2010

Corte europea dei diritti dell'uomo, Case of Oršuš and Others v. Croatia
(Application no. 15766/03)

Angela Scerbo

Con sentenza del 16 marzo 2010, nel caso Oršuš and Others v. Croatia, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato il Governo croato per violazione dell'articolo 2 del Protocollo addizionale (PA) alla Convenzione europea per la  salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (diritto all'istruzione), letto in combinato disposto con l'articolo 14 della Convenzione (divieto di discriminazione), riscontrando, altresì, una lesione dell'articolo 6 § 1 (diritto ad un processo equo) e accordando a ciascun ricorrente un risarcimento di 4500 euro per accertato danno morale, a causa del trattamento discriminatorio subìto dagli stessi e dell'eccessiva lunghezza della procedura giudiziaria esperita a livello nazionale.

Il controverso caso portato all'attenzione della Grande Camera era stato precedentemente deciso dalla Prima Sezione della Corte che, con decisione del 17 luglio 2008, aveva constatato all'unanimità la non-violazione degli obblighi convenzionali da parte delle autorità croate.

Più in particolare, è dato rilevare come la Prima Sezione avesse giudicato pienamente legittima la decisione della Corte costituzionale croata di rigettare il ricorso promosso dai ricorrenti (14 studenti di origine rom) avverso la decisione della Corte d'appello, in cui si confermava, sostanzialmente, la tesi espressa dal Tribunale di prima istanza. Come sottolineato dal giudice delle leggi, di fatti, il Tribunale municipale di Čakovec non aveva ritenuto sufficientemente provata la violazione del diritto all'istruzione dei ricorrenti e la lesione del principio di non discriminazione in base all'origine etnica presuntivamente causata dalla decisione delle istituzioni scolastiche di creare delle classi separate, composte esclusivamente da alunni di origine rom, al fine (dichiarato) di sopperire alla mancata conoscenza della lingua croata da parte di questi ultimi.

Fondandosi sull'art. 27 § 1 della legge sull'insegnamento primario, il giudice di primo grado aveva ravvisato nelle carenti competenze linguistiche dei ricorrenti un ostacolo oggettivo al corretto svolgimento del programma scolastico, tale da giustificare razionalmente l'adozione di un diverso trattamento degli alunni di origine rom. Oltre a costituire una misura di carattere eccezionale, la decisione di creare classi speciali, composte esclusivamente da scolari appartenenti ad una determinata etnia, risponderebbe pienamente all'esigenza di valorizzare i particolari bisogni degli studenti, mediante l'utilizzo di un approccio educativo individualizzato (sovviene bene, in questo caso, l'esempio statunitense di "programmi scolastici differenziati" previsti per i soggetti deboli, curati dai Servizi Sociali e rientranti nella c.d. faith based initiative).

Secondo quanto rilevato dalla Corte croata, la misura posta in essere dalle istituzioni scolastiche non costituisce una forma di segregazione razziale, in quanto basata sul parere di esperti psicologi e pedagoghi che hanno ritenuto parimenti opportuno non procedere al successivo trasferimento dei ragazzi rom in classi miste neanche dopo un eventuale miglioramento del livello di conoscenza della lingua croata, preservando così l'integrità e l'unità delle classi in tutti i livelli di istruzione scolastica. A tale riguardo, i giudici costituzionali hanno sottolineato che nessuna disposizione costituzionale o convenzionale può essere interpretata nel senso di circoscrivere il potere discrezionale delle autorità statali in ordine alla predisposizione dei programmi scolastici e alla loro relativa attuazione. Non solo. Il diritto all'istruzione, riconosciuto dalla Costituzione croata e dalla Convenzione europea (CEDU) si esaurirebbe nella mera facoltà di accedere all'istruzione obbligatoria e di ricevere, al contempo, il riconoscimento ufficiale del titolo di studio acquisito.

Nell'ambito del ricorso promosso dinanzi alla Corte di Strasburgo, i ricorrenti hanno lamentato la lesione di molteplici diritti garantiti dalla Convenzione europea (CEDU). Oltre a contestare la durata eccessiva della procedura giudiziaria svolta in seno alle autorità nazionali, in violazione dell'art. 6 § 1 della Convenzione, gli appellanti hanno sostenuto di essere stati lesi nel proprio diritto a ricevere una istruzione adeguata, avendo subìto un trattamento discriminatorio in ragione della loro razza e della loro appartenenza etnica (artt. 14 CEDU e 2 PA). A loro avviso, infatti, il metodo di insegnamento adottato dalle autorità scolastiche è risultato del tutto inadeguato al raggiungimento dello scopo prefissato (il superamento delle difficoltà linguistiche), avendo costituito, al contrario, un ulteriore fattore di esclusione degli studenti di etnia rom e precludendo loro la possibilità di mantenersi a più stretto contatto con gli altri scolari, anche al fine di esercitare al meglio le proprie (seppur limitate) competenze linguistiche. Infine la programmazione del trattamento scolastico differenziato sarebbe avvenuta in assenza di una base legale e senza la predisposizione di una procedura chiara, prevedibile ed accessibile ai destinatari.

