2010

Il razzismo sicuritario
"Questione romena" e "difesa" del territorio

Lucia Re

1. Politiche migratorie e politiche di sicurezza

Negli ultimi quindici anni la sociologia del controllo sociale si è spesso soffermata sull'analisi di due tipologie di "politica della sicurezza": le politiche di repressione dell'immigrazione "irregolare" e le politiche di "sicurezza urbana". Oggi, tuttavia, sempre più spesso questi due tipi di politica tendono a fondersi in un unico modello sicuritario, che ha come obiettivo il controllo e la gestione di alcuni gruppi sociali e la "difesa del territorio", locale e nazionale, dalla loro presenza indesiderata.

Un esempio emblematico della convergenza fra politiche migratorie e politiche di sicurezza urbana è fornito dai provvedimenti che compongono i cosiddetti "pacchetti sicurezza" (1), e in particolare: 1. il decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125; 2. le "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica", approvate con la legge 15 luglio 2009, n. 94 ; 3. il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 21 maggio 2008, recante la dichiarazione dello stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi nel territorio delle regioni Campania, Lazio e Lombardia e le successive ordinanze del 30 maggio 2008.

Nel corso del processo legislativo, molti di questi provvedimenti hanno subito modifiche, tese ad accentuarne la severità, e sono stati affiancati da altri decreti e circolari ministeriali, tutti orientati a garantire la "sicurezza" dei cittadini. Queste norme sono il frutto della linea politica del governo italiano. Esse trovano origine, tuttavia, anche nell'esigenza di rispondere alla violenta ondata di "panico morale" (2) diffusasi in tutto il paese durante la campagna elettorale del 2008 e nei giorni successivi all'insediamento del nuovo governo. Fra l'inverno del 2007 e la primavera del 2008 alcuni fatti di cronaca nei quali erano implicati dei Rom rumeni sono divenuti oggetto di un dibattito dai toni molto accesi, incentrato sulla necessità di fronteggiare l'"emergenza romena", termine con il quale sono stati accomunati in un nuovo "popolo" i Rom e i cittadini rumeni. Ad avviare la discussione sono stati in particolare due avvenimenti occorsi, l'uno, alcuni mesi prima della elezione del sindaco di Roma e, l'altro, nei giorni immediatamente precedenti a quella elezione. Le consultazioni amministrative romane - evento che di per sé assume abitualmente un rilievo nazionale - nel 2008 si tenevano in concomitanza con le elezioni politiche. Lo stupro e la conseguente uccisione di una donna da parte di un Rom rumeno abitante in un campo nomadi particolarmente povero alla periferia di Roma e la violenza sessuale compiuta da un rumeno su una donna del Lesotho, sempre alla periferia di Roma, hanno perciò ottenuto una grande visibilità mediatica. Questi due fatti di cronaca, gravissimi, dei quali sono state vittime due donne, una italiana e una straniera, hanno indotto i mass media a rilanciare la questione del "degrado dei campi rom" e della pericolosità della presenza "straniera" in Italia, confondendo in un unico allarme tre questioni differenti come quella della violenza contro le donne, quella della marginalità in cui vivono alcune popolazioni rom e quella della immigrazione.

Il dibattito che è seguito a questi episodi ha completamente ignorato non solo la loro eccezionalità (3), ma anche alcune condizioni che li hanno accompagnati, quale il fatto che, nel primo caso, siano stati gli stessi Rom abitanti nel campo a denunciare lo stupratore e assassino. Non si è inoltre tenuto conto della circostanza che in entrambi i casi le condizioni minime di sicurezza (in particolare l'illuminazione delle strade e la disponibilità di trasporti pubblici) non erano state garantite dalle amministrazioni locali (4).

Una volta scatenata l'"emergenza romena", gli atti di aggressione nei confronti dei Rom si sono moltiplicati in aree diverse del paese; gli insulti e le aggressioni verbali nei loro confronti sono stati legittimati, e in alcuni casi sono stati organizzati dei veri e propri pogrom nei campi nomadi. A Napoli un campo è stato incendiato, mentre in varie zone d'Italia gruppi organizzati di cittadini hanno tentato il linciaggio di persone rom. I mass media e una parte della classe politica, facendo costante riferimento alle rivendicazioni sicuritarie di comitati e gruppi di cittadini, hanno confuso la "questione rom" con quella della "immigrazione clandestina", sulla base di una falsa identificazione dei Rom - molti dei quali sono cittadini italiani o cittadini dell'Unione Europea - con i migranti. L'"emergenza rom", sorta non a caso durante la campagna per l'elezione del sindaco di Roma, si è intrecciata strettamente con il tema della "sicurezza urbana", dal momento che i campi sono spesso allestiti alla periferia delle grandi città. Pochi tuttavia hanno legato questo tema alla necessità di abolire i campi rom e di consentire a coloro che vi abitano di accedere a un alloggio, secondo le indicazioni provenienti dalle principali organizzazioni internazionali (5), e pochissimi hanno collegato il tema della "sicurezza urbana" con l'opportunità di realizzare nuove infrastrutture e migliorare le condizioni dei trasporti pubblici e delle aree periferiche.

L'atteggiamento dei mass media e della classe politica italiana appare ancora più irrazionale se si considera il diverso approccio che questi hanno riservato a un altro grave fatto di cronaca accaduto nello stesso periodo. Poche settimane dopo il secondo episodio di violenza illustrato sopra, a Verona un gruppo di giovani militanti di estrema destra uccideva a calci un giovane per futili motivi. La discussione mediatica si concentrava però sul disagio giovanile, evitando per lo più di approfondire il tema della diffusione dei movimenti di estrema destra e del successo, in particolare in alcune aree del Nord Italia, delle ideologie neo-naziste. Dopo poco, il fatto veniva dimenticato e si tornava a parlare della pericolosità dei Rom e degli "stranieri".

