2008

La sfida delle minoranze: quale cittadinanza?

Letizia Lindi (*)

Introduzione

Nella storia del pensiero sociologico e politico è possibile individuare una sorta di corrispondenza tra l'evoluzione del concetto di minoranza e l'evoluzione del concetto di Stato. Storicamente la definizione di criteri in grado di delimitare, di individuare i "confini" delle minoranze e la stabilizzazione di organismi preposti alla loro tutela sono state determinate in gran parte dal rafforzamento e/o dalle crisi dell'entità statuale.

In particolare la questione delle minoranze evidenzia l'attuale crisi del rapporto tra lo Stato e quei gruppi di cittadini che sono accomunati da vincoli etnici, linguistici o culturali tali da risultarne identificati come parte di un tutto: minoranze, etnie, gruppi linguistici o religiosi (1). Con tutta evidenza, oggi gli attori della scena politico- sociale non sono più solo gli Stati ed i singoli individui, ma anche gruppi culturali, etnici. Tali gruppi tendono, con sempre maggiore frequenza, a richiedere di essere riconosciuti come minoranze; di conseguenza emergono in primo piano i problemi relativi alla definizione di criteri per il conferimento di tale attributo.

Come scrive Nancy Fraser

La condizione postsocialista concerne un mutamento nei principi alla base della prassi politica delle rivendicazioni. Le rivendicazioni del riconoscimento della differenza di gruppo si sono fatte recentemente sempre più rilevanti, fino talora a relegare in secondo piano le rivendicazioni di eguaglianza sociale. Tale fenomeno è osservabile a due livelli. A livello empirico si è constatata l'emergenza di una "politica dell'identità" [...] A un livello più profondo, invece stiamo assistendo a un chiaro mutamento dell'immaginario politico, in particolare del modo di concepire la giustizia. [...] Il risultato è la separazione della politica culturale dalla politica sociale, con il relativo offuscamento di quest'ultima da parte della prima (2).

In questo senso è importante ricordare che la scelta del singolo individuo avviene all'interno di una fitta rete di relazioni ed interconnessioni tra il livello sociale ed il livello politico, tra il livello sociale ed il livello economico.

L'ipotesi di questa ricerca è che il concetto di minoranza non abbia mai trovato le condizioni per una definizione esaustiva e conchiusa. Da un punto di vista socio-antropologico tale nozione ha fatto riferimento a diversi fenomeni storico-politici (3), che ne impediscono una definizione monolitica. Al proliferare di richieste da parte di nuovi soggetti corrisponde una difficoltà di individuare i criteri e gli attori politico-giuridici legittimati ed efficaci nel rispondere a tali richieste. In questo senso il concetto di minoranza e le relative politiche, (tra cui le politiche affermative), sono un chiaro esempio di questa situazione: gruppi diversi rivendicano l´attributo di minoranza con i conseguenti dispositivi per la propria tutela ad un soggetto, lo Stato, che è messo fortemente in discussione anche da queste stesse sollecitazioni.

Riflettere su questi temi significa interrogarsi su come oggi si concretizzi il rapporto tra cittadinanza, identità e appartenenza. In particolare emerge la necessità di approfondire la relazione tra il pluralismo delle appartenenze - il singolo può infatti essere legato a più sfere di appartenenza - ed il pluralismo normativo: la scelta di una norma operata dal singolo individuo è il prodotto di questa molteplicità di appartenenze. Nello sviluppo di tali relazioni credo utile privilegiare una prospettiva soggettivistica, che evidenzia il punto di vista del singolo individuo in quanto soggetto che, in un contesto socio-politico plurale, può scegliere tra norme con fonti e contenuti diversi.

Lo studio dell'esperienza brasiliana, a mio giudizio, può costituire un buon punto di vista per considerare l´attuale situazione di difficoltà dello Stato-nazione nell'elaborazione di nuove strategie di partecipazione ed inclusione in grado di creare forme di consenso e di coesione.

In Brasile il concetto di minoranza è utilizzato per indicare realtà differenti: si utilizza il termine per identificare la porzione minoritaria di una popolazione per religione, etnia e cultura, lingua o altre caratteristiche o anche per indicare i popoli indigeni. Recentemente alcuni giuristi brasiliani hanno proposto di estendere l'uso del concetto di minoranza anche agli afrobrasiliani (4). Se infatti nel dibattito brasiliano, da un punto di vista antropologico, non è utilizzato in questo caso il concetto di minoranza, da un punto di vista giuridico, partendo da un'interpretazione del concetto di minoranza come grado di potere sociale, vi sono autori che propongono una sua nuova articolazione, non più concepita nel solo senso quantitativo, ma anche come "capacità di fare" (5). Ancora più chiaramente Carmen Lucia afferma che l'espressione minoranza "non deve essere intesa nel senso quantitativo, piuttosto in quello di qualifica giuridica dei gruppi contemplati o accettati con un capitale minore di diritti, effettivamente assicurati, rispetto ad altri che detengono il potere" (6).

