2006

Quando la razza conta? Fra pratiche discriminatorie e trattamenti eguaglianti

Costanza Margiotta

Vorrei iniziare questo contributo narrando anche io una storia di varia umanità, ma diversa da quella inserita nel contributo di Mauro Barberis a questo Forum Si tratta sempre di esperienze vissute sui mezzi pubblici (o piuttosto semi-pubblici), precisamente su un treno in transito per la stazione di Bologna, nei giorni successivi al ritrovamento del corpo del piccolo Tommaso Onofri nei pressi di Parma. Al momento dell'ingresso in stazione una ragazza bianca, davanti alla porta del treno, dove si trovava anche il controllore, inizia ad agitarsi chiedendo se qualcuno avesse visto la sua valigia lasciata incustodita proprio in quella parte del vagone. La reazione immediata del controllore bianco è quella di fare notare alla ragazza come credesse possibile ritrovare una valigia lasciata incustodita in un treno frequentato da "negri". Malauguratamente per il controllore davanti alla porta di quel treno non mi trovavo solo io, ma anche una ragazza nera, la quale non aspettò un secondo per far notare al controllore che la sua era una affermazione profondamente razzista: gli chiedeva insomma come facesse a dare per scontato che dovesse per forza essere stato qualcuno di colore ad aver rubato la valigia. A quel punto mi sono intromessa facendo notare al controllore come non più di una trentina di anni fa lo stesso controllore (che dimostrava una sessantina d'anni) avrebbe immediatamente incolpato per la scomparsa di una valigia i meridionali (o meglio i "terroni") come oggi incolpava i "negri", e come, quindi, egli ragionasse per stereotipi e pregiudizi (1). La vivacità della conversazione cresceva mano a mano che la ragazza nera cercava di indurre il controllore ad ammettere il suo pregiudizio, facendogli anche notare come ad ammazzare Tommaso Onofri non fossero stati dei "negri" ma dei suoi connazionali: come insomma uno dei delitti più efferati degli ultimi anni (niente di paragonabile al furto di una valigia, o di un portafoglio) fosse da imputare ad italiani. Il controllore in difficoltà, anche perché il treno non si decideva, come quasi sempre, ad entrare in stazione, ma rimaneva fermo al suo ingresso, iniziò a scusarsi con la ragazza dicendo che non avrebbe voluto dire "negri" ma "marocchini" o anche "albanesi", e riconoscendo di essersi espresso male (sic). Per buona sorte del controllore il treno arrivò in stazione, dove, finendo di insultarlo, scendemmo la ragazza nera ed io.

Certo Mauro Barberis potrebbe dire che l'errore è quello iniziale della ragazza bianca che, lasciando la valigia incustodita in un treno frequentato da "negri", non si sarebbe fatta mettere in guardia dal pregiudizio: in questo caso non avrebbe tenuto presente che insomma "la razza conta". Lasciamo perdere la ragazza bianca (che fortunatamente risulterebbe priva di pregiudizi) e torniamo al nostro controllore bianco, il quale inconsciamente ha già reso operativo e introiettato il modello del racial profiling, ancora non esplicitamente importato da noi, e allo stesso tempo ha messo in luce la concretezza della razza quando viene usata per stigmatizzare, rilevando, peraltro, come l'identità razziale sia un fattore relazionale. Il nostro controllore avrebbe applicato alla lettera il racial profiling, dal momento che egli ha usato la razza come indicatore di pericolosità, cioè, per valutare l'azione di quel qualcuno che si è portato via la valigia della ragazza senza pregiudizi, e ha messo in relazione l'appartenenza razziale con la propensione al crimine. In questo modo il controllore non ha fatto che perpetuare lo stereotipo secondo cui le minoranze presenti nel nostro paese sono più propense al crimine di quanto non lo sia la maggioranza "nazionale", per cui esse meriterebbero una ancor maggiore e "particolare" attenzione da parte delle forze di polizia. Le "razze" andrebbero quindi prese sul serio da parte delle forze dell'ordine, e controllate preventivamente e in ogni caso onde evitare "spiacevoli sorprese" per "vecchiette" con pregiudizi o "giovinette" senza pregiudizi.

