2010

L'evoluzione dell'imamato in Europa e l'inquadramento del personale religioso musulmano
Riflessioni sociologiche e problemi socio-politici a partire dall'analisi della formazione e dello status dell'imām nel contesto francese

Valentina Fedele

Introduzione

L'islām d'Europa è all'attenzione delle scienze sociali dalla metà degli anni '80 (1), quando, soprattutto in virtù del passaggio, più o meno recente a seconda dei Paesi considerati, dall'immigrazione economica a quella di popolamento, (2) esso si afferma a pieno come un credo non più marginale e provvisorio legato alla migrazione, ma endogeno e autoctono, radicato e cresciuto nel cuore dell'Europa. La coscienza di questa realtà ha ingenerato negli analisti la necessità di cambiare il paradigma alla luce del quale i fenomeni connessi al fatto islamico erano generalmente analizzati e li ha spinti ad individuare nuovi strumenti e significati concettuali che permettessero di considerare il fatto islamico in relazione ad universo culturale diverso da quello a cui era tradizionalmente associato (Cesari, 2004; Roy, 2003).

Alla luce di questo cambiamento diversi autori hanno individuato dinamiche e caratteristiche proprie del credo musulmano d'Europa, evidenziando in particolare le conseguenze connesse ai processi di de-etnicizzazione, de-territorializzazione e de-culturazione (Fouad Allam, 2002; Roy, 2003; Allievi, 2005). Tali processi sono riconducibili alla peculiare condizione minoritaria dell'islām in Europa, le cui ricadute non sarebbero evidenziabili attraverso l'approccio classico, generalmente teso a considerare la religione musulmana come maggioritaria. L'islām stesso, peraltro, istituisce il suo calendario, e, di fatto, dà origine alla sua storia nel mondo, a partire dalla hijra ("emigrazione", 622 d.C.) da Mecca a Medina, quando "da gruppo minoritario, setta mal tollerata e marginale, diventa maggioranza, dunque legge, e governo" (Allievi, 2005:23).

L'islām europeo, quindi, si trova, oggi, in una condizione meccana più che medinese: è una minoranza, più o meno tollerata, ma pur sempre un gruppo religioso tra gli altri. Dal punto di vista sociologico, questo significa che l'islām deve ricostituire quella che Berger (1970) chiama struttura di attendibilità, ovvero una struttura che, derivata dal consenso sociale, rende attendibili le visioni della realtà. Ogni gruppo sociale ha la sua struttura di attendibilità, che conserva plausibile attraverso il consenso degli esseri umani che lo compongono e, in particolare, attraverso la conversazione: più persone fanno parte dello stesso discorso, più la concezione è stabile; viceversa, se le persone cambiano o diminuiscono, la concezione muterà (3).

A fronte del cambiamento del discorso maggioritario, l'islām deve, quindi, ricostruire la propria struttura di plausibilità, processo che, in un contesto plurale e pluralista, assume una valenza fortemente dinamica, acuita dalle pressioni della società circostante, che ne complicano la giustificazione.

Il processo coinvolge l'intera comunità musulmana a partire dai singoli credenti e tra questi, in particolare, i musulmani e le musulmane figli e figlie di immigrati, giovani nati e/o socializzati nel paese di accoglienza dei loro genitori, primi vettori dell'inculturazione (4) dell'islām in Europa, e portatori di istanze peculiari, derivate dalla necessità di mediare sistematicamente tra due universi di senso, quello familiare e quello sociale, più o meno apparentemente in contrasto, necessità che ingenera un ijtihād (sforzo interpretativo delle fonti) carica di conseguenze e innovazioni (5). Fondamentali sono, poi, in questo senso coloro che all'interno della comunità sono esplicitamente chiamati a legittimare l'inculturazione del credo, ovvero a tracciare il confine "tra adattamenti che sono teologicamente legittimi e altri adattamenti che non lo sono" (Berger, 1994:76).

A livello centrale, diversi attori si contendono questo ruolo in uno spazio di rappresentanza sostanzialmente vuoto: agenti interni ed esterni, vecchi e nuovi leader immigrati e non, associazioni islamiche nazionali, europee o internazionali, 'ulamā' e grandi imām dai paesi musulmani, rappresentanti di istituzioni governative o religiose, intellettuali musulmani europei (Allievi, 2005). A livello periferico, questo ruolo viene spesso ricondotto agli imām locali, guida di moschee o di comunità di preghiera più o meno ufficiali e organizzate, che hanno spesso nel quotidiano la funzione effettiva e cruciale di decidere gli adattamenti pratici del messaggio al contesto.

L'evoluzione del ruolo degli imām: approcci sociologici

Il ruolo degli imām assume una rilevanza sociologica peculiare nel processo di costruzione dell'islām d'Europa. L'assioma di Berger (1970), secondo cui ogni concezione del mondo può essere analizzata in riferimento alla sua struttura di attendibilità, ha una cogenza particolarissima quando si viene alle affermazioni religiose sul mondo: esse, infatti, naturalmente esenti dal vaglio dell'esperienza, dipendono fortemente dal consenso sociale e si prefiggono permanenza rispetto al tempo e allo spazio. Pratiche, riti e sistemi di legittimazione hanno, in questo senso, il fine di validarne l'attendibilità indipendentemente dai cambiamenti sociali. Le autorità religiose sono parte integrante del sistema di legittimazione, investite del compito primario di addomesticare e preservare il carattere straordinario dell'esperienza religiosa, di diffondere e rendere plausibile il credo (Berger, 1994).

Nel caso in cui le affermazioni religiose riguardino una minoranza conoscitiva, come nel caso dei musulmani d'Europa, il personale religioso, e nello specifico l'imām, è chiamato anche a svolgere una funzione di filtro e mediazione tra universi di senso.

La rilevanza sociologica dell'imām deriva anche dal legame esistente tra religione e tradizione. Secondo Hervieu Leger (1996), non c'è religione senza legittimazione dell'atto del credere da parte della tradizione. Per essere tradizione, però, ciò che viene dal passato deve essere a sua volta legittimato nel presente: per questo ogni tradizione deve essere elaborata, attraverso il ritrattamento permanente dei dati che un gruppo o una società riceve dal passato, fatto da persone in qualche modo investite di questa possibilità/autorità.

Gli imām sono spesso, quindi, i protagonisti primi di un processo fondamentale di rielaborazione della tradizione attraverso le dinamiche della società contemporanea. Essi sono chiamati a collegare passato e presente, a "dire memoria" (Hervieu Leger, 1996:248), funzione nucleare del potere religioso.

Nel caso dei giovani musulmani figli e figlie di immigrati questa funzione si amplia ulteriormente: le istanze particolari di cui essi sono portatori si legano spesso alla volontà di ri-conoscere l'islām nel suo messaggio originario, scevro dalle tradizioni culturali attraverso le quali si riproduce nelle famiglie, per adattarlo al contesto in cui si vive. I giovani musulmani, in questo senso, chiamano l'imām a dire una memoria rinnovata.

Dal punto di vista islamologico, la crescita del ruolo dell'imām si collega infine alla tendenza alla protestantizzazione rilevata da alcuni autori come caratteristica dell'islām a partire dalla fine del secolo scorso: tale tendenza non riguarda solo l'islām d'Europa ma, in un contesto diasporico e minoritario, essa è, per alcuni versi, più evidente e più veloce. Segni di questo processo possono, ad esempio, essere colti nella tendenza dottrinale al ritorno alla sola scriptura, che di fatto contribuisce alla de-tradizionalizzazione della religione e nella progressiva individualizzazione della fede, a fronte del proliferare di interpretazioni, più o meno legittime e legittimate dai credenti (Ernst, 2004).

Il segno più cogente, relativamente al personale religioso, è quello che Berger (1970), riferendosi al cattolicesimo e all'ebraismo d'America, indica come fondamentale, ovvero la presenza sempre più forte della chiesa - nel nostro caso moschea - come centro sociale della comunità religiosa e la posizione di primo piano assunta dal clero - nel nostro caso gli imām - nella vita quotidiana (6). Alcuni autori (Fregosi, 2005) si spingono oltre, considerando la valorizzazione degli imām un segno del progressivo adattamento dell'islām ad un ambiente fortemente marcato dal cristianesimo, nell'ambito del quale la figura storicamente dominante è quella del prete, a riprova, peraltro, della flessibilità e della capacità storica di disposizione della religione musulmana rispetto alle società in cui si trova.

L'evoluzione dell'imamato in Europa

La centralità del personale religioso assume significati peculiari se ricondotta alla nota teologica che vuole che l'islām sia una religione priva di un polo istituzionale riconosciuto e di un clero ufficiale, nel senso cattolico nel termine, ovvero di un intercessore tra uomo e Dio, che sia agente maggiore in termini di Salvezza. Se però, in una prospettiva durkheimiana (7), si considera il clero non subordinato ad una struttura particolare, ma legato alla preghiera e agli atti cultuali, comuni alla gran parte dei fenomeni religiosi e, comunque, a tutte le religioni storiche, si conclude che, sebbene l'islām rifiuti ogni mediazione tra Dio e uomo, nella pratica molti atti solenni richiedono la presenza di personale idoneo (Fregosi, 1998).