La classe politica italiana e, ancor più, i media nazionali paiono chiaramente operare una selezione dei fatti criminosi sui quali concentrare la propria attenzione; fra questi spiccano quelli commessi da stranieri o da persone rom o sinti (6). Ne deriva la percezione comune che a mettere a rischio la sicurezza individuale sia in primo luogo la minaccia alla integrità nazionale rappresentata dalle minoranze e dagli "immigrati". La "sicurezza" è allora invocata a "difesa" del territorio che deve essere protetto dalla presenza straniera e rom, secondo la metafora dell'invasione che da decenni ormai ricorre nel discorso politico e mediatico (7). E ciò, senza che emerga una riflessione sui rischi che un simile approccio può produrre per la sicurezza e per la convivenza pacifica in una società pluralista.

Sotto l'insegna della "questione romena" è stato creato un particolare connubio fra norme in materia di immigrazione e disposizioni relative al controllo del territorio. L'etichetta stessa che è stata attribuita ai provvedimenti in materia penale e di immigrazione adottati negli ultimi anni - che sono tutti stati denominati come "pacchetti sicurezza" - mostra come queste questioni siano ormai indiscutibilmente identificate dalla classe politica come le questioni sulle quali è necessario intervenire con una stretta repressiva, per garantire l'incolumità dei cittadini. Tutto ciò a prescindere da un'analisi accurata dei dati relativi alla criminalità e del possibile impatto delle riforme adottate su quest'ultima e sul sistema penale e penitenziario nel suo complesso (8).

Al di là della costruzione sociale e mediatica del "problema sicurezza" sono le strutture fondamentali della modernità a tornare in gioco. Nelle disposizioni sicuritarie che si indirizzano nei confronti degli "stranieri" e dei rom si può cogliere il tentativo dello Stato nazionale di rassicurare i cittadini delle proprie prerogative sovrane. Il discorso sicuritario sull'immigrazione non esisterebbe nei termini in cui esso si articola oggi in Europa, senza quella "naturalizzazione della nazionalità" (9) che gli Stati moderni hanno compiuto nei secolo scorsi e che René Gallissot considera come uno degli aspetti costitutivi del razzismo. Esso dovrebbe abbandonare quella che, sulla scia di Gallissot, Anna Maria Rivera ha definito la:

falsa coscienza che concepisce e rappresenta l'identità nazionale (e di conseguenza la cittadinanza nazionale, ma anche la nuova cittadinanza europea, modellata su un "nazionalismo sovranazionale") come una sorta di privilegio di natura, e che in base a tale privilegio istituisce una differenza e una frattura irriducibili fra i nazionali e i non-nazionali, per inferiorizzare questi ultimi e negare loro risorse e diritti (10).

Le richieste di sicurezza che chiamano in causa il "pericolo immigrazione" e l'"emergenza nomadi" sembrano dunque mosse dall'esigenza di vedere preservato questo "privilegio", piuttosto che da un evidente bisogno di contrastare con misure adeguate alcuni fenomeni criminali. La tendenza ad accomunare i migranti ai Rom appare confermare questa impressione.

Invece che circoscrivere la criticità rappresentata dalla grave marginalità sociale in cui versano molte popolazioni rom residenti in Italia - in particolare quelle che non godono della cittadinanza italiana -, il discorso pubblico e i provvedimenti adottati dal governo sembrano tendere a considerare come un "problema sociale" la presenza stessa dei Rom nel nostro paese. Tale atteggiamento è stato accompagnato da evidenti rigurgiti di razzismo, che sono stati motivo di preoccupazione per le organizzazioni internazionali e le istituzioni europee (11). Per i Rom, del resto, non può valere la "contrattualizzazione del rapporto con la nazione" proposta ai migranti attraverso le legislazioni sull'immigrazione che impongono l'identificazione del "contratto di soggiorno" con un "contratto di lavoro". I rom sono in gran parte cittadini italiani, che tuttavia seguono spesso norme di vita diverse da quelle dominanti. Come ha scritto Anna Maria Rivera, agli occhi di molti, "i Rom rappresentano la perniciosa sintesi dell'estraneità alla nazione, alla sua cultura e alle norme sociali" (12).

Verso questi due gruppi sociali, i Rom e i migranti, l'approccio prevalente finisce per essere quello della difesa del territorio nazionale e locale dalla loro presenza sgradita, e la risposta più frequente è la segregazione: nei centri di permanenza temporanea (centri di identificazione e di espulsione secondo il lessico proposto dal "pacchetto sicurezza"), nelle carceri e, solo per i secondi, nei campi, dove essi sono confinati, il più lontano possibile dalle città (13). Come ha sostenuto Rivera, i campi rom "illustrano in maniera esemplare che cosa sia un ghetto: spesso collocato nella estrema periferia urbana, il tipico insediamento rom, così come si è definito nella 'tradizione' italiana, assomma segregazione spaziale, abitativa, sociale, culturale, simbolica, giuridica" (14). L'autrice, sulla scia degli studi di Leonardo Piasere (15), chiama polemicamente i campi rom "riserve zingare" (16), utilizzando un termine che rimanda al trattamento destinato alle popolazioni indigene nordamericane dal colonialismo britannico prima, e dalla Costituzione federale statunitense poi. Come ha ben messo in luce Bartolomé Clavero, nella sua analisi dello Stato di diritto americano, le riserve erano territori graziosamente concessi dalla Gran Bretagna alle popolazioni indigene. Esse non erano tuttavia indipendenti. I popoli indigeni erano in Nordamerica - anche dopo la promulgazione della Costituzione federale - "domestic dependent nations" (17), ovvero "nazioni, ma interne e dipendenti, (...) poste sotto una tutela in un certo senso 'famigliare' in quanto collocate in uno stato permanente di minore età nei confronti degli Stati Uniti" (18). Le "tribù indiane" non erano "né nazione straniera, né parte integrante dello Stato" (19). Esse si trovavano rispetto allo Stato nazionale in una posizione che potremmo considerare simile a quella in cui si trovano i Rom in Italia, ai quali, nonostante le norme internazionali e il riconoscimento dell'Unione Europea, non è ancora stato attribuito lo status di minoranza nazionale.

2. "Sicurezza urbana" ed esclusione sociale

La questione della "sicurezza" è dunque percepita oggi principalmente come una questione di "sicurezza dei territori", prima ancora che degli individui o dei beni. E i "territori" sono per lo più i territori urbani, nei quali si condensano i diversi elementi costitutivi dei "sentimenti di insicurezza", in primo luogo la "coesistenza spaziale di gruppi che seguono norme, valori e condotte differenti" (20).