La questione degli afrobrasiliani può quindi essere considerata come un case study che permette di analizzare come oggi la politica sia chiamata ad elaborare nuove strategie di inclusione e al contempo di differenziazione nella sfera del vivere associato. Il pluralismo politico, culturale, etnico chiede uno sforzo ulteriore sul piano normativo per l´elaborazione di dispositivi che né ripetano semplicemente le soluzioni di un liberalismo "cieco alle differenze" né si fossilizzino nell´ esaltazione di microidentità più o meno immaginate. Molto spesso le politiche di riconoscimento sono invocate, infatti, per nascondere problemi di natura economica, ed il non palesare la dimensione materiale di tali richieste è all'origine di un conflitto valoriale che, per la sua incommensurabilità, appare difficilmente solubile.

1. L'evoluzione del concetto di minoranza e le strategie di tutela

In questa prima parte del mio ragionamento vorrei considerare lo sviluppo storico ed insieme teorico della nozione di minoranza evidenziandone il carattere territoriale: per minoranza storicamente si è inteso un gruppo di individui, tendenzialmente stanziale, normalmente localizzato in una parte specifica di un territorio, che gode del riconoscimento del diritto di cittadinanza. In particolare considererò il passaggio dalla nozione di minoranza religiosa a quella di minoranza nazionale per arrivare quindi al XX secolo con l'affermazione della nozione di diritti umani a discapito di quella di minoranza.

Gli Stati moderni, soprattutto quelli europei, hanno adottato una duplice strategia rispetto alla questione della tutela delle minoranze: l'utilizzo della coppia liberté-égalité e dunque il riconoscimento della pienezza dei diritti di libertà ad ogni citoyen. (7) La stessa prospettiva universalistica che regge la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 lega, infatti, l'esercizio dei diritti alla comunità di appartenenza che si identifica con lo Stato. L'esclusione di qualsiasi realtà collettiva, eccetto quella della nazione, ha fatto sì che ne sia risultata una forma di universalismo delimitata geograficamente ai confini dello Stato-nazione, che configura una sorta di universalismo nazionale. Alla delimitazione territoriale dell'orizzonte universalistico ai confini dello Stato-nazione ha corrisposto una delimitazione della nozione di minoranza.

La concezione liberale di cittadino, con l'affermazione dell'idea di nazione e della libertà di culto, con il conseguente minor interesse per la nozione di minoranza religiosa, pone le basi per il passaggio alla nuova nozione di minoranza nazionale (8).

In questo quadro è esclusa qualsiasi idea di diritto collettivo e lo Stato è identificato come l'unico soggetto competente in materia di tutela Solo successivamente, con il Congresso di Vienna (1814-15), si aprì una fase storica nella quale fu affrontato il problema della protezione internazionale delle minoranze (9).

La riduzione della nozione di minoranza a quella di minoranza nazionale rimase anche con la costituzione della Società delle Nazioni nel 1919; in essa si pose l'accento, però, sull'esigenza di garantire alle minoranze la più ampia autonomia che non solo ne salvaguardasse l'identità nazionale sotto il profilo antropologico-culturale, ma ne permettesse anche l'autogoverno sul piano sociale (10).

Il successivo affermarsi dell'idea della protezione universale dei diritti dell'uomo tese a svuotare di rilevanza giuridica e persino di contenuto la nozione stessa di minoranza. Con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 si crea una forte tensione tra l'affermazione e la protezione dei diritti dell'uomo e il riconoscimento e la tutela dei diritti della minoranza. Dal momento che nell'ordinamento internazionale gli Stati sono tenuti a rispettare i diritti umani, che competono a tutti gli individui, indipendentemente dalla nazionalità, l'affermazione dei diritti universali sembra poter di per sé costituire un'adeguata protezione delle minoranze (11).

Il dibattito sulla definizione di uno status giuridico della nozione di minoranza è continuato per tutto il XX secolo. A livello internazionale uno degli elementi di maggiore difficoltà è stato valutare la possibilità di attribuire diritti alle minoranze in quanto entità collettive. Nel 1966, con l'approvazione del Patto sui diritti civili e politici, i diritti riconosciuti agli individui appartenenti a gruppi minoritari sono concepiti come diritti personali. In questo modo i diritti della minoranza si traducono in diritti individuali ed è negata la possibilità di riferire i diritti contemplati nell'art. 2 dello stesso Patto ai gruppi di minoranze in quanto entità collettive. Il diritto all'autodeterminazione è riservato a gruppi che, per ragioni storiche, possono essere definiti popolo.

Questa distinzione è stata esplicitata nell'Osservazione generale adottata dal Comitato dei diritti dell'uomo sull'art. 27: i diritti attribuiti dall'art. 27 sono da considerarsi come diritti individuali e come tali devono essere protetti (non possono quindi pregiudicare l'integrità territoriale degli Stati), mentre l'art. 1 riconosce il diritto all'autodeterminazione dei popoli.

Tale separazione non ha però sortito i risultati desiderati. Alcune comunicazioni individuali rivolte al Comitato dei diritti umani hanno invocato l'art. 1 del Patto sui diritti civili e politici a protezione del diritto di comunità indigene a godere della propria cultura (12). Il fatto che alcune delle comunicazioni rivolte al Comitato da singoli individui avessero come obiettivo il riconoscimento di diritti collettivi ha evidenziato la mancanza di una chiara strategia per affrontare la questione del riconoscimento dei diritti delle minoranze. Questi molto spesso sembrano implicare a livello normativo una sorta di "diritto all'autogestione" e/o alla autodeterminazione (13). A prova di questa difficoltà vi è la vaghezza delle proposte fino ad oggi elaborate dal Comitato dei diritti dell'uomo. Non sono infatti state indicate soluzioni concrete e ci si è limitati ad affermare che, da un punto di vista procedurale, il Protocollo facoltativo permette di sottoporre al Comitato unicamente violazioni di diritti individuali e al contempo è stato evidenziato come la tutela dell'identità della minoranza non solo costituisca un mezzo per proteggere i diritti individuali degli appartenenti ad essa, ma anche la finalità della protezione dei diritti medesimi.