Limitando l'analisi all'ortodossia sunnita (8), oltre all'imām che guida le 5 preghiere quotidiane, un imām predicatore (imām khatīb) è incaricato di pronunciare il sermone (khutba) che precede la preghiera del venerdì. A fianco di questi, la religione riconosce la presenza di un personale religioso secondario, con funzioni puntuali quali, ad esempio, la chiamata alla preghiera, fatta dal mu'adhdhin, o la salmodia solenne del Corano fatta da un lettore (qāri'). Tra il personale religioso, in senso lato, ci sono poi sapienti nelle materie di diritto (fiqh) e di teologia (kalām), giuristi teologi o mujtahid, divisi tradizionalmente in fuqahā' e 'ulamā'. Funzione più solenne quella del muftī, incaricato di poter esprimere pareri giuridici (fatwā). Storicamente, le ultime figure ricordate hanno avuto un ruolo più definito e più rilevante di quello degli imām khatīb e delle cinque preghiere.

Dal punto di vista letterale, imām è colui che sta è davanti, che guida, che presiede. Il termine ha però significati diversi: quello più esteso è quello storico-politico, richiamato da Bausani (1995), di capo della comunità musulmana - più usualmente chiamato dai sunniti califfo (khalīfa), ossia vicario del Profeta. Questo imām al-'azīm - successore del Profeta - è un esecutore della sua legge e non un profeta a sua volta, non ha autorità docente o legislativa, e la necessità della sua presenza è strettamente legata alla buona organizzazione della città-stato (9).

Per quanto riguarda l'imām della preghiera, il Corano non ne parla direttamente. Nel testo sacro, la parola imām viene utilizzata sei volte e mai per riferirsi a una guida nel culto. In effetti, nei versetti 17:71 (10); 36:12 (11) e 46:12 (12) si riferisce a un libro, nel versetto 15:79 (13) a due località, nei versetti 17:71 (14) e 25:74 (15) a un collettivo di uomini e nel versetto 2:124 (16) ad una persona specifica, Abramo (Reeber, 1998).

Ulteriori elementi si ritrovano nella Sunna, dove comunque la funzione dell'imām non è centrale ed è presentata come transitoria ed intercambiabile: poche cose, infatti, distinguono l'imām dal fedele ordinario, anzi le condizioni per essere imām sono più o meno rigide, soprattutto nei termini di validità della preghiera, a seconda delle opere e delle scuole del fiqh. In linea generale un imām deve essere musulmano, conoscere il Corano (condizione che comunque non invalida la preghiera), essere adulto (ma non tutte le scuole sono d'accordo), nominato con l'accordo implicito o esplicito e, se possibile, con il consenso unanime della comunità (ma la mancanza di tale consenso non invalida la preghiera), e maschio, anche se ci sono diverse posizioni relative a quest'ultimo requisito (17).

Un embrione di istituzionalizzazione dell'imamato nella preghiera potrebbe derivare dalla prescrizione che a guidare la preghiera sia il capo della casa, che, anche qualora non sia particolarmente esperto, è investito di autorità morale: per estensione la persona chiamata a guidare la preghiera in una moschea è l'imām preposto in maniera continua a quella moschea.

In teoria, quindi, chiunque può fungere da imām e in effetti, all'inizio, il suo ruolo consisteva nel dirigere la preghiera rituale nella moschea e terminava, di fatto, con la fine della preghiera. Già nei primi decenni dopo la morte del Profeta, però, i suoi successori cominciarono a nominare uomini strettamente legati ad una moschea per l'animazione della preghiera, per la preghiera del venerdì, per insegnare nelle scuole coraniche, per occuparsi di atti giuridici come contratti di matrimonio o rituali come la sepoltura e per rispondere alle questioni morali dei credenti (Bausani, 1995).

Nell'epoca contemporanea, nei paesi a maggioranza musulmani, ogni moschea ha un imām che, però, come dimostrato da studi condotti in particolare nell'area maghrebina, ricopre un ruolo secondario, limitato agli aspetti tecnici relativi alle pratiche di culto, la cui capacità di autonomia nella predicazione è generalmente inquadrata in maniera rigida e controllata dallo Stato. Questa stretta sorveglianza delle moschee e del personale ad esse attribuito è in parte conseguenza dell'effervescenza che le ha circondate negli anni '70 e '80, quando moschee libere erano utilizzate come base e tribuna dei movimenti islamisti, inducendo successivamente i regimi musulmani ad assegnare loro una funzione strettamente cultuale (Godard e Taussing, 2007).

Al di fuori dello spazio tradizionalmente musulmano e, nel caso specifico, nell'ambito della diaspora europea, il campo di intervento dell'imām si amplia: moschee e luoghi di culto assumono sempre più una valenza simbolica e strategica fondamentale a livello comunitario ed identitario, diventano il luogo del riconoscimento pubblico - sia sociale che istituzionale dell'islām e dei musulmani, un punto di riferimento in termini di solidarietà, di incontro, di sostegno e di dibattito.

Allo stesso modo, l'imām cumula funzioni religiose, culturali, educative, politiche, sociali e civili: egli si occupa non solo delle preghiere, ma dell'educazione dei giovani e dell'accompagnamento spirituale dei fedeli; è mediatore sociale e culturale nei quartieri più difficili, dove funge da filtro tra i giovani, la polizia e le famiglie (Bouzar, 2001); è chiamato direttamente a dare consigli e sostegno individuale e collettivo sulla religiosità nella vita quotidiana.

La descrizione dell'imamato offerta dalla Charte du Culte Musulman en France (18), riprende questo ampliamento funzionale all'articolo 20: imām è colui che nella moschea "dirige la preghiera rituale cinque volte al giorno, organizza le preghiere speciali ed prepara il sermone per la preghiera del venerdì. Oltre alla direzione della preghiera, il suo ruolo è anche pedagogico: si occupa dell'insegnamento del Corano e della Sunna, dispensa l'educazione religiosa. Consacra un'attenzione particolare al coniugare lo sforzo costante di riflessione e di ricerca con un'altra funzione sensibile e preziosa per i fedeli: trovare delle risposte appropriate alle questioni legate agli aspetti giuridici o rituali della vita dei musulmani nel contesto della società francese; risposte compatibili con le esigenze di fede e rispettose della legge della Repubblica e della realtà dell'ambiente sociale. L'imām deve avere un comportamento morale e sociale esemplare, possedere una formazione riconosciuta e una buona conoscenza della lingua francese, informarsi sui problemi sociali, familiari ed individuali della sua comunità, mantenere in tutte le circostanze, specialmente sul piano politico, la neutralità inerente alla sua carica e alla separazione tra culti e stato" (19).

Se la crescita delle funzioni dell'imām è comprensibile in termini bergeriani, essa apre questioni e prospettive che riguardano, in generale, l'inquadramento del personale cultuale afferente ad una religione tradizionalmente priva di un sistema univoco di rappresentanza e di istituzionalizzazione del credo, e, più in particolare, due livelli discorsivi: in primis è necessario verificare se gli imām presenti sul territorio europeo siano cognitivamente pronti ad assolvere queste funzioni e se non sia necessaria una riformulazione dell'imamato, in considerazione della condizione minoritaria dell'islām. In questo senso, è fondamentale analizzare i percorsi ed i programmi formativi dedicati agli imām, valutandone la congruenza rispetto alle nuove istanze. Un secondo problema riguarda specificamente lo status economico, giuridico e sociale del personale religioso nell'ambito delle legislazioni nazionali e/o comunitarie, che, se sistematizzato, potrebbe garantire una certa sicurezza finanziaria e di ruolo, nonché l'effettiva indipendenza e neutralità richiamata dalla Charte du Culte Musulman en France.

Gli imām in Francia: approccio socio-demografico

Non è facile dare conto dell'effettivo numero degli imām francesi, né dei musulmani praticanti in Francia ai fini della valutazione della congruenza del numero dei primi rispetto ai secondi. Il computo dei musulmani è complicato da una legge del 1872 che, in base al principio di laicità, vieta i censimenti su base confessionale o etnica. In mancanza di cifre ufficiali (20), alcuni studi si sono basati sulla stima dei cosiddetti musulmani sociologici, «personnes susceptibles d'être musulmanes par filiation» (21), immigrati e francesi originari di paesi in cui l'islām è la religione dominante, approccio che dà origine a dati fortemente inesatti: il criterio dell'origine etno-nazionale esclude, infatti, dal novero dei musulmani i francesi convertiti, gli harkis e i musulmani francesi d'Algeria, includendo cristiani, ebrei, atei o agnostici originari di paesi a maggioranza musulmana. Altri studi considerano come criterio la dichiarazione, rilevata attraverso sondaggi, di essere musulmani (22) o l'adesione alle pratiche cultuali. Anche quest'ultimo criterio risulta, però, poco affidabile: generalmente la pratica considerata come discriminante, in analogia con il cristianesimo, è la partecipazione alla preghiera del venerdì, laddove essa non è tradizionalmente considerata obbligatoria dalle donne, e, nel quotidiano, potrebbe essere impedita da impegni lavorativi (23). Seguendo il criterio utilizzato da Godard e Taussing (2007) e incrociando a forbice le statistiche sui musulmani sociologici e i sondaggi sulle pratiche, si contano circa 5 milioni di musulmani in Francia, di cui 1.5 milioni Algerini di nazionalità o d'origine, 1 milione Marocchini, 400.000 Tunisini, 340.000 originari dell'Africa sub-sahariana, 313.000 Turchi, 70.000 originari d'Asia (in maggioranza Iraniani e Libanesi) e una minoranza presente nei Territori d'Oltremare. A questi vanno aggiunti un numero estremamente variabile di Francesi convertiti, tra i 40.000 e i 140.000. Quanto alla pratica, l'inchiesta dell'IFOP «Enquête sur l'Implantation et l'Évolution de l'Islam de France» (24) del 2009 riferisce che tra le persone di origine musulmana il 33% si definisce praticante, il 38% credente non praticante. (25)

