2005

Movimenti islamici, sfera pubblica, e tessuto associativo (*)

Armando Salvatore

L'idea del "pubblico" nelle tradizioni islamiche

Studiosi dei movimenti islamici contemporanei hanno recentemente mostrato un'attenzione crescente verso il modo in cui le tradizioni islamiche articolano concetti adeguati alle norme di un moderno sistema politico democratico. Tale attenzione, a sua volta, pone il problema della misura in cui queste norme, e le prassi fondate su di esse, si armonizzano con le regole immanenti al funzionamento di una "sfera pubblica" moderna. (1)

Le "tradizioni islamiche" vanno identificate attraverso le istituzioni e i discorsi a cui è affidato il compito di istruire i fedeli su come adempiere gli obblighi prescritti dalle norme religiose e dalle loro fonti (in questo caso principalmente il Corano e la sunna come fonti, e la sharica come sistema di norme). Questo tipo di istruzione non mira semplicemente a trasmettere una conoscenza tecnica, in quanto comprende anche l'insegnamento delle pratiche virtuose ritenute necessarie per riuscire ad adempiere tali obblighi. Per esempio, la memorizzazione del Corano presuppone un insieme di disposizioni morali e perfino emotive che si acquistano con l'istruzione religiosa. (2) Possiamo pertanto dire che queste disposizioni dipendono da forme istituzionalizzate di discorso autorevole.

In seguito all'intervento di varie generazioni di riformatori a partire dai secoli diciottesimo e diciannovesimo in varie società a maggioranza musulmana, come l'Egitto, tali forme tradizionali della 'ragione islamica' hanno acquisito una dimensione pubblica. Il processo di formazione di una soggettività musulmana virtuosa, originariamnete proiettata verso la salvezza dell'anima, si è progressivamente innestata in questioni afferenti al benessere collettivo (basato sul progresso socio-economico delle società a maggioranza musulmana) e al buon governo. In particolare, in tutto il mondo islamico dalla fine dell'Ottocento fino ad oggi i riformatori musulmani hanno ampliato l'area della competenza normativa della ragione pubblica islamica ad ambiti di interesse collettivo come la formazione del diritto pubblico e costituzionale degli Stati nazionali emergenti, la distribuzione della ricchezza e l'etica del lavoro, questioni di importanza vitale per qualsiasi società in via di modernizzazione. Tale trasformazione non deve indurre a credere che prima dell'avvento dei movimenti riformatori moderni le tradizioni islamiche fossero indifferenti alla regolazione del potere politico, del diritto e dell'economia. La giurisprudenza islamica (fiqh) si è sempre occupata di un'ampia gamma di questioni sociali che vanno ben oltre ben oltre gli obblighi cultuali, e ha sostenuto l'opera giurisprudenziale con un forte telos definito dalla prosperità della comunità die crdenti. Tuttavia un interesse ed un discorso generali per il 'bene comune' e il benessere collettivo articolato rispetto alle norme dettati dalle istituzioni dello Stato noderno, della società e dell'economia (oltre che la stessa concettualizzazione di queste tre sfere) si è sviluppato solo a partire dall'opera dei riformatori musulmani, dei loro progetti sociali (in particolare in campo educativo e sanitario) e dei media da essi controllati, nel contesto storico (per quel che riguarda l'Islam medio-orientale) della crisi e del crollo dell'Impero ottomano, del processo di decolonizzazione e della formazione degli Stati nazionali.

Il discorso pubblico, sia di 'mobilitazione' che di 'moralizzazione', dei movimenti sociali e intellettuali islamici che propugnano riforme in vari settori delle società arabo-islamiche contemporanee (3) opera pertanto attraverso l'invocazione delle virtù tradizionali, definite in termini religiosi, che legano la salvezza dell'individuo al benessere della comunità. Corollario di questa strategia discorsiva è che tali virtù devono essere rappresentate pubblicamente onde conservare e rafforzare la loro autorità sui credenti-cittadini. Le strategie di rappresentazione pubblica della virtù vengono quindi assoggettate alle regole della comunicazione all'interno della 'sfera pubblica' moderna. In questo contesto, tuttavia, la comunicazione non si limita a dispute di valori, conflitti di interesse, o giochi di rappresentazione finalizzati a vincere una competizione pubblica e mediatica, ma è usata per consolidare dei 'processi di civilizzazione' nel senso messo in luce da Norbert Elias, (4) cioè per inculcare degli schemi di controllo e di disciplinamento sui membri della comunità a cui si rivolge, per costruire e promuovere dei modelli di civiltà, delle discipline di appartenenza entro la comunità e di cittadinanza entro la nazione, che richiedono un amalgama più o meno coerente di obblighi e diritti. In uno studio del discorso pubblico dei riformatori musulmani nell'Egitto di fine Ottocento, Michael Gasper (5) mostra che questo discorso, scaturito entro una fascia di tensione fra la riforma di tradizioni islamiche e la costruzione dello Stato nazionale moderno e del suo impianto normativo, incorporava la nozione di un 'pubblico generale' (al-sawad al-aczham) da educare e modellare sul piano etico, e faceva spesso riferimento ai contadini come alla parte più recalcitrante della popolazione nella società o nella nazione in via di costruzione. Tale studio mostra come la nozione specifica di interesse pubblico (al-maslaha al-'amma) insita nel discorso dei riformatori musulmani e il tipo di azione sociale a cui essa si riferiva comprendessero allo stesso tempo elementi di deliberazione fra pari (fra interpreti autorizzati di norme islamiche con accesso ai media e fora di discorso, compresi quelli tradizionali come il sermone comunitario del venerdì), di disciplinamento del pubblico e di distinzione fra i ceti istruiti e quelli non (ancora) istruiti della società.

Come si collocano queste vicende rispetto alle concezioni teoriche dominanti della 'sfera pubblica', che affondano le loro radici nelle esperienze storiche di alcuni paesi chiave dell'Occidente e fanno da sfondo sociologico alle teorie della democrazia e della democratizzazione? Gli studiosi che si sono concentrati sulle vicende dell'Europa e del Nord America durante il diciassettesimo e il diciottesimo secolo hanno classificato come specificamente occidentale l'emergere della 'sfera pubblica', e tuttavia hanno considerato esemplari e di rilevanza universale tali percorsi. (6) La nascita e il consolidarsi del giornale e in particolare dell'argomentazione concisa su questioni di bruciante attualità e di interesse comune (come nell''editoriale'), sebbene offuscati dalla diffusione dei media elettronici, forniscono ancor oggi il perno del funzionamento di una sfera pubblica in cui anche le questioni riguardanti gruppi specifici e interessi locali devono essere formulate nel vocabolario dei diritti universali, dell'interesse generale e del 'bene comune'. Secondo questo modello interpretativo, la dinamica immanente alla deliberazione e ai suoi luoghi sociali (dai salotti letterari agli organi rappresentativi e alla stampa) sublima il particolarismo dell'interesse privato borghese nella razionalità superiore dell'interesse pubblico. Si è sostenuto che la stampa ha conferito una forma specifica all'atto stesso di proiezione pubblica, di pubblicizzazione del sé: la forma standardizzata della stampa è essa stessa una metafora dell'accessibilità pubblica e della considerazione del 'bene comune'. La stampa esige un agente del discorso rigorosamente disincarnato in grado di mettere fra parentesi la configurazione psicologica ed emotiva del sé privato (7)

Il concetto di sfera pubblica qui adottato consiste quindi di cinque elementi principali: un disegno normativo immanente (o una 'cultura dell'interesse pubblico'), il carattere di classe del discorso pubblico rispecchiato dalle competenze intellettuali presupposte nell'agente del discorso, le infrastrutture tecniche e le condizioni di mercato necessarie al dispiegarsi della comunicazione pubblica, e infine le discipline essenziali necessarie alla riappropriazione personale del discorso da parte dei lettori e degli spettatori/ascoltatori. Come si vede, la deliberazione pubblica, il fine immanente della teoria habermasiana della sfera pubblica, deve presuppore processi di disciplinamento e di distinzione sociali. In questo senso dovremmo interpretare la nascita della sfera pubblica moderna come una fase cruciale nel dispiegamento storico del processo di civilizzazione teorizzato da Elias. (8) Pur con tutte le differenze derivanti dai fondamenti dogmatici, cultuali e istituzionali delle tradizioni islamiche, in prospettiva comparata la nascita di una sfera pubblica nell'Egitto di fine Ottocento mostra molte analogie con i casi occidentali, essi stessi peraltro soggetti a variazioni di cui qualsiasi teoria generale della sfera pubblica ha problemi a render conto.

Abbiamo adesso un'idea preliminare del metodo da seguire per guardare al dibattito contemporaneo all'interno delle arene di dibattito intellettuali e delle sfere pubbliche delle società arabo-islamiche, dove un numero crescnte di pensatori di primo piano he preso la parola, nel corso degli anni novanta, per formulare interpretazioni complessive della civiltà islamica, dei suoi meriti e delle sue lacune, nonché delle condizioni di successo di un'articolazione islamica del discorso politico della modernità. Questo è il caso, ad esempio, del filosofo marocchino Muhammad cAbid Al-Jabiri e del suo collega egiziano Hasan Hanafi. (9) Già negli anni ottanta si era assistito a una crescita continua di questo genere di letteratura nella pubblicistica araba, ma è sintomatico che tali opere solo di rado abbiano catturato l'immaginazione di cerchie di pubblico non limitate ad ambienti intellettuali ristretti. Come evidenziato dagli sviluppi del decennio successivo, settori il pubblico più ampio hanno mostrato un interesse molto più vivo verso articolazioni di risposte a un tipo di questione assai più fondamentale di diagnosi di civiltà, e che riguarda direttamente la vita del cittadino medio: le prassi e le tradizioni religiose dell'Islam - tradizioni sottoposte a tensioni e a trasformazioni profonde e traumatiche, specialmente nell'era coloniale - sono in grado di offrire una guida per la condotta di vita, sia a livello personale, privato e familiare, sia in vista della partecipazione agli affari di una comunità più ampia, dalla famiglia alle reti locali di mutuo soccorso, alla nazione fino all'intera umma islamica?

