2011

A. Rashid, Descent into Chaos. The United States and the failure of national building in Pakistan, Afghanistan and central Asia, Viking Penguin, New York 2008, trad. it. Caos Asia, il fallimento occidentale nella polveriera del mondo, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 525. ISBN 978-88-07-17157-4

Emilio Guida

Il lavoro di Ahmed Rashid è un efficace affresco della complessità geopolitica dell'area definita "la regione" (Afghanistan, Pakistan e le cinque repubbliche centro-asiatiche) e delle vicende che l'hanno vista protagonista durante la strategia statunitense della "guerra al terrorismo", promossa dall'amministrazione Bush all'indomani dei noti attentati dell'11 settembre 2001. Con una particolareggiata cronistoria, ricca di aneddoti vissuti personalmente dall'autore, Rashid è riuscito nella prima parte del libro a chiarire le dinamiche dell'area partendo dagli elementi storici di fondo dell' Afghanistan e del Pakistan, dalla linea Durand del 1893, che divise geograficamente l'etnia pashtun in due fasce appartenenti a Stati diversi, all'ascesa dei talebani afghani provenienti da un periodo di incubazione nelle madrasa del vicino Pakistan. I talebani, intenzionati a interrompere con la forza le incessanti lotte intestine afghane tra i signori della guerra degli anni '90 e a imporre la loro visione integralista dell'Islam sulla società, risultarono essere un irrinunciabile strumento di Islamabad. Infatti, essi furono sostenuti dal Pakistan perché ritenuti utili per una politica di compenetrazione regionale e di influenza in Afghanistan che, seppur nella condizione di failed-state, è rimasto attore fondamentale per la tradizionale contrapposizione identitaria pakistana rispetto alla confinante India. Inoltre furono gli stessi talebani che si adoperarono ad ospitare i campi di addestramento per le azioni terroristiche localizzate nel Kashmir e per quelle anti-occidentali di al Qaeda.

Il giornalista pakistano ha considerato l'intervento della maggiore potenza occidentale come una eccezionale opportunità per la ricostruzione di un Afghanistan martoriato da oltre 22 anni di guerre (invasione Sovietica degli anni '80 e scontri tra i signori della Guerra sino e al ritorno dei talebani negli anni '90) e per la stabilizzazione dell'intera regione. Ma l'autore ha sottolineato come tali opportunità vennero perse dagli USA. In primo luogo, per la totale assenza di politiche di ricostruzione coordinate con la comunità internazionale e capaci di coinvolgere il governo di Karzai. Inoltre l'inadeguata conoscenza americana della cultura e delle lingue parlate in Afghanistan, sommate al disinteresse per un coinvolgimento diretto nella gestione della sicurezza del territorio, testimoniata dalla strategia militare, rallentarono il processo di state-building, compromettendolo. Per Rashid e altri esperti internazionali, determinati interventi sulla produzione agricola avrebbero potuto nell'ordine: aumentare la legittimità delle neonate istituzioni nazionali, diminuire la corruzione alimentata dai forti introiti della vendita dell'oppio e rendere il paese più sicuro, agevolare così la predisposizione a un processo di sviluppo e di ricostruzione partecipato. Ma nulla di tutto ciò avvenne. Di fatto l'idea di una ricostruzione da parte dell'esercito americano fu fermamente allontanata dal segretario della difesa Rumsfeld, sia per evitare di impantanarsi in un nuovo Vietnam, sia perché, secondo l'autore, a Washington si meditava già di invadere l'Iraq (ricchissimo di idrocarburi e tra i più raffinati al mondo). Inoltre, la strategia militare statunitense, grazie alla sua superiorità tecnologica, permise di agire "a distanza" utilizzando le ultime tecnologie come i droni, i satelliti, le bombe a guida laser, facendo anche un ampio ricorso alla CIA e ai gruppi SOF (special operation forces). Si concretizzò quindi, una sorta di intervento chirurgico di polizia internazionale capace di evitare il coinvolgimento diretto e l'uso massiccio delle truppe di terra statunitensi. In secondo luogo, andò persa l'opportunità di arrestare o eliminare Osama Bin Laden e i suoi luogotenenti a causa del mancato controllo dell'operato dell'ISI (servizi segreti pakistani), che continuò a perseguire una politica doppiogiochista nelle zone di confine, come nei casi di Kunduz e Tora Bora. Per ultimo, andò persa l'opportunità di prendere le distanze dai regimi militari come quello Pakistano e allo stesso tempo di promuovere una primavera di riforme democratiche in grado di influenzare anche le repubbliche autoritarie dell'Asia centrale ed incassare risultati positivi in termini di legittimità internazionale e di soft-power.

