2009

La crisi postelettorale in Iran: tra divisioni interne e relazioni internazionali

Pejman Abdolmohammadi

A chi avesse seguito con attenzione le dinamiche della politica iraniana degli ultimi anni, l'attuale crisi interna, manifestatasi durante e dopo le recenti elezioni presidenziali, sarebbe certamente parsa quasi inevitabile. La Repubblica Islamica, negli ultimi dodici anni, si è gradualmente differenziata in due principali schieramenti, quello ultraconservatore e quello moderato-riformista. La prima parte di questo articolo vuole tratteggiare, seppur brevemente, gli orientamenti politici, sociali, economici e culturali di questi due blocchi di potere, elencandone i principali leader e le forze politiche sostenitrici.

  • Il fronte ultraconservatore: la Guida Suprema iraniana, l'Ayatollah Ali Khamenei, il Presidente della Repubblica Islamica, Mahmoud Ahmadinejad, l'Ayatollah Ahmad Jannati (attuale presidente del Consiglio dei Guardiani), l'Ayatollah Taqi Mesbahe Yazdi (noto Teologo sciita), insieme a importanti comandanti del corpo militare dei Guardiani della Rivoluzione, possono essere considerati i principali rappresentanti di questo schieramento. Sotto il profilo della politica internazionale, gli ultraconservatori sono orientati a perseguire la proliferazione nucleare, a continuare il sostegno politico-economico a Hamas e Hezbollah, a stringere alleanza con Russia e Cina. Sul piano della politica interna, gli ultraconservatori dichiarano, invece, di voler combattere la corruzione, di rafforzare un sistema sociale che aiuti le classi più povere, i cosiddetti 'diseredati', e di rendere l'etica islamica sempre più protagonista delle vita socio-culturale del paese. Infatti, idee quali la secolarizzazione e la separazione della religione dalla politica sono duramente contrastate da questo schieramento politico. La coalizione degli Osulgerayan (i principalisti), insieme ad una parte importante del corpo militare dei Pasdaran (i Guardiani della Rivoluzione) e al corpo dei paramilitari (il Basij), e alcune grandi Fondazioni quali Boniade Mostazhafan (la Fondazione dei Diseredati) costituiscono, infatti, le principali forze politiche sostenitrici del fronte ultraconservatore.

  • Il fronte moderato-riformista: l'ex Presidente della Repubblica, Mohammad Khatami, il Presidente del Consiglio per il Discernimento, l'Ayatollah Hashemi Rafsanjani, il clericale progressista, Mehdi Karroubi e l'ex candidato alle ultime elezioni presidenziali, Mir Hossein Moussavi sono le personalità politiche di spicco di tale schieramento. L'indirizzo politico principale di questo fronte, che ha visto il suo periodo migliore nel primo governo di Khatami (1997-2001), è quello di riformare alcune parti della costituzione vigente nella Repubblica Islamica, in modo tale da rafforzare la componente repubblicana, ora troppo condizionata, secondo i riformisti, dall'altra componente, quella islamica. Ad esempio, lo stesso Khatami, al tempo del suo secondo mandato, aveva tentato, senza riuscirci, di introdurre una nuova normativa tesa a limitare il forte potere di controllo che il Consiglio dei Guardiani esercita sul Parlamento e sulla Presidenza della Repubblica.

    Anche sul piano della politica estera, la linea dei riformisti è più moderata: si tratterebbe sempre di continuare lo sviluppo dell'industria nucleare ma, con rigorosa trasparenza e, soprattutto, come già avvenne durante il governo Khatami, con una maggiore apertura alla comunità internazionale.

    Sotto il profilo della politica interna, i riformisti sono per una maggiore apertura della società e per una politica giovanile moderna, capace di migliorare la vita della principale componente della società iraniana, la fascia di cittadini sotto i 35 anni, che costituisce oggi il 70 per cento circa dell'intera popolazione.

    I moderato-riformisti, sebbene si dichiarino fedeli alle linee principali della Repubblica Islamica e del suo fondatore, l'Ayatollah Ruhollah Khomeini, criticano apertamente la linea politica radicale adottata, negli ultimi anni, nei confronti delle donne e dei giovani, da parte del governo ultraconservatore, giudicandola distante dalla vera etica islamica. Gli autorevoli partiti politici Majmahe Ruhaniune Mobarez (Società del clero combattente), Mosharekat (Condivisione), Mojahedine Enqelabe Eslami (I Mojahedin della Rivoluzione Islamica), Kargozaran(Costruttori), e il partito nazional-religioso, Nehzate Azadi (il Movimento per la libertà) sostengono il fronte moderato-riformista. Inoltre, una buona parte della società civile e del mondo della cultura si è schierata dalla parte dei riformisti.