Gli sforzi dei pensatori, delle associazioni e dei movimenti sociali islamici per tentare di dare un senso all'idea e al desiderio di vivere come buoni musulmani nelle condizioni di una modernità post-coloniale hanno la loro radice nei sommovimenti della fine degli anni venti, quando movimenti come al-ikhwan al-muslimun (i "Fratelli Musulmani") tentarono di impiantare il discorso riformatore in un più ampio movimento sociale delle classi medie, mobilitando in particolare ceto impiegatizio e docente, spina dorsale di un moderno Stato nazionale, onde adeguare l'Islam alle esigenze di edificare uno Stato nazionale moderno. Più di recente, la crisi del progetto nasseriano di sviluppo socio-economico in chiave nazionalistica e tendenzialmente autarchica - crisi maturata fra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta - ha creato nuove condizioni favorevoli a questo tipo di riflessione e di mobilitazione, diretto simultaneamente alla salvezza e all'autorealizzazione individuali, e al rilancio del benessere della comunità.

La domanda suscitata da queste vicende è la seguente: le aspirazioni incorporate nei successi e nei fallimenti della vita di una nazione moderna possono essere rivitalizzata attraverso la riattivazione di un insieme di 'competenze religiose', di tecniche di culto, di prassi di devozione, a sostegno delle individualità e a sostegno della collettività? Questo sapere religioso, registrato nei testi eruditi e amministrato da istituzioni e personale religiosi - gli ulama e le loro scuole - non è mai stato sradicato dal processo di modernizzazione e costruzione nazionale nelle società a maggioranza musulmana, con la parziale eccezione dell'Asia centrale ex sovietica. In alcuni casi questo sapere è stato addirittura rifertilizzato e potenziato, a vari livelli sociali (a cominciare dal volontariato), grazie alla sua integrazione nei progetti nazionali; ad esempio in virtù dell'impiego come insegnanti e predicatori, in ogni angolo della nazione egiziana, di laureati dell'università-moschea di al-Azhar a partire dagli anni cinquanta.

Se guardiamo all'intero processo dal punto di vista della 'cittadinanza', un concetto che è un po' la chiave del passaggio da una cultura del pubblico alla sua iscrizione nei fondamenti costituzionali di un sistema politico, esso appare più complesso. Laddove è emersa, la cittadinanza ha sostituito o surrogato, nel contesto della crescita e del consolidamento degli Stati nazionali, i sentimenti religiosi di appartenenza e di affiliazione che trascendevano i legami del clan, della famiglia estesa o di una tradizionale gang di quartiere. Un senso translocale di appartenenza è l'eredità che i modelli di cittadinanza hanno ricevuto dalle religioni universali. La cittadinanza ha quattro dimensioni principali: i diritti e gli obblighi, l'identità, la comunità politica e, last but not least, le risorse dello Stato sociale. A tenere insieme questo assortimento di componenti era ed è tuttora l'idea di una "virtù pubblica". Ci si aspetta che ogni cittadino ottenga diritti non come remunerazione dell'adempimento dei doveri, ma come strumenti che conferiscono il potere di agire per il bene della comunità. Adempiere i doveri ed esercitare i diritti sono entrambi atti virtuosi, che dipendono dall'acquisizione e dall'addestramento all'esercizio della virtù civica. Non sorprende che all'origine di questa visione della virtù ci siano concezioni esplicitamente religiose, anche se alterate, come in Rousseau oppure, anche prima, negli ideali della rivoluzione puritana in Inghilterra, o nella Ginevra di Calvino, o nei comuni medioevali animati dalle opere e dalle mediazioni sociali dei fraticelli.

Pur con tutte le differenze rispetto agli esempi occidentali, il movimento che negli ultimi venticinque anni ha assunto il nome di "islamismo" rappresenta l'ultimo stadio di un processo che tenta di iscrivere concezioni tradizionali, e religiosamente santificate, della virtù civica e del ragionamento pubblico in un sistema politico moderno. L'islamismo dovrebbe essere interpretato in modo più articolato che come una semplice politicizzazione della religione. La sua rilevanza politica non sta nel proposito di subentrare allo Stato ma in una ridefinizione delle fonti stesse della legittimità politica all'interno della società. Tale legittimità trova fondamento in una prassi di correttezza morale pubblicamente sanzionabile e talvolta definisce l'appartenenza alla comunità in un vocabolario di diritti e doveri paragonabile alla cittadinanza e che, al pari della cittadinanza della 'virtù repubblicana', mette l'accento più sugli obblighi che sui diritti. Comunque sia, tale legittimità islamica non può essere ridotta alla categoria di "ideologia politica moderna" (o peggio di un suo surrogato ideologico). Nonostanze le assonanze, la sua relazione con la cittadinanza resta problematica.

I processi di modernizzazione e globalizzazione di impronta occidentale, dipanatisi - in ondate successive - soprattutto negli ultimi due secoli, non hanno creato nelle società arabo-islamiche un dilemma fra occidentalizzazione e reislamizzazione (contrariamente a ciò che viene spesso percepito sia da attori sociali che da osservatori di varia collocazione). La conseguenza principale di questo processo è che la virtù fondata su discorsi e istituzioni tradizionali, nonché la costruzione di un soggetto responsabile verso il bene comune, sono rimaste in gran parte separate dai meccanismi di monopolizzazione della forza e di autonomizzazione del potere statale, e anche dai tentativi di ampliare e consolidare i diritti costituzionali. Possiamo dimostrare che ciò è dovuto a un difetto teologico dell'Islam o a una riluttanza ideologica del discorso intellettuale islamico ad appropriarsi degli standard del discorso politico della modernità? È preferibile evitare di limitare l'analisi a una diagnosi pregiudicata delle deficienze del discorso, e concentrarsi invece sul rapporto complesso e a volte ambiguo che intercorre fra la traiettoria del discorso e l'evoluzione delle strutture sociopolitiche.

In questo senso la globalizzazione denota il processo a lungo termine di adattamento delle prassi, dei discorsi e delle istituzioni di una data società o civiltà agli standard dettati dalla razionalità del capitalismo mondiale e dal sistema politico internazionale imperniato su Stati nazionali, processo che incorpora con sempre maggior vigore - specialmente a partire dagli anni novanta - la disseminazione di norme democratiche. Ma come ha messo in luce una parte della stessa teoria della globalizzazione, questo adattamento può avere successo unicamente se intercetta impulsi alla riforma delle culture nazionali o delle civiltà regionali. Per valutare l'evoluzione di tali norme non basta analizzare quello che il discorso asserisce (un'analisi del contenuto). Occorre esaminare come funziona il discorso stesso, ovvero in quali strutture della comunicazione è incorporato e quali effetti esso ha sia sulla base sociale che sulle maggiori istituzioni. Per questo motivo l'analisi non può che situarsi all'interno di un contesto di ricerca più ampio il cui oggetto è il processo storico di accumulazione e reciproca interazione dei diversi impulsi e modelli di ridefinizione dell'Islam, risultanti dalla combinazione di fattori endogeni e di vincoli globali. Questo processo ha luogo all'interno del campo di tensione tra le forme culturali specializzate e quelle popolari ritualizzate, entrambe interagenti con l'evoluzione delle strutture politiche ed economiche. Il disciplinamento e la distinzione sono i motori; la deliberazione è un risultato possibile, non necessario, del processo.

Possiamo distinguere tre fasi storiche.

  1. L'evolversi della funzione della specializzazione intellettuale nell'amministrazione della Parola scritta (il "virtuosismo della Parola") all'interno delle modalità islamiche tradizionali di articolazione di un ordine cosmologico e morale, nel quadro più ampio dell'emergere delle civiltà assiali, (10) oltre che dell'attività correlata di intrecciare le categorie chiave che hanno radici nel Corano. Questa è una vicenda endogena alla civiltà islamica, in seno alla più ampia logica assiale dell'universalizzazione dei percorsi di salvezza. Si prolunga fino alle soglie dell'età moderna, segnata dall'innovazione riformatrice dei movimenti revivalisti, pietisti e neo-sufi del diciottesimo e diciannovesimo secolo.
  2. La sovrapposizione di vincoli globali a queste dinamiche fondamentalmente endogene, dovuta alle influenze culturali e agli effetti del colonialismo europeo. Quest'ultimo ha contribuito alla formazione di Stati coloniali e delle corrispettive arene di confronto pubblico, mentre le influenze culturali hanno sovrapposto a forme di sapere endogene categorie orientaliste concernenti la religione, la civiltà e i loro ipotetici principi evolutivi. Entrambe le influenze - endogene ed esogene - hanno contribuito in misura rilevante all'emergere di un moderno discorso pubblico islamico.
  3. Il massiccio processo di 'reislamizzazione' degli ultimi trent'anni, avvenuto contemporaneamente alle riforme strutturali e ai provvedimenti di liberalizzazione economica in numerose società arabo-islamiche, che hanno reso più onnipresenti i vincoli globali attraverso le dinamiche della mercificazione e del consumismo.

Il risultato di questo processo lungo e complesso di trasformazione è un'espansione della funzione dell'Islam da impegno di fede e vettore di lealtà tradizionali, a fattore di mobilitazione sociopolitica e fonte versatile di cultura dell'impegno pubblico. Questo processo ha segnato non solo il campo della significazione simbolica e della formulazione dei discorsi, ma ha contribuito a conferire legittimità a un numero crescente di reti di produzione e di associazioni che forniscono una vasta gamma di servizi oltre che di beni, fra cui materiale stampato. Perciò l'emergente Islam pubblico riveste una funzione importante nella strutturazione delle norme e delle forme di vita, compresi i modelli di consumo, nella promozione dello sviluppo e del benessere, nell'implementazione dell'associazionismo civile e infine nel dispiegarsi della comunicazione e del discorso normativo all'interno della sfera pubblica propriamente detta.

