2010

Recenti modifiche dello Statuto Personale in Egitto

Costantino Paonessa (*)

Nell'ultimo decennio il parlamento egiziano ha introdotto una serie di riforme delle leggi concernenti lo "Statuto Personale". Nel gennaio 2000 venne promulgata la legge No. 1 che all'articolo 20 dà la possibilità alle donne di porre fine unilateralmente al matrimonio in cambio della rinuncia ai propri diritti patrimoniali (procedura meglio conosciuta in diritto musulmano con il nome di kul') (1) e all'art. 17, comma 2, permette ai congiunti di divorziare anche se il loro contratto di matrimonio non era stato ufficialmente registrato (matrimonio detto "consuetudinario" o 'urfī) (2).

Nel 2004 lo "Statuto Personale" ha subito due ulteriori modifiche. La prima attraverso l'approvazione della legge No. 10 che introduce un tribunale specializzato per le sole questioni familiari con lo scopo di accelerare le procedure giuridiche nei processi inerenti lo statuto personale e di regolare tutti i conflitti coniugali al fine di diminuire i casi di divorzio. La seconda modifica è avvenuta ad opera della legge No. 11 che avvia la fondazione di un Fondo di assicurazione familiare, chiamato Banca Nasser, per il mantenimento della donna e dei figli in caso di divorzio.

Infine, la Legge No. 4 del 2005 concede alla donna divorziata la custodia dei bambini fino all'età di 15 anni.

Si tratta, è evidente, di un graduale processo di modifica del diritto di famiglia che evidenzia un prudente tentativo da parte delle istituzioni di far fronte alle esigenze di miglioramento delle condizioni dei diritti delle donne e, quindi, alla necessità di ammodernamento di quella che è considerata la legge fondamentale della società nella maggior parte dei paesi musulmani e non solo (3). Non a caso, proprio perché la funzione primaria della famiglia è di riprodurre la società da un punto di vista biologico e socio - culturale è naturale che lo scontro tra modernisti e conservatori relativamente a questo soggetto raggiungesse livelli molto aspri (4). La maggio parte delle argomentazioni promosse dall'una e dall'altra parte si collocarono in merito alla questione della conformità o meno delle leggi presentate ai precetti sciaraitici (5). Dal canto riformista, il problema essendo rappresentato dalla difficoltà di trovare un'autonoma giustificazione all'interno della dottrina islamica tradizionale che negava alle ultime generazioni il diritto di ricorrere al ragionamento indipendente (6).

Ora, senza entrare nei dettagli di un argomento abbondantemente discusso, tutti gli autori che si sono occupati di storia del diritto musulmano sono stati unanimi nel sostenere che l'azione dei riformisti nel corso del secolo passato non aveva alcuna intenzione di contraddire o di andare al di fuori della Legge islamica, quanto piuttosto di apportare qualche necessario cambiamento in modo tale che essa potesse rispondere ai bisogni della società. Anche se i metodi utilizzati per ottenere questo scopo hanno evidenziato come -perfino nel diritto di famiglia- la dottrina del taqlīd (7) non era divenuta nient'altro che una semplice finzione, una adesione puramente formale e superficiale ai principi stabiliti dal diritto tradizionale.

In questo contesto la legge 1/2000 pur inscrivendosi in quel lungo processo di aggiramento della dottrina islamica messo in atto dal legislatore egiziano lungo tutto l'arco di un secolo ha comportato notevoli novità metodologiche e di contenuto che meritano essere esplicate.

Il divorzio kul' nella Šarī'a islamica

Tra i vari modi che la Šarī'a islamica ha formulato per risolvere il matrimonio è annoverato il divorzio per mutuo consenso degli sposi "kul'" attraverso il quale la donna rende al marito un qualsiasi compenso - per consuetudine la dote ricevuta al momento del matrimonio- in modo tale che quest'ultimo consenta a ripudiarla. Questa indennità o equivalente viene chiamata 'iwad (8) e non è richiesto l'intervento del giudice (9).Il fondamento scritturale dell'istituto si trova principalmente nel versetto 229 della Sūra al-Baqara: "A meno che ambedue non temano di non poter osservare le leggi di Dio, ché se temono di non poter osservare le leggi di Dio, non sarà peccato se la moglie si riscatterà pagando una somma" (10) e in un hadīс (11) presente in molteplici collezioni che riporta la vicenda della sposa di Сābit bin Qayis (12).

La pratica, tuttavia, risale all'epoca pre-islamica e continuava ad esistere ai tempi del Profeta. La prassi dell'Arabia voleva che la donna rendesse al marito la sua dote, o qualche altro tipo di pagamento per indurlo a concederle la libertà. Esso aveva forma di un accordo amichevole tra lo sposo e il padre della sposa, dove quest'ultimo restituiva la dote e riprendeva indietro sua figlia. In questo modo il contratto di matrimonio veniva cancellato definitivamente poiché quanto dato dal marito per ottenere i suoi diritti coniugali gli veniva restituito. Per la logica inversa, qualora il marito non accettava di vivere lontano da sua moglie e di prendere la sua dote, ella non godeva di libertà in ragione dell'esistenza del vincolo contrattuale (13).

Il termine stesso kul' la cui radice è kala'a "ritirare, levare dolcemente una cosa da sopra un'altra" ma anche "levare i propri abiti, svestirsi" è da mettere in relazione all'azione del marito che si spoglia, in un certo qual modo, della sua propria autorità maritale. D'altronde a questo preciso senso fa riferimento anche il Corano nel versetto 187 della Sūra al-Baqara (14).

In linea con la tradizione tutte le scuole giuridiche sono concordi nel considerare il kul' come un contratto sinallagmatico, o più precisamente, un contratto a prestazione reciproca (mu'āwada), dove il marito rinuncia ai diritti che il matrimonio gli dà sulla persona di sua moglie e quest'ultima rinuncia ad esigere un qualche credito che poteva aver maturato nei confronti del marito o, più raramente, gli paga direttamente un'indennità (15). Se questa è la regola generale, è vero altresì che esistono delle profonde divergenze tra gli hanafiti e le altre tre scuole giuridiche (16) in merito soprattutto alle conseguenze di questo genere di ripudio che meritano di essere quanto meno accennate.

Per ciò che concerne i cosiddetti "pilastri del kul'" o "arkān al-kul'" i giuristi contemporanei ne elencano cinque: 1) accettazione o qābil (impegno a dare corrispettivo); 2) offerta o mūğab (il marito o il suo tutore); 3) compenso o 'iwād (cosa con cui il marito si ricompensa); 4) contraccambio o mu'awad (libertà sessuale della sposa); 5) formula o sīġa (17).