Il libro si è posto l'obiettivo di rispondere alla domanda: questa regione è oggi più sicura di quanto non lo fosse prima dell'intervento occidentale? La risposta, articolata nelle quattro parti del testo, tutte interconnesse, è negativa. L'unilateralismo americano, dettato dalla componente neocon e dalla abissale superiorità militare degli Usa rispetto a qualsiasi altro Stato nel mondo, comportò un difficile coordinamento delle azioni di ricostruzione, proprio perché l'interesse della superpotenza non coincise con quello del popolo afghano. Da una parte la "guerra al terrorismo" iniziata in Afghanistan, territorio che divenne subito "trampolino di lancio" per la successiva invasione dell'Iraq del marzo 2003, dall'altra le intenzioni della comunità internazionale per un processo di national (re-)building che non vennero avallate dall'indispensabile volontà politica dell'egemone americano, il quale preferì portare avanti una politica di sicurezza minimale, per giunta "per procura", assegnando tale compito ai "signori della guerra".

La seconda parte del libro ha messo in evidenza le nuove dinamiche della politica internazionale alla luce degli attentati alle twin towers e della rappresaglia degli Usa nei confronti del regime talebano in Afghanistan. Il Pakistan, preoccupato di esser identificato anche lui come promotore del terrorismo, accettò immediatamente di sostenere sia a livello logistico che di intelligence l'azione statunitense in cambio, però, di cospicui finanziamenti e aiuti economici utilizzati in larga parte dai militari per aumentare il proprio peso strategico, soprattutto in funzione anti-indiana, tralasciando i bisogni della società civile. Secondo Rashid, una volta incassato l'appoggio degli Stati Uniti, Musharraf avrebbe sprecato l'occasione di chiudere definitivamente con i terroristi per potersi concentrare sulle riforme economiche e politico-democratiche di cui il Pakistan necessitava. Con questa svolta auspicata però, il generale avrebbe perso sicuramente l'appoggio dei partiti islamici, fondamentali per vincere le elezioni richieste dall'autore: in sostanza per Musharraf avrebbe voluto dire abbandonare spontaneamente il potere (circostanza insolita per un dittatore). Ad evitare il cambio di rotta del Pakistan influirono sia l'elite militare, effettivo motore e guardiano delle attività dello Stato pakistano, sia l'ISI, che, contraddistinto da una enorme autonomia decisionale, contava al suo interno di una forte componente jihadista antiriformista.

In Afghanistan gli Usa intervennero utilizzando l'air-power e finanziando incondizionatamente sia l'alleanza del Nord di Masud che gli altri gruppi dei signori della guerra, gli unici che combatterono effettivamente sul terreno la guerra di liberazione dal regime talebano. Il miliardo di dollari che venne distribuito dalla CIA ai diversi signori della guerra fornì loro i mezzi per acquistare le armi e pagare i soldati; ma questa disponibilità, una volta cacciati i talebani, rese difficile, in termini di effettività, l'accentramento politico costituzionale previsto dagli accordi di Bonn poiché rafforzò eccessivamente soggetti privi della legittimità democratica propria della Loya Jirga costituente. Il potere politico costituito dalla Carta fondamentale del 4 gennaio 2004 restò inoltre privo del potere economico necessario per garantire l'effettività dell'azione di governo.

