2006

Multiculturalismo o Critical Race Theory
Ovvero «Cultura» vs «Razza»

Leonardo Marchettoni

La differenza culturale, come è noto, è il tallone di Achille del liberalismo. Nato per disciplinare conflitti di tipo religioso e politico-economico all'interno dell'Europa cristiana, il liberalismo, dalle sue origini fino alla formulazione canonica della teoria della giustizia rawlsiana, si è mostrato incapace di assorbire forme di pluralismo talmente radicali da colpire la stessa possibilità di individuare una struttura razionale comune a tutti i cittadini. Essenziale alla prospettiva liberale risulta infatti la possibilità di definire un nucleo autonomo e razionale della personalità sul quale imperniare la scelta dei principi politici di giustizia, una volta fatta astrazione da tutte le appartenenze particolari, di classe, confessionali, sociali (Santoro 1999). Tuttavia, la trasformazione delle nostre comunità nazionali in società multiculturali ha messo in crisi questo semplice presupposto: in fin dei conti le culture altre, come l'antropologia culturale aveva tentato di insegnarci a partire almeno dal primo dopoguerra, e come i dibattiti degli anni sessanta e settanta sulla razionalità avevano ripetuto (Hollis, Lukes 1982), non sono necessariamente inscrivibili in un orizzonte di razionalità comune al nostro, per non parlare delle fedi religiose non riconducibili alla matrice cristiana, spesso decisamente in contrasto con i più basilari principi di separazione tra sfera politico-pubblica e sfera privata.

Di fronte a questo eccesso di pluralismo i teorici liberali hanno cercato di reagire o arroccandosi sulla strategia tradizionale dell'indifferenza delle politiche pubbliche rispetto alle appartenenze private (Barry 2001) oppure cercando di operare una selezione all'interno del panorama delle forme di vita, distinguendo fra quelle manifestazioni del pluralismo che appaiono «ragionevoli» e quindi possono essere intergrate nella procedura decisionale del modello liberale, e quelle che invece devono essere ostracizzate, se non osteggiate apertamente, in quanto non ragionevoli (Rawls 1993). In entrambi i casi, si tratta ovviamente di soluzioni insoddisfacenti dal punto di vista del difensore del valore del pluralismo, che può agevolmente etichettare questi tentativi come espressioni di un atteggiamento imperialista ed eurocentrico. Proprio questi limiti dell'approccio liberale ai temi della differenza culturale sono stati probabilmente alla base della fortuna delle contemporanee teorie multiculturaliste. I teorici del multiculturalismo sono molto più propensi dei liberali a riconoscere l'importanza dell'identità culturale e a introdurre soluzioni di accomodamento politico che ne tutelino il valore. Per quanto riguarda il fondamento del riconoscimento del valore della cultura, i teorici del multiculturalismo - sulla scia della tradizione communitarian - sostengono che l'appartenenza culturale costituisce una componente dell'identità degli individui che non può essere messa tra parentesi e al tempo stesso che la cultura rappresenta un presupposto necessario per l'esercizio dell'autonomia individuale e dunque configura una risorsa cui tutti devono essere in grado di attingere liberamente - in questo modo il multiculturalismo ambisce a stabilire una continuità con la teoria liberale. Da ciò deriva la necessità di introdurre non solo diritti di esenzione da norme generali in favore degli esponenti dei gruppi culturali - come per esempio un diritto riconosciuto ai fedeli di una religione a indossare il proprio abbigliamento tradizionale nei luoghi di lavoro anche quando ciò contrasti con disposizioni generali in materia di sicurezza -, ma anche diritti collettivi di promozione della propria cultura, che possono spingersi fino alla concessione di forme di autogoverno a favore di minoranze nazionali che popolano una porzione limitata del territorio dello Stato (Kymlicka 1995).