Perché il kul' sia effettivo è assolutamente necessaria la pronuncia della formula (sīġa al-kul'), e infatti il divorzio non è valido con la sola donazione (lā yasihhbi'l-mu'āsā), come nel caso in cui la moglie dona al proprio marito dei beni ed esce dalla sua casa senza che quest'ultimo pronunci le parole: "divorzio da te per 100 dinar" (iktali'ī 'alā mā'a dīnār) o "divorzio da te in cambio di questo" (iktali'ī nafsaki 'alā kiхā) (18). Mentre per quanto riguarda l'accettazione della donna - assolutamente indispensabile- i giuristi sono concordi nel legarla alla stessa formulazione del divorzio da parte del marito. Infatti, nei casi sopra citati essa dovrebbe essere implicita alla stessa esclamazione. Tuttavia, il marito può anche utilizzare un'altro tipo di formula dal tono più categorico: "Ho divorziato da te" (kala'tuki).

In base a quanto abbiamo appena detto si possono elencare tre tipi differenti di sīġa al-kul': la prima in cui l'espressione del marito non richiede l'accettazione della sposa (lā taqtadī bi-nafsihā qabūl al-zawğa) e non fa alcun riferimento al compenso. In questo caso si tratta di un talāq vero e proprio se il marito aveva intenzione di divorziare (in nawā bi-haхihi al-'ibāra al-talāq), senza dipendere dall'accettazione della sposa. Al contrario, se manca l'intenzione non si tratta di un divorzio definitivo (lam yakūn talāqan asalan); la seconda in cui l'espressione del marito non richiede l'accettazione della sposa ma cita esplicitamente il compenso finanziario. Si tratta di un divorzio dipendente dalla condizione che lei accetti o meno quanto proposto dal marito per compenso; la terza in cui l'espressione del marito contiene una formula che implica l'accettazione della donna e il consequenziale verificarsi del divorzio sia se il marito cita il compenso finanziario, sia se egli fa ricadere l'azione del kul' sulla moglie con un frase del tipo: "iktali'ī" o "kāli'īnī" (lett. "divorziati" o "lasciami tranquillo"). Tuttavia, se la donna non accetta o non dice nulla il divorzio non può aver luogo.

Secondo i malikiti affinché la sīġa sia valida è necessario che siano rispettati tre principi: 1) che vi sia un'espressione (an yakūn lafza) e che siano pronunciate delle parole che indichino il divorzio (bi-kalma dālla 'alā talāq), sia nel caso della formula esplicita (tarīh) che nel caso della formula figurata (kināya) (19). Tuttavia qualora siano compiuti dei gesti che indichino (yadullu 'alā) il talāq, senza che vi sia alcuna locuzione (nutq), il divorzio non diviene effettivo a meno che quell'atto non sia espressione di una consuetudine (illā idā ğarā bihi al-'urf) (20). Dello stesso parere sono anche gli šafiiti che parlano della sīġa al-kul' negli stessi termini. 2) Che l'accettazione sia contestuale nella stessa seduta (mağlīs) se non quando il marito è affetto da malattia o impossibilità; altrimenti l'accettazione è concomitante alla dichiarazione dell'uomo in quanto emergente dalle sue stesse parole. 3) Che tra l'offerta e l'accettazione ci sia accordo sul valore della donazione (anna yakūn bayn al-iğāb wa al-qubūl tawāfaqa fī māl).

Le condizioni che il marito deve rispettare affinché il kul' sia valido sono le stesse di quelle esatte per il ripudio senza accordo, poiché, da parte sua il kul' è essenzialmente un ripudio (21). Tuttavia, le regole che il fiqh ha stabilito concernenti il ripudio pronunciato da un individuo affetto da malattia mortale o sul punto di morire, non sono più valide nel caso del kul' perchè in quest'ultimo caso l'istituto prevede una compensazione. Inoltre, ma solo per i malikiti, la moglie non sarà esclusa dalla successione in caso di morte dello sposo per la malattia.

Ben più numerose sono, invece, le regole che concernono la donna. In considerazione del fatto che il kul' implica sempre per lei una alienazione di patrimonio, la donna deve essere capace di obbligarsi. Non possono, pertanto, concludere questo particolare istituto giuridico: 1) la folle e la minore, in quanto non possono in nessun caso disporre dei propri beni (22); secondo la scuola malikita, il padre ha il diritto di negoziare un ripudio per conto della propria figlia soggetta a costrizione, il compenso essendo prelevato sui beni dello stesso genitore. 2) la donna inabilitata per prodigalità (safīha); 3) la donna insolvente 4) la donna affetta da una malattia mortale (23).

Le cose non sono così chiare presso i giuristi se si prende in considerazione l'azione del marito, per il quale il kul' non è nient'altro che una maniera di rompere i legami con la sua propria consorte. Il che rimanda alla questione accennata in apertura di questo paragrafo in merito alla natura della dissoluzione che scaturisce dal divorzio kul' e nello specifico se si tratta di una separazione "fask" oppure di un vero e proprio ripudio (talāq).

E' cosa risaputa che nel fiqh solo il marito ha il diritto di ricorrere al ripudio per risolvere il matrimonio attraverso la pronuncia di una formula che sia verbale, scritta o anche tramite gesti e azioni, secondo la consuetudine. Il numero delle formule di ripudio è di tre e in base ad esse il divorzio può essere revocabile (rağ') o definitivo (bā'in), a sua volta suddiviso in ripudio imperfetto o ripudio perfetto.

Opposto al talāq, che ingloba tutte le possibili forme di ripudio è il fask, forma di risoluzione o rescissione, comune a tutti gli atti giuridici, compreso il matrimonio. Come ha fatto notare Linant de Bellefond, i criteri che differenziano l'uno dall'altro sono molto sottili e soprattutto basati sui loro effetti secondari: 1) ogni dissoluzione associata a una risoluzione sarà sempre definitiva, mentre il ripudio può essere revocabile o irrevocabile; 2) Ogni rottura del legame coniugale considerata come fask può essere rinnovata, senza contare il minimo delle tre volte, a meno che non sussista qualche altro impedimento che interdica il matrimonio (24).

