più di mille anni fa è condannata oggi a dover affrontare una serie di difficoltà pratiche. Tuttavia, una significativa riforma degli aspetti problematici della sharia non può avvenire fin quando continueranno a esistere formulazioni umane di essa che però vengono considerate assolutamente divine.

Il risultato di questo 'insolubile disaccordo umano' ("made-man" deadlock) è che ovunque nel mondo i musulmani continuano a sottoscrivere una concezione della sharia che nessuno di loro è poi disposto, o è in grado, di rispettare nella vita quotidiana. Ad esempio, la condanna religiosa della ribba (usura) è intesa come la proibizione totale di qualsiasi pagamento di interessi sui prestiti. Allo stesso modo, le obbiezioni religiose alla gharar (l'incertezza e la speculazione negli scambi commerciali) è considerata invalidante dei contratti di assicurazione in cui gli obblighi delle parti sono dipendenti dal fatto che qualcosa accada o meno in futuro. In pratica, tuttavia, i singoli musulmani e i loro governi addebitano e pagano interessi sui prestiti, e concludono o impongono contratti di assicurazione perché è ovviamente impossibile avere oggi un sistema economico vitale senza queste pratiche. Questa discrepanza tra teoria e pratica può essere superata attraverso il riconoscimento del fatto che tutte le specifiche definizioni di ribba e gharar sono necessariamente il prodotto dell'interpretazione umana in un specifico contesto storico, e non decreti divini diretti.

Non distinguendo tra i due significati di diritti umani ricordati sopra, alcuni musulmani sostengono che le formulazioni storiche della sharia hanno sempre garantito i diritti umani in teoria, sebbene poi ciò non si sia sempre tradotto nella pratica. Secondo il mio parere, garantendo alle donne e ai non musulmani un livello di protezione relativamente avanzato, le formulazioni storiche della sharia hanno fornito una migliore protezione dei diritti umani rispetto a quella fornita da altri sistemi normativi del passato. Ad esempio, veramente agli albori, si riteneva che la sharia prevedesse una personalità giuridica indipendente per la donna e la protezione di un minimo di diritti per lei in materia di eredità e nelle relazioni familiari, il che oltrepassava le garanzie previste da quasi tutti i sistemi normativi fino al diciannovesimo secolo. Allo stesso modo, la sharia garantiva diritti specifici per la cosiddetta 'Gente del Libro' (principalmente cristiani ed ebrei) in misura maggiore di quanto era previsto dai maggior sistemi normativi del passato. Tuttavia, siccome i diritti delle donne e dei non musulmani previsti dalla sharia non sono uguali a quelli degli uomini e dei musulmani, il livello di protezione dei diritti garantito dalla sharia non è sufficiente quando viene giudicato secondo gli standard previsti dalla DUDU, che richiede uguali diritti per tutti gli esseri umani, senza alcuna distinzione fondata sul sesso, sulla religione, o sul credo. (4)

Una possibile risposta a questi punti critici della sharia potrebbe essere l'argomento che i musulmani (e altri credenti) dovrebbero sforzarsi di vivere secondo i dettami della loro religione, e non secondo un qualche fallibile elenco di diritti inventato dall'uomo. Tuttavia, poiché i comandamenti divini sono sempre interpretati e applicati dagli esseri umani, il contrasto tra interpretazione ortodossa dei "dettami della religione" e nuove o eterodosse visioni della materia è in realtà un contrasto tra due interpretazioni umane di che cosa la religione richiede ai suoi affiliati. In questo senso, una reinterpretazione delle fonti islamiche che dimostri la loro coerenza con i diritti umani dovrebbe essere considerata in maniera appropriata, e non scaricata come non islamica soltanto perché è in contrasto con l'interpretazione umana precedentemente stabilita della sharia. Da parte dei musulmani, una reinterpretazione dovrebbe essere accettata o rifiutata in virtù della sua fondazione nelle fonti islamiche, e non essere rifiutata invece per il solo fatto di essere nuova o eterodossa. Lo spazio qui a disposizione non consente una discussione dettagliata di una possibile metodologia per una riforma islamica capace di realizzare la coerenza tra diritti umani e interpretazione moderna della sharia. (5) Quel che voglio enfatizzare qui è la possibilità di stabilire la legittimità religiosa di una tale interpretazione attraverso quel che può essere chiamato un approccio antropologico all'Islam.