Spostiamoci dall'Italia all'altra sponda dell'Atlantico, negli Stati Uniti, dove il racial profiling non è solo una moda seguita dai controllori di biglietti ferroviari ma una vera e propria policy disciplinata in alcuni stati della Federazione (2). D'altra parte come faceva già notare W.E.B. Du Bois in Black Reconstruction (1935) il problema della democrazia tocca tutte le razze e tutte le nazioni (3). In questo paese la razza conta davvero anche fra le forze dell'ordine, ma conta anche per le politiche di azione affermativa (affirmative action), che da noi non decollano. La rilevanza del concetto di razza nel discorso giuridico statunitense ha quindi natura ambivalente: da un lato, infatti, la razza "rileva" per quel che riguarda la "sicurezza" del paese, di conseguenza la razza non bianca è in questo caso ipostatizzata in negativo. Il colore Ð a cui, come mettono bene in luce gli studi delle Critical race theories, non appartiene quello bianco che viene automaticamente escluso dalla tavola dei colori Ð assume il suo senso in relazione alla pericolosità sociale, alla criminalità. Dall'altro, invece, la razza conta in positivo per quel che concerne il trattamento "diverso" per le minoranze discriminate per ragioni razziali, ovvero il colore in questo caso assume il suo senso in relazione alla compensazione, alla rivendicazione, cioè, di un riconoscimento di alcuni diritti "speciali" per alcune classi di soggetti che rivendicano la propria differenza come un aspetto per ottenere l'uguaglianza; esso assume il suo senso, quindi, come valore emancipativo in un contesto di subordinazione razziale. In entrambe i casi, dunque, la razza conta.

Nel primo caso essa, però, sembra rilevare in maniera profondamente ingiusta, poiché, non basandosi il ragionevole sospetto sul mero comportamento individuale, il racial profiling appare assolutamente discriminatorio, nel senso che discrimina senza ragioni valide per trattare in modo "diverso" gli eguali, trattando cioè gli appartenenti a classi subordinate in modo peggiore di quelli appartenenti alle classi socio-economicamente avvantaggiate. In questo caso le persone trattate in modo diverso non diventerebbero certo uguali, non si tratterebbe quindi di un trattamento eguagliante (4). Nel secondo caso, invece, la razza sembra contare in modo giusto, perché l'affirmative action discrimina in favore delle classi subordinate e a scapito dei soggetti in posizione di potere socio-economico. Pertanto le persone trattate in modo diverso diventerebbero uguali e quindi saremmo di fronte a un trattamento eguagliante in favore dei gruppi che sono stati ingiustamente subordinati dalla stratificazione razziale (5).

Ma questa spiegazione può prestare il fianco a immediate critiche (non solo per il problematico superamento da parte di entrambe le posizioni dell'individualismo metodologico o per la tensione fra egualitarismo e differenzialismo): non a caso le due posizioni divergenti, quella c.d. liberal e quella conservatrice, riguardo alle due policies hanno buon gioco a darsi reciprocamente addosso. Ovvero hanno buon gioco i conservatori a sostenere come il racial profiling sia giusto dal momento che tratta in modo diverso alcune categorie di soggetti in favore della sicurezza di tutti (6), in favore di un c.d. bene comune o di un fine sociale benefico, potrebbe dire Dworkin Ð questo in nome di una presunta relazione fra colore e propensione al crimine, mentre le affirmative actions discriminerebbero i più meritevoli in favore di categorie specifiche di persone, i cui meriti non avrebbero alcun ruolo al momento della selezione, ad esempio per l'ingresso in istituzioni universitarie, visto che tale selezione avviene sulla base di appartenenze identitarie (razza, genere, etc.).