Ritornando al tema della natura del kul', la dottrina delle scuole si è schierata per l'una o per l'altra delle differenti categorie. Per gli hanafiti, i malikiti, e gli šafiiti senza alcun dubbio il divorzio kul' è da considerare come bā'in. Gli hanbaliti, dal canto loro, non sono così categorici esprimendo delle perplessità sul fatto che il kul' sia un vero e proprio talāq e generalmente vengono annoverati come i soli sostenitori della teoria contraria.

Il compenso

Le opere di fiqh hanno tutte contribuito a diffondere e radicare presso l'opinione pubblica l'assunto secondo cui il kul' necessita, per essere valido, di un compenso, chiamato 'iwad o badal. Ragion per cui i fuqahā' (lett. giuristi, dotti) delle diverse scuole hanno concentrato l'attenzione su questo compenso contribuendo a farne, in qualche modo, il pilastro principale dell'intero istituto.

Si legge nella Mudawwana (25): "Che cosa pensi (26) qualora la moglie rifiuti di obbedire al marito, è lecito per l'uomo di prendere da lei ciò che lei gli dà per ottenere il divorzio?" Risposta: "Si, qualora ella sia consenziente, è non vi sia da parte del marito nessuna costrizione". [.....] "Che cosa pensi qualora il divorzio è richiesto dalla donna che ha paura dell'avversione da parte del marito?" Risposta: "Non è lecito per il marito di prendere qualcosa da lei in cambio del suo divorzio. Tuttavia è lecito che lui prenda qualcosa per lasciarla libera o che lui le dia - di comune accordo- una parte dei suoi propri averi accettando di vivere insieme in questa condizione, dividendo la sua presenza e i suoi averi. Questo è l'accordo di cui ha parlato Allāh: "Ma se ambedue temono di non poter osservare le leggi di Dio, non sarà peccato se la moglie si riscatterà pagando una somma" (27). Secondo il rito hanafita è necessario che il compenso del kul' rispetti determinati principi: 1) che siano dati al marito dei beni di valore (non è lecito il kul' di una piccola quantità); 2) che sia un bene da cui è lecito trarre beneficio. Non è lecito il vino, il maiale o il sangue perchè queste cose non hanno valore nella Šarī'a islamica. E' lecito il kul' con dei beni, siano essi denaro o materiali, o la dote, o la nafaqa dell''idda, o spese dell'allattamento, o della custodia (hadana), o altro ancora, secondo le particolarità delle maхāhib (28).

In base a quanto detto finora non sarebbe sbagliato se si pensasse che secondo i giuristi il pagamento di un compenso da parte della donna è la particolarità che caratterizza il kul' distinguendolo dal semplice ripudio. Ciononostante, due scuole - la hanafita, la malikita ma anche numerosi hanbaliti - non vedono in ciò un elemento indispensabile alla formazione della convenzione, anche se si tratta di pure speculazioni teoriche laddove nella pratica l'assenza di compenso è fenomeno sconosciuto. Gli šafiiti sono i soli nel mondo sunnita (29) a dichiarare, senza ambiguità, che ogni ripudio ove è impiegato il termine kul', dal momento che la donna abbia accettato o l'abbia essa stessa sollecitato, comporta necessariamente a carico di quest'ultima il pagamento di un compenso. Se i due congiunti hanno semplicemente omesso il compenso, il divorzio viene considerato come valido, ma la moglie deve a suo marito una dote di equivalenza (mahr miсl) (30). Diametralmente opposta è la tesi della scuola malikita, la quale oltre a permettere ai due coniugi divorziati per mezzo del kul' di risposarsi, esenta la donna da ogni obbligo, tanto meno finanziario, qualora i due abbiano omesso di parlare del compenso.

La questione diventa tanto più complicata nella scuola hanafita a causa dei pareri discordi dei giuristi. L'ampio dibattito sul tema non può essere oggetto del nostro studio, per cui si rimanda all'eccellente articolo di Linant de Bellefond "Le kul' sans compensation en droit hanafite". Basti solo sapere che in merito al kul' senza compenso si è raggiunto l'accordo su due principi di base: 1) E' possibile ottenere un divorzio un kul', grazie all'impiego di una formula appropriata e senza menzionare il compenso (per i malikiti considerato un divorzio definitivo minore). 2) Il kul' così ottenuto avrà per la donna delle conseguenze finanziarie (31).

Il consenso

Nonostante la consuetudine abbia fatto del kul' una separazione definitiva, concordata tra gli sposi mediante un compenso pagato dalla donna, le scuole malikita e hanafita, nonché numerosi giuristi hanbaliti si sono posti la questione di sapere quali sono gli effetti di un divorzio, concluso nei termini del kul', dove le parti non menzionano o escludono espressamente la compensazione.

Il primo problema che si pone riguarda la formulazione dell'istituto. In effetti, tramite quest'ultima deve apparire in maniera molto netta il carattere contrattuale dell'operazione soprattutto per quanto concerne l'accettazione da parte della donna. Non che questa sia meno importante di quella che si pretende nel kul' con compenso ma bisogna ricordare che in quest'ultimo caso il pagamento da parte della donna -di quanto a lei richiesto dal marito o da ella stessa proposto- presuppone un'accettazione formale (qabūl sarīh) e implicita da parte del marito nel momento stesso in cui questo prende il bene offertogli. Di conseguenza, in assenza di compenso, non solo la risposta all'offerta deve essere obbligatoria, in quanto elemento che permette di distinguere che si tratta di un kul' e non di un talāq, ma la stessa proposta deve rispettare delle precise regole di formulazione. Proprio per questo, non è più sufficiente che sia usata la radice k- l- ' - da cui la parola kul' nelle sue varie forme. Si esige che il verbo kala'a sia usato in maniera imperativa; o che la donna ripudiante se stessa utilizzi durante la sua accettazione il termine kul', in modo tale che non vi possano essere equivoci; o che il marito utilizzi la terza forma del verbo, kāla'a, che secondo i grammatici arabi indica l'intenzione da cui si attende una risposta dalla persona a cui ci si rivolge (32).

Se ne deduce che condizione imprescindibile del kul' non risulta essere tanto la presenza o meno di una compensazione, quanto piuttosto che vi sia un accordo e dunque un'accettazione tra le due parti in causa (33). Le scuole giuridiche su questo punto sono unanimi nonostante esista una divergenza tra quanto detto nel Corano e quanto riportato nella Sunna (34). Divergenza che, vedremo, sarà alla base della riforma del diritto di famiglia egiziano del 2000.