La terza parte ha evidenziato i problemi della ricostruzione. Gli sforzi della comunità internazionale furono minati dalla mancanza di volontà americana nel coordinare le operazioni di state-building. La gestione della sicurezza del territorio infatti, fu demandata ai signori della guerra. Essi sostituirono in toto e senza precisi indirizzi l'inesistente amministrazione periferica. I dazi alle frontiere vennero incassati direttamente dai vari signori della guerra senza trasferire le quote dovute alla sede centrale di Kabul, fiaccando il già debole potere del centro politico nazionale, simbolo questo del nuovo Afghanistan. Le difficoltà principali riguardarono sia la costituzione che l'addestramento di un esercito afghano composto proporzionalmente da tutte le etnie del paese - visto l'alto grado di conflittualità tra pashtun e non-pashtun, sia la lentezza nella formazione di un corpo di polizia che avrebbe potuto essere utilizzato come strumento e organo rappresentante della prossimità istituzionale verso i cittadini e le loro istanze, e non come soggetto capace solo di reprimere improbabili sommosse. La maggior parte dei fondi stanziati dagli investitori internazionali e dagli Stati Uniti ritornò costantemente nei luoghi di origine sotto forma di costose consulenze, diminuendo di fatto, l'impatto positivo degli aiuti economici sul territorio. Gli stessi Prt (Provincial Reconstruction Team), gestiti dai vari paesi della coalizione, mancarono dell'omogeneità regolamentare necessaria ad offrire un intervento compatto ed efficace, rimanendo invece in bilico tra contro-insurrezione difensiva e ricostruzione. In effetti il problema fondamentale riguardò la sicurezza dei territori periferici e il loro controllo. La politica minimalista americana improntata a realizzare progetti "dal grosso impatto con il minimo sforzo" non agevolò le operazioni di institution-building. La mancanza della corrente elettrica e i continui attacchi ai cantieri per la costruzione della prima autostrada del paese rallentarono i tempi e moltiplicarono i costi necessari, rendendo lampante la debolezza delle istituzioni locali.

Nell'ultima parte è descritto il ritorno dei talebani in Afghanistan (2006), realtà resa possibile da una scadente gestione delle frontiere e della sicurezza in generale. Per Rashid il rientro dei talebani, che nel frattempo si erano insediati indisturbati al di là della frontiera sul territorio pakistano (le FATA), rappresentò una delle prove del fallimento della costruzione della sicurezza istituzionale afghana, soprattutto nelle regioni del Sud. Ad esempio nell'Helmand, dove era presente un solo Prt composto da 120 uomini, venne prodotto nel 2007 il 93% dell'oppio mondiale, con la conseguente diffusione della corruzione tra i deboli amministratori locali. Inoltre, con la politica della rendition, gli Usa elusero il diritto internazionale servendosi di quei paesi già noti per la mancata attuazione dei diritti umani al fine di trattenere e torturare i prigionieri talebani ed ottenere confessioni essenziali per la ricerca di Bin Laden. Anche le torture furono affidate a terzi. Esse dimostrarono come il baluardo della democrazia occidentale fosse disposto ad accantonare i propri ideali universalistici, avallando una politica liberticida. Quest'ultima incentivò i regimi collaboranti all'utilizzo di tali strumenti per la repressione delle opposizioni interne (Uzbekistan). La debolezza della politica pakistana del "doppio binario" si rese evidente con le difficoltà nell'affrontare i terroristi nelle FATA, nonostante i finanziamenti ricevuti, e con lo scandalo del mercato nero della tecnologia nucleare del Dott. A. Q. Khan.