2. Gli afro-brasiliani: tra politiche redistributive e politiche di riconoscimento

Come osserva Luciano Mariz Maia, seguendo la definizione del Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali, il concetto di minoranza in Brasile comprende gli indios, gli zigani, le comunità quilombolas, le comunità discendenti dagli immigrati ed i membri delle comunità religiose. Da questa iniziale lettura emerge la prima difficoltà. I dati del censimento classificano la popolazione brasiliana in bianchi, neri, mulatti, indigeni, non molto di più. L'unica minoranza ad essere identificata come tale nel Brasile è quella degli indios (14).

A fronte di ciò, negli ultimi anni, lo Stato brasiliano si è impegnato in una politica di riconoscimento delle identità etnico-culturali. Nella Constitução Federal del 1988 gli afrobrasiliani sono riconosciuti come soggetti portatori di diritti e alle comunità quilombos è riconosciuto il diritto di proprietà. Nel 2000 il senatore Paulo Paim ha promosso l'Estatuto da Igualdade Racial, il cui obiettivo è combattere le discriminazioni razziali e le diseguaglianze razziali che colpiscono gli afro-brasiliani, includendo una dimensione razziale nelle politiche pubbliche sviluppate dallo Stato, (art.1) (15). L'accesa discussione, seguita alla proposta dello Statuto e delle politiche affermative, si è intrecciata, se non addirittura sovrapposta a quella riguardante lo sviluppo storico della nozione di razza ed il suo rapporto con la creazione di forme di identità. In particolare il dibattito si è focalizzato sull'idea di nazione multirazziale del Brasile e sulle origini storico-politiche di tale immagine.

È alla fine dell'Ottocento che, grazie alla diffusione del darwinismo sociale, in Brasile viene elaborato il progetto del branqueamento della società, ovvero dello "sbiancamento" della popolazione. Secondo questo progetto l'idea di modernità, e quindi la costruzione di una nazione moderna, implicava la progressiva scomparsa dei discendenti africani e dei meticci (16). "La nuova visione si traduceva in una politica dell'immigrazione che favoriva l'arrivo di persone di razza europea e proibiva l'entrata agli africani" (17): già nel 1890 il Brasile aveva bandito l'immigrazione dei neri e tra la il 1920-1930 si era diffuso l'ideale di "negros não mais".

L'evidente fallimento del tentativo di branqueamento della popolazione attraverso la politica migratoria comportò un cambiamento nella strategia politica. Non più purezza razziale, ma esaltazione dell'assimilazione razziale: tra tante differenze in termini di estrazione sociale, razza e religione, la nazionalità era individuata come l'elemento fondante di un presunto sentimento di fraternità. In questo modo il discorso narrativo della nazionalità brasiliana mostra tutta la sua ambiguità: le 'essenze' "bianco", "nero", "mulatto" sono sostituite da un nuovo tipo, il brasiliano.

Tradizionalmente il razzismo è stato identificato con il culto negativo delle differenze e con il perseguimento di una presunta purezza razziale, attraverso l'opposizione a qualsiasi ipotesi di mescolanza. In Brasile, invece, proprio l'immagine della nação mestiça è stata utilizzata per imporre politiche razziste. Il meticciato, così come si è articolato alla fine del XIX sec., anche nella sua forma culturale, era costruito, infatti, secondo un modello assimilazionista, per cui la persona di colore doveva assumere i valori e la cultura del "bianco cattolico".

I primi attacchi all'immagine del Brasile come paese culturalmente omogeneo e razzialmente integrato risalgono agli anni settanta del Novecento. A partire dagli anni cinquanta era prevalsa una sociologia di matrice marxista che considerava la questione della razza e della nazionalità come questioni di classe. Con gli anni settanta si affermò invece un approccio sociologico di derivazione empiristica che tentava di evidenziare la relazione tra il colore della pelle e le condizioni di vita. L'opera che segna il passaggio a questa nuova interpretazione del razzismo è Discriminação e desigualdades raciais no Brasil (18) (1979) del sociologo Carlos Hasenbalg che afferma che la disuguaglianza doveva essere attribuita non all'eredità della schiavitù, ma alle pratiche discriminatorie attuate anche nel Novecento nei confronti delle persone di colore.

Con la crisi economica degli anni ottanta il modello assimilazionista della costruzione dell'identità nazionale brasiliana entrò definitivamente in crisi. Proprio in quegli anni emersero, anche se per un breve periodo e principalmente nel Sud del Paese, alcuni movimenti separatisti e si radicalizzarono le posizioni dei movimenti razzisti nei confronti dei neri e degli abitanti del Nord-est; d'altra parte, si assistette a una reafricanização dei costumi neri e a una re-etnização della popolazione indigena (19).