Come precedentemente detto il kul' trova la sua conferma scritturale, oltre che nel Corano anche nella vicenda di Habība bint Sahl sposa di Сābit bin Qays bin Šammās, riportata in quattro differenti collezioni di hadīс (35).

Al-Bukārī riporta una tradizione sotto l'autorità di Ibn 'Ābbās secondo cui "la moglie di Сābit bin Qays si recò dal Profeta e gli disse: "O Inviato di Dio, io non ho nulla da rimproverare a Сābit bin Qays nè per il carattere nè per la religione, ma ho paura di venire meno ai doveri dell'Islam (sott. restando con lui)! Disse il Profeta: Vuoi restituirgli il suo giardino? (ataruddīna 'alayhi hadīqatahu). Disse la donna: Si (na'am). Allora disse il Profeta di Dio a Сābit: "Prendi il giardino e ripudiala" (iqbali al-hadīqa wa talliqha tatlīqatin) (36).

La collezione di al-Nasā'ī cita le medesime parole (37).

La stessa storia è riportata in maniera leggermente differente da Abū Dāwūd, il quale sotto l'autorità di 'Ā'iša racconta che "Habība bint Sahl era sposata con Сābit bin Qays bin Šammās, il quale la battè e le ruppe qualche parte del corpo. Dopo l'alba (ba'd al-subh) la donna si recò dall'Inviato di Dio, il quale mandò a chiamare Сābit. Quindi gli disse: "Prendi una parte dei suoi beni e separati da lei" (kuхba'dmālihā wa fāriqhā). Chiese: "Ciò è lecito, o Inviato di Dio?" (yasluhхālika yā Rasūlu Allāh) Disse: "Si" (na'am). Allora disse Сābit: "Le ho dato come dote due giardini che sono nelle sue mani (38)" (asdqtuhā hadīqatayn wa humā bi-yadihā). Disse il Profeta: "Prendili e separati da lei" (kuхhumā wa fāriqhā) (39).

In queste due differenti versioni del hadīсvi sono tre elementi comuni: il primo è la compensazione, o più precisamente la dote che la donna deve consegnare per riscattarsi; il secondo, è la formulazione da parte del Profeta di un ordine categorico, come dimostrato dall'utilizzo del verbo all'imperativo; il terzo, è che in nessuna delle due versioni si fa riferimento a una qualche forma di consenso del marito. Se ne deduce che la Sunna è in aperta contraddizione con il Corano, laddove quest'ultimo parla chiaramente di un accordo congiunto dei due coniugi: "fa-lā ğunāh'alayhimā fīmā aftadat bihi".

Un importante aiuto alla comprensione dell'istituto del kul' è dato dalla lettura della Mudawwana.

"Nel kul' e' permesso all'uomo di prendere da sua moglie più di quanto egli le aveva dato?" Risponde Malīk: "Si". "Ho sempre sentito dalle persone sapienti -e su questo punto vi è pieno accordo tra di noi- che se l'uomo non costringe sua moglie, non le fa del male o non la forza ma ella accetta di buon grado la sua separazione, è lecito che lui prenda ciò che ella gli ha offerto. Questo è quanto ha fatto il Profeta con la moglie di Сābit bin Qays bin Šammās quando ella si recò dal Profeta e gli disse: "Io non voglio che Сābit resti mio marito", "O Inviato di Dio tutto ciò che egli mi ha dato io restituisco". Disse il Profeta a Сābit: "Prendi ciò che ti dà" (kuхminhā). Egli prese (da lei) e partì (40).

Si noterà che il contenuto di questa narrazione rispetta alla lettera quanto riportato negli hadīсcitati precedentemente. Medesima cosa per quel che riguarda un secondo hadīс riportato nel testo immediatamente dopo e messo sotto l'autorità di Abū Sa'īd al-Kudrī. Quest'ultimo aveva una sorella sposata con un uomo. Tra di loro regnava la discordia e l'odio quando raccontarono ciò all'Inviato di Dio. Egli disse: "Vuoi rendere a lui il suo giardino". Ella rispose: "Si e ho aggiunto dell'altro". Quindi il Profeta ripeté ciò altre tre volte e alla quarta disse: " Rendi a lui il suo giardino e dell'altro in più".

Anche in questi due casi esiste un imperativo categorico da parte del Profeta che non dà alcuna importanza alla volontà o meno del marito. Postulato il pagamento di una compensazione non serve nient'altro perchè la donna sia libera.

Nonostante ciò qualche rigo più giù è sempre Malīk a ridire: "Non ho sentito alcuna autorità essere contro il fatto che la donna paghi di più di quanto ricevuto per dote", aggiungendo, "ha detto Allāh: fa-lā ğunāh 'alayhimā fīmā aftadat bihi (a meno che ambedue non temono di non poter osservare le leggi di Dio, perché se temono di non poter osservare le leggi di Dio, non sarà peccato se la moglie si riscatterà pagando una somma)" (41).

Da ciò si potrebbe dedurre che la scelta adottata da Malīk e più in generale da tutte le scuole giuridiche di fare del kul' un istituto basato sull'accordo delle due parti, sia partita dall'esigenza di conformarsi alle prescrizioni coraniche, scartando quanto detto e fatto dal Profeta in maniera molto chiara semplicemente perchè ciò era contrario alla Parola di Dio. Si proverà a dimostrare che questa spiegazione, seppur valida almeno dal punto di vista del metodo, non risulta essere assolutamente convincente se non completamente errata sotto diversi aspetti.

Un'osservazione preliminare ma del tutto personale riguarda il contenuto delle Tradizioni profetiche. Sebbene le parole di Muhammad riportate dalla tradizione siano categoriche e tengano conto del volere dello sposo è anche vero che quest'ultimo non dimostra affatto la sua contrarietà né con parole, né con gesti. Anzi, il fatto stesso che egli abbia reso la dote denota una certa sua accondiscendenza all'operazione piuttosto che una sua contrarietà. Tanto più che, così come sono formulate, le Tradizioni sembrano riferirsi più alla necessità che nel kul' vi sia un scambio reciproco che al fatto di esservi o meno un consenso del marito, cosa evidentemente del tutto secondaria, come si denota chiaramente dalla lettura del Tafsīr (lett. intepretazione) di Tabarī il quale cita una serie di tradizioni, di cui quattro narranti la vicenda di Habība, per spiegare vari elementi del kul' senza, tuttavia, mai affrontare la questione dell'autorizzazione del marito (42).