Il libro di Rashid non solo ha mostrato i punti strategici nodali della regione mettendo a fuoco i legami tra i numerosi soggetti eterogenei - attori Statuali e non statuali, rapporti di influenze sull'Afghanistan su base etnica da parte del Tagikistan, dell'Uzbekistan, del Pakistan, dell'India dell'Iran, collaborazioni e divisioni tra la CIA e l'ISI pakistano - ma è stato capace di riportare il baricentro dell'attenzione dei lettori dall'Iraq all'Afghanistan/Pakistan, ricordando che nel 2008 (data di pubblicazione del libro) la regione non era ancora oggetto di una politica capace di risolvere questioni fondamentali di sicurezza. Inoltre, il suo saggio ha posto l'attenzione sulla genesi del potenziamento del terrorismo su scala globale sorto nelle relazioni interetniche e istituzionali tra un Pakistan nelle mani dei militari, Al Qaeda e un Afghanistan insicuro gestito dai signori della guerra anziché dal diritto.

La discesa nel "caos" è stato il risultato di un'America distratta dalla guerra in Iraq, capace di elargire cospicue somme a soggetti incontrollabili, come l'ISI, o privi di accountability, come i signori della guerra, disincentivando il raggiungimento dei risultati richiesti e allo stesso tempo incoraggiando la richiesta di ulteriori aiuti finanziari. Rashid ha definito "del doppio binario" la politica pakistana della lotta al terrorismo, in quanto, da un lato si continuò a ritardare la chiusura delle madrasa, a sostenere tramite l'ISI il potere dei talebani in Afghanistan, dall'altra si proseguì ad avanzare richieste di fondi per migliorare e rafforzare (solo in via teorica) le operazioni atte a sradicare le organizzazioni terroristiche, dimostrandosi quindi vittima e non promotore. Solo dopo gli attentati subiti da Musharraf nel 2003, Islamabad si rese conto di non poter più controllare i gruppi terroristici che aveva alimentato per giustificare le richieste di aiuto americano, soprattutto dopo l'ingresso di al Qaeda nella gestione delle organizzazioni. Nel dicembre 2007 l'attentato, riuscito, alla vita della leader dell'opposizione pakistana Benazir Bhutto suggellò il processo in corso di destabilizzazione della regione: dall'Afghanistan al Pakistan, un ulteriore segno della discesa nel Caos.

Dalla pubblicazione del libro (2008) ad oggi (06/2011) è possibile prender nota di alcuni eventi fondamentali per la stabilità dell'area. Tra i più rilevanti vi sono: il passaggio all'amministrazione Obama nel 2009 e la conseguente fine dell'appoggio incondizionato al governo di Karzai (originato da Bush); la determinazione di un calendario per una exit strategy in grado di limitare i danni al prestigio americano e dell'Alleanza atlantica (talmente necessaria da consentire trattative informali con i talebani (1), soluzione paradossale per gli USA (2)); infine, l'uccisione di Osama Bin Laden, politicamente importante per suggellare il mission completed ed avallare l'uscita di scena occidentale dall'area, irrilevante invece, ai fini dell'azione di anti-terrorismo internazionale e per gli equilibri geopolitici.

D'altro canto in questi ulteriori tre anni e mezzo non si sono registrati risultati positivi per la stabilizzazione dell'area (3). Di fatto la nuova amministrazione americana non è riuscita a disinnescare la polveriera afgana sia per contingenti motivi economici - si ricordi la crisi mondiale e in particolare quella fiscale americana - sia per motivi politici - l'opinione pubblica americana preferisce la risoluzione dei propri problemi interni e non la distrazione di risorse in una guerra che sul fronte dei costi/benefici è divenuta palesemente svantaggiosa. L'exit strategy risulta quindi l'unica soluzione per smarcarsi dal pantano afgano, lasciando nel contempo incompiuti i lavori di stabilizzazione e democratizzazione.