Come la Scuola di Chicago mise in luce già nei primi decenni del Novecento, il problema di assicurare l'ordine è sempre stato legato allo sviluppo delle città. La letteratura sociologica otto-novecentesca si è a lungo soffermata sulla difficoltà di assicurare il controllo sociale in città, difficoltà legata al carattere peculiare del nuovo ordine sociale che si deve stabilire nelle aree urbane. Esso è infatti, come sosteneva Park, una creazione artificiale, pragmatica e sperimentale (21), un ordine che non può essere considerato "naturale" né "tradizionale", e che deve continuamente essere rimodellato via via che la città evolve dal punto di vista sia urbanistico che sociale.

Fin dal loro sorgere le grandi aree metropolitane sono state descritte come luoghi anomici (22), il cui controllo deve essere affidato in via prioritaria a meccanismi di controllo sociale formale (23). Nelle città, alla densità di popolazione e al moltiplicarsi delle occasioni di contatto - anche di contatto fisico - con altre persone si contrappone infatti la distanza delle relazioni sociali e l'impossibilità di esercitare quel controllo informale tipico della piccole comunità rurali (24).

Il legame fra controllo sociale, protezione dalla criminalità e "sicurezza urbana" non è dunque nuovo. Nuovo è stato invece, a partire dagli anni Ottanta-Novanta del Novecento, l'interesse delle istituzioni, in primo luogo delle amministrazioni municipali, per la gestione a livello locale dei "problemi di sicurezza". Esso si è prima sviluppato nei paesi anglosassoni, poi in quelli dell'Europa del Nord e infine è giunto anche nell'Europa meridionale. In Italia, l'adozione di politiche di "sicurezza urbana" ha coinciso con un più ampio movimento politico che, di fronte al declino degli apparati statali nazionali e alla corruzione della classe politica di governo, ha cominciato, nella prima metà degli anni Novanta, a reclamare un trasferimento di sempre maggiori poteri dalle amministrazioni centrali a quelle locali, e, in alcuni casi, è giunto a invocare una trasformazione dello Stato in senso federale.

Le politiche di "sicurezza urbana" sono dunque state, soprattutto in una prima fase, una delle principali manifestazioni del nuovo protagonismo degli enti locali (di comuni e regioni in particolare). Esse erano conformi alla più generale aspirazione al decentramento condivisa dai cittadini e da alcune forze politiche. Tale aspirazione era alimentata dalla convinzione che fosse necessario creare un rapporto più stretto fra la classe politica e gli elettori e che fosse opportuno trovare "soluzioni locali a problemi locali". Si affermava così un nuovo modello di organizzazione dell'azione pubblica, un modello che veniva adottato anche nel campo delle politiche di controllo e repressione, tradizionalmente affidate agli apparati statali (polizia, carabinieri, Ministero dell'interno, magistratura, etc.).

La scelta di un simile modello comportava tuttavia due conseguenze principali: in primo luogo, l'assunzione dei "cittadini" - soprattutto di quelli organizzati in associazioni e comitati - come interlocutori privilegiati dell'azione pubblica in materia di sicurezza, con una conseguente, parziale ma significativa, trasformazione del modo di operare delle polizie (25); e, in secondo luogo, l'allargamento della sfera penale, attraverso il controllo e la repressione di condotte antisociali che fino ad allora erano state oggetto soltanto di un controllo sociale informale.

Tali condotte sono state definite "inciviltà" (26) nel dibattito francese, mentre in quello italiano sono state designate, con riferimento al deteriorarsi della vita nelle città, con il termine più generale di "degrado", espressione con la quale si indica sia il degradarsi degli spazi pubblici dal punto di vista urbanistico, sia la presenza in questi stessi spazi di persone o gruppi che tengono comportamenti considerati "devianti" (Rom, senza fissa dimora, migranti, gruppi giovanili, tossicodipendenti, etc.).

Lo spostamento del problema del mantenimento della "sicurezza" dal livello statale a quello locale intendeva rispondere alle richieste di protezione provenienti dai cittadini che gli apparati di controllo tradizionale apparivano incapaci di soddisfare. In molti casi, tuttavia, l'attenzione degli enti locali a tali richieste sembra averne incentivato la diffusione. Il fatto che i sindaci siano stati chiamati a rispondere della "insicurezza" delle città ha fatto sì che questa diventasse "l'oggetto principe dello stesso confronto-scontro politico" (27), uno scontro reso più acceso dalla riforma elettorale approvata nel 1993 che ha stabilito l'elezione diretta dei sindaci da parte dei cittadini.

In una prima fase, in sintonia con alcuni sviluppi avvenuti in Gran Bretagna e in altri paesi nordeuropei, l'attuazione di politiche di "sicurezza urbana" è stata considerata, dagli amministratori pubblici e dalle forze politiche, come un sistema efficace per rispondere a quella che era stata identificata come una "domanda popolare di sicurezza". Le politiche locali di sicurezza sembravano adatte non solo a garantire il diritto alla incolumità dei cittadini, ma anche a impedire la etnicizzazione della "questione sicurezza" e l'emergere di rivendicazioni razziste nei confronti dei migranti. In Francia, questo approccio ha condotto alla creazione della cosiddetta "politique de la ville", che intendeva rilanciare anche un più ambizioso progetto di inclusione sociale e di riqualificazione urbanistica delle periferie. In Italia, invece, sul modello anglosassone, si sono sviluppate iniziative di "community policing" - oggi in una certa misura legittimate ufficialmente dalla possibilità di organizzare "ronde di quartiere" prevista dal pacchetto sicurezza del 2009 - e si è tentata la localizzazione dell'azione della polizia attraverso l'istituzione del "poliziotto di quartiere" e l'ampliamento dei compiti affidati alla polizia urbana.

Ciononostante, in Italia, come ha sostenuto Pavarini (28), il rapporto fra ordine pubblico - di competenza dello Stato centrale - e governo della sicurezza cittadina non è mai stato chiarito, benché siano passati ormai più di dieci anni dalla messa in atto delle prime politiche di "sicurezza urbana". Le competenze dello Stato e quelle degli enti locali si sovrappongono in modo confuso, e le politiche di sicurezza sono per lo più estemporanee e ambigue. Esse hanno tuttavia avuto un impatto simbolico molto rilevante.