La competizione tra Mir Hossein Moussavi e Mahmoud Ahmadinejad, durante le ultime elezioni presidenziali iraniane, non era, in realtà, solo e semplicemente una corsa alla seconda carica dello Stato, quanto piuttosto un braccio di ferro tra i due sopraccitati schieramenti.

Moussavi, godendo della storica fiducia dell'Ayatollah Khomeini, era probabilmente l'unica personalità del fronte riformista in grado di sfidare l'ultraconservatore Ahmadinejad. La crisi post-elettorale iraniana ha, in realtà, messo in luce la presenza di quattro problematiche politiche all'interno della Repubblica Islamica.

  1. La distanza di una buona parte della popolazione dalle politiche del governo: la partecipazione di milioni di cittadini, presenti in diverse città iraniane, durante le giornate successive alle elezioni, alle manifestazioni di protesta contro l'operato del governo, ha, infatti, palesemente dimostrato che la società civile persiana chiede un cambiamento profondo e non condivide le linee guida dell'attuale governo, accusato, peraltro, di aver brogliato le elezioni.
  2. La spaccatura interna della Repubblica Islamica tra il fronte ultraconservatore e quello moderato-riformista. Tale divisione, in realtà, si era già manifestata dodici anni fa, durante le elezioni presidenziali del 1997, quando, grazie ad una massiccia partecipazione della popolazione e all'appoggio dell'allora influentissimo ayatollah Rafsanjani, Mohammad Khatami riuscì a vincere le elezioni, portando al potere, per ben otto anni, la fazione riformista. Le tensioni che il governo Khatami ebbe allora con le diverse realtà conservatrici misero, però, in luce l'esistenza di una divisione all'interno della Repubblica Islamica, rivelatasi più chiaramente, in tutta la sua gravità, solo dopo le ultime elezioni presidenziali, e la crisi ad esse succeduta.
  3. La presenza di una divisione anche all'interno del fronte ultraconservatore. Durante i quattro anni di governo Ahmadinejad, anche una parte delle forze conservatrici iraniane ha iniziato a criticarlo, sostenendo altre personalità di spicco del fronte tradizionalista, quali l'ex comandante dei guardiani della rivoluzione, Mohsen Reza'i e l'attuale speaker del Parlamento, Ali Larijani. La crisi post-elettorale iraniana ha ancor più palesato la frattura interna del fronte ultraconservatore.
  4. La distanza del clero sciita dal governo del presidente Ahmadinejad. In trent'anni di Repubblica Islamica non era mai capitato che buona parte dei grandi Ayatollah sciiti si esprimessero così chiaramente contro il governo in carica, oppure non inviassero le congratulazioni per l'elezioni al neo-presidente. I grandi Ayatollah Montazeri, Sanehi e Zanjani, ad esempio, hanno criticato l'operato del governo, durante e dopo le elezioni, definendole, anzi, 'irregolari'.

Le sopraccitate problematiche, odierne al sistema politico della Repubblica Islamica, non sembrano, almeno ad oggi, essere facilmente risolvibili. Anzì, i presupposti farebbero pensare ad un possibile aggravamento delle tensioni politiche in corso. Tuttavia, "l'onda verde per la libertà" dei ragazzi iraniani, scesi coraggiosamente in piazza per rivendicare il proprio voto, non pare arrestarsi, come consapevole di aver intaccato la forza del governo, squarciando il velo su quelle crepe che ne minano oramai la stabilità.

Perché gli Stati vicini all'Iran non vedono di buon occhio la rivolta riformista

Si penserebbe, a prima vista, che un movimento popolare, come quello iraniano di questi giorni, animato da giovani e donne pronti a perder la vita per rivendicare il rispetto del proprio voto, e per chiedere l'instaurazione di un sistema democratico, dovrebbe suscitare l'ammirazione e l'incoraggiamento di tutti governanti del mondo. Invece, nei paesi geograficamente vicini all'Iran, si sta assistendo ad una linea politica, essenzialmente diversa, che tende ad esprimere la distanza dall'insorto movimento riformista, schierandosi, anzi, ufficialmente o ufficiosamente, con l'ala ultraconservatore, vale a dire con il governo del Presidente Mahmoud Ahmadinejad e, di conseguenza, con il suo maggiore sostenitore politico, la Guida Suprema, l'Ayatollah Ali Khamenei.