In particolare essa è stata interessata nel biennio 2009-2010 da una fase di surge delle forze armate, ovvero da un aumento delle forze militari e dall'intensificazione dell'addestramento dell'ANA (Afghan National Army). Nello specifico si è sostanziata una nuova strategia che ha incluso tra i vari obiettivi lo sviluppo integrato civile/militare di una strategia di contro-insurrezione, unitamente al rafforzamento della governance locale, al contrasto della corruzione e allo sviluppo di forze di sicurezza afgane autosufficienti (4).

La poliedricità della sfida americana è sintetizzabile con la definizione di Complex adaptive system, ovvero sistema complesso adattivo (5). Il teatro delle operazioni è infatti costituito da numerosi elementi interconnessi in grado di interagire tra di loro e di modificarsi attraverso le esperienze nate da tali interazioni. Gli elementi in gioco sono molteplici, si contano infatti: i gruppi di insurrezione che desiderano rovesciare il governo Karzai, i gruppi criminali che gestiscono il traffico di droga o di pietre preziose (indebolendo così i governi locali), i gruppi tribali, sub-tribali o a base clanica siti nella cintura a maggioranza Pashtun della parte Nord, Sud ed Est dell'Afghanistan, i signori della guerra, che oggi ricoprono cariche istituzionali ed infine i governi legittimi e le forze di sicurezza afgane/pakistane e i vari Stati confinanti della regione. L'interazione di tutti questi elementi rendono il contesto particolarmente dinamico. L'emergere di un complex adaptive system è poi largamente riconducibile alla storica debolezza del governo centrale che continua ad essere oggi condizione endemica del governo di Kabul, forse irrinunciabile data la complessità storica della propria legittimità politica (6).

Sul fronte della sicurezza, dalla fine del 2007 alla fine del 2010, vi è stato un incremento enorme degli attacchi anti-governativi sul territorio afgano, con un parallelo aumento delle vittime militari (sia delle forze internazionali sia quelle nazionali) e civili. Sembra chiaro che la ricostruzione dello Stato afgano e l'implementazione della sua sicurezza siano ancora oggi obiettivi lontani da raggiungere. Infatti, a differenza delle altre esperienze di intervento di ricostruzione come in Kosovo, Bosnia e Timor Est, in Afghanistan lo stato di guerra non ha mai lasciato pienamente spazio a uno stato di pace, ideale quest'ultimo per le operazioni di ricostruzione. Si è verificata, in altre parole, una sovrapposizione tra la fase conflict e la fase post-conflict (7) tale da rendere inefficace qualsiasi politica di ricostruzione sia essa istituzionale, sociale, economica o semplicemente infrastrutturale.

In ragione di una piena comprensione del dilemma afgano risulta importante sottolineare come l'exit strategy e il processo di democratizzazione siano due elementi sul piano temporale del tutto contrapposti non potendo agire parallelamente senza frizioni. Da una parte, infatti, esiste un enorme problematica di costi: anche se dieci anni di guerra in Afghanistan sono costati meno della guerra in Iraq, in relazione ai risultati in tema di sicurezza, ricostruzione, contratti, capacità di influenza, legittimazione internazionale, ecc... e in considerazione della crisi fiscale, essa rappresenta una cifra insostenibile. Sono anche queste le motivazioni che spingono il presidente Obama a non permettere una ulteriore dilazione dell'impegno americano. A fianco della surge militare è previsto il cosiddetto ticket-out, ovvero l'ultimo sforzo occidentale per poter uscire dall'evidente empasse militare e politica del martoriato Afghanistan. Esso rappresenta una ulteriore, ma limitata nel tempo, disponibilità di denaro per garantire nell'ultima fase gli investimenti sul territorio. Dall'altra parte, invece, resta evidente come la democratizzazione non abbia raggiunto risultati soddisfacenti e come l'opera di "modernizzazione" o se si vuole di social-egineering abbia mostrato la propria inefficacia (8) a causa della complessità della regione e della società afgana, così ricca sia di soggetti (autoctoni e non) politicamente determinanti sia di poteri trasversali. In sostanza il raggiungimento degli ambiziosi obiettivi originari richiederebbe la presenza americana per tempi tanto lunghi (9) quanto indefinibili, impegno questo, divenuto insostenibile sia per gli Usa che per gli altri paesi NATO.