Su quest'ultimo aspetto sono particolarmente interessanti le osservazioni di Reginaldo Prandi, secondo cui, a una prima fase di riscoperta e recupero da parte della classe media delle proprie radici culturali, fra la fine degli anni sessanta e l'inizio anni settanta, la cosiddetta "riscoperta di Bahia", fece seguito una seconda fase nella quale i brasiliani di diverse origini si rivolsero all'Africa contemporanea alla ricerca di radici, supposte più originali di quelle preservate in Brasile, e si assistette a un'"africanizzazione del candomblé" (20).

In questa prospettiva devono essere considerati gli studi antropologici e statistici degli anni ottanta e novanta sul ruolo del razzismo nella società brasiliana attraverso il confronto con altre realtà, specialmente con quella statunitense, ove sono presenti individui di discendenza africana. Grazie a questo tipo di studi si cominciano ad ipotizzare una serie di interventi normativi, come le azioni affermative, in funzione compensativa rispetto a situazioni di discriminazione strutturale.

In tale prospettiva possono essere lette alcune dichiarazioni rilasciate dal governo Cardoso negli anni novanta. Il governo sosteneva, coerentemente con il Programma nazionale dei Diritti umani, che l'obiettivo della mera lotta al razzismo doveva essere superato e che si dovevano attuare interventi volti a rafforzare una definizione plurirracial del Brasile (21).

A partire dal 2000, cominciano a essere elaborate le prime proposte di "politiche positive" che si sono tradotte nella politica delle quote universitarie per negros (22). Nella prima proposta di legge sull'accesso all'università del 2001 il 40% dei posti era assegnato a neri e mulatti, senza alcun riferimento alla loro situazione economica. Nel 2005, invece, i deputati introdussero il seguente criterio: il 45 % dei posti era riservato a chi si trovava in condizione di bisogno, e all'interno di questa percentuale, il 20% era destinato agli afrobrasiliani. In questo contesto le rivendicazioni di riconoscimento dei neri acquisiscono più significati: rivendicazione socio-economica, in quanto la maggior parte della popolazione povera è costituita da neri, e rivendicazione di riconoscimento culturale, concepita come valorizzazione delle radici africane del Brasile e come diritto di riparazione per le dure forme di sfruttamento a cui sono stati sottoposti i neri durante la schiavitù. Sul piano normativo si può parlare di una sorta di conflitto latente tra queste due politiche; la prima richiede l'abolizione dei sistemi economici che sottendono la specificità dei gruppi, la seconda, al contrario, implica l'affermazione della specificità di ciascun gruppo e quindi la differenziazione dei gruppi. Come osserva Nancy Fraser la nozione di razza è un modo ambivalente di denominare la collettività, con un aspetto politico-economico ed un altro culturale-valoriale (23).

Nel contesto brasiliano tale tensione è acuita dal fatto di essere legata al mutamento della politica nella costruzione dell'identità nazionale del Brasile. In particolare alcuni studiosi hanno visto nello Estatuto da Igualdade Racial l'introduzione di una nuova categoria di cittadini, gli afro-brasiliani, definiti in modo molto vago come "le persone che si autodefiniscono come tali e/o come neri, mulatti", e una conseguente individuazione della categoria di bianco-brasiliano (24).

Il dibattito sulle azioni affermative, ed in particolare sulla politica delle quote per l'accesso all'università, può essere schematizzato attraverso la contrapposizione tra chi è favorevole all'introduzione in ambito giuridico del concetto di razza, concepita come categoria sociale, in grado di rendere conto in modo analitico della segmentazione sociale della realtà brasiliana, e chi è invece contrario, in quanto da un punto di vista antropologico comporterebbe la polarizzazione della realtà brasiliana in due razze, bianchi e non-bianchi. Su quest'ultimo versante è da ricordare la posizione di alcuni autori, tra cui Peter Fry, Yvonne Maggie e Simon Schwartzman, che contestano l'introduzione, sul modello nordamericano, di politiche affermative in una realtà storica come quella brasiliana che non ha mai conosciuto una politica ufficialmente segregazionista. Essi sostengono che, mentre negli Stati Uniti il grande anatema era la mescolanza biologica e culturale, in Brasile si è storicamente preferito enfatizzare la conversão dei diversi gruppi etnici alla cultura dominante (25).

Il dibattito sulle politiche affermative a favore degli afrobrasiliani mostra come la formazione dell'identità sia legata alla creazione di spazi di socialità in grado di sviluppare un sentimento di appartenenza. Nel momento stesso in cui l'identità definisce e unisce un gruppo, una comunità, al contempo la differenzia, crea una frontiera. Ciò che sorprende nella discussione sulla costruzione di nuove forme di convivenza, che dovrebbero tentare di sanare i diversi conflitti che segnano la sfera del vivere associato, è la sottovalutazione dell'esistenza di un macroconflitto per il monopolio collettivo e sociale di quelli che possiamo definire frammenti di memoria sociale nella definizione di politiche di riconoscimento (26). Nel momento in cui vi è una rivendicazione di identità e di appartenenza emerge una tensione. Si apre un conflitto per stabilire i rapporti di forza che condizionano il processo di formazione del sentimento di adesione a una comunità e le forme politico-giuridiche del riconoscimento di tale appartenenza.