Nonostante il suo successo, anche il multiculturalismo ha i propri punti deboli. In effetti la teoria multiculturale, soprattutto nella sua versione di maggiore successo che è quella sviluppata da Will Kymlicka, è principalmente una strategia pensata per affrontare situazioni di pluralismo del tipo di quella esemplificata dallo Stato canadese: uno Stato il cui territorio è suddiviso tra due o più comunità nazionali, in modo tale che la concessione di diritti di autogoverno alle minoranze risulta funzionale alla risoluzione dei conflitti. Non tutte le minoranze, tuttavia, sono riconducibili a questo paradigma. Il caso delle comunità di migranti è emblematico in questo senso. Le comunità di migranti costituiscono generalmente comunità diasporiche (Safran 1990; Clifford 1991, 1994): gli individui che ne fanno parte mancano di ancoramenti precisi con uno spazio geografico ma tendono a distribuirsi su tutto o su gran parte del territorio degli Stati ospitanti in maniera puntiforme, sovrapponendosi e in molti casi confondendosi con gli altri cittadini. Chiaramente una situazione del genere preclude completamente l'adozione di quelle strategie promozionali auspicate da Kymlicka nel caso delle minoranze nazionali. Più ancora, è importante notare che la condizione dei migranti non si armonizza con la giustificazione multiculturalista del valore politico della cultura. Infatti, dal momento che il legame dei migranti con la propria cultura d'origine varia sensibilmente da individuo a individuo, non è possibile sostenere in generale che i migranti abbiano diritto a usufruire di politiche promozionali o di esenzione sulla base del riconoscimento dell'importanza dell'identità culturale come contesto per la formazione e l'esercizio dell'autonomia, perché in molti casi è evidente che la cultura di appartenenza non svolge una funzione di questo tipo (per un tentativo di far fronte a queste difficoltà cfr. Kymlicka 2001). In definitiva, quindi, la teoria del multiculturalismo non riesce a offrire soluzioni apprezzabili per gestire le forme attuali in cui il pluralismo si presenta nel contesto degli Stati europei. Posti di fronte alla parcellizzazione e alla delocalizzazione dell'identità culturale, i multiculturalisti non sembrano sempre in grado di rendere conto del valore della differenza.

È abbastanza facile, a conclusione del percorso che ho sommariamente delineato, sostenere che il limite della teoria del multiculturalismo vada rintracciato proprio nella nozione di cultura. Il concetto di cultura cui fanno riferimento i teorici multiculturalisti sembra in effetti incapace di assolvere il compito che viene a esso assegnato. L'idea di base del multiculturalismo è quella di garantire un riconoscimento alle specificità dei gruppi sulla base del valore della loro cultura ma questa idea non funziona nel caso delle comunità di migranti proprio perché la cultura dei membri di queste comunità non soddisfa gli standard posti dalla teoria. Forse però, si potrebbe ipotizzare, possiamo sostituire alla cultura un altro «indicatore della differenza». È a questo punto che la razza entra in scena. Nell'elaborazione dei teorici della Critical Race Theory il concetto di razza viene impiegato come un marcatore identitario del tutto alternativo alla cultura (Thomas e Zanetti 2005). È stato sufficientemente chiarito negli altri contributi a questo Forum come, nell'ottica della CRT, la razza divenga la base per l'adozione di azioni affermative in funzione compensativa rispetto a una condizione di discriminazione strutturale e altrimenti irrimediabile. In questo senso, come è stato riconosciuto anche da Ronald Dworkin, la previsione di trattamenti più favorevoli per gli appartenenti a certe razze è perfettamente comprensibile da una prospettiva liberale in quanto viene a integrare un'iniziativa statale rivolta a eliminare un ostacolo al godimento di pari opportunità fra tutti i cittadini. Soprattutto, ai fini del nostro discorso, è importante sottolineare che la razza costituisce un contenitore del tutto neutrale rispetto alla struttura sociale, nel senso che una volta che si sia ammesso il principio generale secondo il quale la razza conta ai fini dell'adozione di politiche compensative, eventuali differenze relative alla struttura sociale delle comunità razziali risultano irrilevanti. Si può avere sempre una razza, anche quando non si possiede più una cultura. Pertanto una politica compensativa che assume come base la razza non corre il rischio di produrre quegli effetti di discriminazione che ho cercato di mettere in luce in rapporto alla teoria del multiculturalismo. Da qui l'ovvia conclusione: perché non impostare anche in Europa le politiche differenziali in favore delle minoranze su base razziale?

Evidentemente però ci sono alcuni requisiti che la nozione di razza deve soddisfare per poter svolgere questa funzione: quanto meno la razza deve essere debiologizzata e l'appartenenza razziale deve diventare non ascrittiva, in modo da evitare che l'attribuzione della razza continui a perpetuare logiche di oppressione e di dominio (vedi anche l'intervento di Giorgio Pino in questo Forum). Sono due caratteristiche che si pongono in netto contrasto con un'intuizione ingenua del concetto di razza ma che vengono fermamente rivendicate dai teorici della CRT. La dimensione costruttiva e debiologizzata della razza, per esempio, è stata teorizzata con forza da Neil Gotanda (Gotanda 2005), attraverso un'analisi della giurisprudenza statunitense in materia. Gotanda mostra la variabilità dei criteri adottati dalle corti americane e ne deduce che tale variabilità è il sintomo di un'assenza di basi oggettive sulle quali appoggiare la suddivisione in razze e del prevalere dei criteri contingenti di opportunità politica. Da ciò segue la possibilità di considerare la razza come una costruzione sociale, l'appartenenza alla quale può essere rivendicata anche in assenza di ascendenze di sangue «canoniche».