L'affermazione storica dell'Islam come matrice di identità collettiva

La sociologizzazione della teoria dell'era assiale, che configura una rottura fondamentale risalente al sesto secolo a.C. - sia nelle regioni del bacino del Mediterraneo che in Asia - al livello del rapporto fra strutture sociali e cultura, riflette il bisogno di identificare una svolta storica importante che precede, contribuisce a spiegare e, in un certo senso, legittima la successiva svolta epocale della modernità. L'attenzione della teoria sociologica dell'era assiale si concentra sull'emergere di gruppi di specialisti incaricati di mediare fra la produzione di ordine comunicativo, e l'articolazione del concetto stesso di ordine. Questa classe di specialisti della Parola, rappresentata nel caso islamico in primo luogo dagli ulama ('i dottori della Legge') si formò dalla dissoluzione dell'ordine delle culture 'pagane' in cui predominavano forme di rituale e di magia che non dipendevano da alcuna formazione concettuale fondata sull'idea astratta e compatta di ordine, in quanto riflettevano il bisogno di regolare il corso di attività prevalentemente agricole o nomadi. L'articolazione dell'ordine, comprendente una dimensione morale e una cosmologica, fu compiuta con l'affinamento del concetto di 'trascendenza', che da caratteristica tecnica del linguaggio fu innalzata a chiave della soluzione del problema dell'ordine. È tipica delle civiltà assiali occidentali una combinazione di narrazioni di matrice ebraica e filosofemi greci che radica il concetto di ordine nell'idea di un Dio trascendente, creatore e legislatore dell'universo.

Mentre l'emergere della cristianità rappresenta un'ondata cruciale intermedia nel consolidamento dello spirito dell'era assiale (e nella sua colonizzazione dell'Europa) oltre che nel suo allargamento a gruppi sociali sempre più ampi, la nascita dell'Islam è l'ultima manifestazione di questa capacità di innovazione strutturale e culturale nella storia delle civiltà assiali. L'affermazione (coagulata in dogma) di Muhammad come sigillo dei profeti contribuì a fare dell'Islam una civiltà portatrice di una soluzione al problema dell'ordine potenzialmente diversa da quella che prese forma gradualmente nell'Europa cristiana e si condensò gradualmente nell'entità più ampia che oggi chiamiamo Europa o - tenendo conto delle sue propaggini transatlantiche - 'l'Occidente'. Tuttavia sia la civiltà islamica che quella dell'Europa cristiana - nonostante la loro espansione sia in Asia che in Africa - si inseriscono saldamente nel modello occidentale, diverso da quello dell'Asia orientale, che fa a meno del concetto di un Dio personale e trascendente. Di conseguenza l'articolazione islamica dell'ordine è in un certo senso l'incorporazione storica più coerente del modello delle civiltà assiali occidentali, in quanto essa è erede di una successione di civiltà e di corrispondenti soluzioni al problema dell'ordine, comparabili ma concorrenti, e radicatesi nell'arco di circa un millennio dall'inizio della svolta assiale all'avvento dell'Islam. (11)

È evidente che l'attività di definire e amministrare l'ordine cosmologico e morale non è mai stata politicamente neutrale, perché fu messa a profitto da leader religiosi e 'intellettuali' in congiunture storiche diverse, nel contesto della negoziazione delle coalizioni dominanti e dell'articolazione di movimenti di protesta, nell'ambito di conflitti di egemonia riguardanti la versione di ordine da imporre alla comunità. Un elemento cruciale di questa dialettica fra segmenti diversi dell'élite è il fatto che la formulazione, a opera dei ceti intellettuali, di un ordine cosmologico fondato sulla trascendenza, parallelo a un ordine morale legato alla salvezza, non ha reso l'ordine della comunità - ovvero ordine politico - né autonomo (questo riconoscimento è un risultato fondamentale della modernità) né dipendente dall'ordine cosmologico e morale. Il legame tra verità trascendente e il campo della politica è dato in questo caso dal concetto - necessariamente ambiguo - della responsabilità di chi governa verso Dio o, più precisamente (come è chiaro nel caso islamico), verso la Legge di Dio. (12) In questo senso, in circostanze normali gli amministratori dell'ordine trascendente non sono mai stati direttamente cooptati nelle funzioni di governo, o anche semplicemente nel provvedere giustificazioni ideologiche alle formazioni politiche (a eccezione dei regimi di teocrazia e cesaropapismo, molto rari nella storia dell'Islam). L'opera dei guardiani della tradizione è stata piuttosto quella di produrre formule per legittimare l'integrazione dei singoli fedeli nella più vasta comunità die credenti, e di definire il soggetto e le sue obbligazioni verso la comunità, sulla base di una dottrina soteriologica e delle connesse pratiche cultuali.

Il paradosso di queste dinamiche è che, se è vero che in quanto modellatori del principio di un ordine supremo le elite religiose si sono impegnate a garantire la stabilità sociale (un corollario pratico del principio dell'ordine), l'imperativo della responsabilità del sovrano verso Dio e la sua Legge ha operato come una fonte di instabilità permanente e da ultimo di ciò che chiamiamo 'mutamento sociale', in quanto ha legittimato movimenti di opposizione a pratiche di governo considerate difformi dalla Legge. A partire dalla rottura assiale il conflitto sociale è diventato intrinsecamente complesso, per il fatto di dover venire espresso in un linguaggio privo di riferimenti localizzati a discrete questioni e conflitti, ma evocante invece affiliazioni universalistiche derivate da imperativi ultimi. Tuttavia questa funzione del discorso promotrice del cambiamento non fu mai riconosciuta come un valore in sé (questo sarà un attributo primario della modernità) ma fu sempre ricostruita nei termini del dovere di elaborare la prassi e l'interpretazionecorretta dell'ordine trascendente. Il conflitto e il cambiamento furono sempre una sorta di effetto collaterale non desiderato di questo obbligo fondamentale.

Depurata dagli aspetti più contingenti della dinamica comunitaria, la specificità fondante della genesi del din ('religione') coranico poggia su di un'interpretazione della responsabilità individuale altrettanto forte di quella che si può trovare in qualsiasi altro percorso di salvezza assiale occidentale. Va anzi sottolineata la perdurante assenza, all'interno della corrente principale ortodossa sunnita dell'Islam, di una mediazione fortemente istituzionalizzata della trascendenza, come invece avviene nelle chiese cristiane e specialmente nel loro prototipo, la Chiesa cattolica romana. D'altra parte la più forte definizione in termini astratti dei vincoli comunitari, che fu il risultato della combinazione di conversioni individuali e alleanze tribali nella fase nascente dell'Islam, ha portato a pensare la comunità dei credenti in due modi logicamente alternativi ma spesso coniugati in pratica. Una prima alternativa fu quella di approssimare il più possibile le regole giuridiche al paradigma del "profeta governante", nei limiti consentiti dai rapporti di forza reali e dalla situazione politica e sociale di una detrminata comunità: una prassi dominante fra gli ulama e nella disciplina centrale del fiqh, la giurisprudenza islamica, sostenuta dalla figura circolare del consenso fra i dottori della legge, l'ijmac, come ultima istanza di convalida della verità. L'altra alternativa fu la costruzione utopica di un sistema normativo (sharica) emanante direttamente dalla volontà legislatrice di Dio (sharc), l'adesione al quale poggia sulla facoltà del singolo credente di trascendere la sua natura puramente umana secondo l'esempio (la sunna) del Profeta. Si può qui ravvisare un fattore di forza nel concetto islamico di ordine che è più inerente al suo carattere di ultima e in un certo senso "postuma" civiltà assiale, che alla caratteristica di "religione di guerrieri" sottolineata da Weber: tale fattore consiste nella maggiore capacità dell'Islam di esprimere un'interpretazione dell'ordine al contempo assai minimalista (come nella prassi casuistica del fiqh) e marcatamente massimalista (come nell'utopia della siyasa sharciyya: del governo basato sulla Legge), e di giustificare entrambi gli estremi mediante lo stesso paradigma soteriologico.

Incapsulare l'originalità delle dinamiche delle società musulmane in un tipo di modello ciclico ispirato alla teoria del pensatore medievale Ibn Khaldun, e vedere la modernità come una rottura che interviene in questo processo dall'esterno e fornisce una sponda all'opzione riformatrice, (13) significherebbe oscurare la fondamentale peculiarità assiale della religione coranica (din). Già al tempo della rivelazione coranica - o meglio della sua registrazione in forma scritta - questa nozione era abbastanza reificata nella forma di un 'sistema' apprezzato consapevolmente. (14) Il successivo processo cumulativo di reificazione era già molto avanzato, e probabilmente aveva già oltrepassato una soglia critica, quando il sistema coloniale europeo cominciò a imporsi su società arabo-islamiche del Nord Africa e del Medio Oriente, a partire dalla fine del Settecento (a partire dalla spedizione napoleonica in Egitto, Siria e Palestina).

Una fase importante di questo processo di reificazione fu la sistematizzazione a opera degli ulama dei due concetti chiave in cui si scindeva il significato pluridimensionale del din, vale a dire iman e islam, alla cui correlazione fu data rilevanza sistematica dallo studioso hanbalita medievale Ibn Taymiyya. L'approfondimento del processo di reificazione, come processo di cristallizzazione di una prassi o di un atto in un concetto oggettificato, ebbe luogo specialmente con riferimento al secondo concetto, islam, che ha acquisito gradualmente una preminenza incontrastata nel designare quelle che in effetti chiamiamo, senza esitazioni, la religione e la civiltà dell''Islam'. Secondo questa classificazione, iman (che possiamo tradurre imperfettamente come "fede") sarebbe la chiave per costruire l'impegno soggettivo del singolo credente, mentre islam è il veicolo della reificazione del din come espressione della sua dimensione comunitaria, intersoggettiva, e 'pubblica'. In virtù di questo processo di reificazione di islam come la parola chiave del riferimento alla comunità, nonché della sua proiezione universalistica, il din coranico è arrivato alla soglia dell'età moderna articolato in un reticolo di categorie e tipi discorsivi che lo hanno reso particolarmente idoneo a sostanziarsi in un principio di 'ragione pubblica'.