Un'altra considerazione, invece, concerne un aspetto di storia del diritto musulmano. Arabi dopo aver riportato gli "hadīсdi Habība"si accorge del problema della scelta della prescrizione coranica da parte dei giuristi, nonostante "la indeterminatezza, se non contraddizione" con quanto detto nella Sunna (43) e avanza una tesi "puramente logica", secondo cui i giuristi musulmani non "dovevano sottoporre al Corano la struttura legale del kul' proposta dal Profeta". Ciò in base al fatto che l'imām Šāfi'ī considerava come acquisito che il Corano non solo non contraddiceva le tradizioni provenienti dal Profeta ma che quest'ultime spiegavano lo stesso Libro. Ragion per cui bisognava interpretare il Corano alla luce delle Tradizioni e non all'inverso.

In verità, se si tiene conto che solo a partire dal II secolo dell'Egira i cosiddetti "tradizionalisti" cominciarono a far prevalere la teoria della superiorità della Sunna del Profeta sulla "pratica sunnatica (44)", l'atteggiamento dei giuristi anziani non dovrebbe affatto stupire. D'altronde, sempre in merito alla Mudawwana, Calder ha scritto che "presenta precisamente le caratteristiche che J. Schacht voleva individuare come pertinenti alla fase anziana del pensiero giuridico Musulmano" (45). Autorità dominanti sono, infatti, i giuristi Medinesi della vecchia generazione, e tra loro Malīk stesso. La forma di dialogo con cui vengono esposte le teorie è appositamente concepita per esaltare la figura del maestro così come si fa un uso abbondante di numerose tradizioni riguardanti i Compagni del Profeta e delle opinioni delle autorità medinesi (nel caso specifico punto di riferimento è Ibn Wahb, m. 197). In mezzo a loro è citato lo stesso Profeta, anche se gli hadīсche lo riguardano sono molto pochi, giocano una parte secondaria o in molti casi sono delle vere e proprie aggiunte posteriori (46). Del resto essendo stata postulata l'autorità profetica in materia di diritto in un' epoca abbastanza tardiva (a partire dal III secolo), nessuno dei giuristi anziani, compresi quelli dello stesso secondo secolo, poteva isolare quanto detto nella Tradizione profetica come se fosse un corpus a se stante.

In ogni modo anche qualora si volesse mettere da parte quanto detto ora, l'utilizzo delle Tradizioni profetiche nella Mudawwana è finalizzato alla specificazione delle modalità con cui si può concludere il kul'; in particolare la liceità o meno del compenso per l'uomo e il valore che questo deve avere in rapporto alla dote. Tanto era la prassi consolidata che non ci si chiede neppure se il marito debba o meno dare il suo assenso, perchè -è stato già detto- questo viene direttamente dall'accettazione del compenso.

Conclusioni

In seguito all'approvazione delle due Camere, la legge 1/2000 - comunemente chiamata qānūn al-kul'(legge del kul') passò al vaglio dell'Alta Corte Costituzionale (al-mahkama al-dustūriyya al-'ulyā) a causa del ricorso di incostituzionalità intentato da uno sposo la cui consorte aveva utilizzato la nuova procedura di divorzio.

In verità, la legislazione egiziana riconosce la procedura di divorzio (kul') già dagli anni cinquanta, sebbene fossero state previste delle norme fortemente discriminanti all'esercizio del diritto da parte della donna in linea con quanto prescritto dalla Š arī'a. Non era previsto l'intervento diretto del giudice - l'intera procedura svolgendosi di fronte al ma'хūn- e soprattutto si richiedeva- con valore vincolante - il consenso del marito. Per cui solo se quest' ultimo accettava di ripudiare la sua sposa in cambio di un controvalore finanziario - per consuetudine rappresentato dalla dote- o della rinuncia alla pensione alimentare, ambedue potevano recarsi presso l'ufficiale giudiziario per registrare l'avvenuto divorzio.

La legge n. 1 del 2000 all'articolo 20 modifica profondamente tali procedure in quanto autorizza la donna a rivolgersi al un giudice per ottenere lo scioglimento del matrimonio senza giustificare la propria richiesta e senza l'autorizzazione del marito, essendo sufficiente la sola dichiarazione di "offendere i principi di Dio" in caso di prosecuzione della vita comune. Viene disposta anche una procedura di riconciliazione tra le due parti, durante un periodo massimo di tre mesi, attuata da due mediatori nominati dagli sposi e comunque appartenenti alle rispettive famiglie. Al termine del suddetto lasso di tempo e posto che la donna mantenga costante la sua decisione fino alla fine, allora il divorzio diventerebbe definitivo, irrevocabile e la decisione del giudice non ricorribile in appello. Per controparte, la donna dovrà rendere la dote o in caso rinunciare alla parte non versata e perderà il diritto a ricevere la pensione alimentare (nafaqa) o il compenso finanziario (mut'a) Tuttavia non è tenuta a rimborsare né i regali, né i gioielli offerti durante il fidanzamento poiché essi non hanno un legame diretto con il matrimonio. In ultimo, potrà ottenere la custodia dei figli e di conseguenza il diritto a occupare il domicilio coniugale fino al compimento della maggiore età e la pensione alimentare per la loro crescita.

Proprio in considerazione di quanto detto, il ricorso presentato alla Corte costituzionale non poteva che essere basato sulla presunta violazione dell'articolo 2 della Costituzione egiziana che definisce i principi della Š arī'a come "la fonte principale della legislazione" (mabādi' al-šarī'a al-islāmiyya al-masdar al-rā'īsīli-l-tašrī'). Oltre alla presunta irregolarità del fatto che la decisione di un giudice dello statuto personale potesse avere valore definitivo. La risposta della Corte, a tali obbiezioni, fu un modello esemplare di abilità giuridica che s'inscrive nella prudente tradizione delle riforme egiziane sempre attente a non allontanarsi troppo dal rispetto delle norme intangibili della legge islamica.

In base a quanto detto nelle pagine precedenti i dettagli dell'organizzazione del kul' non sono stati fissati in maniera assoluta tra i giuristi anziani (47) trattandosi, dunque, di un settore dove era necessario uno sforzo di interpretazione. In questo senso, la legittimazione della legge è giustificata dal giudice costituzionale come frutto di un processus interno di rinnovamento e rispettante la gerarchia delle fonti normative dello Stato.

La cosa chiara è che nella pratica l'introduzione del diritto al divorzio per la donna musulmana era una cosa molto difficile da giustificare al di fuori dal contesto d'evoluzione delle condizioni sociali e almeno negli stessi termini del legislatore egiziano, cioè, in maniera unilaterale e senza l'accordo del marito come esigono le quattro scuole sunnite (48).