Come ho già avuto modo di spiegare altrove (6), questo approccio ha come presupposto l'idea di una relazione organica e dinamica tra i testi sacri di una religione, il Corano e la Sunna (le tradizioni del Profeta) nel caso dell'Islam, da una parte, e la comprensione, l'immaginazione, il giudizio, il comportamento e l'esperienza pratica degli esseri umani, dall'altra. Un tale approccio non è soltanto giustificato, ma in realtà è letteralmente richiesto dal Corano, che in numerosi versi invita gli individui, o la comunità, a riflettere e a ragionare in maniera indipendente. In effetti, il verso 12 del capitolo 2 e il verso 43 del capitolo 3 proclamano che la riflessione e la comprensione umana rappresentano l'intero scopo della rivelazione del Corano.

La grande diversità di opinioni tra i giuristi musulmani su quasi tutte i principali principi giuridici o le questioni più rilevanti della politica pubblica rivela chiaramente una relazione dinamica tra il Corano e la Sunna, da un lato, e la comprensione, l'immaginazione e l'esperienza umana dall'altro.

Siccome il contesto storico della comunità e l'esperienza personale di ciascun credente influenzano sostanzialmente la percezione e il comportamento umano, qualsiasi cambiamento drastico delle condizioni di vita degli individui e della comunità dovrebbe essere seguito da una riconsiderazione del significato e delle implicazioni del messaggio divino. Allo stesso modo, si deve considerare il differente impatto di questi fattori sulla percezione e l'orientamento di ciascuna comunità musulmana di oggi.

Insistere sull'importanza dello specifico contesto storico entro cui i principi islamici vengono compresi e messi in pratica richiede una profonda comprensione della natura di questi fattori e un'attenta considerazione dei loro effetti su ciascuna società. In altri termini, si dovrebbero indicare queste problematiche per ciascuna società islamica nel suo specifico contesto, e non trattare invece tutte le società nello stesso modo.

Questa contestualizzazione è particolarmente importante a causa del ruolo svolto dallo Stato come framework entro cui si articolano e si implementano le politiche pubbliche che interessano le società musulmane di oggi. Qualsiasi ruolo può giocare la sharia nella vita dei musulmani contemporanei, quel ruolo sarà necessariamente mediato dall'azione dei loro rispettivi Stati-Nazione, piuttosto che dall'azione autonoma della comunità musulmana globale in quanto tale. In quanto istituzione essenzialmente politica, ogni Stato deve bilanciare una varietà di interessi e di pretese in competizione fra loro. Accade spesso che molte di quelle pretese e di quegli interessi riflettano i sentimenti religiosi della popolazione. Tuttavia, alla luce della diversità politica e religiosa della popolazione delle società islamiche, e vista la complessità dei loro interessi economici e di sicurezza globali e regionali, è completamente irrealistico aspettarsi che un qualsiasi Stato sia motivato esclusivamente da sentimenti religiosi, anche se rappresentativi della maggioranza della sua popolazione.

Inoltre, in aggiunta ai sopra menzionati elementi propri del discorso interno e dei suoi processi, occorre prendere in considerazione anche i fattori specifici del dialogo interculturale e dei suoi processi. In primo luogo, le realtà dell'interazione e delle interdipendenze globali stanno a significare che il dialogo interculturale sta già avvenendo in differenti modi tra differenti partecipanti, e rispetto a una varietà di interessi nazionali e internazionali. La questione che qui ci interessa è capire fino a che punto questi processi possano essere utilizzati per promuovere l'accettazione delle norme internazionali sui diritti umani all'interno delle diverse comunità religiose. In secondo luogo, come avviene del resto per tutte le forme di comunicazione umana, la natura e gli esiti di questo dialogo sono condizionati dalle prospettive o dalle agende dei differenti partecipanti, dalla loro percezione dei rapporti storici ed attuali di potere, dai loro livelli di fiducia o sospetto, e da altri fattori di breve e lungo periodo. Inoltre, questi fattori tendono ad interagire nel tempo non solo nel contesto dell'esperienza ma anche in quello della modificazione delle percezioni dei propri interessi, aumentando o diminuendo la solidarietà reciproca, e di numerosi altri fattori variabili. In terzo luogo, a proposito della relazione tra religione e diritti umani in modo particolare, è importante capire che la sinergia tra discorso interno e dialogo interculturale, e come questi due aspetti possano rinforzarsi o indebolirsi a vicenda, dipende dall'interazione dei fattori contestuali menzionati sopra. Se le osservazioni fatte finora intendono indicare quali fattori e quali considerazioni io credo sia necessario prendere in considerazione, vorrei concludere rimarcando l'importanza di un'ulteriore esplorazione delle condizioni locali e globali che probabilmente possono facilitare o impedire in generale la legittimazione dei diritti umani entro differenti tradizioni religiose.