È inoltre importante riconoscere come la notizia dell'uccisione di Osama Bin Laden non comporterà vantaggi strategici nella lotta contro il terrorismo globale; piuttosto renderà più credibile e giustificata l'exit strategy agli occhi del popolo americano. Il ridimensionamento strategico di Obama (10), ovvero il passaggio dall'eliminazione dell'indefinibile "terrorismo" all'eliminazione di un soggetto specifico come quello di Al Qaida, risulta oggi un obiettivo di politica estera centrato (almeno simbolicamente). Rimane comunque noto come la struttura terroristica reticolare renda semplice la propria riorganizzazione in caso di eliminazione di uno dei suoi punti nodali. Dopotutto Osama Bin Laden, oltre a essere stato l'ideatore e contemporaneamente l'impersonificazione simbolica del network internazionale, è stato anche inventore di un brand capace di resistere alla sua scomparsa grazie all'ideologia islamica estremista e anti-occidentale.

La previsione del Caos in Asia di Ahmed Rashid sembrerebbe concretizzarsi non solo nell'attuale insicurezza dell'Afghanistan, ma anche nella debolezza politica del vicino Pakistan, ritenuto secondo gli analisti, potenziale partner essenziale per la stabilizzazione dell'area, evento possibile solo a condizione di riuscire a domare l'ideologia anti-occidentale e integralista delle NWFP (North West Frontier Province) e di parte della popolazione religiosa e civile.

In breve sembra che l'exit strategy della coalizione occidentale, rafforzata dalla richiesta degli Usa alla coalizione di partecipare al così detto ticket-out e dal successo incassato dalla politica estera Usa con l'uccisione di Bin Laden, non potrà che lasciare il debole stato Afgano e il suo martoriato popolo alle prese con una sfida di abnormi proporzioni. Sul lato della sicurezza, alla fine del 2010, l'esercito afgano contava 138.200 unità mentre la polizia 120.500, ma è opinione della NATO che la qualità di tali corpi armati non permetta ancora una gestione indipendente della maggior parte del paese (come ad es. le zone del sud-ovest, del sud e del sud-est del paese). Sul lato politico il governo Karzai rimane debole nelle periferie, alle prese con l'endemica corruzione e con i problemi di legittimità divenuti evidenti con gli accertati brogli delle ultime elezioni presidenziali del 2009 e i contrasti con gli USA (11).

Ulteriore elemento che conferma uno spedito disimpegno degli Usa è rappresentato dall'accettazione (benché riluttante) dei negoziati tra i rappresentati del Mullah Omar, dei talebani e gli ufficiali americani. Tale soluzione, sostenuta fortemente anche dall'autore Rashid (12), rischia però di non ottenere accordi tra Talebani e Stati Uniti ma di tramutarsi in una fase di stallo negoziale ab origine. I motivi sarebbero, oltre che ideologici, ancora una volta collegati alla continua sovrapposizione tra situazione conflict e post-conflict unitamente all'impellenza del disimpegno americano e della coalizione NATO (13). Da un lato gli Usa confidano nel bilanciamento della debolezza negoziale derivata dall'urgenza del disimpegno ponendo sul piatto della bilancia la (temporanea) surge e le contestuali intensificazioni delle operazioni nel sud dell'Afghanistan. Dall'altro lato, le parti antigovernative hanno a loro favore il fattore tempo; sono coscienti, in altre parole, che il prolungamento delle trattative significhi minor potere negoziale americano e quindi maggiori opportunità su concessioni come quella di un eventuale riconoscimento dell'influenza talebana nella fascia sud-orientale confinante con il Pakistan. Esiste inoltre l'incentivo ad una intensificazione delle azioni terroristiche sul territorio cittadino, per dimostrare la debolezza della coalizione nel garantire la sicurezza e utilizzarla a proprio vantaggio in questa fase negoziale.