Tenuto presente ciò, proprio in considerazione del fatto che la Šarī'a islamica è la fonte principale della legislazione egiziana, il riferimento scritturale della legge sul kul'- come negli altri paesi arabi che hanno regolamentato questa procedura nelle rispettive leggi sullo statuto personale (49) - è data, naturalmente, dalla Sura 2 (Baqara) versetto 229, insieme al hadīс del Profeta narrante la vicenda di Habība b. Sahl. Per di più, il legislatore riconosceva apertamente di essersi ispirato a delle soluzioni ammesse dalle altre scuole (oltre alla hanafita) e notamente alla scuola malikita (50). Anche se, nonostante questo rinvio dottrinale, è esplicito il fatto che nel caso del kul' il legislatore non ha esitato a "giocare con i testi" per ottenere lo scopo di accrescere i diritti della donna.

In effetti, se la dottrina malikita fornisce dei principi ben definiti sulla compensazione e l'irrevocabilità del divorzio, è un po' meno precisa quanto all'obbligo dell'accordo dello sposo nell'attuazione del kul'. Anche se, si è visto nelle pagine precedenti, non dovrebbe persistere alcun dubbio che i giuristi malikiti considerino ciò come assolutamente necessario (51). Pertanto in considerazione del consenso unanime tra le quattro scuole sulla obbligatorietà del consenso del marito, il legislatore egiziano è stato obbligato a basarsi sull'autorità proveniente dagli hadīс del Profeta non potendo ricorrere - come apertamente fatto nel passato- agli espedienti giuridici del talfīq, né a quello del takayyur. Si tratta di una vera e propria rivoluzione nella formulazione della legge.

Saranno messe da parte le opinioni degli anziani giuristi per formulare una nuova teoria personale a partire della Sunna, la quale verrà considerata a sua volta come un corpus autonomo dal Corano. In tal maniera i giuristi e i giudici della Corte Costituzionale attraverso la "legge del kul'" renderanno esplicita la loro volontà di interpretare i testi sacri (Corano e Sunna), in conformità con la Costituzione, facendo ricorso a una propria interpretazione e nei fatti praticando un vero e proprio iğtihād (sforzo interpretativo). Quello che potrebbe sembrare un mezzo per la costruzione di una legislazione islamica in ragione del ritorno alle "radici originali del diritto", in realtà dà la possibilità di passare il muro delle differenti interpretazioni lasciando autonomia alla scelta del legislatore o del giudice.

E tuttavia, proprio tale atteggiamento mette in evidenza come nella legislazione dello Stato così come nella giurisprudenza dell'Alta Corte Costituzionale egiziana, inevitabilmente portate a disporsi nel campo del diritto islamico a causa dell'art. 2 della Costituzione, diritto positivo e Š arī'a evolvono verso una situazione di aumentata interrelazione. "La loro coesistenza - sostiene Baudouin Dupret - non sembra più potersi analizzare in termini di parallelismo quanto in termini di interrelazione" (52). Se il diritto positivo rappresenta un corpus di regole costrittive applicabile in un luogo e in un momento dato, esso è anche il frutto di un processo di formalizzazione. In questo senso, una norma trovante il suo fondamento nella Šarī'a può ben adeguarsi al processo di "positivizzazione". Inversamente, la caratteristica di un ordine normativo di ispirazione religiosa è di fornire un quadro che è interdetto oltrepassare a causa del suo referente trascendentale. Di conseguenza è molto possibile che un sistema di diritto positivo si trovi islamizzato (53). Fenomeno tanto più interessante in quanto è il legislatore o il giudice a essere protagonista di questa operazione.

In effetti, almeno in linea di principio, il diritto musulmano in politica come in altre questioni si basa sulla rivelazione e quindi non è soggetto a cambiamenti. Esso non ha mai concesso potere assoluto al sovrano, né, salvo poche eccezioni, i sovrani musulmani sono stati in grado di esercitare un tale potere a lungo. L'autorità del sovrano, anche se suprema, è soggetta a una limitazione molto importante che deriva, come sottolineato da B. Lewis, dal concetto musulmano di legge (54). Nella concezione musulmana tradizionale, lo Stato non crea la legge, ma è esso stesso creato e mantenuto da questa, che proviene da Dio ma è interpretata e amministrata da chi ha competenze a riguardo. In effetti, la cosiddetta "vulgata giuridica islamica" divide la storia del diritto musulmano in quattro periodi, il primo dei quali è quello della Rivelazione coranica e l'ultima quello del taqlīd. Quest'ultimo è il "conformismo" giuridico, l'obbligo di seguire gli insegnamenti dei predecessori che pesa su tutti quelli che sono chiamati a formulare la regola giuridica. Il che significa, in termini pratici, che il giudice deve, anche attualmente, applicare la legge così come essa è stata applicata dai primi successori dei fondatori delle scuole; così come il sovrano (califfo, sultano o governo) incaricato dell'amministrazione della giustizia non può modificare le disposizioni del fiqh o a maggior ragione abrogarle. Ora, il fatto che il legislatore egiziano e l'Alta Corte Costituzionale nella riforma del 2000 facciano a meno del parere dei giuristi anziani andando a interpretare direttamente i diversi hadīс presenti nelle più autorevoli raccolte, senza nemmeno consultare i commentari coranici, rappresenta un evidente tentativo di apertura delle porte dell'iğtihād e di legittimazione, a fortiori, di una propria legge attraverso il riferimento alla legge islamica.

E' evidente che scegliendo l'interpretazione della Šarī'a che più confà alle sue proprie esigenze, lo Stato egiziano ha affermato il suo controllo sulla società ponendosi come centro unico di decisione e solo abilitato alla promulgazione del diritto, sebbene la conformità all'art. 2 della Costituzione testimoni il riconoscimento da parte dello Stato dell'autorità dell'ordine religioso, con le evidenti limitazioni che ciò comporta. Proprio quest'ultima nota mette in evidenza quel processo noto con il nome di "islamizzazione del diritto positivo" che ha preso forma in maniera nitida proprio con la legge del 2000.