Possibilità di riconciliazione nel contesto moderno: una prospettiva dalle Mauritius

Durante una visita alle Mauritius nel Novembre del 1999, tenni una conferenza sul diritto privato musulmano (DPM) dal punto di vista del paradigma dei diritti umani. In quell'occasione, ho avanzato l'ovvia critica secondo cui la formulazione storica della sharia discrimina le donne e ho sostenuto l'opportunità di reinterpretare le fonti islamiche in modo da assicurare l'eguaglianza tra uomini e donne in tutti i campi del DPM. È opportuno ricordare, che stavo parlando nel contesto di un dibattito sull'imposizione del DPM da parte dello Stato, tema che ha iniziato ad essere scottante a partire dall'Assemblea Costituente del 1965. In seguito alla conferenza, sono stato denunciato come "eretico" dalla stampa di alcuni gruppi islamici e da imam e oratori delle moschee locali perché ho affermato che quelle formulazioni della sharia non dovrebbero essere promulgate come legge dallo Stato poiché la sharia discrimina le donne. Per di più, alcuni attivisti che pretendevano di parlare in nome della comunità musulmana del paese richiesero addirittura che fossi dichiarato persona non gradita nel paese citando i finanziamenti della fondazione Ford alla mia ricerca sul DPM come prova definitiva del fatto che io fossi un agente dell'impero americano che cercava di minare la stabilità delle società islamiche dall'interno.

L'intensità e l'ostilità della reazione musulmana alla mie osservazioni indicava chiaramente che la questione era diventata scottante per ragioni politiche e culturali più ampie, collegate alle tensioni storiche tra la minoranza musulmana e altri segmenti della popolazione. Quando l'editore capo dell'Impact News, il settimanale che condusse l'attacco, mi disse per telefono, "Lei dovrebbe comprendere quanto sia importante per la nostra comunità musulmana di questo paese avere un DPM imposto come legge. Se noi non riusciamo ad ottenere questo, tutta la nostra libertà di religione sarà perduta, includendo il diritto di pregare il Venerdì nelle moschee." Trovo questa rivendicazione ingiustificata secondo qualsiasi criterio, ma comprendo anche il fatto che questa visione sia fortemente sostenuta da molti musulmani nel paese, che tendono a vedere la loro situazione locale e regionale sullo sfondo di una lunga ed amara storia di conflitti interreligiosi in India, la terra d'origine sia della maggioranza Hindù sia della minoranza musulmana delle Mauritius.

Tuttavia, esiste anche una gran consapevolezza tra i mauriziani del fatto che la legittimità internazionale della loro isola è collegata ai buoni risultati nel campo dei diritti umani. Questo è particolarmente vero per i musulmani che sostengono la campagna di imposizione del DPM attraverso il sistema giuridico ufficiale. Altrimenti, essi non sarebbero stati così interessati alle mie affermazioni che la sharia viola i diritti umani discriminando le donna. Probabilmente è vero che gli attivisti fossero preoccupati più dalla reazione del governo all'idea di un codice del diritto privato musulmano fondato sui diritti umani che dalle mie affermazioni in sostegno del principio di non discriminazione sessuale. Nondimeno, una consapevolezza della rilevanza delle norme internazionali sui diritti per la politica interna, è precisamente il tipo di influenza che si suppone debba esercitare il sistema internazionale dei diritti umani.

La dialettica tra globale e locale, che è oggi comunemente constata, è parte del dialogo interculturale menzionato precedentemente. Il punto che io desidero mettere in rilievo qui è il bisogno di una varietà di strategie tese ad estendere l'influenza dei diritti umani nel contesto locale e globale di qualsiasi società. In modo particolare, in relazione al ruolo della religione è necessario impegnarsi in un 'dialogo interno' entro la cornice della comunità religiosa in questione, al fine di superare le obbiezioni mosse ai diritti umani.

Se un tale dialogo è condotto attraverso la riforma metodologica suggerita in questo saggio, o attraverso qualche altra via simile, un dialogo interno sulla legittimità religiosa dei diritti umani è essenziale se si pretende che questi diritti siano effettivamente universali a livello globale.