I movimenti revivalisti, l'impatto europeo e l'emergere dell''Islam pubblico' moderno

I movimenti 'revivalisti', pietisti e neo-sufi del Settecento e dell'Ottocento, che animarono molte regioni semiperiferiche del mondo musulmano dal Maghreb all'Asia sudorientale, testimoniarono una brusca accelerazione della variabilità consentita dall'impostazione interpretativa basata sulle scritture, e il conseguente emergere di un asse normativo che favoriva una proiezione nel futuro non meramente chiliastica, un'enfasi non puramente esoterica sul disciplinamento del soggetto e, in gran parte come prodotto di entrambe, l'accentuazione di ciò che rappresenta l'essenza dell'Islam come principio di ordine sociale. Peter Gran, esaminando la 'rinascita' islamica delle turuq (confraternite mistiche - sufi - islamiche) nell'Egitto del Settecento, in un contesto di profonde trasformazioni socioeconomiche, pone l'accento sul concetto di tahdhib, una nozione di raffinamento e disciplinamento che in quella fase usciva dall'ambito ristretto dell'abnegazione mistica e - sebbene ancora con molte ambiguità - cominciava ad abbracciare una concezione più socializzata del credente, o come minimo un rapporto di tensione fra la rinuncia del sé e le prassi socio-economiche. (15)

In questa fase tuttavia i passi significativi verso, per così dire, un'essenzializzazione e socializzazione disciplinare dell'idea del credente musulmano non condussero ancora a una reificazione piena di un concetto di Islam pubblico. L'elevazione dell'atto di sottomissione alla volontà divina significato dall'Islam a un livello di soggettività socialmente immanente non condusse a una visione pienamente reificata dell'ordine sociale, all'articolazione di una nozione organica di 'società' e a un concetto funzionale di 'ragione pubblica'. In tale fase l'orizzonte della salvezza era ancora saldamente iscritto in una dimensione dominata dalla trascendenza.

Questa svolta revivalista non bastò quindi a porre i presupposti di un discorso politico della modernità, che era stato caratterizzato, in omologhi casi occidentali, dall'emergere di concetti e prassi riferiti alla 'sfera pubblica' durante il Seicento e soprattutto il Settecento. (16) Nondimeno la rinascita islamica fu una condizione necessaria per l'avvento della modernità in quanto gettò i semi di una nozione socializzata del musulmano. Vari movimenti revivalisti dell'Africa settentrionale e occidentale condussero perfino alla fondazione di forme nuove - e in questo senso non tradizionali - di dominio politico, come nel caso dei movimenti neo-sufi e mahdisti della Cirenaica, del Sudan e della Nigeria. (17) Tuttavia le condizioni sufficienti a dare inizio alla dinamica di legittimazione pubblica del governo politico all'interno dei principali centri di insegnamento e di potere sociale del mondo musulmano - compreso il basso Egitto - non erano ancora mature durante la fase iniziale del forte impatto del colonialismo europeo, che divenne sempre più pressante durante la seconda metà dell'Ottocento. Un indizio di quanto l'impeto normativo dei movimenti revivalisti mancasse ancora del sostegno di una discorsività pubblica è il fatto che solo con la nascita di un'infrastruttura di una sfera pubblica moderna fondata sulla stampa la parola sharica iniziò a consolidarsi in Egitto come un concetto astratto capace di mediare normatività sociale, come il principale punto di riferimento sistemico della dimensione immanente delle interazioni comunitarie, e quindi come entità distinta dal diritto applicato dalle corti e anche dalla scienza giuridica incaricata di dargli senso (il fiqh). (18) In questo contesto, la nozione di tahdhib (raffinamento della persona) - insieme ad altre - iniziò ad avere un senso entro un genere parzialmente nuovo di discorso islamico che incorporava sempre più il tema della prosperità economica e delle sue necessarie condizioni sociali e morali fra le virtù del credente illustrate e propagandate dalla stampa nascente. (19)

Il riferimento al sistema normativo incorporato dalla sharica rappresenta efficacemente la logica discorsiva del processo attraverso il quale l'Islam è divenuto la categoria ombrello di una tradizione discorsiva che traduce un ordine trascendente più generale in un insieme di norme sociali. L'ambiguità del termine islam, come della maggior parte delle altre parole chiave ad esso associate, sta nel fatto che, sebbene esso copra un insieme di obblighi sociali, continua a significare l'atto di accettazione personale di un Dio trascendente. Questa ambiguità si è trasformata in un elemento di forza nella comunicazione pubblica e nella mobilitazione politica, perché ha costituito il tramite per ottenere il consenso di strati sociali sempre più ampi, parallelamente al loro accesso alla sfera pubblica (o anche in assenza di un accesso diretto, in quanto la parola scritta ha effetto sugli analfabeti, attraverso l'opera dei circoli che si formano, anche spontaneamente, intorno al compito di leggere un libro, un opuscolo, un giornale).

La domanda da porre in prospettiva comparata è in quale misura la conversione di una religione personalizzata (o addirittura privatizzata) in uno strumento di 'ragione pubblica' sia normativamente compatibile con moderni processi di differenziazione sociale e democratizzazione politica, o se invece contraddica la logica di questo processo. La prima considerazione da fare riguarda la tesi di un'assoluta improponibilità di tale conversione, una tesi fondata sulla versione liberale della distinzione fra sfera privata e sfera pubblica. Si deve a questa concezione la versione classica della teoria della secolarizzazione, che spazia dalla critica illuministica della religione al paradigma fondativo della sociologia. Tale obiezione liberale va valutata come una fra le varie possibili - benché egemonica - versione normativa della modernità occidentale, ma non comunque come un assioma da adottare necessariamente in una prospettiva di sociologia storica comparata. (20)

Dal punto di vista analitico, la principale differenza con i percorsi storici occidentali è la presenza meno vincolante, nel caso arabo-islamico, di un'entità monopolizzatrice dell'uso della forza, lo Stato moderno, entità che rivendica una particolare legittimazione del processo di monopolizzazione in competizione con un'istanza centralizzata di articolazione dell'ordine assiale, la Chiesa. La relativa debolezza della legittimazione della monopolizzazione della forza nelle società arabo-islamiche ha ostacolato la formazione di un solido culto 'laico' della comunità adatto a legittimare lo Stato. Di conseguenza è stata meno forte il bisogno di formulare esplicitamente una dislocazione della tensione fra individuo e società in due regioni distinte ma non del tutto dicotomiche dell'io sociale come la sfera privata e la sfera pubblica. Sarebbe un errore però rinunciare a leggere nel mutamento di funzione e di significato che le parole chiave coraniche hanno subito nel corso della storia islamica una tensione simile e uno sviluppo paragonabile, caratterizzati da un processo di riduzione, reificazione e funzionalizzazione dei termini usati, come nel caso citato di iman e islam. Resta pur sempre vero che nelle società arabo-islamiche una cultura del pubblico è emersa solo con il tardo consolidamento degli Stati moderni sotto l'influsso diretto o indiretto del colonialismo.

Abbastanza spesso, entro la sfera pubblica delle società arabo-islamiche, le posizioni islamiste si avvicinano - pur con le dovute differenze - alle concezioni occidentali della sfera pubblica imperniate sulla 'virtù repubblicana', e si offrono come piattaforme di critica della riduzione della dimensione pubblica della società all'interazione fra gli interessi di unità atomizzate, oltre che della messa al bando di ogni criterio di moralità dalla sfera pubblica. (21) La legittimità morale storicamente fragile degli Stati nazionali arabi si somma all'impeto delle critiche normative islamiste dei modelli dominanti di istituzionalizzazione della dicotomia pubblico-privato, oltre che al loro impulso a ricostruire forme del pubblico a livello locale oltre che transnazionale (e talvolta globale), quindi aggirando il livello dello Stato nazionale senza imbarazzi ideologici.

Ricapitolando, se si mantiene entro questi termini 'minimalisti' la concettualizzazione dell'emergere di un discorso politico e sociale della modernità, non è difficile concepire una versione arabo-islamica di questa innovazione che differisce da quella occidentale, in primo luogo, per l'effetto più debole dei processi di formazione dello Stato moderno, dovuta all'erosione protrattasi troppo a lungo dell'equilibrio di potere fra centri politici e periferie; (22) in secondo luogo, e probabilmente in via subordinata, per il carattere 'tardo' assiale e quindi fin dall'inizio più reificato dell'Islam; (23) in terzo luogo, per il più basso livello di gerarchizzazione e la maggiore frammentazione della mediazione normativa da parte dei ceti istruiti all'interno dell'Islam sunnita (tali elementi non hanno soppresso, ma hanno proporzionalmente indebolito l'impulso di rottura dei movimenti revivalisti e pietistici, che non hanno quindi catalizzato rotture paragonabili alla Riforma protestante e all'Illuminismo); e infine per le dinamiche del colonialismo e del neocolonialismo, che hanno sovrapposto una logica esogena e globalizzante agli sviluppi endogeni di lunga durata.

È chiaro tuttavia che nella logica dei movimenti islamisti contemporanei, che ereditano e riattualizzano tale complessità storica, sia la ridefinizione del soggetto, che la ridefinizione dei confini e della legittimità della comunità politica non si proiettano necessariamente verso la riappropriazione della legalità consolidata di uno Stato esistente: (24) e questo è un punto centrale delle concezioni non solo liberali ma anche repubblicane della sfera pubblica. Questa 'carenza' del discorso islamista si concilia male con l'idea habermasiana di una convergenza necessaria fra dinamica della sfera pubblica e garanzie costituzionali. (25) La conseguenza paradossale è che questa disarmonia non sopprime necessariamente la potenziale razionalità deliberativa della comunicazione pubblica, ma frammenta il potenziale consensuale dei percorsi di istituzionalizzazione, che di conseguenza possono anche sfociare in dinamiche secessioniste, cioè nell'impulso a ricreare normativamente delle comunità pienamente autonome, come è avvenuto a più riprese nella metropoli del Cairo durante gli anni novanta (il caso più eclatante è l'emergere di un 'emirato' nel distretto di Imbaba all'indomani del terremoto del 1992, e la sua successiva 'riconquista' da parte delle forze di sicurezza egiziane).