Anche il censimento degli imām risulta assai problematico, soprattutto perché legato a quello dei luoghi di culto, che, incentrato su moschee ufficiali grandi e medie, ignora i numerosi luoghi di culto ufficiosi allestiti in piccoli capannoni, garage o scantinati di condomini. Secondo l'indagine del Ministero degli Interni del 2004, i luoghi di culto riconosciuti in Francia sono circa 1.800, guidati da 1.026imām, 555 dei quali esercitano il loro ufficio regolarmente, 318 imām khatīb e 153 imām occasionali. Gli imām marocchini sono i più numerosi, circa il 31,3 % del totale, che arriva fino al 40%, considerando che la maggior parte degli imām di nazionalità francese è composto da Marocchini naturalizzati (26). Seguono gli imām algerini (circa il 20,3%), gli imām di nazionalità francese (19,8%, circa 203, di cui solo 30 giovani di seconda generazione). Circa il 13% sono gli imām turchi, mentre minoritari sono i rappresentanti dell'Africa Occidentale (Maliani, Senegalesi, Mauritani, Burkinabè), ai quali andrebbero aggiunti però un numero non definibile di marabut, afferenti alle diverse confraternite (qādiriyya, tijāniyya, murīdiyya). Residuale è, infine, la presenza di imām provenienti dal Vicino e Medio Oriente.

Solo 49 imām hanno meno di 30 anni, 512 tra i 30 e i 50 anni e 465 più di 50. Considerando che, come rilevato dal sondaggio IFOP, il 63% dei musulmani di Francia ha meno di 34 anni, va sottolineata l'enorme distanza anagrafica tra l'età del personale di culto e quella dei fedeli. Per quanto riguarda poi la lingua francese, meno del 30% degli imām ne ha una buona conoscenza, mentre il restante 70% oscilla tra una conoscenza media e la totale impossibilità di esprimersi (Sellam, 2006; Godard e Taussing, 2007).

Al computo degli imām vanno aggiunti coloro che, ogni anno, arrivano sul suolo francese, su chiamata diretta delle moschee o delle federazioni musulmane (27), a sostegno della gestione di eventi e feste particolari: nel 2008 circa 200 sono stati invitati dal CFCM (Conseil Français du Culte Musulman) dall'Algeria e dalla Turchia, in occasione della festa della rottura del digiuno (īd al-fitr) (28).

I due terzi degli imām esercitano a titolo volontario e a margine di ulteriori attività, gli altri vengono in genere finanziati totalmente o parzialmente da associazioni locali o direttamente da stati esteri. In particolare, gli imām marocchini hanno lo status economico più precario: essi sono per la maggior parte imām predicatori e itineranti, riconducibili alla organizzazione Tablīgh (29), o operai in pensione e diplomati di madrasa secondarie marocchine, cooptati su base etno-regionale. Circa la metà degli imām algerini sono, invece, funzionari dello Stato, in missione quadriennale presso la GMP (Grande Mosquée de Paris) (30). Il controllo dello stato di origine sugli imām turchi è ancora più forte: questi, spesso diplomati in una università islamica turca e quasi mai francofoni, per circa la metà sono inviati presso associazioni turche che ne fanno richiesta tramite la DITIB (Diyanet isleri türk islam birligi) (31) in Francia, che li gestisce direttamente; l'altra metà fa quasi del tutto riferimento al movimento Milli görüş (32) (Godard e Taussing, 2007). La presenza discreta degli imām turchi rispecchia il diverso percorso storico-migratorio di questa comunità nel contesto francese, arrivata relativamente di recente, in un paese con il quale non condivide forti legami coloniali. Gli imām turchi sono generalmente più inquadrati e più preparati degli imām magrebini, ma partecipano meno attivamente al processo di inculturazione, essendo di fatto organizzati nel contesto di una gestione fortemente etno-comunitaria.

La formazione degli imām in Francia: cenni storici

A fronte dell'evoluzione dell'imamato e delle nuove istanze sociali e politiche ad essa collegate, gli imām risultano, quindi, in numero non sufficiente, per lo più impreparati sulla società francese, con scarsa o nulla padronanza della lingua, sottopagati o non pagati affatto, e, di conseguenza, con legami molto forti con i paesi d'origine in termini sia culturali che finanziari. Proprio quest'ultimo elemento si è rivelato particolarmente rilevante nel dibattito, all'inizio estremamente politico, che, a partire dagli anni '80, ha rispecchiato le preoccupazioni dei poteri pubblici di dotare l'islām di una rappresentanza centrale unificata e di un personale organizzato, con una formazione adatta alle sue missioni e alla società circostante, in grado si opporsi alle derive fondamentaliste, o presunte tali, in particolar modo in relazione ai giovani (Fregosi, 2005). Solo negli anni '90, questo dibattito venne inserito nell'agenda delle organizzazioni musulmane (33) di Francia, che, concentrate sull'ottenere un riconoscimento pubblico a livello centrale, sembravano aver trovato fino ad allora del tutto adeguata la filiera tradizionale di importazione dei quadri religiosi dai paesi d'origine, come la presenza di anziani imām volontari, spesso autodidatti e autoproclamati, con una formazione religiosa minima. In risposta alle sollecitazioni politiche ed istituzionali, nascono, così, i primi tre istituti privati di formazione: nel 1991, l'Institut Européen des Sciences Humaines (IESH), a Château-Chinon, che inizia la sua attività nel 1992; nel 1993, l'Université Islamique de France (UIF), trasformatasi poi in Institut d'études islamiques de Paris (IEIP), che chiuderà definitivamente nel 2002; nel 1994, l'Institut Musulman de la Mosquée de Paris (IMMP) al-Ghazāli inaugura una sezione per la formazione degli imām. L'anno dopo a Saint Ouen apre una sede francese dello statunitense International Institute of the Islamic Thought (IIIT), di ispirazione neo-riformista.

Negli anni seguenti i differenti governi si impegnano a sostenere i tentativi di istituzionalizzazione della formazione degli imām organizzando gruppi e consulte miste di lavoro tra amministrazioni pubbliche e organizzazioni musulmane (da cui generalmente sono esclusi gli imām), soprattutto dopo che i fatti dell'11 settembre 2001 riaccendono le preoccupazioni riguardo ai percorsi religiosi di alcuni giovani coinvolti da militanti di scuole letteraliste di origine pakistana e riguardo all'influenza della retorica wahhabita (34). I lavori delle diverse commissioni però si arenano sulle reticenze rispetto al finanziamento pubblico delle eventuali università e/o centri di formazione, sulle preoccupazioni espresse da una parte della gerarchia cattolica, sulla possibile forma giuridica di un eventuale istituto di teologia musulmana e sulla difficoltà di determinare un'unica autorità religiosa di riferimento.

Nel 2003 viene creato un comitato di esperti, composto da storici, giuristi, islamologi, ricercatori, membri del CFCM (ad esclusione degli imām), con il compito di elaborare riflessioni e proposte operative sull'aggiornamento degli imām già esercitanti, sulla forma giuridica dell'eventuale centro di formazione e sulla definizione di programmi di insegnamento che unissero scienze islamiche classiche e insegnamenti moderni (linguistica comparata, critica storica della laicità e delle istituzioni pubbliche, sociologia delle religioni, diritto civile). Vista la presenza del CFCM, ufficiosamente sarebbe stata questa istituzione a realizzare il progetto, che, finora, non ha visto la luce. Egualmente naufragato, anche se più volte riproposto, è il progetto ormai ventennale, sostenuto da diversi intellettuali francesi (musulmani e non), tra i quali Mohammed Arkoun, di creare un corso universitario di teologia musulmana all'Università di Strasburgo, sulla struttura del corso di teologia cattolica e protestante (Fregosi, 1998). Nel frattempo però sono nati diversi istituti privati superiori musulmani, come l'Istitut Avicenne di Lille o l'Institut Méditerranéen d'Etudes Musulmanes (IMEM) di Marsiglia, in seno al quale si inserisce la formazione dei quadri religiosi, sebbene ancora in maniera informale dal punto di vista sia didattico che giuridico.

Ad oggi sono ancora solo due gli istituti privati in grado di rilasciare effettivamente un diploma di imām: l'Istituto al-Ghazāli e L'IESH.