Il problema che si pone allora è se e perché la razza debba assumere rilievo solo in uno dei due contesti e non nell'altro: dal punto di vista dei liberal o dei conservatori, e dal punto di vista strettamente giuridico, bisognerebbe ammettere che la razza o "rileva" sempre o non "rileva" mai. Su questa base la razza dovrebbe contare in entrambe le situazioni: nel caso dei controlli da parte delle forze dell'ordine in base al profilo razziale, come nel caso della selezione per le università in base alle appartenenze razziali, oppure non contare in nessuno dei due contesti.

Varrebbe allora la pena di concentrarsi su quale delle due policies, su quale dei due "rimedi" basati sulla razza, sia una forma di perpetuazione della discriminazione e rafforzi gli stereotipi e i pregiudizi riguardo a minoranze marginalizzate presenti nel paese. In altri termini se l'obiettivo è quello, quanto meno, di contenere, se non di eliminare, il razzismo, va valutato quando e se sia utile partire dalla "classificazione" razziale. Per quanto riguarda il racial profiling, mi sembra evidente che l'uso che viene fatto del concetto di razza non fa che intensificare l'oppressione razziale, rinforzando peraltro il pregiudizio sociale che lega il colore della pelle alla propensione al crimine. In questo modo non si riduce certo ma si dà vigore a quello che è stato definito, da uno dei più maggiori protagonisti delle CRT, il "normale" razzismo che caratterizza la società statunitense (7).

Per quanto riguarda invece i programmi di azione affermativa, la classificazione razziale sembra elevare, o migliorare, la condizione delle minoranze offrendo loro adeguate opportunità per ridurre la disparità di opportunità che caratterizza il sistema meritocratico. Se la "cecità al colore" aveva reso tutti formalmente uguali (8), la realtà dei fatti, prima dell'applicazione dei programmi di azione affermativa, dimostra la disparità delle opportunità, l'ineguaglianza di fatto fra categorie di persone: ed è proprio la tensione fra lo status di eguaglianza e le concrete disuguaglianze, che ancora strutturano la società statunitense, a spiegare la lotta per i diritti "speciali" da parte delle minoranze marginalizzate, la richiesta, cioè, del riconoscimento di programmi di azione affermativa. Tale richiesta non ha fatto che mettere in evidenza l'inadeguatezza dell'uguaglianza formale garantita dal principio di cecità giuridica al colore, rendendo quindi possibile un certo cambiamento sociale all'interno della società statunitense. La cecità al colore si rivelerebbe, quindi, come una delle espressioni giuridiche del potere razzista, volto a mantenere il predominio razziale dei bianchi; dal canto loro le azioni affermative si fondano sulla presa d'atto della disparità di potere esistente fra la maggioranza e le minoranze razziali nella società americana.

Quel che bisogna chiedersi a questo punto è se e quanto il riconoscimento di diritti "speciali", quali appunto le politiche di azione affermativa, renda liberi dall'essere designati e subordinati in base al colore della pelle e se tale riconoscimento implichi una reale emancipazione politica per le (e una reale trasformazione della condizione di) minoranze razzialmente oppresse. In proposito è utile ricordare che fra le teorie c.d. postmoderne l'unica ad aver sostenuto che i diritti non possono svolgere quel ruolo importante, come strumento di contestazione dell'ordine esistente, che normalmente viene loro attribuito, è quella dei Critical legal studies. Le logiche stesse della forma giuridica non sarebbero, secondo questi autori, mai realmente forzate dalla materiale rivendicazione dei diritti; piuttosto la coscienza giuridica, e con essa la retorica dei diritti, indurrebbero le persone ad accettare la propria subordinazione oppressiva, impedendo ogni reale progresso delle forze sociali progressiste e facendo perdere di vista agli individui i loro reali obiettivi. Qualsiasi riforma giuridica, anche quelle in cui la razza verrebbe a contare in positivo, risulterebbe quindi funzionale al mascheramento e alla perdurante legittimazione dell'ineguaglianza razziale, non essendo in grado di produrre una ristrutturazione sociale profonda e di mettere in discussione la legittimità dell'ordine sociale esistente.