Nell'immaginario collettivo, alla cui formazione hanno contribuito importanti processi di costruzione mediatica, si è affermata l'idea che le istituzioni debbano rispondere alle richieste dei cittadini e che debbano farlo secondo le modalità indicate dai cittadini stessi, benché a questi spesso manchi la competenza necessaria per individuare le soluzioni più adeguate ai "problemi di sicurezza" in discussione. Si è inoltre affermato il principio per cui non è necessario che le "richieste dei cittadini" in materia di "sicurezza" siano accolte dalle amministrazioni attraverso un processo di decisione democratica. Le decisioni politiche sulla "sicurezza" si devono prendere, secondo questa concezione, ascoltando "direttamente" la "voce della gente", e non secondo le modalità tradizionali della democrazia rappresentativa.

Si tratta di un modello lontano tanto dalla concezione democratica affermatasi negli Stati costituzionali di diritto, quanto da forme di democrazia partecipativa. E' un modello politico che appare possibile in molti casi definire "populista". Questo modello trasforma il rapporto fra cittadini ed eletti e crea una inedita contiguità fra sfera pubblica e sfera privata. Esso legittima come "attori politici" soggetti privati (associazioni, comitati, singoli promotori di petizioni, etc.) (29), che per lo più difendono interessi anch'essi privati, quali quelli dei proprietari di alcuni immobili, dei commercianti, degli imprenditori, etc. La "sicurezza" è così concepita come un "bene pubblico" il cui godimento è però individualizzato. Essa non è un bene "di tutti"; è piuttosto un "bene di ciascuno", secondo un modello liberale che incentiva la privatizzazione degli spazi pubblici e la trasformazione dell'intervento sociale dello Stato.

Di solito i cittadini, nel chiedere "più sicurezza", chiedono contestualmente agli enti locali di rinunciare alla realizzazione di interventi di interesse pubblico che ledono interessi individuali, come la realizzazione di infrastrutture urbanistiche in alcune zone della città. Ancora più spesso, essi chiedono alle istituzioni di privilegiare gli interessi privati di alcuni gruppi sociali (i residenti, le madri dei bambini della scuola del quartiere, i negozianti, etc.), rinunciando alla realizzazione di interventi di carattere sociale che potrebbero danneggiarli perché, attirando categorie sociali considerate "pericolose", possono produrre "insicurezza" e "squalificare" una determinata area urbana. E' ad esempio il caso della edilizia pubblica, della sistemazione dei campi rom, della destinazione di alcuni edifici per usi collettivi (mense, alberghi popolari, centri di ascolto, sert, etc.).

I cittadini pretendono insomma un "controllo su misura", finalizzato alla tutela di specifici interessi. Questo controllo, per essere efficace, non può avere soltanto natura penale. Esso deve garantire anche la "qualità della vita" e incentivare lo sviluppo economico locale (commercio, turismo, etc.). Le istituzioni di controllo penale - in primo luogo le polizie - sono così chiamate ad assumere compiti tradizionalmente riservati alla politica. La nozione di "sicurezza urbana" tende così a dilatarsi e a comprendere una serie molto variegata di attività e di campi di intervento.

Se le istituzioni incaricate del controllo sociale secondario assumono compiti politici, vi è il rischio che la loro azione divenga essa stessa politica e che essi siano percepiti come attori "di parte", tutori di alcuni interessi a scapito di altri. Probabilmente consapevoli di questo pericolo, che può condurre alla loro delegittimazione, le polizie italiane sembrano non aver assecondato fino in fondo il processo di localizzazione della "questione sicurezza". La trasformazione dunque ha investito soprattutto gli enti locali e ha prodotto un risultato più politico che amministrativo, un mutamento nel modo di percepire le istituzioni locali e di giudicare il loro operato. Questioni prima considerate "tecniche" sono divenute oggetto della contesa politica, incentivando la frammentazione delle comunità cittadine oggi sempre più divise da frontiere sociali, etniche e culturali.

Paradossalmente, dunque, quella "indignazione morale" che, secondo lo schema interpretativo durkheimiano, avrebbe dovuto condurre a una maggiore coesione sociale e al rafforzamento della "identità collettiva", non ha per lo più portato a una maggiore partecipazione dei cittadini alla politica locale, né a un rilancio dei centri urbani. Essa ha sì individuato un "capro espiatorio" nei diversi gruppi sociali di volta in volta indicati come "pericolosi" (i Rom, gli stranieri, i giovani, etc.), ma non ha condotto a una riappropriazione delle città, né a un rafforzamento dei legami di solidarietà sociale. Ancor meno, le politiche di "sicurezza urbana" hanno fatto da argine alla "tolleranza zero", come alcuni criminologi e alcune amministrazioni - soprattutto progressiste - avevano auspicato (30).

La nuova criminologia britannica e una parte della criminologia italiana avevano sostenuto il carattere alternativo del controllo di comunità e della "polizia di prossimità" rispetto al controllo penale invasivo da parte dello Stato: la nascita di comitati per la sicurezza nei quartieri, in particolare nelle periferie popolari, era stata inizialmente interpretata come una risposta democratica e non razzista alla paura della criminalità (31). Il controllo comunitario era percepito dai suoi promotori anche come uno strumento d'integrazione sociale conforme a una visione solidarista dello Stato e della società (32).

L'impressione che si ha oggi, tuttavia, a circa vent'anni dalla prima ampia diffusione in Europa delle politiche di "sicurezza urbana", è che esse abbiano soprattutto legittimato forme di auto-tutela e pretese sicuritarie, consentendo, ad esempio, che pratiche come quelle delle "ronde" (gruppi organizzati di cittadini che pattugliano determinate zone urbane) si propagassero e fossero da molti considerate come uno strumento neutro di difesa del "proprio territorio" da presenze indesiderate.