Emblematici in questo senso sono alcuni casi brasiliani di applicazione delle azioni affermative con la politica delle quote per l'accesso all'università. Attualmente la scelta dell'introduzione di tale provvedimento è rimessa alle singole università e il meccanismo per rientrare nella quote degli afrobrasiliani è l'autodichiarazione. Nel luglio del 2007 due fratelli gemelli hanno partecipato all'esame di entrata all'Università di Brasilia, chiedendo entrambi di rientrare nelle quote. Sulla base delle foto di identità che avevano presentato, uno è stato riconosciuto come afrobrasiliano, l'altro no. Questo caso permette di cogliere la complessa relazione esistente tra il processo di autodefinizione razziale e quello di riconoscimento da parte dell'altro, e in particolare da parte dell'autorità legittimata ad attribuire i diritti legati all'appartenenza razziale. "Lo sguardo dell'altro" sembra determinare in maniera preponderante i processi identitari e la questione di individuare chi effettivamente detiene il potere di decidere diventa prioritaria. A questo proposito alcuni autori hanno manifestato forti perplessità nei confronti di questa nuova attività di promozione legislativa: se infatti vi è un comune accordo sul fatto di considerare la razza solo come categoria sociale, l'applicazione di alcuni provvedimenti sembra implicare alcuni elementi biologici (27) e l'autonomia del singolo individuo è messa a dura prova dall'azione dello Stato.

3. Alcune considerazioni finali

Anche a livello internazionale sono riscontrabili alcune difficoltà nell'individuazione dei criteri di definizione del concetto di minoranza e dei conseguenti interventi normativi di protezione e valorizzazione dei diversi gruppi religiosi, culturali, etnici. Nel 1947 la Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite con la Sub-commission on Prevention of Discrimination and Protection of minorities erano in grado di stabilire una netta distinzione tra le politiche non-discriminatorie, intese come politiche di prevenzione di qualsiasi azione che neghi a singoli individui o a gruppi di persone un eguale trattamento, e le politiche di protezione delle minoranze, intese come politiche di protezione di gruppi non-dominanti che auspicano l'applicazione di trattamenti differenziati al fine di preservare le proprie caratteristiche. Con gli anni settanta l'approccio alla questione etnica è mutato. Negli International Convenants on Civil and Political Rights and on Economic, Social and Cultural Rightsdel 1976 emerge infatti per la prima volta che il binomio diritti universali/politiche di non-discriminazione potrebbe essere insufficiente per le rivendicazioni di tutti i gruppi. Dall'"insufficienza" dei diritti umani deriverebbe quindi la necessità di ri-vedere e ri-articolare il concetto di minoranza (28).

In questo quadro, diviene essenziale ripensare i "modi di convivenza", nonché la relazione fra le categorie giuridico-politiche e gli elementi alla base delle rivendicazioni. (29) In particolare occorre considerare due aspetti: 1- le modalità di formazione del sentimento di appartenenza del singolo; 2- la difficoltà di applicare principi di ispirazione universalista in società altamente eterogenee come quelle contemporanee.

Per quanto riguarda il primo punto possono presentarsi alcune distorsioni nella configurazione del rapporto tra il singolo e la "comunità di appartenenza". Molto spesso culture-etnie che rivendicano la propria tutela, in realtà identificano l'appartenenza colla nascita, negando in questo modo al proprio componente il diritto di scegliere (30). L'errore che ne consegue è quello di parlare della comunità etnico-culturale in termini di libera associazione, quando in realtà il singolo individuo non si trova in una condizione di completa autonomia.

Per quanto riguarda invece il secondo punto una delle principali conseguenze è la necessità di ripensare il ruolo dello stato-nazione. Lo stato-nazione, che storicamente è stato concepito come struttura omogenea, deve oggi confrontarsi con la crescente frammentazione etnica e culturale difficilmente riconducibile nei confini dell'immagine di una comunità monolitica. Se quindi viene meno l'idea di comunità omogenea, allora il sistema politico, che ha fino adesso "garantito" la coesione, deve acquisire un carattere più flessibile. Lo stato-nazione non può più essere pensato come comunità politica, ma come forma politica di una società conflittuale (31).

Questo approccio permetterebbe di fuoriuscire da uno schema binario, dove c'è una minoranza ed una maggioranza, e di comprendere che anche il Brasile, l'Italia, l'Europa sono costituite da differenti individui, gruppi, minoranze che, a loro volta danno una diversa "interpretazione culturale" dei diritti.

In questo contesto è necessario, a mio giudizio, che la politica eserciti un ruolo di mediazione: una mediazione che permetta il passaggio dalle analisi proprie del livello socio-antropologico alle proposte di intervento proprie del livello normativo. Se è vero che tutti i processi identitari sono processi dinamici, prodotto di una negoziazione, allora i conflitti tra le opposte rivendicazioni non possono che essere materia di compromesso politico. In generale sarebbe quindi più opportuno considerare le richieste di riconoscimento identitario non come rivendicazioni di diritti collettivi, ma come pretese che pongono problemi di policy, da soppesare con altre richieste della stessa natura (32).

Dalla piena consapevolezza dell'intreccio tra rivendicazioni culturali e rivendicazioni sociali, e dell'influenza dell'elemento culturale sull'interpretazione giuridica, non può che derivare la consapevolezza che oggi dovrebbe essere principalmente compito della politica svolgere un forte ruolo di integrazione tra i diversi gruppi etno-culturali.