I vincoli globali, le dinamiche di consumo, e l'interesse dello Stato nazionale di fronte alle forme emergenti di Islam pubblico

Nella società egiziana, durante l'ultimo trentennio del ventesimo secolo, i vincoli globali della liberalizzazione economica e della mercificazione, compresa la trasformazione di un mercato del lavoro intellettuale non più alimentato dalla garanzia statale di un salario minimo per i laureati, hanno accompagnato la formazione di diversi tipi di reti associative islamiche. La loro ricerca di nicchie e vantaggi comparati nella produzione di beni e soprattutto servizi servono a sostituire o surrogare uno Stato post-nasseriano in graduale ritiro dai suoi impegni nel campo del welfare e della giustizia sociale (sebbene non si tratti necessariamente di uno 'Stato in ritirata' tout court). Una vasta gamma di ricostituite micro-comunità islamiche (con o senza uno status associativo formale, in quanto la formalizzazione le assoggetta a una rigida regolamentazione statale) svolge funzioni organizzative e di mediazione nel campo della produzione di beni, della fornitura di servizi, della diffusione di discorsi di ordine e giustizia sociale, o addirittura (come nel caso di Imbaba e in altri paragonabili) nel campo dell'amministrazione della giustizia e della garanzia dell'ordine sociale. La correlazione fra deistituzionalizzazione della mediazione religiosa e pluralizzazione delle funzioni sociali riguarda sia le jamacat ('società') islamiche militanti, che le jamciyyat ('associazioni') caritatevoli e solidaristiche, oltre che un ampio ventaglio di imprese orientate al profitto, che vanno dalle cosiddette banche islamiche alle librerie e agli editori islamici. (26) In un certo senso, questa correlazione esiste indipendentemente dal fatto che i leader di una rete, di un'associazione o di un gruppo islamico abbiano verso lo Stato un atteggiamento ostile, indifferente, parassitario o leale.

Sarebbe però un cortocircuito concettuale trarre la conclusione di una relazione positiva fra movimenti islamici e 'società civile', essendo quest'ultimo un concetto molto celebrato ma altrettanto problematico. Non sorprende che nel corso degli anni novanta questa categoria, che ha svolto un ruolo centrale nella filosofia morale e nella teoria sociale occidentali a partire dall'Illuminismo, sia stata cannibalizzata dagli scienziati sociali in cerca di un paradigma ecumenico e inclusivista per mettere d'accordo gli intransigenti e gli scettici della modernizzazione nell'ambito degli studi sociopolitici sulle società arabo-islamiche. In questi studi di area il concetto di società civile è stato collassato in una nozione di società politica, con ciò mettendo fra parentesi la natura dei legami 'prepolitici' di interesse e solidarietà così essenziali all'idea di società civile, che per Hegel si impernia su istituzioni 'tradizionali' di base di tipo corporativo e professionale, e sui reticoli di interesse, fiducia e solidarietà da esse supportati. Le associazioni islamiche solidaristiche, fornendo un ampio assortimento di servizi (medici, educativi, di sostegno alla famiglia ecc.), riflettono in qualche misura tale concezione, e diventano il veicolo della 'fiducia locale', (27) e solo secondariamente e potenzialmente della partecipazione politica. Dopo tutto, il potere carismatico dell'arbitrato e il primato dei legami personali sulla normazione sono dovunque essenziali per il funzionamento della società civile. Una società civile che sfugga a qualsiasi forma di wasta (mediazione autorevole o perfino intercessione) è inconcepibile anche nei modelli storici occidentali imperniati sulla figura del contratto.

Tenuto conto di tutti i limiti dell'applicazione di tale concetto alle vicende socio-politiche delle società del Nord Africa del Medio Oriente, e in particolare ai movimenti islamici, possiamo concepire la società civile come una forma particolare di capitale sociale, come lo stadio di coagulazione di una fiducia locale prepolitica, una condizione necessaria anche se non sufficiente per edificare una sfera pubblica vibrante e almeno potenzialmente politica, che a sua volta è una condizione necessaria ma non sufficiente della democratizzazione del sistema politico. Quindi dal nostro punto di vista la società civile è interessante in quanto potenziale promotrice di una cultura del pubblico. Il modo in cui la vita associativa religiosa ha ricostituito uno spazio per regolare il comportamento sociale ha contribuito a spianare la strada alla resurrezione di una forma di virtùcivica, sostenuta dall'idea di una continuità fra eccellenza personale e rettitudine, oltre che dall'impegno sociale a favore del benessere della comunità a partire dalle sue fasce più deboli. Rappresentare nel discorso pubblico questo tipo di virtù con basi religiose, come nel caso del leader islamico Mustafa Mahmud - fondatore della più famosa jamciyya islamica del Cairo e autore e conduttore di una serie molto popolare di documentari televisivi su 'scienza e fede' (28) - è stato ed è la chiave per colmare il divario fra il discorso pratico e l'utopismo in un ambiente (come quello urbano egiziano e specialmente Il Cairo) in cui una quantità importante e crescente di comunicazione - compresi vari generi di discorso islamico - passa attraverso i media elettronici.

In un contesto nel quale le capacità di repressione e di controllo dello Stato sui cittadini sono tecnicamente intatte o si sono state addirittura affinate, ma non sono più sorrette da un'adeguata legittimazione come quella conseguita negli anni ruggenti del nasserismo, far sfoggio di una virtù pubblica con radici nell'autorità e nel carisma di matrice religiosa - una sorta di 'correttezza politico-religiosa' - è una condizione cruciale dell'efficacia del discorso, e la storia del successo di Mustafa Mahmud sta a dimostrarlo. Partito come medico, romanziere e non da ultimo come intellettuale marxisteggiante, egli ha riarticolato il discorso islamico mediante una varietà di generi che va dalle rappresentazioni teatrali, al tasfir (autorevole commento) del Corano, fino al documentario televisivo. Una delle ragioni principali del successo di Mustafa Mahmud è che il suo discorso non è di natura puramente politico-intellettuale, come quello del filosofo Hasan Hanafi, ma poggia su una pretesa di continuità tra il suo percorso personale verso la realizzazione della virtù religiosa e l'ethos della comunità propagato sulla sua base: attestato anche dall'opera sociale della sua jamciyya.

Vediamo qui all'opera, in un percorso che taglia trasversalmente 'società civile' e 'sfera pubblica' (e quindi ne relativizza i presupposti normativi), degli esempi di un discorso di matrice islamica che articola il rapporto fra salvezza individuale e ordine sociale. Non c'è qui un nuovo disciplinamento del credente, del musulmano, che sostituisca le visioni della cittadinanza ritagliate in toto sullo Stato nazionale. La rappresentazione deve rispondere alle regole della comunicazione pubblica che privilegia la plausibilità dell'argomentazione e la credibilità dell'agente del discorso. Il sé privato di quest'ultimo è messo fra parentesi e ridisegnato secondo queste regole. I 'consumatori' di tali discorsi fanno un uso contingente della morale rappresentata in pubblico. La duplicità di certi usi non prova la loro mancanza di effettività. I membri del pubblico hanno realmente il potere di cambiare la propria vita in risposta a questi stimoli, in meglio o in peggio, per un periodo breve o lungo. D'altra parte un autore, una star della comunicazione, non può vendersi bene sul mercato e acquistare autorità se il pubblico non ha delle prove cumulative che il suo esempio e il suo insegnamento funzionano - e vendono - bene. In questo modo l'Islam svolge - in vari casi per mezzo di icone di tipo in gran parte nuovo, come Mustafa Mahmud - una funzione di disciplinamento efficace anche se ambigua, in un'era in cui le priorità delle autorità statali si riducono gradualmente a negoziare con le istituzioni finanziarie internazionali e a garantire la continuità delle strutture autoritarie di governo, attraverso la riproduzione continua della sfida degli estremisti e dei 'terroristi' (al-irhab) che occupano le frange estreme della nebulosa islamica e faticano - anche dopo l'11 Settembre 2001 - ad acquistare centralità propositiva, anche perché gli spazi mediatici locali e nazionali non sono facilmente soggetti a infiltrazioni. Una diagnosi del possibile impatto dell'11 Settembre richiede tuttavia molti più dati e anche più distanza temporale dall'evento e dalle sue conseguenze.

Non siamo in presenza di una situazione in cui lo Stato delega autorità morale ad attori religiosi docili, ma di una trasformazione strutturale delle regole della comunicazione pubblica dopo il tramonto del nasserismo. Lo Stato non può più pretendere il monopolio della concezione e realizzazione di un progetto coerente di formazione civile e disciplinamento morale. Nondimeno il risultato non è l'offuscamento dei confini fra religione e politica o la loro sovrapposizione. Anche quando la completezza rassicurante di una cosmologia autosufficiente non è più disponibile, nelle società arabo-islamiche in via di modernizzazione invocare Dio e seguire l'esempio del Profeta è ciò che permette alla comunicazione religiosa di continuare a operare sulle coscienze in modi che non possono essere mai completamente assimilati agli strumenti per mezzo dei quali le autorità statali si assicurano la lealtà dei cittadini e dei clienti. Non sorprende che nel contesto di una sfera pubblica almeno parzialmente autonoma rispetto a dottrine statali ufficiali la comunicazione religiosa offra un campo privilegiato di riflessione e diagnosi autonome sul destino della società, e in particolare delle classi medie in senso lato.