In conclusione e al di là dell'utilizzazione del diritto come veicolo di cambiamento, si pone la questione della messa in opera effettiva delle riforme quando queste devono subire la concorrenza di altre norme, religiose e sociali, che regolano allo stesso modo i comportamenti individuali. Il legislatore è cioè riuscito a cambiare la prassi? (55)


Note

*. Costantino Paonessa è dottorando in "civiltà islamica" all'Università "La Sapienza" di Roma dove ha conseguito la laurea specialistica in diritto musulmano nella facoltà di Lingue e Civiltà Orientali. Nel 2008 ha seguito un corso della stessa materia all'École pratique des hautes études (EPHE) di Parigi.

1. Journal officiel du 29 février 2000, n.4 bis, p. 2 et s. La legge è entrata in vigore il 1 marzo 2000. Esiste sul tema una vasta letteratura in lingua francese: M. BERNARD - MOURIGNON, " Quelques développements récents dans le droit du Statut personnel en Égypte", Revue Internationale de Droit Comparé, 2004, nº2, p. 89 - 120; inoltre, dello stesso autore, " Normes et pratiques en matière de statut personnel: la loi sur le «khul'» en Égypte ", Maghreb - Machrek, nº182, Hiver 2004 - 2005, p. 77 - 98 e ancora "Dissolution du mariage et résolution non juridictionnelle des conflits conjugaux en Égypte ", Égypte/Monde Arabe nº1, 2005. Vedere in lingua inglese: O. ARABI, "Studies in Modern Islamic Law and Jurisprudence", Kluwer Law International, London/New York, 2001. E inoltre: B. DUPRET, M. BERNARD - MOURIGNON, "Twenty years of personal status Law in Egypt", Recht van de Islam, nº19, p. 1 - 19.

2. Sul matrimonio detto 'urīi (di costume), vedi: N. HAMAM, " Zawâğ'urfībayn al- šarīOa wa al- qânûn", al-'Asr li-l-Tabā'a, Cairo, 2008 e M. 'ŪZAMĪ, "al-Zawağal-'Urfī", Dār al-Fikr al-Ğāmi'ī, Alessandria, 1995. Vedi anche C. PAONESSA, "Il matrimonio 'urfī nella šarīOa e nel qânûn", tesi di laurea, Roma, 2009, n. p.

3. M. CHARFI, " L'influence de la religion dans le droit international privé des pays musulmans", Académie de droit international, III, 203, 1987, p. 326.

4. Cfr. M. BERNARD - MOURIGNON, 2004, p. 83 - 87 et J. N. FERRIÈ et B. DOUPRET, "Préférences et pertinences: analyse praxéologique des figure du compromis en contexte parlementaire. A propos d'un débat égyptien", Information sur les Sciences sociales, vol. 43, nº2, 2004, p. 263 - 290.

5. Cfr. H.A.R. GIBB, " Les tendances modernes de l'Islam", Librairie Orientale et Américaine, Paris, 1949, p. 121 - 122.

6. Cfr. J. SCHACHT, "Introduzione al diritto musulmano " ed. Fondazione Goivanni Agnelli, Torino, 1995, pagg. 108 - 109. (ed. or. "A introduction to Islamic Law", Clarendon Press, Oxford, 1964)

7. La parola significa "imitare", "seguire", "obbedire a qualcuno", Nella dottrina giuridica islamica il termine indica la semplice accettazione passiva delle regole delle scuole o l'obbligo a di seguire l'insegnamento dei predecessori negando di fatto il ricorso all' iğtihād.

8. Rifacendoci alla maggior parte dei manuali di diritto arabi o occidentali si è scelto di dare una definizione di kul' incompleta perché concernente uno solo dei due modi con cui si può effettuare questo genere di divorzio, così come si vedrà in seguito.

9. Cfr. E. FAGNAN, "Mariage et Répudiation", Adolphe Jourdan, 1909, Alger. Traduzione dell'opera di KALĪL Ibn IŠ'ĀK, "al-Muktasar".

10. Per la traduzione dei versetti del Corano si è utilizzata l'edizione di Alessandro Bausani. Cfr. A. BAUSANI, "Il Corano", BUR, Milano, XVI ed., 2005.

11. Letteralmente traducibile con: "racconto", "narrazione". Quando la parola è utilizzata con l'articolo designa la Tradizione riportante gli atti e le parole del Profeta, e il suo "tacito consenso" di parole o atti effettuati in sua presenza. Essi sono composti da due parti: il testo della tradizione (matn) e l'isnād, cioè la serie o catena di testimoni mediante i quali si è trasmesso il racconto e che si articolano all'indietro in serie continua.

12. Vedi dopo.

13. Cfr. Cfr. W. R. SMITH, "Kinship and Marriage in Early Arabia", Cambridge at the University Press, Cambrige, 1903, pagg. 112 - 114. Vedi anche annessa bibliografia.

14. Vedi dopo.

15. Y. LINANT DE BELLEFONDS, "Traité de Droit Musulman Comparé", Mouton & Co, Paris, 1965, pagg, 425.

16. Nell'ambito dell'ortodossia islamica quattro scuole (altre hanno finito per scomparire nel tempo) ufficialmente riconosciute come ortodosse: i quattro maxhab: Hanafita, Malikita, Šafi'ita, Hanbalita.

17. Cfr. MALĪK BIN ANAS, "al-Mudawwana al-Kubrā", trasmesso da Sahnūn bin Sa'īd, Dār al-Nasr li'l-tibā'a al-islamiyya, Cairo, s.d. pagg. 157 - 158, nota 2

18. Si è scelto di riportare le diverse forme con cui il marito può utilizzare la radice kl ' in modo tale da rendere effettivo il divorzio.

19. Vedi oltre.

20. Per esempio, se lo sposo taglia una corda che è retta insieme alla moglie per i capi, si ritiene avvenuto il divorzio, qualora la consuetudine del luogo ammette un tal significato a quegli atti. Stessa cosa se la moglie, per esempio, togliendosi il braccialetto, lo consegna al marito ed esce di casa, senza che il marito faccia atto di trattenerla. Cfr. D. SANTILLANA, op. cit., 1938, pagg. 274 il quale riprende gli esempi dalla Mudawwana di Malīk.

21. Cfr. Y. LINANT DE BELLEFONDS, op. cit., 1965, pagg. 430 e D. SANTILLANA, "Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita", voll.I, Istituto per l'Oriente, Roma, 1938, pagg. 273.

22. Le scuole sono tutte concordi sebbene la scuola hanafita abbia postulato una differenza tra la minore dotata di discernimento e quella sprovvistane che comporta degli effetti diversi sulla conclusione del divorzio. Cfr. Y. LINANT DE BELLEFONDS, op. cit., 1965.