La Russia, la Turchia, la Palestina e tutti i paesi arabi del Golfo persico non vedono, infatti, di buon occhio, la rivolta riformista in corso nell'Iran, considerandola nociva per gli equilibri politici del Medio Oriente e dell'Asia Centrale. Ad esempio, le ragioni del forte appoggio di Mosca al governo in carica a Teheran sono di natura sia economica che politica: gli enormi vantaggi economici che le autorità iraniane hanno concesso ai Russi, negli ultimi anni, per guadagnarsi il loro sostegno politico nelle relazioni internazionali, sono così rilevanti, infatti, che Mosca non può rischiare di perderli per un eventuale rovesciamento del sistema politico iraniano. Inoltre, un governo moderato, e aperto al mondo internazionale, avvicinerebbe di fatto l'Iran all'Europa e agli Stati Uniti, togliendo alla Russia, e in questo caso anche alla Cina, l'esclusivo rapporto politico-economico con la Repubblica Islamica.

Anche la Turchia pare preoccupata fino al punto che alcuni quotidiani filo-islamici continuano a sostenere apertamente il presidente Ahmadinejad, considerandolo uno dei baluardi del mondo islamico contro l'Occidente. Inoltre, la Turchia, a partire dalla rivoluzione iraniana del 1979, e quindi dalla conseguente caduta dello Shah di Persia, ha sostituito l'Iran nel ruolo di mediatore tra Oriente e Occidente, guadagnandosi di fatto un forte sostegno da parte degli Stati Uniti d'America. Se prima della Rivoluzione del '79, infatti, nel mondo islamico, era la Persia dello Shah ad essere il punto di riferimento dell'Occidente, da trent'anni ormai lo è la Turchia che vedrebbe, così, diminuire la propria influenza sul piano internazionale nell'eventualità di un rivolgimento in senso riformista in Iran. Un altro fattore negativo, agli occhi del governo turco, delle rivolte dei giovani iraniani è la loro tendenza alla secolarizzazione e la loro dichiarata propensione alla separazione della religione dalla politica, in contro-tendenza rispetto a quanto la linea politica del governo di Erdogan sta cercando, in questi anni, di perseguire: una nuova islamizzazione delle Turchia.

I paesi arabi del golfo persico, inoltre, oltre ad esser loro stessi timorosi di perdere una posizione di mediazione, questa di natura più economica, tra mondo islamico e Occidente, temono per di più che l'Iran possa essere poi di esempio per le loro popolazioni, diventando fonte di ispirazione per rivolte anti-governative. Va infatti ricordato che tutti i paesi arabi, sebbene in buone relazioni con l'Occidente, sono essenzialmente anti-liberali e di stampo dispotico. Le manifestazioni iraniane pro-democratiche possono infondere linfa vitale anche alle popolazioni arabe, fungendo da catalizzatore per eventuali rivoluzioni a catena, una minaccia, questa, alla quale tutti gli Emiri Arabi porrebbero forte resistenza.

In Palestina, invece, soprattutto nella fazione di Hamas, la rivolta degli iraniani è condannata fermamente. I leader di Hamas, sostenuti economicamente, per più di vent'anni, dalla Repubblica Islamica, vedrebbero così crollare il loro principale sponsor; e lo stesso sarebbe anche per l'Hezbollah del Libano che condanna anch'esso pubblicamente, infatti, la riformista rivolta iraniana. Un possibile cambiamento di governo in Iran porterebbe Hamas, da una parte, e Hezbollah dall'altra a perdere un sostenitore politico-economico fondamentale nella guerra anti-israeliana. Per adesso, soltanto in ambienti accademico-gironalisti palestinesi, si nota un timido sostegno alla rivolta in atto. Tutte queste opposizioni ad un movimento autoctono e pro-democratico danno la misura di quanto tutti i paesi vicini all'Iran, vuoi per ragioni politiche, vuoi per ragioni economiche, siano spaventati dal possibile successo dell'"onda verde" in Iran, potenzialmente capace di stravolgere tutto il panorama politico mediorientale, aprendogli la via a sistemi liberi e democratici, questa volta, però, senza intervento di potenze straniere. Non si tratterebbe più, quindi, di importare democrazia, ma di autoctoni movimenti anti-dispotici, capaci di cambiare il volto del Medio Oriente.