Note

*. Università di Pisa.

1. P. Barrera, I diritti delle minoranze nel crepuscolo degli stati nazionali, in "Democrazia e diritto", 1992, n. 1, p. 69.

2. N. Fraser, Justice interruptus: Reflections on the Postsocialist Condition, Routledge, New York, 1997, p. 30.

3. Si pensi soltanto all'attuale scenario europeo ove alle storiche minoranze religiose, nazionali, linguistiche, (valdese, basca, corsa..) si sono aggiunte le minoranze prodotte dai più recenti processi migratori.

4. Interessante è notare che nella letteratura giuridica è utilizzato preferibilmente il termine afro-brasiliano, mentre in quella antropologica è adoperato il termine afro-discendente. Credo che tale differenza sia riconducibile al fatto che nel primo caso l'intenzione è quella di mantenere il ragionamento all'interno della struttura statuale brasiliana, mentre nel secondo caso l'intenzione è quella di porre l'accento sull'ipotetica comune identità africana.

5. L. Mariz Maia, A proteçao das minorias no direito, in "Seminario Internacional. As minorias e o direito", Série Cadernos do Cej, Brasilia, vol. 24, 2003, p. 78.

6. C. L. Antunes Roscha, Ação afirmativa - o conteúdo democrático do princípio da igualdade jurídica, in "Revista Trimestral de Direito Público", 15,1996, p. 87.

7. P. Barrera, I diritti delle minoranze nel crepuscolo degli stati nazionali, cit., p.72.

8. C. Zanghi, Le minoranze. Storia semantica di un'idea, in "Rivista internazionale dei diritti dell'uomo", 1992, p. 49.

9. L'Atto del 1818 costituisce il primo strumento multilaterale col quale vengono attribuiti espliciti diritti ai polacchi, in quanto minoranza nazionale, e vengono riconosciuti rispettivamente sudditi della Russia, dell'Austria e della Prussica. Come osserva Claudio Zanghi: "con il Congresso di Vienna si assiste all'evoluzione del concetto (di minoranza) ed alla nascita ella nuova idea di minoranza etnica ... Come si legge negli atti del Congresso si vuol dimostrare ai popoli, nel caso di specie ai polacchi, che la loro esistenza nazionale può restar libera da qualsiasi attacco, quale sia il sistema politico al quale le sorti della spartizioni territoriali li hanno costretti", in C. Zanghi, Le minoranze. Storia semantica di un'idea, cit. p. 50.

10. Si optò per un sistema di protezione delle minoranze nell'ambito di cinque trattati speciali, i cosiddetti trattati delle minoranze, conclusi tra le Potenze associate e gli Stati di recente formazione. Tali atti riguardano la Polonia (Versailles 1919), la Cecoslovacchia e lo Stato serbo-croato-sloveno (S. Germain 1919), la Romania (Parigi 1919), e la Grecia (Sévres 1920).

11. L'art. 27 del Patto sui diritti civili e politici recita: "In quegli Stati nei quali esistono minoranze etniche, religiose o linguistiche, gli individui appartenenti a tali minoranze non possono essere privati del diritto di avere una vita culturale propria, di professare e praticare la propria religione, o di usare la propria lingua, con gli altri membri del proprio gruppo".

12. Alcuni casi presentati al Comitato dei diritti dell'uomo: caso Kitok c. Svezia 1998, presentato da un membro di una comunità Sami, che sosteneva di avere subito una violazione del suo diritto di godere della cultura propria della comunità indigena insieme agli altri membri della stessa, consistente in particolare nell'esercizio dell'attività economica tradizionale di allevamento delle renne. Il caso Länsman c. Finlandia (1992) in cui si denunciava la minaccia derivante da attività minerarie effettuate dallo Stato per la continuazione dell'attività di allevamento delle renne, citato in F. Pocar, Note sulla giurisprudenza nel comitato dei diritti dell'uomo in materia di minoranze, in S. Bartole, a cura di, La tutela giuridica delle minoranze, Cedam, Padova, 1998, p. 38.

13. In questo senso sono utili le osservazione di Francesco Vertova, secondo cui: "Il principio di autoderminazione nazionale è stato la bandiera del processo di decolonizzazione ma si presta a giustificare ogni rivendicazione nazionalistica, come nel caso dell'ex - Jugoslavia. Il diritto di una collettività nazionale a diventare uno Stato sovrano può entrare in conflitto con i diritti degli individui che si trovano sul suo territorio, e in questo caso dovrebbero essere i diritti individuali a prevalere." In F. Vertova, Cittadinanza liberale, identità collettive, diritti sociali, in D. Zolo, a cura di, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 182.