Questo vale anche nel caso della Siria e del suo governo autoritario, durevole e ancora intatto. Nonostante la passata delicatezza dei temi islamici, dovuta alla radicata ostilità fra il partito bacth al potere e l'opposizione fuorilegge degli ikhwan (i 'Fratelli Musulmani'), nel corso degli anni novanta ci sono state in questo paese numerose occasioni pubbliche di riflessione e dibattito sull'Islam e sul significato di essere musulmani oggi. Una delle principali ondate di fermento sollevatesi nella vita pubblica siriana è stato il 'dialogo' (hiwar) fra i rappresentanti della intellettualità laica di sinistra, tradizionalmente forte, e quelli della sempre più influente corrente islamica moderata. Questa ondata ha probabilmente raggiunto il suo culmine con due pubblicazioni che riflettono i dibattiti pubblici della fine degli anni novanta. (29)

L'oggetto del dialogo fra intellettuali laici e islamici è l'Islam inteso più come tradizione civilizzatrice che come ispiratore di una piattaforma politica. Il regime di Assad può aver avuto un interesse immediato a permettere questo dialogo, al fine di manifestare un potere di mediazione fra queste due correnti intellettuali, nessuna delle quali è stata mai completamente sottomessa al governo bacth. Ma indipendentemente dagli obbiettivi della ristretta élite al governo, il dialogo rivela gli interessi specifici dei partecipanti e dei moderatori. Indica in quale modo tale posizioni largamente autonome contribuiscono a creare un nuovo pubblico composito che taglia trasversalmente gli interessi particolaristici e di classe, e ha una consapevolezza più autoriflessiva di ciò che modella la tradizione islamica. Il dialogo nascente, al quale hanno preso parte personalità fra cui lo sciita 'radicale', l'ayatollah Muhammad Husayn Fadlallah, un ingegnere civile 'liberale', Muhammad Shahrur, un predicatore televisivo salafi e professore universitario, Muhammad Sacid Ramadan al-Buti, e un filosofo marxista, Tayyib Tizini, contribuisce anche a stabilire delle procedure di dibattito pubblico che iniziano a oltrepassare l'argomento Islam e a coprire uno spettro più ampio di questioni di interesse collettivo.

La tradizione illuminista universalista ci dice che non si può accettare la tutela di qualsivoglia autorità costituita. Tuttavia nel dibattito pubblico siriano ogni partecipante è disposto, per ragioni di 'metodo', a partire dal testo sacro. Perché questo consenso sul testo? Perché il testo è presente nella prassi sociale e regola istituzioni sociali vecchie e nuove. In questo senso è una fonte importante di ragione pratica. Fare a meno del testo significherebbe violare una prassi sociale accettata e con ciò mettere a repentaglio un consenso illuminato sul metodo. Il pomo della discordia nello hiwar fra Tizini e al-Buti non è l'alternativa fra unità e complessità dell'Islam, ma quella fra la sua autonomia e la sua incorporazione sociale. Dal punto di vista delle scienze sociali sono importanti entrambe. Diremmo che l'incorporazione è inevitabile, ma che se attraverso di essa riducessimo il Corano e la tradizione che da esso scaturisce alla struttura sociale non avremmo più una tradizione e non potremmo pertanto spiegare la fenomenologia di base dell'Islam come civiltà assiale. Questo è chiaramente il vicolo cieco in cui Tizini non vuole entrare, e qui l'argomentazione di al-Buti conserva un nocciolo di inviolabilità rispetto a ogni genere di argomento strutturalista. È degno di nota il fatto che il libro di al-Buti e Tizini abbia offerto solidi fondamenti a un linguaggio comune fra il filosofo laico e il guardiano della tradizione.

La tradizione islamica, che le élite nazionaliste arabe hanno tentato di addomesticare con risultati ambivalenti, ha una sua traiettoria molto più complessa della sfida lanciata a tali élite dai militanti islamisti. Lo hiwar è un terreno di contesa di importanza critica per conferire alla parola sacra, nelle società arabo-islamiche contemporanee, una posizione definita e legittima all'interno delle istituzioni politiche e sociali moderne. Questo dialogo è apprezzabile perché si allontana dall'ossessione di ricostruire una tradizione arabo-islamico-umanistica unitaria e consensuale. Questa ossessione fa ancora capolino da dietro al dialogo perché sembra appagare l'intenzione iperrazionalistica e politicamente corretta di separare il razionale dall'irrazionale, il praticabile dall'impraticabile, nella composita eredità islamica. I momenti più promettenti del dialogo sono orientati a saggiare le linee di scontro intorno alla legittimità di fissare una piattaforma di guida morale della comunità politica sulla base di norme islamiche, in modo da limitare l'arbitrio dei governanti, e intorno alla praticabilità di una regolamentazione politica dei confini giuridici delle norme religiose: ne scaturisce il nucleo di un possibile 'costituzionalismo islamico'. Dissotterrando questi problemi complessi il dialogo contribuisce a creare un nuovo pubblico composito che include le classi medie e popolari. L'affermazione del primato della ragione resta centrale, ma si sviluppa dalla partecipazione appassionata a dibattiti publici, e dall'interesse per la molteplice dimensione sociale dell'Islam (30).

Osserviamo quindi in vari casi all'interno delle società arabo-islamiche il fiorire di un discorso islamico che riflette sulla prassi e la virtù religiose, ma in molti casi 'replica' discorsivamente il valore della la religione, privilegiando con ciò il 'parlare della' religione più che la sua pratica. Gran parte della gioventù egiziana con accesso all'istruzione secondaria ed universitaria serba un grande rispetto per le istituzioni e gli obblighi religiosi, ed è futile cercare di misurare il grado di sincerità di tali atteggiamenti, perché l'esistenza e la manifestazione di questi sentimenti di riconoscimento di un certo tipo di autorità, nelle discussioni pubbliche o nelle conversazioni più informali, è già un fatto sociale rilevante. Ma un aspetto importante di questo fatto è che i giovani di diverso grado di istruzione, come altri gruppi nella società egiziana, guardano alla religione e la discutono da vari punti di vista: i fondamenti teologici, le funzioni sociali, il rapporto con la scienza. Ciò accade dinanzi a un prestigio sociale delle istituzioni religiose durevole o addirittura crescente, nonostante l'emergere di nuovi opinion leaders islamici come Mustafa Mahmud e Muhammad Shahrur.

Ovviamente la discussione è una condizione necessaria ma non sufficiente dell'uso pubblico della ragione. Non c'è bisogno di vedere in questo processo un'approssimazione alla sfera pubblica e all'etica discorsiva habermasiane, nella quale ogni partecipante alla discussione di una questione di interesse pubblico si spoglia dei suoi interessi particolaristici e si piega al solo potere dell'argomentazione razionale. È stato giustamente osservato che questa pretesa e questa visione sono utopistiche perché configurano un modello della discussione e dell'uso della ragione ricalcato su ciò che avviene in un'aula di seminario, e ciò non rende giustizia agli elementi non deliberativi della sfera pubblica che sussistono anche in quelle società occidentali sulla cui traiettoria storica si fonda la teoria di Habermas. Col tempo tuttavia un certo processo cumulativo in cui certi argomenti vengono assoggettati in maniera sempre più insistente all'esame e alla discussione pubblica promuove in molti casi il punto di vista della riflessione e della critica razionali. Questo è ciò che potremmo chiamare l''effetto Habermas', che può manifestarsi e prender radici in qualsiasi società, ferme restando le dovute condizioni, di natura più istituzionale che culturale - un effetto comunque almeno parzialmente dissociato dalla dinamica di democratizzazione del sistema politico propriamente detto.

D'altra parte dovremmo collocare le nuove forme di cristallizzazione dell'Islam pubblico nel contesto del processo di mercificazione. Il caso particolare della mercificazione della parola religiosa attraverso l'espansione dell'editoria islamica orientata al profitto (come testimoniano anche le varie dozzine di libri pubblicate da Mustafa Mahmud, ciascuno di essi in numerosissime edizioni) deve essere collocato nel contesto dell'esistenza di catene di merci religiose correlate positivamente come beni di mercato, nel senso che il consumo di un determinato articolo promuove quello di un articolo correlato, un rapporto che si può osservare anche fra merci religiose stampate, non stampate e audiovisive. (31) Nonostante questi rapporti di complementarità fra articoli religiosi come oggetti di consumo e come strumenti per rimodellare la soggettività nei contesti di cambiamento sociale, il compito svolto dai nuovi intellettuali islamici è la conservazione e l'adattamento della centralità della parola scritta al fine di restaurare un consenso islamico, sotto il duplice vincolo della mercificazione, che prende la forma degli incentivi di mercato e delle preferenze dei consumatori, e del bisogno di plasmare una sfera pubblica islamica che serva a legittimare la nuova funzione normativa degli intellettuali islamici.

Il mutamento plastico e visuale degli spazi pubblici innescato dalla mercificazione è certamente percepito come una sfida dai vari modellatori della sfera pubblica islamica. Questi devono adattarsi strategicamente alle nuove condizioni a numerosi livelli: devono elaborare e incanalare la reificazione dei simboli islamici risultante dalla dimensione visiva; devono adeguare i loro prodotti testuali a un insieme di altre merci religiose; e devono imporre i loro discorsi come fonti di autorizzazione dell'attribuzione di senso oltre che di formazione della personalità. In ultima analisi, devono far sì che la sfera pubblica mediata discorsivamente governi l'ambiente pubblico influenzato dalla mercificazione, restaurando così l'egida di norme morali su quella che appare a loro come l'esternalità del consumo. In altre parole, devono convertire il valore d'uso della mediazione normativa in valore di scambio imponendo allo stesso tempo il primo come istanza di governo del secondo. Ci si fa un'idea delle ragioni sociali, spaziali e visuali del richiamo di mercato e della funzionalità sociale della star mediatica Mustafa Mahmud camminando lungo le vie principali del sobborgo di Muhandisin, di classe medio-alta, sul lato di Giza del Grande Cairo. La moschea e la jamciyya di Mustafa Mahmud sono visibilmente al centro del quartiere, attraversato dall'imponente Viale della Lega Araba, a sua volta diviso in due dalla piazza dominata dalla moschea e dall'edificio dell'associazione Mustafa Mahmud. La sua iscrizione nel paesaggio di Muhandisin è un monumento alle formule simultaneamente culturali ed economiche che hanno plasmato l'Egitto postnasseriano.