Le politiche di "sicurezza urbana" hanno inoltre incoraggiato la formulazione di problemi sociali e politici di diversa natura in termini sicuritari e la concentrazione delle risorse economiche e umane degli enti locali, ma in parte anche del cosiddetto "privato sociale" (33), sulle questioni legate alla "sicurezza", invece che su progetti di più ampio respiro capaci di fronteggiare le diverse cause della decadenza delle città. Infine, in alcuni casi - si pensi alle ordinanze comunali volte a proibire la pratica di lavare i vetri delle auto ai semafori, a quelle contro la mendicità, o a quelle riguardanti la popolazione rom - le politiche di "sicurezza urbana" hanno finito per incentivare la discriminazione e le disuguaglianze. Queste, poiché erano prodotte da interventi che rispondevano a una "richiesta dei cittadini", sono state istituzionalizzate e legittimate pubblicamente.

Infine, è importante segnalare come la richiesta di sicurezza dal basso tenda a invocare risposte rapide e immediatamente efficaci a problemi complessi e di difficile soluzione, finendo per incoraggiare l'inasprimento della repressione penale. Non è un caso che il modello della "sicurezza urbana", presentato in una prima fase come modello alternativo alla "tolleranza zero", si sia per lo più saldato con questa. Non solo in Italia, ma anche nei principali paesi europei, la maggioranza delle "nuove politiche di sicurezza" tende oggi a combinare il modello di controllo comunitario proprio delle politiche di "sicurezza urbana" con la severità penale tipica della "tolleranza zero". Questo connubio era già del resto presente nel modello originale statunitense, nel quale la "Zero Tolerance" univa alla volontà di contrastare il degrado di alcune aree urbane: il controllo situazionale capillare di tutte le zone della città, la criminalizzazione delle condotte considerate antisociali dalla maggioranza dei cittadini, l'adozione di leggi penali particolarmente repressive come le Three strikes laws (34), e la rigidità della pena stabilita con i provvedimenti di Mandatory sentencing (35).

L'intenzione di "prendersi cura" della città era espressa nello slogan "Fixing Broken Windows" (36), coniato da due dei principali teorici della "Zero Tolerance", James Q. Wilson e George Kelling. Essi intendevano promuovere una politica di impegno degli enti locali e dei cittadini a "riparare le finestre rotte", ovvero a contrastare il degrado urbano, attraverso un'attenzione costante al territorio, in particolare alle zone più povere della città. Tale politica era esplicitamente presentata come una possibile alternativa alla severità penale e a all'azione repressiva della polizia che poteva altrimenti assumere un carattere razzista (37). Il decadimento dell'ambiente urbano era però interpretato non come il risultato di politiche sociali, edilizie, urbanistiche e ambientali sbagliate, ma come il prodotto dei comportamenti antisociali di alcuni gruppi, particolarmente dei giovani afroamericani, secondo uno schema che si è poi affermato in molti paesi europei, fra i quali l'Italia.

Le politiche ispirate alla teoria delle "finestre rotte" si presentano come politiche di "sicurezza urbana" di impianto "comunitario" o "civico", ma sottendono una concezione penale secondo la quale non rileva tanto l'importanza del bene offeso, quanto l'impatto che il reato ha sulla vita della comunità. I gruppi che non seguono le norme sociali dominanti sono così criminalizzati, mentre la ricerca delle "cause sociali" della devianza è abbandonata. In questo quadro, coloro che tentano di trovare soluzioni alternative alla criminalizzazione sono accusati di "buonismo" o di "elitismo". Essi sono additati o come complici dei gruppi devianti, o come persone appartenenti a ceti sociali privilegiati, lontani dai bisogni del "popolo".

Le politiche di "tolleranza zero" e le politiche di "sicurezza urbana" ispirate a questi paradigmi confluiscono dunque in un modello di gestione politica e penale della "devianza" ambivalente, un modello che legittima e istituzionalizza l'esclusione di particolari categorie sociali.

3. Politiche di welfare e modelli di città

La ricerca di "risposte" alla "domanda di sicurezza" dei cittadini non ha finora condotto né a soddisfare questa "domanda", né ad arginare l'etnicizzazione dei conflitti sociali e l'emergere del razzismo. Questa constatazione, che pare difficilmente controvertibile, potrebbe indurre a una riflessione sulla impostazione stessa del dibattito sulla "sicurezza". In molti casi, il termine "sicurezza" opera come una "parola-contenitore" che indica questioni sociali e politiche diverse. L'articolazione del dibattito politico e mediatico (e in parte anche di quello sociologico) intorno alla coppia sicurezza/insicurezza può dunque condurre a una sua cristallizzazione che impedisce di cogliere i diversi aspetti critici che caratterizzano le nostre società.

Più specificamente, il termine generico "sicurezza" evoca immediatamente le strategie di protezione dalla criminalità. Esso rimanda al controllo del territorio, alla messa sotto tutela di alcune categorie sociali considerate "pericolose" e all'aumento della severità penale, ed è invece raramente associato sia alla "sicurezza sociale", intesa come garanzia di trascorrere la vita al riparo dalla indigenza, sia alla "sicurezza dei diritti" (38), ovvero alla certezza di veder garantiti i diritti individuali di tutti i cittadini. Quest'ultimo è uno degli elementi centrali dello Stato di diritto moderno e si collega alla certezza del diritto (39) e a una diffusa "cultura della legalità", per cui, come hanno da tempo messo in luce sia la riflessione filosofica che quella criminologica, i cittadini rispettano le leggi non soltanto perché temono la sanzione, ma anche perché aderiscono ai valori protetti dall'ordinamento giuridico o, almeno, ne accettano il carattere obbligatorio (40).

Analogamente, la focalizzazione sul tema della "sicurezza urbana" tende a offuscare la complessa serie di elementi che influiscono sulla qualità della vita in città. Il dibattito sulla "sicurezza urbana" tende a presentare la città come uno spazio statico, come un territorio privo di increspature e non soggetto a mutamenti, che si deve sorvegliare e difendere. Le evoluzioni urbanistiche e sociali delle città contemporanee sono raramente considerate in modo adeguato all'interno di questo dibattito. Se sono evocate, è solo per indicarle come "cause" dell'insicurezza, "cause" sulle quali tuttavia non sembra possibile agire. La declinazione dei "problemi della città" come problemi di "sicurezza" non consente dunque di mettere al centro della discussione e della decisione politica questioni relative alla mobilità sociale degli abitanti, alla trasformazione degli spazi urbani, alla creazione di forme di segregazione urbanistica, etc. E' come se le domande fondamentali relative alla vita della città fossero rimosse dal dibattito pubblico.