A questa tesi hanno mosso le loro critiche proprio i teorici della CRT, denunciando anch'essi la «politica dei diritti» messa in atto negli Stati Uniti ma proprio attraverso, e non contro, il linguaggio e la cultura dei diritti. Le obiezioni dei teorici della critical race theory agli studi critici del diritto sono state, infatti, rivolte agli effetti che questi ultimi studi potrebbero avere su chi, nella società statunitense, si trova razzialmente discriminato, sulle persone che, private della coscienza dei propri diritti, resterebbero del tutto disarmate di fronte alla supremazia bianca (9). I primi, a differenza dei secondi, riconoscerebbero ai diritti un persistente valore trasformativo ed emancipativo in contesti di subordinazione razziale e considererebbero la retorica dei diritti come elemento della lotta antirazzista (10).

Se le diverse forme di affirmative action hanno il vantaggio di permettere a gruppi subordinati razzialmente di godere dei benefici di una attenzione particolare alle specifiche condizioni di subordinazione, non va, però, sottovalutato il rischio che questi stessi gruppi divengano oggetto di tutela e non reali soggetti di diritto e che necessitino quindi di protezione, non di eguaglianza. Tali forme rischiano inoltre di favorire la tendenza a rinchiudere le differenze e le identità in contenitori culturali preconfezionati, mentre i diritti che implicano una qualche specificazione della sofferenza, dell'ingiustizia e dell'ineguaglianza (ad esempio delle persone di colore) finiscono per lasciare questi soggetti nelle stesse identità definite dalla loro subordinazione, e raramente, invece, riescono ad articolare e affrontare le condizioni che producono e aggravano tale subordinazione. Come ha messo in evidenza lo stesso Gotanda, la razza non può mai essere esaustivamente descritta e compresa in termini giuridici. Non sembra infatti agevole riconoscere le molteplici dimensioni della razza e fare in modo che i differenti aspetti siano presi in considerazione da giudici e legislatori. D'altra parte, come hanno messo in luce i teorici dell'«intersezione» (11), la subordinazione razziale si accompagna spesso, ed è intrinsecamente connessa, con altre forme di subordinazione (di classe, di genere etc.). Un aspetto che secondo tali teorici non sarebbe preso nella dovuta considerazione proprio dagli studiosi critici della razza. Le critical race theories non riuscirebbero, infatti, a permettere un'analisi del sessismo e del sistema maschile; non tenendo conto dell'«intersezione» fra razzismo e sessismo, non articolerebbero pienamente la reale condizione di subordinazione delle donne di colore. Se nessuna policy può, d'altra parte, essere sintonizzata su soggetti segnati allo stesso tempo da più forme di discriminazione sociale e se lo stesso diritto ha in sé limiti strutturali tali da rendere impossibile il riconoscimento di soggetti non monolitici (12), il fatto di essere titolari di diritti "speciali" in quanto persone di colore non necessariamente significa libertà dall'essere designati (e subordinati) in base al colore della pelle.

Se la "cecità al colore" era certamente più propensa ad accrescere il privilegio del soggetto bianco, eclissando i bisogni dei soggetti razzialmente subordinati, allora il vero merito di politiche quali le azioni affermative è quello di avere reso visibili le invisibili inequità celate dalla "cecità al colore". Le affirmative action portano quindi a visibilità il carattere escludente del diritto e dei diritti, cercando s" di compensare i pregiudizi e le esclusioni delle pratiche istituzionali, ma allo stesso tempo portando con sé il rischio di non articolare a pieno la condizione di subordinazione economico-sociale.

L'atteggiamento verso le affirmative actions, allora, non può che essere, ad oggi, un atteggiamento laico: esse hanno una mera funzione tattica, dal momento che come rimedi basati sulla razza diminuiscono effettivamente la discriminazione razziale e indeboliscono gli stereotipi e i pregiudizi verso le minoranze marginalizzate, tentando di contenere il razzismo nella società. Partendo da una realistica valutazione del dato sociale, ovvero dal privilegio effettivo che accompagna la pelle "bianca", si possono definire pragmaticamente le azioni affermative come una tattica efficace per intervenire sulle condizioni di subordinazione economica in cui versa la maggioranza degli afroamericani, senza aggirare, però, il problema dei confini razziali e dell'eredità storica della schiavitù e della discriminazione vivo negli Stati Uniti.