Osservazioni conclusive

Il termine diritti umani è comunemente usato in riferimento a una varietà di sistemi tesi a negoziare pretese ed interessi contrastanti rispetto a come una società dovrebbe essere organizzata per realizzare il miglior livello possibile di libertà e giustizia. In questo saggio, tuttavia, il termine designa quel particolare sistema normativo ed istituzionale teso a realizzare quegli obiettivi nel contesto odierno delle relazioni tra stati. Nonostante la loro chiara origine secolarizzata occidentale, i diritti umani devono essere anche legittimati nel contesto delle differenti tradizioni religiose in virtù dell'importanza di quegli obiettivi per la maggioranza della popolazione del mondo. Questo processo di legittimazione religiosa richiede approcci creativi alle questioni teologiche entro lo specifico contesto socioeconomico e politico di ciascuna società. L'universalità dei diritti umani deve essere realizzata attraverso l'implementazione di deliberate strategie che possono con molta probabilità incontrare il favore popolare, e non invece dare per scontato che tale universalità esiste di per sé, o che può essere raggiunta attraverso la semplice proclamazione di documenti internazionali. L'approccio proposto alla relazione che intercorre tra diritti umani e religione intende enfatizzare fortemente tanto le differenze quanto le somiglianze che caratterizzano l'esperienza delle varie società. Queste somiglianze è più facile che vengano apprezzate alla luce di una chiara comprensione delle dinamiche specifiche delle lotte sociali per il potere e le risorse, più che concentrandosi esclusivamente sui precetti teologici astratti. Questo approccio consentirà agli studiosi e ai difensori dei diritti umani di indicare il ruolo dell'Islam (o di qualsiasi altra religione) come una fonte di motivazione e mobilitazione per l'elaborazione di particolari priorità sociali e politiche, senza tuttavia dare l'apparenza di sfidare la sua legittimità di fede propria di un segmento della popolazione di qualsiasi paese.

L'esperienza che ho avuto nelle Mauritius dimostra chiaramente che una valutazione più realistica e contestualizzata delle difficoltà pratiche che stanno di fronte al riconoscimento universale dei diritti umani è essenziale per escogitare le strategie migliori in grado di influenzare i processi di trasformazione culturale in favore di una più effettiva protezione dei diritti. La via d'uscita dal circolo vizioso del "dibattito universalismo-relativismo" è di approfondire il contesto locale di ciascuna tematica al fine di individuare punti sostenibili di mediazione. Come ogni tema legato alla politica pubblica, anche la legittimità e l'efficacia della protezione dei diritti umani deve essere promossa attraverso una serie di strategie condivise che combinino la convinzione visionaria nella possibilità di cambiamenti sociali e politici con la valutazione realistica delle difficoltà.

Concludo ribadendo il mio impegno di combinare la mia adesione personale alla tradizione islamica con la difesa dell'universalità dei diritti umani.

(Traduzione di Alessandro Calbucci)


Note

*. Da Islam and Human Rights: Beyond the Universality Debate, Proceedings of the 94th Annual Meeting of the American Society of International Law, 2000, pp. 95-101.

1. Si potrebbero citare l'«intervento umanitario» e le azioni del Consiglio di Sicurezza come esempi di misure coercitive di protezione dei diritti umani contro la volontà dei governi nazionali, tuttavia questi meccanismi trovano applicazione solo in casi eccezionali e sono troppo dipendenti dai calcoli politici delle grandi potenze per costituire parte di un sistema internazionale affidabile di enforcement legittimo delle norme sui diritti umani.

2. Si veda, in generale, A.A. Na'im, F. Deng (eds.), Human Rights in Africa: Cross cultural perspective, Washington 1990; A.A. Na'im (ed.), Human Rights in Cross-Cultural Perspective: Quest for Consensus, Philadelphia,1992.

3. Sulle origini e sugli sviluppi delle interpretazioni storiche della sharia, si veda A.A. Na'im, Toward an Islamic Reformation, Syracuse, NY,1990.

4. B. Weiis, The Spirit of Islamic Law, 1998.

5. Sulla discrepanza che esiste tra le interpretazioni tradizionali della sharia e i moderni standard internazionali, si veda A.A Na'im, supra nota 3, capp. 4-7.

6. A.A. Na'im, Toward an Islamic Hermeneutics for Human Rights (1995).