L'Istituto al-Ghazāli e l'IESH: una valutazione comparata dei programmi di formazione

L'Istituto al-Ghazāli e l'IESH hanno caratteristiche endogene profondamente diverse. Il primo ha cercato di proporsi fin dalla sua costituzione come il luogo dell'islām moderato e del rinnovamento teologico, nell'ambito del quale la formazione ha l'obiettivo dichiarato di "contribuire alla formazione dei quadri religiosi così necessari all'islam di Francia, in uno spirito universitario e culturalmente aperto", (35) in modo da creare un personale di culto in grado di combattere il proselitismo di gruppi sospetti tra i giovani.

L'IESH, dal suo canto, è stato più volte tacciato di avere un forte legame ideologico con i Fratelli Musulmani; in effetti i suoi rapporti finanziari e politici con l'UOIF, considerata l'espressione francese del movimento, e la presenza nel consiglio di amministrazione di 'ulamā' conosciuti del mondo arabo per il loro attivismo o sostegno al movimento (in particolare Yūsuf al-Qaradāwi) non favoriscono un cambiamento di prospettiva da parte dei poteri pubblici e di alcune associazioni musulmane (Fregosi, 2005). Ciononostante, i due istituti hanno in comune la forte dipendenza dai finanziamenti esteri sotto forma di donazione o accordi di partenariato (36) e la doppia logica che sottende la formazione proposta di arabizzazione e islamizzazione (Fregosi, 1998), o meglio, vista la particolare attenzione ai giovani, di re-islamizzazione.

Questi due elementi sono rilevabili nell'impostazione dei programmi offerti: tutti gli insegnamenti ad orientamento teologico e giuridico sono dispensati da insegnanti musulmani esclusivamente in lingua araba classica, limitando implicitamente la possibilità sia di attrarre dei giovani musulmani nati in Francia, sia di utilizzare e approfondire pubblicazioni dedicate all'islām in lingua francese. Di fatto, quindi, l'insegnamento finisce per indirizzarsi a giovani musulmani già attivi nel campo religioso, che hanno seguito scuole coraniche e sono in grado di utilizzare l'arabo classico come prima lingua.

Inoltre, in contrasto con la volontà dichiarata di rendere la formazione aperta e adatta al contesto, i due istituti, con gradi differenti, permangono fortemente teologici e tendono a valorizzare la dimensione normativa (fiqh e sharī'ā,) dell'islām a detrimento di quella spirituale.

Analizzando i programmi di studio (37), gli insegnamenti possono essere raggruppati in tre macro-aree: teologica, giuridica e culturale. In entrambi gli istituti, ma più marcatamente all'IESH, l'area teologica è dominata dalla tradizione malikita (38) (maggioritaria nei paesi del Maghreb, ad esclusione della parte orientale dell'Egitto), cui afferiscono gli insegnamenti di memorizzazione (hifz), ortoepia (tajwīd) del Corano (39), Scienze del Corano ('ulūm al-Qur'ān), Dottrina Islamica ('aqīda), Esegesi coranica (tafsīr), Scienze del hadith ('usūl al-hadith).

La prevalenza della scuola malikita si fa più evidente nella macroarea giuridica dove nell'ambito degli insegnamenti di Giurisprudenza della Famiglia, Fondamenti della Giurisprudenza ('usūl al-fiqh), hadīth giuridici, Giurisprudenza delle Transazioni, Diritti di Successione, Giurisprudenza della Priorità, Finalità della sharī'a, i testi suggeriti sono pressoché totalmente di ispirazione malikita. Accanto a questi insegnamenti comuni, l'IESH aggiunge un corso su fatwā e Corti Giuridiche Contemporanee (Qadāya fiqhiyya mu'āsira).

Le differenze maggiori in questo ambito riguardano lo spazio al di fuori dell'ortodossia sunnita: l'Istituto al-Ghazāli affronta lo studio del pensiero non ortodosso (kharigiti, sciiti, mu'taziliti, ash'ariti, maturiditi) nel corso di Correnti del Pensiero Islamico e in quello di Sufismo, insegnamento esplicitamente dispensato in ragione della storia importante del sufismo in Francia, con riferimenti a testi di Jalāl al-din Rūmī e Ibn 'Arabī. All'IESH questo spazio si riduce notevolmente e si limita ad un insegnamento significativamente chiamato Sette dell'islām, mentre il sufismo è parzialmente evocato nel corso Purificazione Spirituale (tazqiya), che utilizza testi di mistici considerati teologicamente corretti, tra i quali non figura, per esempio, Ibn 'Arabī (40) (Fregosi, 2005). In compenso, nella formazione trova ampio spazio il riformismo ortodosso di Rashīd Ridā, Mawdūdī e Hasan al Bannā - al quale è dedicato un corso specifico di harakāt al-islāh. I due istituti divergono ancora di più relativamente allo spazio che nella macroarea culturale è dedicato alla cultura occidentale. L'Istituto della Moschea di Parigi, prevede corsi di Filosofia Occidentale e di Scienze Umane, Psicologia sociale, Comunità Europea, Istituzioni Francesi, basati essenzialmente su dispense preparate dai professori e dalla portata alquanto limitata. Sono inoltre insegnate la lingua araba e la lingua francese, nonché elementi di traduzione, in relazione alla funzione teologica e religiosa dell'imām. Per quanto riguarda l'IESH, l'approfondimento della cultura occidentale non rientra nel biennio di formazione per imām, ma nel corso di Studi Islamici (propedeutico per chi sceglie di seguire tutta la filiera formativa presso l'Istituto) si rileva una certa attenzione - anche se ancora una volta di portata limitata - a materie come Psicologia, Sociologia, Tecniche della Comunicazione, Relazioni Internazionali, Civiltà Occidentale Contemporanea. In entrambi i percorsi mancano però riferimenti alla lingua francese.

La formazione degli imām: aspetti critici

La formazione proposta evidenzia molte lacune rispetto ai propositi dichiarati di voler sostenere la creazione di quadri religiosi in grado di guidare e predicare l'islām alla luce del contesto sociale di riferimento. In primo luogo, come già sottolineato, gli insegnamenti sulla società francese e sulle possibilità di adattamento del messaggio coranico a quest'ultima sono scarsi e non permettono di approfondire le questioni fondamentali dal punto di vista teologico, sociologico e politico. Uno spazio insufficiente è lasciato agli apporti dell'islamologia contemporanea e all'esegesi storico-critica delle fonti. In particolare, non si accenna alle opere degli intellettuali europei musulmani, quale, per esempio, Tariq Ramadan (41), da molti giovani musulmani considerato un riferimento fondamentale per comprendere come vivere coerentemente la propria fede nel contesto francese e come renderla una risorsa personale e sociale, il cui approfondimento, invece, potrebbe dotare i futuri imām di utili strumenti per affrontare le necessità della crescente comunità giovane adulta, nonché di orientamenti concettuali e teorici sulle specificità di un islām di Francia.

Inoltre, proprio in considerazione della centralità della figura dell'imām rispetto ai giovani musulmani, nei termini di strutturazione della plausibilità delle credenze, emergono ulteriori limiti, a cominciare dall'aspetto linguistico. L'insegnamento del francese nei programmi analizzati è marginale o completamente assente, come nel caso dell'IESH. Il problema del linguaggio si pone soprattutto in relazione agli imām già attivi sul territorio, arrivati in gran parte attraverso la filiera tradizionale, il cui aggiornamento non trova posto nei programmi analizzati. A livello locale, alcune associazioni e moschee musulmane si sono auto organizzate, sostenendo l'iscrizione dei propri imām a facoltà delle Università Francesi, invitando esperti specialisti (storici, teologi e sociologi) per attività seminariali, o organizzando veri e propri corsi e, nel frattempo, dividendo strategicamente i ruoli di imām khatīb (generalmente francofono) e imām delle cinque preghiere.

Ma la formazione proposta risulta insufficiente anche nei confronti dei bisogni religiosi della comunità musulmana tutta. L'insistenza sul credo e sulla giurisprudenza malikita, pur essendo in linea con la prevalenza ancora forte in Francia di comunità etno-nazionali nord africane, presenta rischi in termini di comunitarismo, considerando il processo di eterogeneizzazione delle migrazioni e la relativa diversificazione dei paesi di partenza e, quindi, delle scuole giuridiche di afferenza dei credenti, potrebbe ben presto risultare del tutto inadatta: l'attenzione su una sola lettura, una sola scuola giuridica e un solo modo di essere musulmani rischia, infatti, di creare conflitti e situazioni paradossali (42).

La scollatura evidente tra la formazione proposta e la possibilità di trovare un lavoro remunerato in maniera congrua rende, infine, difficile che il percorso formativo proposto possa attrarre i giovani, al di là della volontà di approfondire la conoscenza del proprio credo: di conseguenza, da una parte, nei due istituti analizzati il numero degli studenti (nel 2006 circa 150 frequentanti all'IESH e 200 all'Istituto al-Ghazāli (43)) è inferiore alle previsioni e al bisogno, come dimostrato dal ricorso continuo a imām di "sostegno" per le feste annuali; dall'altro, la possibilità che a diventare imām siano musulmani nati e cresciuti in Francia, è limitata, laddove, essendo essi stessi parte del processo di inculturazione, sarebbero più adatti dal punto di vista linguistico e cognitivo.