In un divertente dialogo ideale fra i "filosofi greci" e "un sociologo" che Alessandro Dal Lago ha scritto alcuni anni fa, egli immaginava che i primi chiedessero al secondo dove "i moderni" si riunivano in assemblea e in quali luoghi essi discutevano di politica nei momenti in cui non lavoravano e non si riposavano. Il sociologo, imbarazzato, rispondeva: "Noi non ci riuniamo molto. Lo facciamo qualche volta quando si tratta di decidere chi paga le spese dell'ascensore o per fare una petizione contro gli scippi". E spiegava che le elezioni politiche si tenevano invece ogni cinque anni. Dopo un ulteriore scambio di battute, i filosofi greci, pensierosi affermavano:

A noi sembra che voi non siate interessati alla politica. Ma che gente siete? Ci ricordate i Persiani. Ecco perché non vi definite più animali politici, ma esseri sociali. Noi però, non vorremmo vivere come voi. Se abbiamo capito bene, la politica la fanno solo quelli che vi governano. Ma voi, cosiddetti cittadini, siete lavoro e casa, casa e lavoro. E allora, crediamo di aver capito. Tutta la faccenda dell'insicurezza è un modo per farvi lavorare e stare a casa quando non lavorate. Tutte le vostre paure hanno a che fare con i marocchini, gli albanesi, i rapinatori, gli scippatori, gli ubriachi, le prostitute, tutta gente che sta per la strada. Ma, cari moderni, la politica noi la facevamo per strada, in piazza, al mercato. Ecco perché non avevamo paura (41).

I "problemi di sicurezza urbana" sono, come si è tentato di argomentare, affrontati principalmente come problemi di "territori". Ciò in molti casi impedisce di prendere in considerazione soluzioni concernenti le persone invece che gli spazi. In particolare, la questione dei "diritti" e quella delle "assicurazioni sociali" sono di fatto espulse dal dibattito, senza neppure che vi sia bisogno di dichiararle superate. Eppure, oggi il territorio urbano è attraversato da disuguaglianze sociali. Le città sono sempre più divise da barriere etniche e di classe che l'enfatizzazione della "questione sicurezza" sembra finalizzata a difendere. Le frontiere invisibili che separavano le classi sociali sono divenute visibili a causa di un processo di progressiva ghettizzazione che tende a concentrare particolari categorie sociali in alcune zone delle città, secondo un modello di convivenza sociale finora poco diffuso, almeno in Europa (42).

Le frontiere sociali e razziali visibili sono però rappresentate nel dibattito politico come il risultato di un naturale processo di evoluzione sociale, legato all'"arrivo" di determinati gruppi - ad esempio "gli immigrati" - e alla "partenza" di altri - ad esempio le classi borghesi o "gli abitanti storici" di un quartiere. Raramente si considera che tale processo deriva da scelte politiche precise, e in primo luogo dalla regolazione - o dalla mancata regolamentazione - del mercato immobiliare. In un breve ma significativo studio Eric Maurin (43) ha ad esempio illustrato in modo chiaro come la nascita di quartieri-ghetto in Francia non sia che la conseguenza più visibile di un complesso processo di mutazione urbanistica. Per Maurin non è l'immobilismo sociale a creare i ghetti, ma è la selettività della mobilità sociale, ovvero il fatto che i diversi gruppi sociali siano spinti, in primo luogo dal mercato immobiliare e poi anche da quello dei consumi e del lavoro, a scegliere di concentrarsi in particolari aree urbane.

I "fattori umani" dei mutamenti sociali in atto sono però raramente presi in considerazione dalle "politiche di sicurezza". Le città sono pensate come fortezze da pattugliare e difendere. Eppure basterebbe pensare alla loro storia per comprendere che la soluzione dei problemi urbani non può che passare da un attento esame delle dinamiche di vita che sono sempre state alla base della creazione e dello sviluppo delle città. Una parte della sociologia francese contemporanea sta ad esempio riflettendo criticamente sulla "politique de la ville", che pure era un tentativo di affrontare i "problemi di sicurezza urbana" da un punto di vista non solamente repressivo. Molti lamentano che tale politica si è concentrata eccessivamente sul sostegno ai quartieri poveri e sulla riqualificazione architettonica degli spazi urbani e non è invece intervenuta sulle principali dinamiche sociali che stavano trasformando le città. Queste erano essenzialmente: 1. la relegazione delle minoranze e dei poveri nelle aree periferiche dove è presente l'edilizia pubblica; 2. lo spostamento delle classi medie e medio-basse nei comuni rurali vicino alle città e la conseguente creazione di nuove zone peri-urbane di tipo residenziale (zone socialmente e spesso anche etnicamente omogenee); 3. la cosiddetta "gentrification" dei centri storici, ovvero la ripopolazione dei centri storici da parte di una classe sociale medio-alta, colta e "cosmopolita", che li trasforma in zone residenziali omogenee riservate a una popolazione "privilegiata" e al turismo (44).

Come ha mostrato Maurin, queste dinamiche - che sono in atto anche in altri paesi europei, Italia compresa - sono tutt'altro che spontanee e "naturali". Esse dipendono dalle evoluzioni del mercato immobiliare e dalla decisione pubblica di intervenire o di non intervenire su alcune zone della città (45). Si pensi ad esempio alla decisione di consentire l'apertura di grandi centri commerciali che trasformano la vita di interi quartieri, obbligando molti piccoli esercizi commerciali a chiudere, o alla scelta di destinare solo aree periferiche a interventi di edilizia pubblica, o, ancora, alla volontà di privilegiare alcune zone della città rispetto ad altre dotandole di servizi, trasporti, etc.