23. Cfr. Ibidem, pagg. 430 - 433.

24. Cfr. Y. LINANT DE BELLEFONDS, op. cit., 1965, pagg. 307.

25. Tale opera è una compilazione pareri giuridici della scuola di Medina pronunciati dal fondatore Mālik ibn Anas e raccolte dopo la sua morte. Il termine è oggi impiegato in Marocco con il senso di codice.

26. Le domande sono rivolte a Malīk bin Anas dal suo allievo Sahnūn. L'intera opera è strutturata sotto forma di dialogo.

27. Cfr. MALĪK BIN ANAS, op. cit., pagg. 157.

28. Cfr. 'ABD RAHMAN AL-ĞAZĪRĪ, op. cit., s. d., voll. 1 pagg. 407. Per esempio, Kalīl Ibn Iš'āq, annovera anche: lo schiavo, il figlio dello schiavo, animali, colture e prodotti agricoli. Cfr. E. FAGNAN, op. cit., 1909, pagg. 100.

29. Gli Sciiti insegnano che non si può avere kul' senza compenso.

30. Cfr. Y. LINANT de BELLEFONDS, "Le kul' sans compensation en droit hanafite", Studia Islamica, Noº 31, 1970, pagg. 186

31. Cfr. Ibidem, pagg. 187.

32. Cfr. Ibidem, pagg. 188.

33. L'utilizzo della parola "parti" al posto di "coniugi o sposi" deriva dal fatto che alcuni giuristi hanno formulato anche la possibilità che una terza persona del tutto esterna alla famiglia della sposa possa pagare un'indennità al marito al fine di provocare il ripudio di quest'ultimo. Cfr. Y. LINANT de BELLEFONDS, op. cit., 1965, pagg. 429 con annessa bibliografia di autori arabi.

34. Concetto appartenente alla tradizione araba pre-islamica che giocherà un ruolo di importanza crescente nel corso dei primi secoli dell'Islam. Poco tempo dopo gli inizi dell'espansione dell'Islam, il termine sunna venne designando una norma generalmente riconosciuta o una pratica approvata dal Profeta nonché dai primi musulmani. Su istigazione degli šafi'iti la sunna del Profeta si vide accordare il rango di seconda fonte (asl) del diritto islamico, dopo il Corano.

35. Ci si riferisce ad al-Bukārī, Abū Dāwūd, al-Nasā'i (sono le collezioni da noi consultate), Ibn Māğa.

36. Cfr. Abū 'A. al-BUKARĪ, al-Sahīh, Cairo, 1985. Kitāb al-talāq, No. 4971/4973.

37. Cfr. Abū 'A. al-R. al-NISĀ'Ī, "Sunna al-Nisā'ī", Dār Sahnūn, Istanbul, Kitāb al-talāq/ 9461.

38. "Sono di sua proprietà" [N.d.T]

39. Cfr. S. Abū DĀWD, "al-Sunan", Kitāb al-talāq/ 2227, Istanbul, 1992.

40. Il hadīc è tratto dalla " Muwatta' ", Kitāb al-talāq, No.13. [N.d.A.]. Cfr. MALĪK IBN ANAS, op. cit., s.d. pagg. 178 - 179.

41. O. ARABI, nel suo articolo sulla riforma egiziana del 2000 cita a proposito un altro hadīc - riportato sotto l'autorità di Sa'īd ibn al-Musayyib (giurista medinese m. 94)- narrante la storia di Habība presente in un commentario della Mudawwana ad opera di Ibn Rušd (Kitāb al-Muqiddimāt li Bayān mā Iqtadathu Rusūm al-Mudawwana al-Šar'iyyāt) ove il concenso del marito è esplicitamente richiesto dal Profeta. Cfr. O. ARABI, op. cit.,2001, pagg. 166 - 167. Per la traduzione cfr. A. BAUSANI, "Il Corano", Sansoni, Firenze, 1978

42. Cfr. Abū Ğ. M. bin ĞARĪR al-TABARĪ, "Tafsīr al-Tabarī", Dār al-ma'ārif bi-masr, Voll. 4, pagg. 549 - 563, Tafsīr Sūra al-Baqara.

43. "A certain indeterminacy, if not contradiction". Cfr. Ibidem, pag. 183.

44. Sul concetto di Sunna si veda la seconda parte di questo lavoro. In ogni caso si consiglia la lettura di W. B. HALLAQ, "The Origin and Evolution of Islamic Law", Cambridge University Press, 1955.

45. Cfr. N. CALDER, "Studies in Early Muslim Jurisprudence", Clarendon Press, Oxford, 1993.

46. A tal proposito si consigliano gli esempi riportati da Calder, Ibidem, pag. 1- 19.

47. Cfr. O. ARABI, op. cit., p. 175 - 182. Sulle discordie giuridiche in merito al kul' senza compensazione vedi: Y. LINANT de BELLEFOND, "Le kul' sans compensation en droit hanafite", Studia Islamica, 31/1970.

48. Cfr. O. ARABI, op. Cit., p. 175 et s.

49. I paesi in questione sono la Siria (art. 95 a 104), il Marocco (art. 61 a 65), l'Iraq (art. 46), la Giordania (art. 102 a 112), il Koweit (art. 111 a 119), il Sudan (art. 142 a 150), lo Yemen (art. 72 a 74) e l'Oman (art. 94 a 97). Cfr. J. J. NASIR, op. cit., 2002, pagg. 115 e s.

50. Questo ultimo processo non rappresenta una novità. Durante le precedenti riforme dello statuto personale (1920 e 1929) la legislazione egiziana adotterà la dottrina malikita per trattare il divorzio della donna. Del resto le disposizioni in materia, nella riforma ottomana del 1917 erano fondate sull'autorità malikita e hanbalita.Per i dettagli vedere: N. J. COULSON, op. cit., 1995. p.178 - 180; N. ANDERSON, op. cit., 1976, p.39.

51. Vedi A. OSSAMA, op. cit., p. 177.

52. Cfr. B. DUPRET, op. cit., 1995, pagg. 107.

53. Cfr. Ibidem

54. Cfr. B. LEWIS, "Il linguaggio politico dell'Islām", ed. Laterza, Roma - Bari, 2005, pagg. 36 - 37. Titolo originale "The Political Language of Islam", University of Chicago, 1988.

55. Cfr. SONNEVAL S., "Six Years of Khul: The Local Impact of Egypt's New Divorce Law in Cairo", Documento presentato al meeting "The Law and Society Association", TBA, Berlin, Germany, Jul 25, 2007.