Lo status dell'imām in Francia: problemi socio-politici e giuridici

La questione della retribuzione economica degli imām introduce la problematica più ampia dello status sociale, giuridico ed economico dei quadri religiosi musulmani francesi, nel contesto generale della necessità e della problematicità per il culto musulmano di dotarsi di mezzi che ne assicurino un'autonomia piena ed intera, rispetto alle istituzioni nazionali e internazionali (Buffin, 1998).

La tradizione classica prevede che gli imām siano retribuiti solo per le funzioni amministrative, giuridiche ed educative e non per quelle liturgiche e, in questo senso, l'ampliamento del mandato potrebbe garantire loro un buon status salariale, giustificato dal punto di vista teologico e giuridico. Di fatto, però, in Francia la situazione è estremamente eterogenea: la gestione delle moschee e dei luoghi di culto assume la forma giuridica di associazione, ed è l'associazione a pagare del tutto o parzialmente l'imām, che, quindi, dipende totalmente dal presidente o dall'amministratore della stessa. Una posizione salariale così precaria è difficilmente compatibile con la neutralità auspicata dalla Charte du Culte Musulman en France.

Gli imām occasionali o itineranti spesso non sono retribuiti o ricevono qualche compenso non ben definito: molti sono coloro i quali guadagnano in modo informale attraverso la remunerazione di certe funzioni, come la pronuncia della fātiha (sura aprente) ai matrimoni o l'accompagnamento della sepoltura, fungendo da intermediari presso le agenzie di viaggio in occasione del pellegrinaggio o implementando pratiche magico rituali, come la costruzione, prevista dalla scuola malikita, di amuleti (ma'adha), sottoforma di ciondoli contenenti versetti del Corano, pratica che costituisce una fonte di reddito non trascurabile (Buffin, 1998). Molti imām, come già sottolineato, percepiscono il salario direttamente da paesi musulmani, ma anche laddove il pagamento sia indiretto (laddove, cioè, il paese estero sostenga l'associazione e attraverso di essa la moschea e il suo personale di culto) è evidente che si creino le condizioni per la perpetuazione di un legame di forte dipendenza, se non di controllo, tra paese finanziatore e imamato francese. Questo problema riguarda l'intera filiera, in prima istanza gli istituti di formazione, e si riflette direttamente nella scelta degli insegnanti, degli insegnamenti e dell'impostazione teologica dei corsi: la prevalenza della scuola malikita dipende anche dal coinvolgimento economico e politico degli Stati del Maghreb, attraverso ambasciate, enti benefici e Università.

Eppure, come sottolinea Messner (1998), alcuni strumenti giuridici del diritto francese permetterebbero una relativa indipendenza della formazione e dei luoghi di culto dai finanziamenti esteri. Storicamente, cristianesimo ed ebraismo hanno beneficiato di un sostegno iniziale da parte dello stato per la creazione di seminari o scuole teologiche anche private, mentre, l'islām, riconosciuto come religione solo sul territorio algerino, non ha mai avuto alcun sostegno. Questo precedente, stabilito con altri credi, aprirebbe margini di intervento, se coniugato con una interpretazione non negativa del principio di laicità e di neutralità religiosa, spesso invocato per contrastare la creazione di una facoltà di teologia musulmana.

Nel campo educativo, santuario della laicità francese, l'interpretazione negativa finisce per non corrispondere alle disposizioni legislative e regolamentari effettivamente applicate: se l'amministrazione è tenuta a rispettare la libertà dell'insegnamento religioso, si deve anche assicurare che questa libertà possa esercitarsi pienamente. E' questa la ratio che soggiace ai finanziamenti che, in deroga all'interpretazione restrittiva del principio della neutralità dello stato, vengono accordati regolarmente sia a scuole private confessionali, sia a istituti di insegnamento superiore privato confessionale, sia alle facoltà di teologia degli istituti cattolici e degli istituti protestanti. Il problema ostativo, evidenziato dall'autore e da molti altri osservatori, è, quindi, quello della mancanza di un interlocutore rappresentativo degli imām e dell'islām francese in generale. L'Institut Musulman de la Mosquée de Paris si è mosso in tal senso strutturando un embrione di organizzazione di culto con a capo il Gran Muftī della Moschea di Parigi, cui fanno capo 6 muftī regionali, cui fanno capo formalmente i vari imām di una stessa regione. Questo controllo si esercita, però, solo sulle moschee che riconoscono la leadership della Moschea di Parigi. Altre organizzazioni musulmane ne hanno, comunque, seguito l'esempio: nel 1996, l'effimero Haut Conseil des Musulmans de France (HCMF) crea il Conseil National des Imams, per occuparsi delle istanze teologiche del detto consiglio e, l'anno dopo, la Fédération Nationale des Musulmans de France (FNMF) si dota della Coordination Nationale des Imam et Guides Religieux (CNIGR).

Nello stesso tempo, la mancanza di un'istanza regolatrice unica provoca una gestione precaria dello status giuridico degli imām. Per quanto riguarda coloro i quali hanno nazionalità straniera, sia esercitanti sul territorio, sia chiamati occasionalmente per gestire eventi particolari, la situazione amministrativa, oltre alle difficoltà derivanti dalla regolamentazione dell'immigrazione in generale, risente dell'assenza di un quadro di riferimento che stabilisca i criteri di attribuzione del titolo di soggiorno per il personale cultuale. La conseguenza è che spesso l'autorità amministrativa, non potendo, in base alla legge sulla laicità del 9 dicembre 1905, intervenire direttamente, si regola caso per caso, coniugando, più o meno arbitrariamente, criteri di ordine pubblico, notorietà dell'interessato e necessità dei luoghi di culto.

Tutti gli imām, indipendentemente dalla loro nazionalità, hanno, inoltre, difficoltà di inserimento nelle misure di protezione sociale, di cui beneficiano le altre religioni. La legge del 19 ottobre 1945 prevede che a tutti i Francesi e a tutti gli stranieri residenti in Francia spetti una copertura sociale, comprendente l'assicurazione per la malattia, la pensione di anzianità, il diritto al sussidio familiare. La legge del 2 gennaio 1978, relativa al regime di sicurezza sociale dei ministri di culto, ha previsto delle disposizioni particolari per il personale religioso, i membri di congregazioni e di collettività religiose, che non dispongano di altra copertura di sicurezza sociale. Sono state quindi create due casse: la CAMAC (Caisse Mutuelle d'Assurance Maladie des Cultes) che copre l'assicurazione malattia e la maternità e la CAMAVIC (Caisse mutuelle d'Assurance Veillesse des Cultes) che assicura le pensioni di anzianità, reversibilità ed invalidità.

Ancora una volta, in base alla legge sulla laicità, spetta a ciascun culto fissare e precisare la propria nozione di ministro ed indicare i membri ai quali, secondo criteri definiti, è conferita la funzione di guida della comunità religiosa.

In mancanza di un'istituzione centrale islamica, manca, quindi, l'autorità che qualifichi il ministro del culto musulmano, impresa particolarmente ardua se si considera la gamma eterogenea di posizioni e status giuridici e finanziari, cui afferiscono gli imām: in questo modo solo coloro i quali sono salariati e non risultano soci dell'associazione cultuale possono beneficiare della previdenza sociale in base alla legge del 1945 (44) (Buffin, 1998).

Conclusioni

Il problema dell'inquadramento del personale religioso musulmano è particolarmente complesso e si situa al crocevia di preoccupazioni politiche da parte di istituzioni pubbliche e organizzazioni cultuali in Francia e nei Paesi a maggioranza musulmana, di questioni teologiche e pratiche che riguardano l'organizzazione del credo in generale, di contrapposizioni etno-nazionali e di sollecitazioni che provengono dalla comunità musulmana di Francia e dai giovani in particolare. Intanto, a fronte dell'instabilità e della precarietà dell'istanza rappresentativa e di mediazione, gli imām vedono apparire altre figure sulla scena nazionale ed europea che, di fatto, adempiono alla funzione, che abbiamo definito nucleare del potere religioso, di dire e rinnovare memoria e che rispondono alle necessità derivanti dall'inculturazione del credo musulmano. Non tutte queste figure rientrano nelle categorie classiche del credo musulmano: accanto all'islām pietista degli imām Tablīgh predicatori, spesso senza moschea fissa, che esercitano un forte ascendente, soprattutto nei quartieri popolari, si trovano imām virtuali, più o meno famosi, consultati sul web per consigli giuridici e pareri sul vivere quotidiano, che di sovente rivelano un'impostazione letteralista e ortodossa di stampo wahhabita.

Alcuni intellettuali musulmani, come il già citato Tariq Ramadan, i cui discorsi, messaggi e teorizzazioni sull'islām d'Europa sono largamente diffusi attraverso libri, audiocassette, cd, opuscoli e conferenze, e altri numerosi attivisti, uomini e donne, generalmente di origine immigrata, ma nati e/o cresciuti nei paesi europei, diffondono un messaggio di ispirazione neo-riformista che arriva al punto di sconsacrare le figure classiche di mediazione religiosa, e gli imām, in particolare, dichiarandole non sostituibili alla capacità di impegno dei musulmani di base.