Nella prospettiva dell'uscita di scena americana, particolare ruolo ricopriranno le potenze regionali di un certo peso come Cina, India e Russia. L'enorme vuoto politico verrà colmato da una elevata competizione per l'influenza e il controllo di un territorio geopoliticamente apprezzabile per risorse (rame, litio, petrolio etc...) e posizione geografica (crocevia commerciale e per le pipelines del gas e del petrolio). D'altro canto, con il loro allontanamento, gli Usa alleggeriranno i propri bilanci e nel contempo avranno l'opportunità di scaricare ai candidati per l'egemonia regionale i costi del mantenimento dell'equilibrio dell'area.

In conclusione, sembra profilarsi un nuovo Grande Gioco Regionale che risentirà della multipolarizzazione e allo stesso tempo della progressiva regionalizzazione del sistema internazionale (14). Di fatto non saranno solo due gli attori (Gran Bretagna e Russia), come alla fine dell'800, a contendersi il controllo del territorio afgano e delle sue risorse, ma almeno cinque potenze regionali o aspiranti tali (Cina, Russia, India, Iran e Pakistan). Non è da escludere che l'eccessiva competizione potrà trasformare il vuoto politico post-americano in un nuovo Caos politico, che sarà caratterizzato dalla sola certezza di venire a danno, per l'ennesima volta, della popolazione afgana.


Note

1. Giunchi E., Riconciliazione e dialogo con i talebani, Policy Brief, n. 194, ISPI, Milano 2010.

2. Visto che la Guerra è nata come reazione di un attacco terroristico, e continuata nel nome di una guerra al terrorismo globale definendo anche i talebani nemici assoluti, privi di qualsiasi riconoscimento giuridico.

3. Cordesman H.A., The Afghan War: A Campaign Overview, CSIS, 7 June 2010.

4. Seth G. J., U.S. Strategy in Afghanistan, Testimony series RAND, April 2009.

5. Ibidem, p. 2.

6. Deledda A., Le fonti della legittimazione politica in Afghanistan, in "Afriche e Orienti" 3-4/2010.

7. Carati A., L'inganno del dopoguerra. Sfide e paradossi dell'intervento in Afghanistan, "Quaderni di Relazioni Internazionali", ISPI, n.11 Novembre 2009, pp. 66-71.

8. De Lauri A. Politiche della ricostruzione in Afghanistan: modernizzazione e rule of law, in "Afriche e Orienti" 3-4/2010.

9. Carati A., op. cit. p 72.

10. Come puntualmente notato in: Colombo A. Barack Obama due anni dopo, "Quaderni di Relazioni Internazionali", ISPI n. 13 Nov. 2010 p. 79.

11. Giustozzi A. L'Afghanistan come il Congo? L'intensificazione delle rivalità regionali in "Afriche e Orienti" 3-4/2010, pp. 72-73.

12. Rashid A., How Obama Lost Karzai, "Foreign Policy", 2/22/2011.

13. Kissinger A. H. How to exit Afghanistan without creating wider conflict, Washington Post, 8 June 2011.

14. Colombo A., L'ordine globale e l'ascesa delle grandi potenze regionali, in "Quaderni di Relazioni Internazionali", ISPI, n. 14 Maggio 2011; in questo senso rientrano le spinte dei paesi NATO per ritirarsi dall'Afghanistan e concentrarsi sul cortile di casa mediterraneo e in particolare sulla Libia; non solo una questione di costi, ma di priorità e significati che cambiano in relazione alle varie regioni e frammentano il sistema internazionale in molteplici blocchi potenzialmente autonomi.