Queste sono le decisioni che i Greci evocati da Dal Lago avrebbero preso nelle agorà e che le nostre amministrazioni invece spesso considerano mere scelte gestionali, sulle quali non è necessario consultare la cittadinanza. La mancanza di un processo di decisione democratica è spesso alla base della costituzione di comitati e gruppi di privati cittadini che si associano per far valere i propri interessi. Come ha sottolineato Jacques Donzelot, anche la migliore politica di gestione della città non può sortire buoni risultati se si struttura come una "politique de la ville" e non "pour la ville" (46). Per "riunificare le città" (47) frammentate dai processi di segregazione urbana, e anche per far fronte alle periodiche ondate di "panico morale", potrebbe rivelarsi efficace una politica che sposti la propria attenzione dai territori alle persone, una politica - potremmo aggiungere - che, invece che farsi interprete dei "sentimenti della gente", conferisca più potere agli abitanti, garantendo spazi di democrazia partecipativa e di mediazione sociale, e attuando politiche di inclusione sociale rivolte agli individui, in modo che questi siano in grado di accedere alla mobilità urbana e a quella sociale (48).


Note

1. Utilizziamo il termine al plurale poiché nel biennio 2007-2009 si è fatto più volte riferimento al "pacchetto sicurezza" designando una serie di provvedimenti in materia dai contenuti eterogenei e adottati in tempi diversi.

2. Il panico morale è il sentimento collettivo che si produce quando: "una condizione, un episodio, una persona o un gruppo di persone cominciano a essere definite come una minaccia ai valori e agli interessi sociali" Cfr. S. Cohen, Folk Devils and Moral Panic, Macgibbon and Kee, London 1972, p. 9. Traduzione mia. Generalmente, i gruppi o le persone così definite sono presentate in modo stereotipato dai mass media e dalla classe politica che tendono a mettere in luce una loro "natura" antisociale. Sul tema vedi anche T. Chiricos, Moral Panic as Ideology. Drugs, Violence, Race and Punishment in America, in M. Lynch, E. B. Patterson (eds.), Justice with Prejudice: Race and Criminal Justice in America, Harrow and Heston, New York 1996 e E. Goode, N. Ben-Yehouda, Moral Panics. The Social Construction of Deviance, Blackwell, Cambridge (Ma.) 1994.

3. Basti pensare che dei 612 casi di violenza nei confronti delle donne registrati nel 2007 dal Centro antiviolenza del Comune di Roma l'80% erano casi di "violenza domestica", ossia maltrattamenti subiti in casa. Mentre lo stupro ad opera di sconosciuti rappresentava meno del 2% del totale degli atti di violenza sulle donne registrati. Inoltre, per quanto riguardava gli autori delle violenze, nel 52% dei casi si trattava del marito della vittima, nel 18% del compagno o del convivente, nel 7% dell'ex marito, nel 5% dell'ex compagno. In un altro 5% dei casi si trattava comunque di un parente, nel 3% del padre, e solo nel 3% dei casi la violenza era stata commessa da uno sconosciuto. Le vittime erano per il 72% italiane e per il 28% straniere. Mentre gli autori del crimine erano per il 79% italiani e per il 21% stranieri (dati divulgati in seguito al fatto di cronaca sopra illustrato e pubblicati sul quotidiano "La Repubblica", il 21 aprile 2008). Sul tema della violenza contro le donne cfr. anche il numero monografico della rivista "Studi sulla questione criminale" (T. Pitch, a cura di, Ginocidio. La violenza maschile contro le donne, "Studi sulla questione criminale", 2008, 2).

4. Illuminante per la comprensione della distorsione dei fatti operata dai media è l'intervista alla sorella della donna uccisa nella periferia romana, Giovanna Reggiani, pubblicata in L. Guadagnucci, Lavavetri. Il prossimo sono io, Terre di mezzo, Milano 2009, pp. 10-24. Paola Reggiani, sorella di Giovanna, si dichiara colpita per la strumentalizzazione della vicenda ai fini delle campagne elettorali in corso.

5. Cfr., ad esempio, Parlamento Europeo, Risoluzione su una strategia europea per i Rom, 31 gennaio 2008, P6_TA-PROV(2008)0035; Council of Europe, Committee of Ministers, Resolution ResChS(2006)4, Collective complaint No. 27/2004 by the European Roma Rights Centre against Italy, Adopted by the Committee of Ministers on 3 May 2006 at the 963rd meeting of the Ministers' Deputies; Agenzia europea per i diritti fondamentali, Rapporto sul razzismo e la xenofobia negli Stati membri, Unione Europea, Bruxelles 2007.

6. Cfr. sul tema: Demos&Pi, III Rapporto sulla sicurezza in Italia, Bologna 2010.

7. Sull'origine di questo «discorso» si veda A. Dal Lago, Non-persone. L'esclusione dei migranti nella società globale, Feltrinelli, Milano 1999.

8. Preoccupazioni ben presenti nella dottrina e nella riflessione penalistica italiana, come testimonia il fiorire di seminari e convegni dedicati a queste tematiche; fra quelli recenti, si segnala la giornata di riflessione organizzata presso l'Università degli studi di Firenze su Il sistema penale dopo le innovazioni in tema di sicurezza, Firenze, 23 marzo 2010 e coordinata dai Prof. Francesco Palazzo e Roberto Bartoli.

9. R. Gallissot, Misère de l'antiracisme. Racisme et identité nationale le défi de l'immigration, Editions de l'Arcantère, Paris 1985 (trad. it. Razzismo e antirazzismo. La sfida dell'immigrazione, Dedalo, Bari 1992, p. 70).

10. A. M. Rivera, Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia, Derive e Approdi, Roma 2003, p. 21. Sul tema della cittadinanza come privilegio esclusivo dei nazionali si può vedere anche il già citato saggio di Emilio Santoro, La cittadinanza esclusiva: il carcere nel controllo delle migrazioni, cit.

11. Il 20 maggio del 2008, subito dopo l'incendio provocato da alcuni cittadini nel campo rom di Napoli, la situazione dei Rom in Italia è stata discussa al Parlamento europeo e la Commissione europea ha esplicitamente condannato l'accaduto.

12. A. M. Rivera, Estranei e nemici, cit., p. 62.

13. Sul tema si veda L. Piasere, Popoli delle discariche. Saggi di antropologia zingara, Cisu, Roma 1991. Sull'anomalia dei campi rom in Italia, si può vedere l'illuminante rapporto dell'European Roma Rights Center, Il paese dei campi. La segregazione razziale dei Rom in Italia, "Rapporti nazionali", n. 9, ottobre 2000, pubblicato in italiano come supplemento al mensile "Carta", 2000, 12. Per una conoscenza del contesto europeo si veda invece J.-P. Liégeois, Roms en Europe, Editions du Conseil de l'Europe, Strasbourg 2008.