Fa riflettere che la forza di questi attori sembra risiedere proprio in quegli ambiti in cui si evidenziano i maggiori problemi relativi alla formazione e allo status degli imām: l'uso del francese come lingua di comunicazione religiosa, l'enfasi sull'indipendenza dell'islām di Francia dai poteri statuali e cultuali dei paesi musulmani, il fatto di risultare, soprattutto nel caso degli intellettuali, portatori essi stessi di inculturazione, espressione vivente dell'essere musulmani d'Europa.

Bibliografia

  • Allievi S. (2005), Musulmani d'Occidente, Carrocci, Roma.
  • Bausani, A. (introduzione, traduzione e commento a cura di) (1997), Il Corano, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano.
  • Bausani, A. (1995), L'Islam, Garzanti, Milano.
  • Berger P.L. (1970) [1969], Il Brusio degli Angeli, Il Mulino, Bologna.
  • Berger P.L. (1994) [1992], Una Gloria Remota. Avere Fede nell'Epoca del Pluralismo, Il Mulino, Bologna.
  • Bouzar, D. (2001), L'Islam des Banlieues, Syros, Paris.
  • Buffin, F. (1998), Les Imams et la Sécurité Sociale: État des Lieux et Perspectives, in Frégosi, F. (dir.), La Formation des Cadres Religieux Musulmans en France, L'Harmattan, Paris.
  • Cesari J. (2004), Musulmani in Occidente, Vallecchi, Firenze.
  • Durkheim E. (1971) [1912], Le Forme Elementari della Vita Religiosa, Edizioni Comunità, Milano.
  • Ernst, C. W. (2004), Following Muhammad: Rethinking Islam in the Contemporary World, Edinburgh University Press, Edinburgh.
  • Fouad Allam, K. (2002), L'Islam Contemporaneo, in G. Filoramo (a cura di), L'Islam, Laterza, Roma-Bari.
  • Frégosi, F. (dir.) (1998), La Formation des Cadres Religieux Musulmans en France, L'Harmattan, Paris.
  • Frégosi, F. (2005) Pour une formation des imams de France.
  • Geoffroy, E. (1998), La Direction Spirituelle en Islam: Statut et Fonctions du Maître Soufi in Frégosi, F., La Formation des Cadres Religieux Musulmans en France, L'Harmattan, Paris.
  • Godard, B. e Taussing, S. (2007) Les Musulmans en France, Laffont, Paris.
  • Hervieu Léger, D. (1996) [1986], Religione e Memoria, Il Mulino, Bologna.
  • Le Bars, S., (2008), Le Maroc a envoyé 150 religieux en France pour assurer le ramadan, Le Monde 6 septembre.
  • Messner, F. (1998), L'Enseignement de la Théologie à l'Université Publique: l'Exemple de la création d'une faculté de théologie musulmane à Strasbourg, in Frégosi, F. (dir.), La Formation des Cadres Religieux Musulmans en France, L'Harmattan, Paris.
  • Reeber, M. (1998), Les Représentations de l'imamat chez Sayyid Qutb (1906-1966) in Frégosi, F., La Formation des Cadres Religieux Musulmans en France, L'Harmattan, Paris.
  • Roy O. (2003), Global Muslim. Le Radici Occidentali del Nuovo Islam, Feltrinelli, Milano.
  • Sellam, S.(2006), La France et ses Musulmans, Fayard, Paris.
  • Shnapper, D. (2008), Les Enjeux Démocratiques de la Statistique Ethnique, en Revue Française de Sociologie, volume 49, n.1.
  • Stehly, R.(1998), L'imamat des cinq prières selon Chāfi'ī et ibn Qudāma in Frégosi, F., La Formation des Cadres Religieux Musulmans en France, L'Harmattan, Paris.
  • Ventura, A. (2002), L'islam Sunnita nel Periodo Classico (VII-XVI secolo), in G. Filoramo (a cura di), L'Islam, Laterza, Roma-Bari.
  • Weber M. (1961) [1922], Economia e Società, Edizioni di Comunità, Milano.
  • Weibel N. B. (1998), L'Encadrement Religieux au Féminin, in Fregosi, F., La Formation des Cadres Religieux Musulmans en France, L'Harmattan, Paris.

Note

1. Questo articolo è parte di una tesi dottorato in corso di svolgimento, presso il Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica dell'Università della Calabria, sul processo di inculturazione dell'islām in Europa, esaminato attraverso le rappresentazioni, le pratiche e le dinamiche di giovani tra i 18 ed i 36 anni, figli e figlie di immigrati di origine magrebina. Nell'analisi un particolare rilievo viene dato ai canali di informazione e diffusione dell'islām d'Europa, in particolare gli imām, le nuove tecnologie e gli intellettuali musulmani.

2. Ai fini dell'analisi saranno presi in considerazione soltanto i musulmani immigrati o di origine immigrata. Ricordiamo che l'islām d'Europa è composto da diverse anime: dal punto di vista socio-demografico, oltre ai musulmani propriamente d'Europa, in gran parte di Albania e di paesi dell'area balcanica, la categoria dei musulmani europei comprende immigrati musulmani, discendenti di immigrati musulmani, convertiti, discendenti di convertiti, coppie religiosamente esogame e figli di coppie esogame; dal punto di vista teologico, vi sono rappresentate diverse scuole giuridiche, diverse confraternite, diverse lingue, diverse tradizioni.

3. L'insieme delle spiegazioni, delle giustificazioni e delle teorie più o meno coerenti e sistematiche che sorreggono le concezioni sul mondo costituisce la loro legittimazione. Unendo il consenso sociale, i discorsi e le legittimazioni alla base di una certa concezione, abbiamo la struttura di attendibilità della concezione stessa. (Berger, 1970).

4. Berger (1994) elabora il concetto di inculturazione, mutuandolo dagli studiosi delle missioni cristiane, e lo riferisce al processo di adattamento sociale e culturale subito dalle chiese originariamente occidentali, stabilite in ambienti non occidentali.

5. Sul significato e la rilevanza dell'ijtihād e più in generale sull'islām sunnita del periodo classico vedi Ventura (2002).

6. D'altra parte, nell'era moderna e contemporanea, è stato il protestantesimo che per primo ha subito l'attacco della secolarizzazione e che per primo si è adattato a una società in cui esistevano fedi diverse, scontrandosi con le sue sfide conoscitive.

7. Durkheim (1971 [1912]), in Le Forme Elementari della Vita Religiosa, sottolinea che anche nelle società meno organizzate ci sono generalmente uomini che, a causa dell'importanza del ruolo sociale che rivestono, sono designati per esercitare un'influenza direttrice sulla vita religiosa.

8. Storicamente la figura dell'imām risulta differente presso i musulmani sciiti vedi Bausani (1995); per un approfondimento, invece, della figura di guida spirituale nel sufismo, vedi Geoffroy (1998).

9. Chiaramente questo tipo di concezione si adattava alla situazione immediatamente successiva alla scomparsa del Profeta ed, in particolare, al periodo dei califfi ben guidati (al-khulafā' ar-rashidūna), quando guida religiosa e guida politica della comunità coincidevano perfettamente.

10. «Sarà forse simile a loro colui che ha dietro di sé un testimonio divino e davanti a sé il Libro di Mosè guida (imāman) e misericordia?» (trad. Bausani, 1997).

11. «In verità, siamo Noi che suscitiamo a vita i morti e scriviamo quel che hanno operato e le tracce che lasciaron sulla terra: ogni cosa abbiamo computato in un archetipo chiaro (fī- imāmin mubīnin)» (trad. Bausani, 1997).

12. «E prima di questo il Libro di Mosè fu regola di vita (imāman) e segno di grazia» (trad. Bausani, 1997).

13. «E Noi ci vendicammo di loro, ed ecco quelle due città, chiari Segni esemplari (imāmin mubīnin)» (trad. Bausani, 1997).

14. «E un giorno chiameremo tutti gli uomini insieme con il loro Capo (bi-imāmihin), e coloro cui verrà dato il libro nella destra quelli lo leggeranno, e non sarà lor fatto torto neanche d'un filo» (trad. Bausani, 1997).

15. E che dicono: «Signore! Concedici nelle nostre spose e nella nostra progenie una frescura per gli occhi e facci modelli (imāman) pei timorati di Dio» (trad. Bausani, 1997).

16. «E quando il suo Signore provò Abramo in certe ingiunzioni e egli le obbedì e Dio gli disse "In verità io ti farò principe (imāman) del popolo" ed egli chiese: "E che ne sarà della mia posterità?" "Il mio patto, rispose Iddio, non s'applica agli empi"». (trad. Bausani, 1997).