14. L. Mariz Maia, Minorias: Retratos do Brasil de hoje.

15. Il caso degli afrobrasiliani sembra offuscare la tradizionale distinzione tra minoranza by will e minoranza by force. Nella cultura giuridica e politica contemporanea si è affermata l'idea secondo cui il rapporto tra maggioranza e minoranze, tendenzialmente stanziali, debba essere affrontato attraverso l'applicazione del principio di uguaglianza. Tradizionalmente sulla base della distinzione tra minoranze by force, minoranze discriminate, quali ad esempio gli afroamericani, e minoranze by will, minoranze volontarie, come determinati gruppi religiosi, sono state distinte due diverse modalità di intervento. Nel primo caso l'applicazione del principio di uguaglianza si è tradotto nell'eliminazione delle discriminazioni legali; nel secondo, invece, nell'adozione di regole che stabiliscono distinzioni in base alle caratteristiche dei diversi gruppi linguistici, etc. Le minoranze culturali, che si autoconsiderano minoranze by will, non si limitano a richiedere la mera tutela contro la discriminazione, ma esigono il rispetto della loro differenza. A livello normativo ciò comporta il problema della realizzazione dell'assicurazione dell'eguaglianza attraverso la diversità di trattamento. In questo contesto la promozione delle politiche affermative per gli afrobrasiliani sembra complicare tale distinzione. Una minoranza che storicamente era definita come minoranza by force rivendica interventi politici che erano stati pensati in passato specificamente per le minoranze by will.

16. A questo riguardo sono interessanti le osservazioni di Valeria Ribeiro Corossacz: "l'analisi delle unioni miste nel discorso sul branqueamento e poi sul meticciato, svela anche che per gli uomini bianchi di estrazione sociale elevata le unioni sessuali con donne non-bianche erano ammesse e legittimate, mentre per le donne bianche della stessa classe sociale le unioni sessuali con uomini non-bianchi non erano ammesse. Anzi le relazioni sessuali tra padroni e schiave e poi tra uomini bianchi delle oligarchie e donne afrodiscendenti delle classi popolari sono state considerate anche come una forma di branqueamento", in V. Ribeiro Corossacz, Razzismo, meticciato, democrazia razziale, Rubettino, Soneria Mannelli, 2005, p. 21.

17. Ibid.

18. C. Hasenbalg, Discriminação e desigualdades raciais no Brasil, Editora UFMG, Belo Horizonte, IUPERJ, Rio de Janeiro, 2005.

19. A. S. A. Guimarães, Nacionalidade e novas identidades raciais no Brasil, in J. Souza, a cura di, Democrazia hoje, UnB Editoria, Brasilia, 2001, pp. 410-411.

20. R. Prandi, De africano à afro-brasileiro: etnia, identidade, religião, in "Revista USP", 46, 2000, p. 63. L'autore continua dicendo che la valorizzazione della cultura nera in Brasile si sviluppò congiuntamente alla formazione dei movimenti delle minoranze. Egli osserva che la ricostruzione del passato che orienta la costruzione dell'identità si fa a partire dalla cultura brasiliana e non dalla vera e perduta origine etnica, familiare ed in ultima istanza razziale. Ciò deriva da più fattori. Primo fra tutti vi è l'impossibilità di individuare la regione africana specifica da cui furono deportati gli schiavi, e quindi anche la lingua d'origine. Per questo motivo non si può parlare del traffico di schiavi in termini di "traffico del popolo africano", ma si trattava di una molteplicità di etnie, nazione, lingue e culture, successivamente sottoposte ad una sorta di semplificazione tra due grandi gruppi linguistici: il sudanese ed il bantos. In secondo luogo lo schiavo nero in Brasile era costretto a sottomettersi alla cultura nazionale, europea, bianca e cristiana, per sopravvivere. Prova ne sia il sincretismo cattolico delle religioni afrobrasiliane. In questo modo si può comprendere perché anche nel momento in cui un nero si esprime per affermare la sua negritude, la sua condizione africana, egli non può non considerare anche il suo essere brasiliano.

21. Peter Fry vede in questa politica una chiara volontà di abbandonare l'idea di mestiçagem in favore di una politica più marcatamente multiculturalista. Non più - continua l'autore - la mistura idealizzata da Gilberto Freyre, ma l'esaltazione dell'esistenza di una pluralità di razze distinte, separate l'una dall'altra. In quest'ottica dovrebbero essere lette, continua lo studioso, anche tutte le iniziative di politica-culturale, come ad esempio il Seminario nazionale denominato Ação afirmativa e multiculturalismo del 1996, in P. Fry, A persistência da raça, Civilização Brasileira, Rio de Janeiro, 2005, p. 228. Su di un altro versante, Monica Grin parla di un nuovo concetto di diversità che fa emergere l'esigenza di una nuova articolazione tra multiculturalismo descrittivo, che afferma l'esistenza di un'ontologia della differenza, razza, sesso, eticità e multiculturalismo normativo che prevede istituzioni orientate alla promozione e al riconoscimento di differenti gruppi. Da questa articolazione deriverebbe l'idea di una politica di promozione razziale (M. Grin, A celebração oficial de nova diversidade no Brasil, in "Revistausp", 68, 2005-2006, p 39).

22. Nel dibattito sulla politica delle quote in Brasile si registrano molte voci critiche sulla limitazione delle azioni affermative alla riserva di posti, ovvero di quote numeriche, nei diversi ambiti lavorativi. Si sarebbe così ridotto l'impatto di tali politiche su una realtà ancora tristemente segnata da atti discriminatori.

23. N. Fraser, Da redistribução ao reconhecimento? Dilemas da justiça na era pòs-socialista, in J. Joussa, a cura di, Democrazia hoje, cit., p. 264.