Rispetto alla prima doglianza, il giudice europeo ha preliminarmente ribadito l'applicabilità delle garanzie connesse al diritto ad un processo equo alle controversie di carattere civile, confermando, inoltre, la tesi espressa in una recente pronuncia in cui la Corte, superando la precedente impostazione della Commissione, ha riconosciuto la rilevanza civilistica del diritto di accesso ai servizi educativi (si v. Emine Araç c. Turquie, del 23 settembre 2008). Partendo da tale considerazione di carattere generale, i supremi giudici hanno accolto le rimostranze sollevate dai ricorrenti nel caso di specie, valutando il comportamento delle autorità croate alla stregua di una palese violazione delle garanzie ex art. 6 § 1 della Convenzione europea, a causa della eccessiva durata della procedura svolta dinanzi alle giurisdizioni nazionali, con particolare riguardo al lasso di tempo intercorso tra la pronuncia del giudice di secondo grado, risalente al 2002, e la decisione della Corte costituzionale, intervenuta nel 2007.

Per quanto riguarda, invece, la presunta violazione dell'articolo 2 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea, letto in combinato disposto con il divieto ex art. 14 della Convenzione, la Corte ha sottolineato, in primo luogo, la rilevanza del caso sotto il profilo specifico della tutela accordata dalla Convenzione al principio di non discriminazione. Ciò nonostante, i supremi giudici hanno deciso di analizzare la questione in connessione alla presunta lesione del diritto all'istruzione dei ricorrenti, confermando, così, l'approccio maggioritario della precedente linea giurisprudenziale in materia di interpretazione ed applicazione del principio di non discriminazione (si v. Dudgeon c. Royaume-Uni, 22 ottobre 1981, § 67; Timichev c. Russie, ric. nn. 55762/00; 55974/00, § 53, 2005-XII).

Dopo aver tenuto conto della particolare situazione di svantaggio della minoranza rom, riscontrabile nella quasi totalità degli Stati membri dell'Unione europea e ampiamente documentata dai rapporti della Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza, del Comitato consultivo della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali e dello stesso Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, con particolare riferimento alla situazione di discriminazione nel campo dell'educazione e della formazione scolastica, la Corte di Strasburgo ha accolto le doglianze dei ricorrenti, invitando tutti gli Stati parte della Convenzione a profondere un maggiore impegno nella garanzia dell'effettività dei diritti della minoranza rom, salvaguardando la loro identità e preservandone la diversità culturale.

Come ricordato dai supremi giudici, di fatti, per discriminazione si intende "un qualsiasi trattamento differenziato, salvo giustificazioni obiettive e ragionevoli, riservato a persone che si trovano in una situazione similare". Ciò non esclude la possibilità, per gli Stati parte della Convenzione, di prevedere, mediante apposita legislazione, un trattamento particolare nei confronti di determinati soggetti, al fine di rimuovere le condizioni sfavorevoli e di "ineguaglianza fattuale" che li pongono in una situazione di svantaggio rispetto alla maggioranza della popolazione, consentendo così il raggiungimento di una parità sostanziale (le cc.dd. affermative actions); in siffatti casi, pertanto, la mancata previsione di un trattamento differenziato per determinati gruppi di persone configurerebbe una lesione del dettame di cui all'art. 14 della Convenzione europea.

Sul punto è interessante notare come il giudice di Strasburgo abbia interpretato il divieto di discriminazione, sancito dalla Convenzione europea, alla luce di una molteplicità di strumenti internazionali in materia di protezione de diritti fondamentali e dell'esegesi offerta dagli organi delle Nazioni Unite. A tal fine, la Corte europea ha espressamente richiamato l'art. 26 del Patto internazionale sui diritti civili e politici - come interpretato dal Comitato per i diritti dell'uomo delle N. U. nel General Comment n. 18 del 10 novembre 1989; l'art. 1 della Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale - e la connessa raccomandazione generale n. 14, del 22 marzo 1993, del Comitato per l'eliminazione della discriminazione razziale -; gli artt. 28 e 30 della Convenzione sui diritti del fanciullo; l'art. 4 § 1 della Dichiarazione dei diritti delle persone appartenenti a delle minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche, nonché, in ultimo, gli artt. 1 e 3 della Convenzione sulla lotta alla discriminazione nel campo dell'insegnamento del 1960.