17. Nell'islām ortodosso esistono diverse posizioni sulla questione dell'imamato femminile: secondo Shāfi 'ī, imām fondatore della scuola Shafi'ita, le donne possono guidare solo la preghiera di altre donne, ponendosi non alla testa, ma al centro delle oranti, seguendo l'esempio di Umm Salama Hind e 'Ā'isha, mogli del Profeta,. Nel caso in cui una donna diriga la preghiera di un gruppo misto la preghiera è valevole solo per le donne e non per gli uomini: tale prescrizione è basata su l'interpretazione del versetto 34 della sura 4 (Sura delle Donne) come "Gli uomini hanno per missione guidare le donne". Tale interpretazione è, però, controversa: il verbo utilizzato nel versetto è qawwāmuna, essere preposti, e alcuni autori lo hanno interpretato piuttosto come "Gli uomini hanno per missione di provvedere ai bisogni delle donne". Ahmad ibn Hanbal (fondatore della scuola giuridica hanbalita) sostiene, invece, che sia, comunque, riprovevole che una donna guidi la preghiera, anche se questo non ne invalida la preghiera stessa. Rispetto a questo punto, alcuni teologi giuristi come Sha'bi e Qatāda sono ancora più rigidi e sostengono che la preghiera guidata da una donna sia valida solo come preghiera supplementare; altri ancora la considerano del tutto proibita. Mālik ibn Anas (fondatore del rito malikita) sostiene che la guida della preghiera da parte di un imām donna è totalmente riprovevole, perché la stessa chiamata alla preghiera (adān) è vietata alle donne. Ibn Qudāma (giurista hanbalita), basandosi sul fatto che la guida della preghiera è un dovere obbligatorio (fard) e come tale presuppone la totale uguaglianza fra uomini e donne nel suo svolgimento, sostiene sia riprovevole per le donne la sola chiamata alla preghiera, inappropriata, perché fatta a voce alta: a parte ciò le donne hanno il diritto di guidare la preghiera, ponendosi al centro per evitare di esporsi e coprendosi il capo, ma anche nel caso in cui non si attenessero a queste ultime prescrizioni, la preghiera rimarrebbe valida. (Stehly, 1998) Nel contesto europeo, la questione dell'imamato femminile si ripropone in relazione alle nuove istanze comunitarie che attribuiscono all'imām non più solo la funzione della guida della preghiera. E' nel senso di tale rivalutazione che vanno letti una rivalutazione i corsi - paralleli a quelli per imām - di cappellanato, che hanno per obiettivo di formare guide spirituali in grado di operare nelle carceri femminili, negli ospedali o nelle scuole. In questo senso, molte organizzazioni di donne in Francia da tempo sono impegnate nella predisposizione di corsi di arabo, di lettura ed esegesi coranica, di fiqh, nonché di incontri e seminari sull'adattamento del messaggio alla vita quotidiana: dalla preparazione del matrimonio, ai problemi di contraccezione, al comportamento da tenere in un ambiente lavorativo misto all'educazione dei bambini (Weibel, 1998).

18. La Charte du Culte Musulman en France fu redatta ufficialmente il 10 gennaio 1995, facendo seguito ai tentativi di istituzionalizzazione del credo musulmano dell'allora Ministro dell'Interno Charles Pasqua, da un comitato accademico, supportato da tre commissioni, una teologica, una giuridica ed una sociale. I principali membri della prima erano il rettore della Moschea di Parigi Dalil Boubaker e il presidente dell'Union des Organizations Islamiques en France (UOIF) Lhaj Thami Breze. I membri delle altre due commissioni erano essenzialmente sostenitori e/o salariati della Moschea di Parigi. Proprio l'egemonia dell'istituzione parigina e le continue dichiarazioni di fedeltà alla Repubblica presenti nel testo fecero naufragare la fragile alleanza messa insieme da Pasqua a sostegno dell'iniziativa e la Carta fu alla fine siglata dalla sola Moschea di Parigi (Godard e Taussing, 2007).

19. (T.d.R.), Charte du Culte Musulman en France.

20. Il dibattito sul problema delle statistiche etniche in Francia è stato approfondito nella Revue Française de Sociologie (2008/49 numéro 1). In particolare, si segnala il contributo di Shnapper (2008).

21. Cfr. Inchiesta realizzata da Michèle Tribalat nel 1992, per l'Institut National d'Études Démographiques (INED) e l'Institut National de la Statistique et des Études Économiques (INSEE).

22. In questo senso, il criterio discriminante si fonda spesso sul concetto weberianorelativo alla razionalità dell'agire e del pensare di carattere religioso, come dimensioni non escludibili dall'ambito dell'agire quotidiano in vista di scopi. Nella teoria di Weber, l'adesione a qualsivoglia credenza si spiega col fatto che il soggetto ha delle ragioni forti per credervi e che le credenze hanno senso per il soggetto. La causa dell'adesione alle credenze religiose, quindi, è da ricercare dal lato delle ragioni che il soggetto sociale, posto in un determinato contesto, ha di farle proprie: la razionalità, in questo senso, è cognitiva e valoriale (Weber, 1961 [1922]).

23. Un ulteriore criterio operativo per contare i musulmani praticanti è considerare la capacità dei luoghi di culto riconosciuti, al di fuori dei periodi di festa, quando di fatto questi luoghi attirano anche 5 volte più della loro capienza. Il problema di questo criterio è che da un lato anch'esso tralascia i luoghi di culto non ufficiali o non riconosciuti, dall'altro amplifica uno dei problemi politici più rilevanti in seno alle organizzazioni musulmane: il numero dei membri del CFCM (Conseil Français du Culte Musulman) cui ciascuna comunità ha diritto viene stabilito in base alla superficie dei luoghi di culto riconosciuti, il che ha spesso garantito una sovra rappresentazione della comunità marocchina (Godard e Taussing, 2007).

24. Il restante 34% si definisce "di cultura musulmana". Ifop, ANALYSE: 1989-2009. Enquête sur l'implantation et l'évolution de l'Islam de France.

25. Il sondaggio considera praticanti coloro i quali adempiono alle 5 preghiere quotidiane.

26. Il numero relativamente elevato degli imām marocchini rispetto alla nazionalità prevalente in Francia (Algerini), si spiega anche con il fatto che essi non provengono da una tradizione di inquadramento statale del culto, nonché con l'influenza che sulla comunità marocchina ha il movimento pietista del Tablīgh, composto di imām predicatori itineranti, spesso non collegati ad alcuna moschea (Godard e Taussing, 2007).

27. Per un'analisi storica delle istituzioni e delle federazioni musulmane in Francia vedi Sellam (2006).

28. Le Bars, Stéphanie Le Maroc a envoyé 150 religieux en France pour assurer le ramadan su Le Monde 6 septembre 2008.

29. Il Tablīgh (Jama'āt at-tablīgh: Società per la diffusione dell'islām) è un movimento pietista e missionario, fondato in India nel 1927 da Muhammad Ilyās al- Qandahlui, il cui centro d'azione è a Raiwind nel Panjab. Attualmente guidato dallo Šaikh Sa'ad è diffuso in tutto il mondo ed è presente sul territorio francese dal 1968, punto di riferimento di circa 180 moschee su tutto il territorio nazionale. I suoi membri svolgono un'attività rilevante di proselitismo locale e ricoprono un ruolo importante nella re-islamizzazione dei giovani arabi ed africani. Il movimento si basa su sei principi: confessione di fede, preghiera, acquisizione della conoscenza di Dio, memorizzazione della conoscenza, sincerità, devoluzione del proprio tempo alla predicazione. La condanna morale della vita mondana, considerata dissoluta, arriva fino al distacco dal mondo e al suo totale rigetto. Per un approfondimento del ruolo religioso e sociale che i predicatori Tablīgh svolgono nei quartieri vedi Bouzar (2001).

30. La sigla GMP (Grande Mosquée de Paris) fa riferimento alla rete di circa 160 luoghi di culto facenti capo appunto alla Moschea di Parigi.

31. La DITIB (Diyanet isleri türk islam birligi- Unione turco-islamica degli affari religiosi in Francia) è la filiale ufficiale dell'Ufficio per gli affari religiosi, organo di gestione del culto musulmano in Turchia, sotto il controllo diretto del Primo Ministro, presente sul territorio francese dal 1986.

32. Il movimento Milli görüş (Tendenza Nazionale) è un movimento islamista turco vicino ai Fratelli Musulmani, i cui partigiani fondarono nel 1979 in Francia l'associazione Tendance nationale-Union islamique en France (UIF) che per molto tempo fece parte dell'UOIF, prima di lasciare l'organizzazione e scindersi in due parti. La sua denominazione attuale è Comitè islamique Milli görüş France (CIMG-F) e vi afferiscono diversi luoghi di culto turchi sull'intero territorio francese.

33. Tra queste ricordiamo oltre ai già citati CFCM e UOIF, il Conseil de Réflexion sur l'Islam en France (CORIF), la Fédération National des Musulmanes de France, l'Haut Conseil des Musulmans de France (HCMF).