Se si accetta la tesi formulata da Gotanda e da altri esponenti della CRT del carattere artificiale e non ascrittivo della razza sembra dunque possibile articolare, a partire da un sostrato liberale, una politica attenta al trattamento differenziato delle minoranze ma neutrale rispetto alle differenze tra di esse. Tuttavia, credo che sussistano diversi dubbi riguardo alla «esportabilità» in un contesto europeo delle argomentazioni a sostegno della tesi dell'artificialità della razza. Le ragioni di queste perplessità sono facilmente comprensibili: in Europa manca del tutto un'elaborazione giurisprudenziale comparabile a quella statunitense intorno al concetto di razza. Il concetto di razza, dopo essere stato messo al bando con la fine della seconda guerra mondiale, può ricomparire nel dibattito contemporaneo solo come uno spettro inevitabilmente collegato a un passato totalitarista. Il peso di questo rimosso rende la nozione di razza non immediatamente disponibile per un uso costruttivo e identitario del genere di quello proposto dalla CRT. Senza contare che questa mancata elaborazione si ripercuote anche sui potenziali fruitori delle politiche compensative. Negli Stati Uniti il passato della segregazione razziale ha comportato se non altro il vantaggio di indurre la formazione di una robusta coscienza identitaria collegata proprio alla razza. In Europa niente del genere è per il momento avvertibile da parte delle diseguali minoranze che popolano il vecchio continente. Nei nostri Stati i simboli identitari - foulard, crocefissi o camicie verdi - continuano piuttosto a possedere una coloritura marcatamente politico-religiosa, niente che si renda immediatamente disponibile a una reinterpretazione razziale. E in mancanza di una possibilità di identificazione con il simbolo «razza», l'impiego di politiche compensative su base razziale rischia veramente di produrre soltanto nuove logiche di dominio e di segregazione. La nozione europea di razza sembra dunque incapace di soddisfare i requisiti di artificialità e non ascrittività che sono stati posti come essenziali: in queste circostanze tutta l'operazione di trasposizione della critica decostruzionista dei Critical Race Theorists minaccia di risultare vuota, semplicemente perché manca un contenuto da decostruire.

Archiviata almeno provvisoriamente la prospettiva razziale, quale soluzione per il problema del pluralismo europeo? Non è questa ovviamente la sede per formulare una proposta articolata. Mi limiterò pertanto a un'indicazione assolutamente generica. Credo che gli indizi che abbiamo finora raccolto intorno ai caratteri specifici del pluralismo europeo sollecitino in modo abbastanza chiaro una nuova elaborazione e approfondimento del concetto di cultura. Ricordiamoci che il multiculturalismo alla Kymlicka si è mostrato inadeguato soprattutto perché invischiato in una nozione di cultura eccessivamente rigida - quella che Kymlicka chiama societal culture e che sarebbe la cultura sociale di una comunità che possiede proprie scuole, propri giornali e magari anche proprie televisioni. Il ricorso a questo concetto di cultura era naturalmente richiesto dalla strategia communitarian che connetteva la rilevanza della cultura alla capacità di creare un contesto per l'autonomia individuale. Ma se abbandoniamo questa strategia e contemporaneamente ci serviamo di una nozione di cultura diversa, più flessibile e più orientata verso la dimensione comunicativa e simbolica (Geertz 1973; Clifford 1988) diventa forse possibile ripensare tutto il problema del pluralismo in una nuova chiave. In questa forma possiamo ipotizzare una nuova strategia multiculturalista in cui la scelta delle politiche di accomodamento culturale non è più il risultato di una valutazione ex ante della fisionomia delle diverse culture ma risponde a un processo comunicativo che coinvolge le culture stesse, secondo una visione deliberativa della democrazia come conversazione e negoziazione - talvolta animate - tra diverse forme di vita e diversi modi di stare al mondo (per una proposta in questa direzione cfr. B. Parekh 2006).

Riferimenti bibliografici

  • Barry, B. 2001, Culture and Equality, Polity Press, Cambridge.
  • Clifford, J. 1988, The Predicament of Culture: Twentieth-Century Ethnography, Literature, and Art, Harvard University Press, Cambridge, Mass., trad. it. I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Boringhieri, Torino, 1993.
  • --- 1991,Traveling Cultures, in L. Grossberg, C. Nelson, P. Treichler (a cura di), Cultural Studies, Routledge, London, pp. 96-116, ristampato in J. Clifford, Routes: Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1997, trad. it. Culture in viaggio, in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Boringhieri, Torino, 1999, pp. 27-64.
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  • Geertz, C. 1973, The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York, trad. it. parziale Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna, 1987.
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  • Parekh, B. 2006, Rethinking Multiculturalism, Palgrave, London.
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  • Santoro, E. 1999, Autonomia individuale, libertà e diritti. Una critica dell'antropologia liberale, ETS, Pisa.
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