C'è un'analogia funzionale fra le merci stampate e non stampate, e anche fra i servizi (come quelli forniti dagli ospedali o dagli asili) definiti islamicamente, nella loro capacità di reindirizzare il rapido mutamento dei paesaggi urbani e sociali. L'analogia è nella loro posizione particolare entro lo spettro complessivo delle merci e dei discorsi: sebbene non siano sempre preponderanti dal punto di vista quantitativo, svolgono tutti un ruolo non puramente protettivo o reattivo, come vorrebbero le analisi tradizionali della funzione della religione nelle società moderne o delle ragioni del 'fondamentalismo'. La loro centralità sta nella capacità di disciplinare e motivare i credenti, in quanto correlano con molta efficacia i valori privati alle norme pubbliche, esonerando nello stesso tempo dal peso di attraversare il confine tra le due sfere. Per molti l'attrattività di una merce o di un servizio islamico sta nel fatto che non è pubblico né privato, ma semplicemente qualcosa che è 'loro', 'autentico' e 'voluto', e genera 'fiducia locale'. Vediamo qui qualcosa di più di una 'politica dell'identità'. L'Islam pubblico copre attività editoriali (comprendente le riviste, i libri, le audiocassette e le loro reti di distribuzione), gruppi di lettura, le associazioni di mutuo soccorso, reti solidaristiche e movimenti politici. Tuttavia è importante non dimenticare che questo Islam pubblico, anche se fondato sulle prassi che emergono negli interstizi del complesso processo di inserimento delle tradizioni musulmane nel governo delle società moderne, non richiede il 'sé modulare' disciplinato a sintonizzarsi nei due campi separati del 'privato' e del 'pubblico': un motore emotivo interiore contrapposto al regno di una 'identità collettiva' che incorpora un interesse generale e una forma pubblica di razionalità. Per le tradizioni religiose (per le quali la fede non è in alcun caso riducibile alla nozione moderna di credenza (32)) l'articolazione di una dimensione 'interiore' e di una 'esteriore' è il risultato della modulazione del medesimo sé-nella-comunità. Nonostante la sua iscrizione nelle arene sociali e nei paesaggi urbani moderni, la sfera pubblica islamica appare ancora fondata su questa articolazione tradizionale del sé rispetto alla comunità. Questo è il punto dell'analisi in cui la dicotomia fra 'tradizione' e 'modernità', tanto cara alle scienze sociali occidentali, non ha più senso, in quanto l'Islam pubblico è intrinsecamente e inevitabilmente 'moderno' e 'tradizionale'. (33)

L'Islam pubblico fra deliberazione e disciplinamento

Ma allora si pone il problema: questo Islam pubblico - anche se valutato con un senso di empatia scevro dai timori del 'fondamentalismo islamico' che si celerebbe dietro ogni sua forma - è forse nulla più che una cultura della rettitudine e dell'equilibrio personale, con poche probabilità di alimentare una cultura del cittadino virtuoso, e quindi una cultura 'repubblicana' della cittadinanza? A differenza della concezione machiavellica moderna dell'autonomia dell'arte politica, e analogamente alla nozione repubblicana moderna della virtù la cui aspirazione utopica è che solo dei cittadini liberi e virtuosi abbiano il potere di organizzare delle comunità vitali su base volontaria, la costruzione dell'Islam come norma (o metanorma) pubblica poggia su una nozione di virtù "concepita proprio per evitare ogni rottura della differenza fra vita ordinaria e sfera pubblica". (34) Sicuramente la stessa modulazione da parte dell'Islam pubblico di un concetto di cittadinanza fondato su obblighi e diritti appare ancora radicata in un paradigma di verità ultime immutabili e trascendenti, che non era estraneo al 'fondamentalismo' della religione riformata occidentale protomoderna. Inoltre l'uguaglianza dei diritti e degli obblighi è contraddetta dall'inevitabile disuguaglianza delle doti di conoscenza e di virtù. La sharica e l'ordine giuridico-morale a cui essa è finalizzata sono i segni di un campo di regolazione la cui gerarchia è ancora determinata principalmente dalla competenza ad articolare una funzione di guida finalizzata alla salvezza, ed è accessibile soltanto a certe condizioni agli attori non addestrati a sviluppare queste capacità. È accessibile a essi solo a condizione che si rivolgano alle autorità religiose ogni volta che hanno dei dubbi sulla correttezza e la veridicità di una certa prassi. E con la crescente complessità della vita urbana i dubbi si moltiplicano a passo veloce, il che a sua volta fa sì che la disseminazione delle conoscenze islamiche non garantisca una redistribuzione durevole dell'autorità.

Tuttavia, come mostra anche la storia del successo di Mustafa Mahmud, i profili dei principali attori pubblici islamici, gli stessi percorsi verso l'acquisizione delle credenziali di un'autorità pubblica islamica, sono soggetti a una certa differenziazione. Dal punto di vista degli eroi della sfera pubblica, questo è un processo guidato dall'offerta. L'Islam pubblico opera entro un campo di giochi di autocontrollo ed eterocontrollo, di arricchimento e stabilizzazione delle clientele, oltre che di acquisizione del potere basato sul guadagnare spettatori e seguaci. Questo processo guidato dall'offerta non esclude fattori spinti dalla domanda, cioè i bisogni e gli interessi dei devoti. Il successo dell'una o dell'altra figura di scrittore od oratore islamico dipende indubbiamente in una certa misura (forse addirittura in misura crescente) dalla capacità di soddisfare i gusti e le preferenze del pubblico. Nel caso dell'Islam pubblico egiziano durante l'ultimo terzo del ventesimo secolo gli esempi più brillanti sono stati il già citato Mustafa Mahmud e il venerato shaykh Shacrawi, entrambi grandi star televisive. (35)

Un corollario importante di questo fenomeno è che la pluralizzazione dei campi di azione religiosa e la differenziazione interna dell'Islam pubblico ne mettono in crisi la praticabilità come mezzo di integrazione e tendono a disarticolare il potenziale disciplinante del discorso religioso. Possiamo vedere la ricostituzione, durante l'era postnasseriana, di una tensione verticale fra differenti pubblici islamici, vale a dire fra un discorso intellettuale islamico in grande stile che colonizza i mezzi di comunicazione ufficiali ed è coerente con le loro procedure astratte e il loro atteggiamento fondamentalmente lealista nei confronti dello Stato, e un livello base dell'azione collettiva di matrice islamica che dipende da specifiche tecniche di comunicazione e discipline di consumo della parola scritta e orale, ed è potenzialmente insurrezionale e secessionista, anche se di norma si autoconfina al quitismo o alla marginalità politica. In questo tipo di sfera pubblica islamica 'popolare' o 'plebea', semi- (e spesso auto-)isolata, c'è un livello intrinseco di vigilanza contro l'ipertecnologizzazione dei media da cui non sono immuni le correnti islamicizzanti dei grandi media elettronici e di stampa.

Questa situazione potrebbe essere letta come una divisione del lavoro fra una sfera pubblica plebea semisotterranea e una sfera pubblica ufficiale, che si avvicina alla nota distinzione fra Islam 'di opposizione' e Islam 'ufficiale'. Tuttavia questa dicotomia andrebbe relativizzata in quanto:

  1. entrambe le sfere attingono alla stessa riserva di metodi e motivazioni che ispirano la definizione, l'interpretazione e la prassi dell'Islam;
  2. non si possono sempre distinguere due tipi diversi di 'attori socio-religiosi'; (36)
  3. i vari mezzi di comunicazione radicati nelle sfere multiple di comunicazione e azione sociopolitica sono legati fra loro da 'catene di mercato' costituite da libri, audiocassette, videocassette nonché da altre merci religiose legate solo esteriormente alla parola scritta od orale. (37)

Non c'è quindi un solo modello dell'Islam pubblico, che detta le regole per sviluppare le competenze necessarie a discettare su questioni di interesse comune o sui fondamenti stessi della comunità sulla base dei dettami delle tradizioni islamiche. La dislocazione di funzioni dei diversi livelli di un Islam pubblico potrebbe apparire senz'altro controproducente rispetto a qualsiasi ambizione omologante di disciplinamento degli attori. Dopo tutto, l'ambito del discorso non è solo civilizzante ma anche espressivo. Una prassi della 'vita virtuosa' come perno della coesione comunitaria non deve essere sempre investita in (o cooptabile per) progetti di fondazione e consolidarmento di modelli più ampi e ben strutturati di appartenenza alla comunità, o di cittadinanza. Ma nonostante tutte le idiosincrasie, l'etica e la logica dell'Islam pubblico tagliano trasversalmente gli spazi di comunicazione ufficiali e non ufficiali, intellettuali e popolari, e operano in maniera omologante anche attraverso la differenziazione e la tensione fra sfere diverse. Parallelamente, le dinamiche associative come quelle rappresentate dalle jamciyyat islamiche riflettono una ricerca di schemi di istituzionalizzazione della sicurezza sociale e di modelli di sviluppo che è autonoma rispetto allo Stato (cioè non si riferisce se non in minima parte a una legittimità promanante da quest'ultimo, che è assente o debole). Tuttavia queste associazioni islamiche operano un'abile manipolazione delle risorse e dei vincoli risultanti dall'inevitabilità di fare i conti con lo Stato. Questo non è un buon esempio di 'crescita della società civile', per il semplice fatto che si esplica rispetto a uno Stato che non è pienamente legittimato all'interno, ma riceve il suo potere da istanze globali come il sistema interstatuale, ed è sostenuto economicamente dalle istituzioni finanziarie internazionali.