Le succitate disposizioni contengono una definizione di "discriminazione" sostanzialmente simile, identificando, in particolare, la "discriminazione razziale" con "qualsiasi distinzione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica". Tali disposizioni, inoltre prescrivono una serie di obblighi in capo agli Stati membri della comunità internazionale in grado di limitare fortemente il potere discrezionale del legislatore nazionale in ordine alla predisposizione di misure discriminanti per le minoranze, siano esse linguistiche, etniche o religiose.

Di particolare interesse, ai fini della risoluzione del caso in commento, risulta, ad avviso di chi scrive, il disposto di cui all'artt. 1, lett. c e d della citata Convenzione del 1960, in cui si legge che l'uguaglianza di trattamento in materia di insegnamento può risultare violata in virtù dell'istituzione o del mantenimento di sistemi o istituzioni di insegnamento separate nei confronti di persone o gruppi (lett. c) e della volontà delle istituzioni nazionali di porre un determinato gruppo di persone in una posizione incompatibile con la dignità umana (lett. d).

Alla luce della normativa internazionale sopra richiamata, pur riconoscendo un largo margine di apprezzamento agli Stati parte della Convenzione nella scelta relativa alla opportunità di predisporre trattamenti differenziati nei confronti di determinati soggetti, la Corte europea ha affermato che una eventuale differenza di trattamento, fondata esclusivamente sull'origine etnica dei soggetti, dovrebbe tradursi in una misura "oggettivamente e ragionevolmente giustificabile".

Detto in altri termini, secondo quanto sottolineato dai supremi giudici, affinchè un siffatto trattamento sia considerato dalla Corte "misura necessaria" per il raggiungimento di una parità sostanziale dei soggetti che ne sono destinatari esso deve rispondere ad un bisogno sociale effettivo e preminente e deve essere proporzionale all'obiettivo perseguito, mediante la predisposizione dei mezzi più appropriati, senza omettere il necessario bilanciamento degli interessi in gioco nel singolo caso di specie. Pertanto, la previsione di un trattamento differenziato comporta una discriminazione esclusivamente nel caso in cui non sia riscontrabile una motivazione oggettiva e ragionevole tale da giustificare l'adozione di una siffatta misura.

Alla luce di tali considerazioni, i supremi giudici non hanno ravvisato, nella valutazione del caso di specie, una "discriminazione diretta" derivante da una politica statale particolarmente restrittiva, in grado di creare situazioni di effettivo svantaggio o marginalità sociale a scapito della generalità della minoranza rom presente nel territorio della Repubblica croata.

Tuttavia, pur evidenziando le oggettive difficoltà incontrate dalle autorità statali nella predisposizione dei mezzi idonei a risolvere i problemi di apprendimento della lingua croata da parte degli studenti di origine rom, la Corte europea, per 9 voti a favore e 8 contrari, ha valutato la scelta operata dagli istituti scolastici di Podturen e di Macinec alla stregua di una "discriminazione indiretta", non esistendo un "rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito" e non essendo rinvenibile una "giustificazione oggettiva e ragionevole" su cui poter fondare la legittimità dell'esercizio del margine di apprezzamento riconosciuto alle istituzioni nazionali.

Come sottolineato dal giudice europeo, l'adozione di test linguistici per l'ammissione alle scuole primarie e il successivo trasferimento dei bambini rom in "classi speciali" ha avuto come unica conseguenza quella di acuire la condizione di emarginazione di una minoranza già considerata dalla Corte come "particolarmente sfavorita e vulnerabile" nonché bisognosa "di una protezione speciale", configurando una grave violazione dell'art. 14 della Convenzione (divieto di discriminazione) letto in combinato disposto con l'art. 2 del Protocollo addizionale alla CEDU (diritto all'istruzione).

Come precedentemente accennato, ben otto giudici hanno espresso (congiuntamente) una opinione parzialmente dissenziente da quella della maggioranza della Corte, contestando apertamente la decisione di riconoscere la sussistenza di una discriminazione indiretta nel caso di specie.

I giudici hanno motivato il proprio dissenso sulla base dell'asserita impossibilità di ravvisare una definizione chiara ed univoca atta ad identificare con precisione l'eventuale comportamento lesivo posto in essere da uno Stato in tale delicata materia, invitando, per tale motivo, la maggioranza dei giudici che compongono la Grande Chambre a chiarire ulteriormente i criteri utilizzati per valutare la misura posta in essere dalle autorità croate alla stregua di "discriminazione indiretta" fondata su motivi legati alla razza e all'origine etnica dei ricorrenti convenuti in giudizio.