34. Tra il 1997 e il 2002, il governo Jospin sostiene i tentativi di istituzionalizzazione della formazione degli imām, organizzando un gruppo misto di lavoro tra amministrazione pubblica e organizzazioni musulmane, affinché desse consigli e raccomandazioni in materia di formazione, dai programmi agli eventuali partenariati con le università islamiche, alla creazione di un istituto di teologia musulmana o di un istituto di insegnamento superiore sul modello degli istituti cattolici. Nel 2002, Sarkozy, allora Ministro degli Interni del Governo Chirac, ritorna sulla necessità di una formazione all'interno di un istituto di insegnamento superiore sul modello degli istituti cattolici, sovvenzionato parzialmente dallo Stato, per la parte teorica, mentre la parte pratica doveva essere espletata in un contesto di tipo seminariale. Nello stesso tempo il Ministro dell'Educazione Luc Ferry incarica Daniel Rivet, direttore dell'Institut d'études de l'Islam et des Sociétés du Monde Musulman (IISMM), di scrivere un rapporto sull'effettiva possibilità di utilizzare le competenze dell'Università Francese per la formazione di imām, a fronte del quale viene creata una commissione interministeriale tra Ministero degli Interni, degli Esteri, dell'Educazione Nazionale e Primo Ministro (Godard e Taussing, 2007).

35. Guida dello studente 2009-2010, pag 3-4, Grande Mosquée de Paris.

36. L'Istituto al-Ghazāli ha stabilito accordi di partenariato con le Università di Algeri, di Costantina e di Adrar. Un accordo con il governo tunisino e con il governo libanese prevede l'istituzione di borse di studio, mentre altri accordi sono in fase di formalizzazione con l'università Al-Azhar e l'ambasciata dell'Arabia Saudita; l'IESH, il cui fondo bibliotecario è interamente donato dai Paesi del Golfo, riceve da questi regolari sovvenzioni, attraverso istituzioni ufficialmente non governative, famose per la loro diffusione di un islam puritano e rigorista (Fregosi, 1998).

37. I due istituti sono anche organizzativamente differenti: il corso dell'Istituto al-Ghazāli dura quattro anni, alla fine dei quali è indispensabile un anno di stage per il conseguimento del diploma ed è aperto a uomini e donne, i primi orientati all'imamato, le seconde al cappellanato. Relativamente a quest'ultimo, il programma non è comunque ben definito, visto il carattere innovativo della funzione e della formazione stessa di quadri religiosi femminili. In entrambi i casi i corsi sono dispensati la sera o nei week end. L'IESH dispensa un corso per imām della durata di due anni, interamente in arabo: l'ammissione al corso è infatti subordinata alla conoscenza della lingua. In effetti, all'IESH si rivolgono coloro i quali hanno già seguito corsi per in imām in strutture locali e in moschee, o persone che all'IESH hanno seguito il corso triennale di Studi Islamici e vogliono ufficializzare la propria preparazione con un diploma. Proprio per questo al fine di comprendere in modo approfondito la logica che sottende il corso di formazione per imām è dunque necessario riferirsi anche ai programmi dei tre anni propedeutici di Studi Islamici. I corsi sono intensivi e si svolgono in un contesto assimilabile a quello dei seminari cattolici, secondo i ritmi religiosi musulmani e improntati fortemente alla morale islamica.

38. Le principali scuole giuridico - teologiche iniziarono a formarsi alla fine dell'VIII secolo e sono 4: hanafita, malikita, sciafiita e hanbalita. La scuola hanafita è basata soprattutto sull'uso del ragionamento e della speculazione nell'interpretazione dei testi e dà largo spazio tra le fonti della sharī'ā all'analogia (qiyās). Essa inoltre introduce tra i principi ispiratori l'"approvazione" (istihsān), ovvero la prevalenza nell'elaborazione della dottrina del singolo dottore, principio considerato troppo soggettivo dalle altre scuole. E' oggi quella numericamente più rilevante ed è estesa nel subcontinente indiano, in Asia Centrale, in Afganistan, in Turchia e in Siria. La scuola malikita dà molta importanza alla tradizione relativa alla vita del profeta (hadīth), riconoscendo come base giuridica anche la nozione del consenso (ijmā') inteso come consenso dei dotti di Medina, considerati per la loro posizione geografica i continuatori della comunità islamica originaria. E' oggi diffusa in Africa settentrionale e in parte in Egitto e in Africa Orientale. La scuola sciafiita tenta di fatto una mediazione tra soggettività e tradizione; seconda in termini di diffusione la troviamo in Egitto, Indonesia, Africa Orientale e Arabia Meridionale. La scuola hanbalita propugna il ritorno senza compromessi alla Sunna e al Corano, e proprio per la sua rigidità è oggi la meno diffusa: la ritroviamo soprattutto in Arabia Saudita e in alcune zone della Penisola Araba e del Golfo Persico (Ventura, A., 2002:110-119).

39. Nei primi secoli dell'islām erano diffuse diverse letture del Corano (qirā'āt) basate su tradizioni che si facevano risalire al Profeta, sulle quali non ci fu mai un tentativo di omogeneizzazione. Nell'VIII secolo ne furono riconosciute valide sette, di cui due hanno un seguito significativo oggi: quella Nāfī' di Medina diffusa prevalentemente in tutta l'Africa Settentrionale compreso l'Egitto Occidentale e quella 'Āsim di Kufa, praticata nel resto del mondo islamico. Quest'ultima, utilizzata nella versione stampa del Corano pubblicata nel 1923 per iniziativa del re d'Egitto, è divenuta pressocchè universale in tutto il mondo islamico. In ogni caso le differenze tra le varie letture canoniche sono minime e riguardano più la recitazione rituale che il significato del testo (Ventura, 2002:91-92.).

40. Muhyī al-dīn ibn 'Arabī, nato a Murcia in Andalusia nel 1165 e morto a Damasco nel 1240, è uno dei massimi esponenti del sufismo, di cui ha segnato la storia. Scrittore ed autore controverso, è stato particolarmente discusso per la sua dottrina dell'unicità dell'essere (wahdat al-wujūd), successivamente sviluppata dai suoi discepoli. Secondo Ibn 'Arabī, l'essere è fondamentalmente unico, privo di ogni molteplicità interna o esterna. La sua apparente pluralità è dovuta al fatto che si esplicita in ricettacoli diversi: ogni essere è, così, il riflesso così di un archetipo immutabile contenuto nella mente di Dio, ma tutti gli esseri partecipano di una sola essenza. L'accusa che gli è stata mossa, in questo senso, era di negare la differenza tra le cose e Dio, arrivando a teorizzare una sorta di monismo o di panteismo. Negli ultimi decenni però la critica occidentale ha abbandonato questa prospettiva, rivalutando la fedeltà dei suoi scritti rispetto al Corano, alla Sunna e alla legge islamica (Ventura, 2002:190-193).

41. Tariq Ramadan, nato a Ginevra nel 1962, nipote di Hasan al Bannā, fondatore dei Fratelli Musulmani, è islamologo e professore universitario all'Università di Ginevra e all'Università di Oxford. Studioso controverso - accusato da più parti di adottare un doppio linguaggio nei confronti dei musulmani e nei confronti dei non musulmani - ha al cuore della sua analisi di stampo neo-riformista la compatibilità tra islam e modernità, quest'ultima concettualizzata come distinta dall'occidentalizzazione, nonché le questioni connesse all'adattamento del messaggio coranico al contesto occidentale. È considerato un riferimento fondamentale dai giovani, ai quali si rivolge espressamente nei suoi discorsi e nei suoi libri, invitandoli a rivendicare la propria identità musulmana, impegnandosi, proprio in quanto musulmani e musulmane, in tutti i campi, giuridici, sociali, economici e politici. Tra le sue opere si segnalano: Être musulman européen: Etude des sources islamiques à la lumière du contexte européen, Ed. Tawhid, 1999; Entre L'homme Et Son Coeur, Ed. Tawhid, 2001; Musulmans D'occident - Construire Et Contribuer, Ed.Tawhid, 2004; Muhammad Vie Du Prophète - Les Enseignements Spirituels Et Contemporains, Archipoche Editions, 2008; Mon Intime Conviction, Presses Du Châtelet, 2009.

42. Tale fattore ripropone, inoltre, il problema della conoscenza della lingua francese nei confronti, non solo, delle nuove generazioni, ma anche, in considerazione dell'eterogeneizzazione dei flussi migratori, dell'affermarsi progressivo di una presenza islamica non arabofona.

43. Il dato comprende anche le donne e si riferisce alla quantità totale di frequentanti nell'anno 2006 e non alle nuove iscrizioni. Institut Européen des Sciences Humaines, Historique e Charte du Culte Musulman en France.

44. In questo senso va, però, sottolineato che le due casse pensionistiche speciali raramente trovano applicazione relativamente al personale di culto protestante ed ebraico: pastori e rabbini sono stati generalmente inglobati nel regime generale del 1945 senza che la qualità di salariati fosse loro espressamente riconosciuta. In particolare, malgrado il carattere puramente funzionale del ministero dei pastori protestanti, questi si sono visti rifiutare la qualità di salariato in quanto il loro ministero pastorale doveva avere innanzitutto una finalità spirituale e non rientrava quindi nel Codice di Lavoro Ordinario. Pastori e rabbini con famiglia, però, hanno spesso l'interesse economico ad essere compresi nel Codice Generale del 1945, dal momento che i sussidi familiari rappresentano il 40% dei sussidi versati. Malgrado, quindi, la legge del 1978 si rivolga, secondo il principio di uguaglianza, a tutti i culti, nel 1995 le casse previdenziali avevano beneficiato per il 98,3% la sola Chiesa Cattolica (Messner, 1998).