24. S. Schwartzman, Das éstatisticas de cor ao Estatuto da Raça, in P. Fry, Divisões perigosas. Politicas Raciais no Brasil contemporãneo, Civilizacão Brasileira, Rio de Janeiro, 2007, p. 109.

25. P. Fry, A persistência da raça, cit., p.175. Occorre ricordare che questi studiosi, pur contestando la legittimità del paragone tra la situazione storica statunitense e quella brasiliana, non negano l'esistenza del razzismo in Brasile.

26. C. Wasserman, Problemas teoricos que envolvem a questão da identidade coletiva e a formação de novas identidades, in "Semina: Ciências Humanas e Sociais Londrina", 23, 2002, p. 96.

27. Nello Statuto dell'Uguaglianza Razziale è fatto esplicito riferimento all'obbligo di introdurre il quesito su razza e colore in tutti i documenti nel Sistema Unico della Salute, in E. R. Rabenhorst, Razza e pluralismo politico in Brasile, "Cosmopolis", II, 1, 2007, p. 3.

28. Carmen Lùcia Antunes Rocha considera, ad esempio, non solo il preconcetto delle discriminazioni contro minoranze specifiche, come indios, neri, donne, ovvero contro gruppi definiti secondo criteri precisi, ma anche contro gruppi che possono unirsi in ragione di preconcetti e forme storiche di discriminazione, in C. L. Antunes Rocha, A proteção das minorias no direito brasileiro, cit., p. 84.

29. Mi sembra utile ricordare brevemente il "caso Europa" che offre interessanti spunti di riflessione rispetto a due questioni: 1- la legittimità ed autorevolezza dello stato-nazione; 2- le conseguenze derivate dall'identificazione di un unico elemento, in questo caso quello territoriale, alla base delle rivendicazioni di tutela giuridica delle identità etno-culturali. Le categorie burocratiche, che finora erano state utilizzate per distinguere i "cittadini" dagli "stranieri", sembrano infatti non essere più in grado di rispondere alla nuova situazione. Il processo di integrazione europea crea una duplice condizione di straniero: vi è, da una parte, lo straniero "extra-comunitario" che risiede nei paesi membri dell'Unione Europea; e, dall'altra, il cittadino straniero "comunitario" che gode di privilegi speciali per la sua condizione di cittadino di uno Stato membro. Il recente allargamento dell'UE ad alcuni paesi dell'Est Europa, Bulgaria e Romania (gennaio 2007), sta comportando inoltre una nuova distinzione tra cittadini comunitari appartenenti ai vecchi Stati membri e i cittadini comunitari dei nuovi Stati membri. In Italia sono stati proposti provvedimenti, come ad esempio, il D.Lgs del 1 novembre 2007 n. 181, attualmente in discussione, che "limita drasticamente" il diritto dei cittadini comunitari di spostarsi nell'Unione Europea. In precedenza la normativa prevedeva che i cittadini comunitari potessero essere allontanati esclusivamente "per motivi di pubblica sicurezza che mettono a repentaglio la sicurezza dello Stato", ora, invece, i prefetti potranno allontanare i cittadini comunitari perché considerati pericolosi per l'ordine pubblico tout court. Il concetto di "cittadinanza comunitaria", che potrebbe avere dei caratteri inclusivi, sembra essere così minato da una politica nazionale che propone una distinzione fra cittadini italiani e cittadini stranieri anche se comunitari. Inoltre per alcuni casi specifici, come ad esempio per le vittime di tratta, vi è il rischio che ai tanti vantaggi, derivati dallo status di cittadino dell'Unione Europea, si contrapponga lo svantaggio di non potere più usufruire della protezione sociale dell'art.18 D.Lgs 286/98 a fronte della presenza di gravi casi di sfruttamento delle donne provenienti dai Paesi neocomunitari. In questo quadro continuare a considerare l'aspetto territoriale come l'elemento ultimo per la definizione delle identità culturali comporta l'appiattimento delle contraddizioni e degli antagonismi che caratterizzano la costruzione delle stesse identità.

30. Non credo che si possa parlare della comunità etnica in termini di libera associazione come fa, ad esempio, Chandran Kukathas che propone di interpretare i diritti delle minoranze etniche come espressione del diritto di libertà di associazione, in C. Kukathas, Are there any cultural rights?, in "Political Theory", 20, 1992. Il diritto d'uscita è, infatti, strettamente legato alla capacità dell'individuo di integrarsi in una comunità piuttosto che in un'altra e di conseguenza l'educazione del bambino gioca un ruolo importantissimo. Giustamente Vertova si chiede come è possibile parlare del diritto di un bambino a essere educato secondo i costumi della comunità a cui ha "scelto" di appartenere? In F. Vertova, Cittadinanza liberale, identità collettive e diritti sociali, p.180. A questo proposito sono utili le riflessioni di Emilio Santoro sulla relazione tra l'autonomia dell'individuo e la formazione e il cambiamento delle preferenze individuali (E. Santoro, Autonomia individuale, libertà e diritti, ETS, Pisa, 1999).

31. F. Belvisi, Società multiculturale, diritti, costituzione. Una prospettiva realista, CLUEB, Bologna, 2000, p. 173.

32. F. Vertova, Cittadinanza liberale, identità collettive e diritti sociali, p. 182.