In conclusione si può forse porre la questione nei termini in cui venne posta da Du Bois quasi un secolo fa a proposito della «segregazione» negli anni del New Deal: «abbiamo forse intenzione di metterci da parte, di rifiutare l'inevitabile e indispensabile aiuto del governo perché in primo luogo vogliamo abolire la linea del colore? Non significherebbe soltanto scagliarsi lancia in resta contro i mulini a vento; se non facciamo attenzione, rischierebbe di convertirsi in un suicidio di razza» (13).


Note

1. Sullo stereotipo cfr. F. Schauer, Profiles, Probabilities and Stereotypes, Harvard U. P., Cambridge (Mass.), 2003 (di prossima traduzione presso il Mulino). Per un'analisi del fenomeno del pre-giudizio si può vedere Pierre-André Taguieff La forza del pregiudizio: saggio sul razzismo e sull'antirazzismo (1987), Bologna, Il Mulino, 1994.

2. In proposito si veda il contributo in questo Forum di Marco Goldoni.

3. Cfr., in proposito, S. Mezzadra, Il New Deal sulla linea del colore. Il problema della riforma e lo spazio della democrazie in W.E.B. Du Bois, in corso di pubblicazione in L'Occidente sull'Atlantico, a cura di M. Ricciardi, Rubettino, 2006.

4. Cfr. in proposito Cheryl I. Harris, L'azione affermativa come strategia per delegittimare la bianchezza come interesse proprietario, K. Thomas-Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, Reggio Emilia, Diabasis, 2005, pp. 153 e ss.

5. Ivi, p. 155.

6. A questo proposito Marco Goldoni nel suo contributo a questo Forum sottolinea come ci siano alcune posizioni conservatrici che sostengono che il racial profiling vada proprio e anche a vantaggio delle classi razzialmente subordinate perché ridurrebbe soprattutto i crimini intrarazziali, e che quindi queste classi avrebbero un interesse diretto nel racial profiling.

7. Cfr. R. Delgado (con J. Stefancic), Critical Race Theory: The Cutting Edge, Temple University Press, Philadelphia, 1995, p. XIV. Vedi anche in proposito Victor C. Romero, Racial Profiling: "Driving while Mexican" and Affirmative Action, in «Michigan Journal of Race and Law», 2000, n. 6, pp. 195 e ss.

8. Cfr. in proposito N. Gotanda, «La nostra costituzione è cieca rispetto al colore»: una critica; in K. Thomas-Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., pp. 27-70.

9. Cfr. K.W. Crenshaw, Legittimazione e mutamento nelle norme contro la discriminazione, in K. Thomas-Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, Reggio Emilia, Diabasis, 2005, pp. 111 e ss.

10. In proposito N. Gotanda, «La nostra costituzione è cieca rispetto al colore»: una critica, in K. Thomas-Gf. Zanetti (a cura di), op. cit., p. 63.

11. Vedi ad esempio, P.M. Caldwell, A Hair Piece: Perspectives on the Intersection of Race and Gender, in «Duke Law Journal», 1991, pp. 365 e ss.; P.J. Smith, We Are not Sisters: African-American Women and the Freedom to Associate and Dissociate, in «Tulane Law Review», 1992, n. 66, pp. 1467 e ss. e A. Harris, Race and Esentialism in Feminist Legal Theory, in «Standford Law Review», 1990, n. 42, pp. 581 e ss.

12. In proposito mi permetto di rinviare a C. Margiotta, I diritti e l'inflazione dei soggetti, in «Filosofia politica», 2005, n. 3, pp. 415 e ss.

13. W.E.B. Du Bois, Segregation in the North (April 1934), in The Emergine Thought of W.E.B. Du Bois, pp. 208. Cfr. in proposito sempre S. Mezzadra, op. cit.