Quello dell'Islam pubblico è forse un esempio tipico di 'solidarietà senza consenso' adatta a un certo stadio di erosione della legittimità (sebbene non necessariamente del potere) dello Stato postnasseriano? (38) Anche se rispondere a tale domanda esula dallo scopo di questo capitolo, possiamo concludere che dal punto di vista della teoria della sfera pubblica - con buona pace dello stesso Habermas - c'è un notevole potenziale di 'razionalizzazione pratica' della vita quotidiana che promana dalla metamorfosi delle tradizioni religiose, anche o specialmente nei contesti sociali in cui i processi di razionalizzazione delle funzioni statali e quelli della loro legittimazione costituzionale si sono dimostrati storicamente deboli (anche se non del tutto assenti né totalmente spinti da fattori esogeni). In questi casi le tradizioni islamiche producono un senso del pubblico in cui la deliberazione può funzionare soltanto se è sostenuta da discipline normative che lo Stato nazionale non ha i mezzi esclusivi per fornire.


Note

*. Il saggio fa parte della ricerca 'Relazioni internazionali e processi di pace in Medio Oriente', finanziata dal Cemiss e coordinata da Rodolfo Ragionieri presso il Forum per i problemi della pace e della guerra di Firenze.

1. Cfr. A. Salvatore, Staging Virtue. The Disembodiment of Self-Correctness and the Making of Islam as Public Norm, in G. Stauth (a cura di), Islam - Motor or Challenge of Modernity, Yearbook of the Sociology of Islam, 1, Hamburg, Lit Verlag - New Brunswick and London, Transaction Publishers, 1998, pp. 87-120; D.F. Eickelman, J. Anderson (a cura di), New Media in the Muslim World. The Emerging Public Sphere, Bloomington (IN), Indiana University Press, 1999.

2. Cfr. T. Asad, The Idea of an Anthropology of Islam, Washington DC, Georgetown University (Center for Contemporary Arab Studies), 1986; C. Hirschkind, Civic Virtue within Egypt's Islamic Counter-Public, «Cultural Anthropology», 16 (2001), 1.

3. L'attributo islamico aggiunto ad arabo ('società arabo-islamiche') non equivale all'assegnazione di un'impronta essenzialista a queste società. È lecito usarlo per riferirsi a società in cui la maggioranza dei cittadini professa la fede musulmana e si considera musulmana, testimoniando che Dio è unico e Maometto è l'ultimo profeta. Non intendo generalizzare automaticamente l'argomentazione che svolgo in questa sede a tutte le società arabo-islamiche. La maggior parte degli esempi - ma non tutti - sono tratti dalla più estesa e per molti aspetti più complessa società arabo-islamica, l'Egitto.

4. N. Elias, Über den Prozess der Zivilisation, Frankfurt, Suhrkamp, 1976 [1939], trad. it. Il processo di civilizzazione, Bologna, il Mulino, 1988.

5. M. Gasper, Abdallah Nadim, Islamic Reform, and 'Ignorant' Peasants: State-Building in Egypt?, in A. Salvatore (a cura di),Muslim Traditions and Modern Techniques of Power, Yearbook of the Sociology of Islam, 3, Hamburg, Lit Verlag - New Brunswick and London, Transaction Publishers, 2002.

6. Cfr. J. Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit, Frankfurt, Suhrkamp, 1962, trad. it. Storia e critica dell'opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 1999; M. Warner, The Letters of the Republic, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1990.

7. M. Warner, The Mass Public and the Mass Subject, in C. Calhoun (a cura di), Habermas and the Public Sphere, Cambridge (MA), MIT Press, 1992.

8. W. Ludwig-Mayerhofer, Disziplin oder Distinktion? Zur Interpretation der Theorie des Zivilisationsprozesses von Norbert Elias, «Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie», 50 (1998), pp. 217-37.

9. A. Salvatore, Islam and The Political Discourse of Modernity, Reading, Ithaca Press, 1997, pp. 219-241.

10. S.N. Eisenstadt, Introduction: The Axial Age Breakthroughs - Their Characteristics and Origins, in Id. (a cura di), The Origins and Diversity of Axial Age Civilisations, Albany (NY), State University of New York Press, 1986.

11. A. Höfert, A. Salvatore, Introduction. Beyond the Clash of Civilisations: The Transcultural Politics Between Europe and Islam, in Id. (a cura di), Between Europe and Islam: Shaping Modernity in a Transcultural Space, Brussels - Berlin - Oxford, Presses Interuniversitaires Européennes - Peter Lang, 2000.

12. S.N. Eisenstadt, op. cit., p. 8.

13. E. Gellner, Muslim Society, Cambridge, Cambridge University Press, 1981.

14. W.C. Smith, The Historical Development in Islam of the Concept of Islam as an Historical Development, in B. Lewis, P.M. Holt (a cura di), Historians of the Middle East, London, Oxford University Press, 1962, pp. 81-85.

15. P. Gran, Islamic Roots of Capitalism, Syracuse University Press, Syracuse, 1979, pp. 42-49.

16. J. Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit, cit.

17. N.R. Keddie, The Revolt of Islam, 1700 to 1993: comparative considerations and relations to imperialism, «Comparative Studies in Society and History», 36 (1994), pp. 463-87.

18. A. Salvatore,The Islamic Reform Project in the Emerging Public Sphere: The (Meta)normative Redefinition ofsharica, in A. Höfert, A. Salvatore (a cura di), Between Europe and Islam, cit.

19. M. Gasper, op. cit.

20. J. Casanova, Public Religions in the Modern World, Chicago, University of Chicago Press, 1994, pp. 55-58.

21. Ivi, p. 43.

22. E. Gellner, op. cit.

23. W.C. Smith, op. cit.

24. Ovviamente si potrebbero citare vari casi di politici e giuristi islamisti che manifesterebbero invece con chiarezza la necessità di tale riappropriazione. Qui vorrei solo sottolineare che non ci sono prove generalmente valide della necessità di questa convergenza: in altri termini, tali prove non sono inerenti alle strutture fondamentali del discorso islamico riformatore, così com'esso è emerso storicamente. Non considererei tuttavia questa assenza una carenza, coerentemente con l'argomentazione più ampia da me svolta, basata su un'analisi storica e strutturale non condizionata dall'idea di misurare il grado di convergenza fra pubblicità islamica e pubblicità habermasiana..

25. J. Habermas, Faktizität und Geltung, Frankfurt, Suhrkamp, 1992, trad. it. Fatti e norme, Milano, Guerini, 1996.

26. Cfr. D.J. Sullivan, Private Voluntary Organisations in Egypt. Islamic Development, Private Initiative, and State Control, Gainesville (FL), University Press of Florida, 1994; D. Singerman, Avenues of Participation: Family, Politics, and Networks in Urban Quarters in Cairo, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1995.

27. J. Bentham, Civil Society's Need for De-deconstruction, «Anthropology Today», 6 (2000), 2.

28. A. Salvatore, Social Differentiation, Moral Authority and Public Islam in Egypt: The Path of Mustafa Mahmud, «Anthropology Today», 6 (2000), 2; Id., Mustafa Mahmud: a Paradigm of Public Islamic Entrepreneurship?, in Id. (a cura di), Muslim Traditions and Modern Techniques of Power, Yearbook of the Sociology of Islam, 3, Hamburg, Lit Verlag - New Brunswick and London, Transaction Publishers, 2001, pp. 211-223

29. K. Al-cAbbud (a cura di), Hiwar cala ard muhayyida. Wajhan li-wajh, Damasco, al-Ahali, 1997;cA. cAbd-al-Wahid (a cura di), Al-Islam wa-l-casr. Tahdiyyat wa afaq, Damasco, Dar-al-fikr, 1998.

30. La pubblicizzazione del hiwar è il risultato di un dibattito pubblico fra al-Buti e Tizini che doveva aver luogo all'università di Damasco nell'estate del 1998, su invito dell'unione studentesca e del partito bacth. Decine di migliaia di persone affluirono con autobus da tutta la Siria, con una massiccia partecipazione di giovani. La dimensione inaspettata della folla, gli episodi di ostilità verso le studentesse da parte degli islamisti, nonché scontri fra i sostenitori dei due leader intellettuali indussero le autorità ad annullare l'evento. Il dibattito si svolse un mese e mezzo più tardi alla fiera di Damasco, di fronte a un pubblico scelto di cinquanta persone per ciascuna parte, e fu trasmesso in televisione.

31. Y. Gonzalez-Quijano, Les livres islamiques: histoires ou mythes, «Peuples méditerranéens», 1991, 56-57, pp. 283-92; G. Starrett, The Political Economy of Religious Commodities in Cairo, «American Anthropologist», 97 (1995), pp. 51-68.

32. Cfr. T. Asad, Genealogies of Religion, Baltimore and London, The John Hopkins University Press, 1993, pp. 27-29.

33. Cfr. C. Hirschkind, op. cit.

34. M. Warner, The Mass Public and the Mass Subject, cit.

35. Ci mancano ancora però dati significativi per valutare l'alterazione degli impulsi disciplinanti irradiati da attori pubblici attraverso la ricezione dei loro messaggi. Un contributo importante è fornito da C. Hirschkind, op. cit.; per il caso di Mustafa Mahmud cfr. anche A. Salvatore, Social Differentiation, Moral Authority and Public Islam in Egypt, cit.; Id., Mustafa Mahmud: a Paradigm of Public Islamic Entrepreneurship?, cit.

36. Cfr. C. Eccel, Alim and Mujahid in Egypt: Orthodoxy Versus Subculture, or Division of Labour, «The Muslim World», 78 (1988), pp. 189-208; M. Zeghal, Gardiens de l'Islam. Les oulémas de Al Azhar dans l'Égypte contemporaine, Paris, Presses de Sciences Po, 1996; C. Hirschkind, op. cit.

37. Cfr. Y. Gonzalez-Quijano, op. cit., e G. Starrett, op. cit.

38. Per accenni a una possibile risposta a questa domanda più generale cfr. A. Salvatore,Mustafa Mahmud: a Paradigm of Public Islamic Entrepreneurship?, cit.