14. A. M. Rivera, Estranei e nemici, cit., p. 62.

15. L. Piasere, Popoli delle discariche, cit.

16. A. M. Rivera, Estranei e nemici, cit., p. 62.

17. Espressione impiegata dalla Corte Suprema statunitense.

18. B. Clavero, Stato di diritto, diritti collettivi e presenza indigena in America, in P. Costa, D. Zolo, a cura di, Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 538-539.

19. Ivi, p. 538.

20. L. Bonelli, La France a peur, cit., pp. 126-127.

21. R. E. Park, La ville comme laboratoire social, in Y. Grafmeyer, I. Joseph, sous la direction de, La ville-laboratoire et le milieu urbain, Editions Aubier Montaigne, Paris 1984, p. 165.

22. Cfr. E. Durkheim, De la division du travail social, Alcan, Paris 1893 (trad. it., La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1977).

23. Cfr. L. Wirth, Le phénomène urbain comme mode de vie, in Y. Grafmeyer, I. Joseph, sous la direction de, La ville-laboratoire et le milieu urbain, cit.

24. Ibid.

25. Cfr. S. Palidda, Polizia postmoderna, cit.

26. Cfr. S. Roché, Tolérance zéro? Incivilités et insécurités, Odile Jacob, Paris 2002.

27. M. Pavarini, "L'aria delle città rende (ancora) liberi"?, cit., p. 13.

28. Ibid.

29. Sul tema cfr. S. Palidda, Polizia postmoderna, cit.

30. In questo, il caso italiano assomiglia molto sia a quello britannico che a quello francese.

31. Un esempio di questo approccio era il progetto Città sicure della Regione Emilia Romagna che è stato il primo di questo tipo in Italia. Cfr. "Quaderni di città sicure", vari numeri.

32. Secondo Massimo Pavarini, ad esempio, nell'esperienza di sorveglianza comunitaria svoltasi nel quartiere Reno a Bologna i membri dei comitati incaricati di garantire la sicurezza si sono battuti per l'assegnazione di appartamenti di proprietà cooperativa presenti nel loro quartiere ai profughi provenienti dalla ex Jugoslavia che si accampavano lungo il fiume vicino all'area residenziale dove erano sorti i comitati. Cfr. Bologna: fare prevenzione alla Barca. Sicurezza e opinione pubblica in città, "Quaderni di città sicure", 1996, 4. Analogamente, nelle ricerche svolte da Cristian Poletti sui comitati istituiti nel quartiere di Modena Est è emerso il coinvolgimento degli stranieri residenti nelle attività di sorveglianza. Cfr. C. Poletti, Ricerca sui comitati securitari a Modena, con interviste ai presidenti dei comitati stessi, in "Dei delitti e delle pene", 2003, 1.

33. Associazioni, comitati, cooperative, etc.

34. Si tratta di una serie di leggi emanate, in numerosi Stati nordamericani e a livello federale, a partire dalla metà degli anni Novanta che prevedono un forte aggravio di pena, e, nel caso della legge californiana, persino l'ergastolo, quando la persona condannata abbia commesso la recidiva in relazione ad alcuni reati inclusi in una speciale lista. Questi provvedimenti, ispirati alla massima severità penale, tendono a sovvertire alcuni principi chiave degli ordinamenti penali e penitenziari moderni, dalla proporzione fra entità della pena e gravità del reato, al principio rieducativo della pena. Per un esame di queste leggi mi permetto di rinviare a L. Re, Carcere e globalizzazione, cit., capitolo 3.

35. Le leggi di mandatory sentencing, o "condanna obbligatoria", prevedono, per una serie di reati, che non sia lasciata al giudice alcuna discrezionalità nella fissazione della pena, né in fase di condanna, né nella fase esecutiva. Cfr. Ibid.

36. G.L. Kelling, J. Q. Wilson, Fixing Broken Windows. The Police and Neighbourhood Safety, "Atlantic Monthly Review", 1989, 3.

37. Cfr. G.L. Kelling, C.M. Coles, Fixing Broken Windows. Restoring Order in Our Communities, The Free Press, New York 1996.

38. Cfr. A. Baratta, Diritto alla sicurezza o sicurezza dei diritti?, in S. Anastasia, M. Palma, a cura di, La bilancia e la misura, Franco Angeli, Milano 2001.

39. Sul tema si veda D. Zolo, Teoria e critica dello Stato di diritto, in P. Costa, D. Zolo, a cura di, Lo Stato di diritto, cit.

40. La riflessione filosofico-giuridica su questo tema è antica, si pensi al Critone di Platone.

41. A. Dal Lago, La favola della sicurezza, 27 dicembre 2006.

42. Per un raffronto fra i processi di ghettizzazione in atto negli Stati Uniti e quelli in atto in Francia cfr. il numero monografico della rivista "Hérodote". Ghettos américains, banlieues françaises, 2006, 122.

43. E. Maurin, Le ghetto français. Enquête sur le séparatisme social, Seuil, Paris 2004.

44. Per un'analisi di queste dinamiche si veda J. Donzelot, Quand la ville se défait. Quelle politique face à la crise des banlieues?, Seuil, Paris 2006 e il numero monografico della rivista "Esprit". La ville à trois vitesse: gentrification, relégation, périurbanisation, mars-avril 2004.

45. Sul tema si veda anche l'importante pubblicazione J.P. Fitoussi, E. Laurent, J. Maurice, Ségrégation urbaine et intégration sociale, La Documentation française, Paris 2004.

46. J. Donzelot, Quand la ville se défait, cit. pp. 27-28.

47. Ivi, p. 158.

48. Sul tema, e per una critica alle politiche di inclusione sociale indirizzate invece a categorie sociali (i giovani di periferia, gli immigrati, etc.), politiche che spesso producono una ulteriore stigmatizzazione di tali categorie, si può vedere E. Maurin, Le ghetto français, cit.